LA CROCIFISSIONE DEL BERGOGNONE

LA PALA DALTARE DI AMBROGIO DA FOSSANO DETTO IL BERGOGNONE

Citata dal priore Matteo Valerio in quella fucina di informazioni che sono le Memorie della Certosa di Pavia (“L’anno 1490 […] Mastro Ambrosio Fossano fece l’ancona del Crocefisso, scudi n. 125, pretio L. 500”), la pala d’altare che ancora oggi adorna la quarta cappella di destra della Certosa è considerata all'unanimità come “uno dei paradigmi dell’opera di Bergognone” (Mazzini, 1958) sottolineando, infatti, come in essa vi siano richiami che spaziano dalla pittura fiamminga (si veda un’altra sua piccola Crocifissione al Courtald Institute of Art),passando tra “ricordi lombardo-liguri dal Foppa a Donato de Bardi” (Ottino Della Chiesa 1960; Wittgens 1956), fino ad arrivare ad un nuovo interesse ed una particolare attenzione verso il pathos Giambelliniano e “il risentito padovanismo plastico dei Mantegazza e dei De Fondulis” (Baroni-Samek Ludovici 1952).

Fig. 1: la Crocifissione

La paternità della pala rimane confermata in tutti gli interventi che si sono susseguiti dal Seicento in poi; G. L. Calvi, nel 1685, descrivendo la Crocifissione si sofferma sul “colorito” specificando che “al cinericcio cui tendono alcuni de’ sui primi dipinti, qui il Fossano sostituisce una lucentezza e vaghezza mirabili di tinte”, e aggiunge che il pittore Agostino Comerio, che aveva pulito e restaurato tutte le pale della chiesa certosina negli anni 1825-26, “affermava di avervi levato tanta tinta bruna, quanto pareva impossibile vi fosse stata prodotta dal fumo delle candele”.

La crocifissione di Bergognone: analisi dell'opera

Dalla pulitura fatta qualche decennio fa in occasione della mostra monografica sull'artista (Pavia, 1998) sono emersi con maggiore chiarezza particolari interessanti, come la piccola scena a fianco del San Giovanni con il Cristo morto steso sul bianco sudario trasportato a braccia verso il sepolcro; l’albero davanti alla porta delle mura della città, all'inizio della via che conduce in “un luogo detto Golgota che vuol dire luogo del cranio” (Marco 15.22), è spoglio e stecchito, chiaro simbolo di morte; inoltre sono chiaramente leggibili le scritte le scritte sul bordo della Vergine e della Maddalena. Partendo dal basso e salendo sino al capo della Madonna è scritto, con lettere dorate: “MARIA VIRGO ET PIA DEI GENITRIX SALUTEM POSCE MISERIS AMEN; MULIER ECCE FILIUS” (Giovanni 19.26); “MEUS DOLOR […] TUE COSERVAM; IESUS SALVATOR SECULI REDE(NT)TORE SUBVENI NOBIS”. Nel manto della Maddalena, in basso: “MARIA OPT(IMAM) PARTEM ELEGIT QUE NON AUFERT … AB EA..DOM.. NOB..” (Luca 10.42).

Si potrebbero quindi usare parole magnificenti e discorsi mirabolanti per tentare una descrizione di questo capolavoro Bergognonesco ma nessuna sarà mai come quella nata dalla penna commossa di Carlo Magenta (1897); il volo pindarico dello storico milanese inizia dicendo che la crocifissione di Bergognone, “sebbene risenta di una tal quale durezza di stile”, essa “muove le più robuste fibre del cuore” e si sofferma ad analizzare “l’espressioni patetiche delle fisionomie, l’anatomia del Cristo, quello stesso teschio che vedasi ai piedi della croce circondato da vaghi fiorellini e che è di una verità scientifica rigorosa, il profondo rassegnato patema della Madre […] di Maria di Cleofe […] di Salome e della Maddalena che si abbraccia strettamente alla croce, mentre nel lato destro vi è san Giovanni, solo, muto e sublime nel dolore…”. Lo Zappa (1909) aggiunge che “la Vergine, volta di prospetto nello stesso verso e con l’identica inclinazione, e riflette nel suo volto soave, identico per fattezze a quello del Figlio, lo stesso pallore di morte”.

Fig. 2: particolare del Cristo

Nella Crocifissione, se la si osserva attentamente, non vi è ricerca prospettica (come invece è presente nelle altre due pale certosine pagate all'artista, secondo il Valerio, nello stesso anno): la scena si svolge su due piani, contrapposti e lontani: di fronte, il Cristo alto sulla croce, investito da una luce bianca, si immola per la salvezza degli uomini; ai suoi piedi la Madre e i fedelissimi, figure fortemente scultoree ed espressive, in cui vi è angoscia, ma anche accettazione: “fiat voluntas tua”, sembra ripetere Giovanni, solo nel suo dolore. Dietro infine, fa da sfondo un paesaggio ampio, sereno, vivo e vario, popolato di gente indaffarata e, sopra, il cielo terso e luminosissimo.

Calzano a pennello, per concludere, le parole di Stefania Buganza e già riprese nei precedenti articoli sul monastero certosino: “i volti terrei e solcati dalle lacrime, l’atmosfera tersa, i colori freddi e argentati delle vesti contribuiscono a creare un senso di profondo patetismo, che vuole e riesce a coinvolgere lo spettatore nella meditazione sulla Passione di Cristo”.


LA GRANDIOSA CERTOSA DI PAVIA

Nel mezzo dei silenzi e delle nebbie della campagna pavese, al confine settentrionale di quello che, anticamente, doveva essere il grande parco del Castello di Pavia, si staglia la sagoma monumentale della Gratiarum Carthusiae e del suo vasto e intricato complesso monastico, vetta irraggiungibile di tutta l’arte lombarda.

Fondata nel 1396 da Gian Galeazzo Visconti e pensata come regale mausoleo per se e la sua famiglia, la Certosa rappresenta altresì l'apice del programma politico e culturale voluto dal signore di Milano durante gli anni della sua reggenza e portato poi avanti, nel corso dei secoli successivi, dai suoi eredi; le mura infatti, poste come delimitazione del desertum certosino, fanno da scrigno a capolavori, piccoli e grandi, di inestimabile valore (seppur ancora per la maggior parte da studiare). Dopo aver varcato il vestibolo rinascimentale, quasi completamente affrescato da Bernardino de’ Rossi e Bernardino Luini, ci si ritrova all’interno di un modesto piazzale in cui, al frontale seicentesco della foresteria che corre lungo tutto il lato sud (opera di Francesco Maria Richini), risponde, svettante ed imponente, la ben più monumentale e splendida facciata rinascimentale della chiesa della Certosa la cui vicenda critica è, ancora oggi, terreno impervio e difficile. Creata in sostituzione del più antico frontale tardogotico (le cui forme si possono apprezzare nell’affresco del Bergognone con la Madonna con il Bambino tra Gian Galeazzo Visconti che offre il modellino della chiesa della Certosa, Filippo Maria Visconti, Galeazzo Maria Sforza e Gian Galeazzo Sforza, nel catino absidale del transetto meridionale), la facciata che noi oggi possiamo ammirare nel suo tipico candore “sporco” lombardo del marmo di Candoglia, screziato da spazzi di verde e rosa antico, è il frutto del minuzioso lavoro delle più alte maestranze della Lombardia del tempo (periodo che, fra alti e bassi, va dal 1473 al 1550); tra gli artisti più illustri che troviamo citati in varia documentazione abbiamo: Cristoforo e Antonio Mantegazza, Giovanni Antonio Amadeo, Antonio della Porta (detto il Tamagnino), Benedetto Briosco e Cristoforo Lombardi. Nella parte inferiore della facciata, partendo dalla zoccolatura fino ad arrivare alla galleria di archetti, troviamo un’esuberanza di elementi decorativi scultorei che spaziano dalla cultura classica (medaglioni figurati all’antica, lesene fitomorfe ecc.) alla raffigurazione religiosa (episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, statue di Santi e Profeti). Dal livello superiore l’ornamentazione plastica lascia il posto ad un più sobrio decorativismo geometrico con intelligenti inserti scultorei di riutilizzo. Nel portale infine, creato dalla collaborazione tra l’Amadeo ed il Briosco, all’interno del già citato decorativismo scultoreo di ripresa classica (tipico, in particolare, del primo), abbiamo la presenza di minutissime formelle istoriate con Storie di San Brunone e dei Certosini.

La Certosa di Pavia: l'interno

Quando si entra per la prima volta all’interno della Certosa di Pavia ci si sente come schiacciati dalla monumentalità e dalla bellezza quasi arcana che pervade il monastero certosino; lo sguardo spazia lungo tutta la navata centrale scandita ritmicamente da possenti pilastri compositi e si insinua, attraverso gli archi delle campate, nelle navatelle laterali fino quasi a scorgere, in lontananza, i tesori incastonati nelle cappelle e, dietro la mastodontica cancellata, nel transetto e nell’abside. Le opere custodite in questo prezioso scrigno, affrescato nelle volte dai fratelli Bergognone, Ambrogio e Bernardino, e da una schiera di pittori facenti riferimento a Jacopino de Mottis, percorrono quasi tutti i “mondi” del fare arte: pale dall’altare dipinte o di marmo, sculture, pitture murarie, tarsie lignee, opere di oreficeria ecc.

Partendo da sinistra, nella prima cappella dedicata alla Maddalena, sotto quattro sante monache affrescate, secondo la documentazione, dalla “compagnia” di Jacopino de Mottis (in almeno una vi si può scorgere la mano di Bernardo Zenale), stanno l’altare (il cui paliotto è tra le prime opere di Carlo e Andrea Sacchi9, e sopra di esso una tela dell’abate parmigiano Giuseppe Peroni, datata 1757, raffigurante Cristo in casa di Marta e Maria Maddalena. Dedicata a San Michele è invece la seconda cappella. Questo ambiente racchiude una delle opere d’arte che ancor’oggi, nel ricostruirne le vicende, desta non pochi problemi agli studiosi: si tratta di quello che rimane di un grande polittico d’altare commissionato a Perugino nel 1496. Dei quattro antelli inviati dal Perugino in Certosa, solo uno (il Padre eterno benedicente) è ancora nella sua postazione originaria, mentre gli originali degli altri tre (Madonna in adorazione del Bambino e angeli, San Michele Arcangelo e Tobiolo e l’arcangelo Raffaele) si trovano alla National Gallery di Londra sostituiti, nella chiesa pavese, da copie seicentesche. Non ancora finito nel 1499 sembra essere stato completato con tavole dei fiorentini Fra’ Bartolomeo e Mariotto Albertinelli ma, similmente a quelle del Perugino, sono poi passate al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra e a loro volta rimpiazzate dai Quattro dottori della Chiesa del Bergognone. Sotto un’aura di misticismo e raccoglimento data dai quattro santi monaci certosini dipinti nella volta della terza cappella da Jacopino de Mottis, è conservata una rara testimonianza lombarda dell’artista genovese Giovanni Battista Carlone (1603-1684?); il pittore opera qui affrescando una finta pala d’altare rappresentante San Giovanni Battista (da cui la cappella prende il nome) che rimprovera Erode. La scena con il Battista davanti al tetrarca di Galilea è paradigmatica dello stile del genovese, incline ad un caldo cromatismo, a un’esuberanza avvolgente e dinamica e a un’espressività di volti. La quarta cappella di sinistra, conosciuta con il nome di cappella di San Giuseppe e dei Re Magi, conserva al suo interno un bel dipinto dell’artista cremonese Pietro Martire Neri raffigurante una Adorazione dei Magi e datata intorno al 1640-1641. La cappella di Santa di Caterina, la quinta, le cui storie sono narrate dal già citato Giovanni Battista Carlone e da Francesco Villa per le quadrature, ha come pala d’altare (al di sopra dello splendido paliotto del solito Sacchi), una Madonna col Bambino tra le Sante Caterina d’Alessandria e Caterina da Siena; è opera dell’artista milanese Francesco Cairo (1607-1665) che l’ha dipinta in sostituzione di una pala bergognonesca di medesimo soggetto. La vetratina, piccolo esempio della grande maestria vetraria lombarda, è con molta probabilità costruita partendo da un cartone di Vincenzo Foppa. Nell’austerità generale della sesta cappella (dedicata a Sant’Ambrogio) spiccano le dorature e i vivi colori della pala del Bergognone raffigurante Sant’Ambrogio fra i Santi Satiro, Marcellina, Gervasio e Protasio. Si respira in questa pala un’aria tersa, che blocca il movimento delle figure; a schiarire l’atmosfera contribuisce poi la luce mattutina che filtra dalle due finestre con vetri a tondelli retrostanti il tondo del santo. La cappella “dupla” di sinistra (la settima seguendo l’ordine), denominata cappella del Rosario, si vede negli affreschi la presenza di un artista non italiano; si tratta del pittore tedesco Giovanni Cristoforo Storer (1611-1671) di cui sua è infatti la grande decorazione pittorica con l’Incoronazione della Vergine tra i santi Giovanni Battista e Giuseppe e due certosini. Nato a Costanza ma formatosi alla scuola di Ercole Procaccini il Giovane, Storer, nella vivacità narrativa e cromatica, nella concitazione e nel dinamismo esasperato, nella dilatazione delle forme e, più in generale, gli incisivi richiami a Rubens e van Dyck, rivelano l’ormai avvenuto affrancamento dal manierismo veneziano e lombardo di matrice procaccinesca. L’elegante e raffinata pala che svetta al di sopra dell’altare (paliotto con Adorazione dei Magi di Giovanni Battista Maestri detto il Volpino) è invece opera del lombardo Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone (1573-1626) e raffigura la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina (1617).

Spostandoci ora nelle cappelle del lato di destra, in una pittura che, al suo interno, contiene già i germi del barocchetto lombardo, gli affreschi con le tre Marie al sepolcro di Andrea Lanzani (1641-1712) della prima cappella, raccontano scene dal timbro cromatico schiarito, dalla stesura pittorica ammorbidita nel disegno e nell’andamento delle pennellate; il paesaggio, invece, si fa di gran lunga più ampio raggiungendo tonalità liriche soprattutto nell’episodio dell’orazione nell’orto degli ulivi. Sono evidenti una attenta meditazione dell’artista sulla tradizione figurativa emiliana (Reni e Lanfranco in particolare), ma anche di un consapevole sguardo al Maratta. Un aiuto per capire la denominazione di questa cappella ci viene dalla pala di Camillo Procaccini raffigurante la Veronica. Spunta poi, fuori da questo contesto seicentesco, un piccolo affresco attribuito ad Ambrogio Bergognone raffigurante l’Adorazione del Bambino e angeli (1491-1493); contemporanee, circa, sono anche le pitture di santi certosini presenti nelle volte e documentati a Jacopino de Mottis (con aiuto, sembrerebbe ancora, di Bernardo Zenale). Nella seconda cappella di destra, di notevole importanza è il polittico posto sopra l’altare (firmato e datato MACRINUS D. ALBA / FACIEBAT 1496); esso rappresenta, nel registro inferiore la Madonna in trono con il Bambino e angeli, ai lati sant’Ugo di Langres, sant’Ugo di Canterbury (ai quali viene dedicata la cappella), mentre in quello superiore la Resurrezione di Cristo e due pannelli raffiguranti i quattro Evangelisti del Bergognone. Le quattro tavole di Macrino d’Alba sono l’unica testimonianza rimasta in Certosa, insieme al Padre eterno benedicente del Perugino, dell’indirizzo culturale promosso nel corso degli anni novanta del Quattrocento da Ludovico il Moro, attento alle novità centroitaliane di matrice classicista. Saltando la terza cappella per povertà di rimanenze, in quella successiva, intitolata al Santissimo Crocifisso, vi è contenuto al suo interno uno dei capolavori su tavola di Ambrogio Bergognone: la Crocifissione. I volti terrei solcati dalle lacrime, l’atmosfera tersa tipicamente bergognonesca, i colori freddi e argentati delle vesti contribuiscono a creare un senso di profondo patetismo che vuole e riesce a coinvolgere lo spettatore nella meditazione sulla Passione di Cristo. Nella quinta cappella trova collocazione un'altra pala bergognonesca; la scena con San Siro in trono fra i santi Stefano, Invenzio, Teodoro e Lorenzo rappresenta una Sacra Conversazione ambientata in uno spazio definito architettonicamente ed illuminato da un sole ormai al tramonto, basso sull’orizzonte (permettendo così al pittore un’indagine molto dettagliata delle ricche vesti dei santi e delle membrature architettoniche). Sulle volte si ha la solita presenza di Jacopino de Mottis e Bernardo Zenale con raffigurazioni dei Patriarchi e di Giacobbe. Prendendo la dedicazione dai Santi Pietro e Paolo, gli artisti che operano all’interno della sesta cappella di destra hanno impostato le tematiche iconologiche sulle figure di questi due Santi. La decorazione ad affresco, raffigurante la crocifissione di San Pietro è frutto del pittore trevigliese Giovanni Stefano Danedi detto il Montalto (1612-1690), molto attivo in ambito lombardo sin da prima della metà del Seicento. La figura di San Paolo, insieme ancora a quella di San Pietro, si ritrovano anche nella pala d’altare del Guercino (Francesco Barbieri, 1591-1666) raffigurante la Vergine con il Bambino in mezzo ai due apostoli (1641). Resa molto più leggibile da un recente restauro, l’opera si può ricondurre con tutta evidenza a quel periodo di transizione durante il quale le composizioni del pittore di Cento si semplificano, le figure si definiscono nei loro contorni e la luce tende a diventare molto più uniforme. La cappella “dupla” di destra, l’ultima della fila, intitolata alla Santissima Annunziata, presenta un vasto apparato pittorico con scene quadraturate della Vita di Maria; opera del sopracitato Montalto (con la collaborazione, per la definizione degli spazi, di Francesco Villa), queste scene si innestano su di una matrice molto vicina agli echi del Morazzone ma con una ventata di novità in più datagli, oltra che dall’aiuto dei figli, anche da una personale comprensione delle opere contemporanee di Carlo Francesco Nuvolone; questo si vede soprattutto nella narrazione molto sciolta, nella grande disinvoltura compositiva e nelle soluzioni “morazziane” evidenti nei panneggi e nelle forme allungate e assiepate. La vetrata fine quattrocentesca con l’Annunciata in origine doveva essere accoppiata con un’altra raffigurante l’angelo annunciante ma ad oggi scomparsa. L’attribuzione da parte degli studiosi del disegno di questa vetrata si sta sempre di più ancorando, ancora una volta, alla figura di Vincenzo Foppa; suoi sembrano infatti essere il volto pieno della Vergine e l’architettura di matrice bramantesca nella quale è inserita.

Bibliografia:

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<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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PALMA IL VECCHIO, TRA TIZIANO E GIORGIONE

 

Fig. 1: Sacra Conversazione

Per stendere la biografia del Palma bisogna rifarsi alle carte d'archivio esplorate con successo da valenti ricercatori tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Non si conosce la data di nascita del pittore, tuttavia tenendo presente che il Vasari lo dice morto all'età di quarantotto anni, è possibile ricavarla per sottrazione dalla data di morte avvenuta nel 1528. Nacque quindi intorno al 1480 a Serina nel bergamasco. Il suo vero cognome fu Nigreti  o Negreti ed il più antico documento che lo riguarda risale al 1510 a Venezia, dove si firma "Jacomo de Antonio de Negreti depentor" quale testimone di un testamento. Palma fu un soprannome d'arte e lo si incontra per la prima volta nel 1512. Nel 1513 risulta iscritto alla Scuola di San Marco e residente a San Moisè. Tra il 1520 e il 1521 gli vengono pagati cento ducati per una pala con lo Sposalizio della Vergine dipinta per Sant'Antonio di Castello a Venezia. E' solo a partire dal 1520 che il Palma riesce a collocare le sue pale e i suoi polittici sugli altari della città, mentre in precedenza le commissioni erano pervenute da fuori. Nel 1524 è a Serina per sistemare degli affari di famiglia, infine nel luglio del 1528 fa testamento. Fu chiamato "Il Vecchio" per distinguerlo da Jacopo Palma il "Giovane" che era un suo pronipote e che operò più tardi.

Fig. 2: Madonna con il Bambino fra i santi Giovanni Battista e Maria Maddalena
Fig. 3: Sacra Famiglia con Maria Maddalena e San Giovanni

Jacopo Nigreti detto il Palma non esordì alla pittura con la tempra di un innovatore. Arrivava a Venezia da un paese del Bergamasco con un fondo di provincialismo atavico, in un momento in cui il progredire della pittura veneziana si misurava non ad anni ma a mesi vista la presenza in città di artisti come Lotto, Tiziano e Giorgione. Ci fu quindi un primo inevitabile periodo di ambientamento a proposito del quale gli studiosi del pittore non sono concordi. L'orientamento della critica è di ritardare verso la fine del decennio 1500 - 1510 certi fatti risolutivi che un tempo gravitavano verso il principio del secolo. L'avventura di Giorgione comincia ad avere un peso effettivo sulle sorti della pittura veneziana solo verso il 1508, stessa cosa per la data del San Girolamo di Lotto (1506). Così un pittore che giungesse a Venezia dalla terraferma era naturale entrasse nell'orbita del Bellini, che nonostante fosse settantenne, rimaneva ancora il leader della pittura veneziana, o in quella del Carpaccio. Il Palma si accostò a quest'ultimo: la Madonna di Berlino, il suo dipinto più antico, rievoca composizioni carpaccesche dei primissimi anni del nuovo secolo. Spaesato di fronte al vario panorama figurativo della città, Palma il Vecchio dovette appoggiarsi al Previtali, un pittore bergamasco già introdotto a Venezia nella cerchia del Bellini. Tuttavia queste scelte iniziali non vincolano il gusto del Palma, che si evolve per tutto il decennio con tappe di estremo interesse. La Madonna fra due committenti ispirato ad un quadro di Carpaccio rivela che il momento di attrazione verso quest'ultimo è ormai alla fine. Immagina una Vergine matronale, seduta su un gradino, che si dilata a destra per stendere il braccio a protezione del gentiluomo e a sinistra per offrire il ginocchio come piedistallo al Bambino benedicente la gentildonna. Il drappo che è steso alle sue spalle spartisce il paesaggio in due vasti riposanti riquadri sui quali stampano le loro minute sagome i due sposi committenti dell'opera. Il Palma largo, equilibrato, riposante, che conosciamo dalla sua produzione più tarda si incontra qui in embrione per la prima volta.

La Madonna fra due sante e due committenti della Galleria Borghese ci porta più avanti nel decennio di circa due anni. Lo schema frontale e simmetrico già si articola su piani diversi di profondità e il primo piano è tenuto dalle masse triangolari dei due committenti rampanti e affrontate come in uno stemma gentilizio. Si sono riscontrate in questo tentativo di suggellare la spazialità entro poche ampie campiture di colore spunti tratti da Tiziano, Lotto. Il dipinto testimonia che nel 1508 il Palma è ancora un pittore in fase di ambientamento, di esplorazione, non del tutto immemore del primo sodalizio con il Previtali ma deciso a non mancare l'appuntamento con il nuovo. Questo quadro si apprezza meglio se si tiene conto che nel 1508 esplode in pubblico il genio privato di Giorgione, si ha la prima affermazione di Tiziano al Fondaco, la rivelazione di Sebastiano del Piombo, l'arrivo di Fra Bartolomeo della Porta da Firenze, la partenza di Lotto. La Madonna con due santi e committenti di poco posteriore deriva il suo schema dal quadro di Bellini in San Francesco della Vigna. L'ambito della meditazione è ora decisamente belliniano e anche la Madonna con Santi e committenti rielabora questo prototipo belliniano. Viene meno ogni capriccio di luce e di moto, ogni figura s'inclina in modo da offrire il fianco più ampio alla superficie e quindi alla campitura del colore.

E' da posticipare di almeno un lustro il momento in cui il Palma inizia a dipingere le composizioni per le quali è universalmente noto: le sacre conversazioni. Dopo la Pala di Zerman che è un tentativo del Palma di adeguarsi al nuovo modo imposto da Tiziano e Sebastiano del Piombo, sono gli sviluppi stessi della pittura lagunare a orientare il pittore verso prove di gusto a lui più congeniali e soprattutto verso un affinamento dei suoi mezzi espressivi. Nel momento di meditazione giorgionesca che fa seguito alla sua morte prematura e in concomitanza con la partenza per Roma di Sebastiano del Piombo, il Palma esegue alcuni capolavori: i ritrattini di Budapest, Il Marte e Venere, il Pastore e la ninfa Pollen, il Concerto Crichton-Stuart, la Famiglia dell'alabardiere e le due ninfe. Pose languide, reclinar di capi, gestire trasognato e sospeso, musica, lettura, teste di pastori coronate d'alloro, un vago allegorizzare, macchie di verde tenero e fiorito stipato fino a saturare lo spazio del dipinto, naturali alcove di casti nudini di ninfe. E' un momento importante per la maturazione pittorica del Palma dove era forte il rischio di un ritorno ai modi giovanili sulla scia del Previtali e del Carpaccio. Mentre i tempi della pittura veneziana, si legga Tiziano, premevano. Nei dipinti di Tiziano ampie masse di colore tonale, atteggiate in torsioni e scatti falcati, inarcavano lo spazio da esse generato figure di un'umanità pulsante e le facevano convergere in un dialogo serrato secondo un'esigenza costruttiva che approderà nell'Assunta. Il Palma più noto è debitore a questo momento di Tiziano, la sua cronologia esce dall'ombra non appena si commisurano i suoi passi a quelli dei maestri a lui contemporanei. Il suo gusto si stabilizza in questi anni e il pittore all'epoca trentacinquenne è nel pieno della maturità. Se Tiziano intende la "Sacra conversazione" come dialogo serrato, come azione, il Palma da al tema una soluzione paesistica come incontro di santi e sante all'aperto e le sante sono le stesse donne raffigurate nelle mezze figure femminili, ora giovinette eleganti e capricciose nella grazia femminile dei loro gesti, ora donne di una bellezza più matura. Ora il Palma sguscia e dilata piani di colore chiaro e smagliante su distese di cieli, colline e paesi che nessuna vicenda atmosferica potrebbe mai turbare.


ANDREA DEL CASTAGNO

Fig. 1: Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

 

Andrea di Bartolo nasce nel 1421 a Castagno da un piccolo coltivatore. Due anni dopo la sua nascita ha inizio una guerra tra Firenze e Milano e Bartolo, seguendo l'esempio di altre famiglie, conduce in salvo la moglie ed i figli a Corella, un paesino a pochi chilometri protetto dalla fortezza di Belforte. Al cessare delle ostilità segue il ritorno a Castagno dove Andrea "cominciò per le mura e su le pietre co carboni o con la punta del coltello a sgraffiare ed a disegnare animali e figure si fattamente che si moveva non piccola maraviglia in chi le vedeva" (Vasari). Nel 1440 Andrea è già a Firenze da qualche tempo e già abbastanza noto perché gli fossero commissionate nella facciata del Palazzo del Podestà le immagini "ad uso di impichati" dei traditori che si erano adoperati "per macular lo stato di Firenze". Resta da determinare a quando risalga la sua venuta a Firenze e le origine della sua formazione che doveva essere già compiuta nel 1440 dato che l'artista era in grado di accettare un pubblica commissione. Nell'agosto del 1442 Andrea firma a Venezia la decorazione della cappella di San Tarasio in San Zaccaria. Nel 1444 la sua presenza è nuovamente documentata a Firenze da alcuni pagamenti per il cartone della Deposizione, il ritratto, perduto, di Leonardo Bruni. Il 30 maggio dello stesso anno Andrea si immatricola nell'Arte dei Medici e Speziali dichiarando di essere del popolo di Santa Maria del Fiore. Nel 1446 esegue piccoli lavori per l'opera del Duomo dalla quale ottiene per il padre l'incarico di guardia della foresta di Campigna. Al 1449 risale l'incarico per una pala per la chiesa di San Miniato fra le torri e dal 1451 lavora per l'ospedale di Santa Maria Nuova nella Cappella Maggiore della chiesa di Sant'Egidio continuando il ciclo di affreschi iniziato da Domenico Veneziano e Piero della Francesca con tre momenti della vita della Vergine: l'Annunciazione, la Presentazione al Tempio e la Morte. Nel 1453 sospende i rapporti con Santa Maria nuova senza portare a termine gli affreschi. Nel 1455 lo troviamo ad affrescare nella SS. Annunziata la cappella di Orlando de Medici con Lazzaro, Marta e Maria in una composizione perduta; nell'ottobre dello stesso anno vene incaricato di un'altra pubblica commissione in Santa Maria del Fiore: il monumento a Nicolò da Tolentino. Nel 1457 nonostante la peste rimane a Firenze, per saldare qualche debito, intento a dipingere un Cenacolo nel refettorio di Santa Maria Nuova. L'8 Agosto gli muore la moglie e Andrea la segue nel 19 Agosto 1457.

Fig. 2: particolare del Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

Le scarse notizie, tutte posteriori di almeno sessant'anni alla morte dell'artista, che furono alla base della ricostruzione storica del personaggio che ne fece Vasari mostrano un tono di raccapriccio e di aperta condanna per la vicenda di un artista che dal suo tetro debutto aveva ricavato il soprannome di Andreino degli Impiccati e che in punto di morte aveva confessato di aver ucciso Domenico Veneziano. Questo fu sufficiente a suggerire al Vasari l'invenzione di un carattere forte che dalla confessione del delitto traeva le tinte più cupe per un'interpretazione romanzesca, mentre studi più recenti hanno dimostrato che fu il Vasari ad interpretare in maniera del tutto errata un fatto dell'epoca, tant'è vero che nel 1878 il Milanesi rintracciò la data di morte del Veneziano di quattro anni posteriore a quella del Castagno, dissipando definitivamente la leggenda del delitto. Alla valutazione favorevole dell'opera si opponeva il biasimo per l'assassinio a tradimento con il pericolo di interpretare la sua opera alla luce della sua vicenda privata. Questa fama perdurò fino a metà dell'Ottocento momento in cui di suo erano visibili solo il Monumento equestre di Nicolò da Tolentino e il primo Crocifisso di Santa Maria degli Angeli, riscoperto nel 1700. Al Cavalcaselle si deve nel 1847 la riscoperta degli Uomini illustri di Legnaia e in seguito la prima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli e l'intero ciclo di Sant'Apollonia. Nel corso del Novecento l'identificazione della tavola di San Miniato fra le Torri con l'Assunta di Berlino, il rinvenimento del David, quello del San Sebastiano, l'attribuzione degli affreschi di San Zaccaria hanno allargato la conoscenza della sua poetica di Andrea. Trovatosi ad esordire alla ribalta dell'arte fiorentina attorno al 1440 Andrea dimostra ai suoi inizi nella Crocifissione di essere suggestionato dal nuovo verbo stilistico di Masaccio.

Fig. 2: Crocifissione

Nell'abside della Cappella di San Tarasio, nella Chiesa di San Zaccaria a Venezia, la prima opera firmata e datata, gli Evangelisti a fianco del Battista e di San Zaccaria ostentano ai lati del Padreterno un modellato a forte aggetto secondo modi che tengono ad innervare una vitalità ed una corporeità esasperante. Ciascun personaggio è ritratto completamente assorto nella rappresentazione del proprio decoro in pose che ricalcano quelle visibili a Firenze nelle porte della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. Andrea del Castagno rifiuta l'apporto della luce come elemento di amichevole raccordo ed isola le figure con l'aiuto dei costoloni in vere e proprie fortezze. In una Venezia agli inizi del quinto decennio non si erano mai viste figure ammantate in panni dalle pieghe così tese e taglienti prendere possesso di un soffitto gotico con tanta rustica fierezza; mai un fregio di putti si era arrampicato sull'arco di un'abside tradendo la chiara eco donatellesca fin nello sbalzo risentito del modellato.

Qualunque fosse stata la produzione di Andrea a Firenze precedente al viaggio veneziano nel 1444 con la commissione del cartone per l'occhio della cupola di Santa Maria del Fiore gli si offriva l'occasione di competere direttamente con Paolo Uccello al quale negli stessi anni erano affidate altre due vetrate. L'impegno di Andrea si concentra sulla distribuzione delle masse dei dolenti in flessioni precise e controllate tenendo come fuoco il volto del Cristo Deposto, ai fini di una combinazione formale insolitamente armoniosa: anche i colori sono piacevoli e per una volta il sentimento di pietà è reso senza gesti esteriori e violente deformazioni.

Fig. 3: Nostra Signora dell'Assunta con i Santi Miniato e Giuliano

Ma dove Andrea tenta una soluzione di un problema di armonia di forme a scapito del caratteristico e addirittura del veristico è nel ciclo superiore degli affreschi nel refettorio delle Benedettine di Sant'Apollonia. Per la sua composizione ariosa costituisce senz'altro l'esempio più rappresentativo di un temperamento avvenuto nel suo gusto per potersi adeguatamente calare in forme di più attento controllo stilistico dove la luce plasma, modella ed intride. Il racconto si svolge in una successione di tre episodi: quello centrale della Crocifissione ed i due laterali della Resurrezione e della Deposizione che hanno come sfondo un suggestivo paesaggio di colline ed il cielo aperto solcato da angeli. Nella scena di sinistra il Cristo risorto, trasognato e malinconico sotto i ricci della frangia e l'ombra dell'aureola sovrasta le sentinelle che dormono in primo piano appoggiate al sepolcro dispiegando lo stendardo agli occhi stupefatti del soldato che lo fissa, in un insieme rigoroso ed equilibrato di intonazione quasi elegiaca. La spericolata invenzione compositiva dei tre episodi raccordati dall'elemento paese-cielo in virtù della capacità di sintesi della luce è mortificata da una sconcertante contraddizione, come se Andrea, una volta pervenuto ad una posizione di aggiornata e spontanea modernità ne abbia dubitato inserendo gli angeli legamento cari alla tradizione iconografica.

Fig. 4: Resurrezione

Il percorso di Andrea continua ad allontanarlo dalle suggestioni di Piero della Francesca creando il terreno sul quale si muoveranno da un lato gli Uomini Illustri di Legnaia e il Cenacolo di Sant'Apollonia e dall'altro gli affreschi della SS. Annunziata e l'ultima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli. Nell'Assunta che è del 1449 - 50 il rapporto naturale delle figure con l'atmosfera fluttuante e mutevole è definitivamente perduto, sostituito da uno spazio convenzionale che annulla ogni rapporto vitale. Questo gruppo di opere conclude definitivamente il momento in cui l'artista scopre il valore innervante della luce con la dimostrazione del ciclo superiore di Sant'Apollonia e per la ricchezza dei rinvii annuncia il trapasso ai difficili episodi stilistici degli Uomini Illustri e del Cenacolo.

Fig. 6: ciclo degli Uomini Illustri, Pippo Spano

In queste ultime composizioni Andrea non esita a congelare il virtuosismo formale. Gli Uomini illustri dipinti a Legnaia, nel salone della casa di campagna dei Carducci, campiscono con grande piglio monumentale entro nicchie marmoree rettangolari e spartite da pilastri ornati. L'atteggiarsi in gesti di parata distoglie questi personaggi dall'impaccio di una vitalità interiore: mancano del trasognamento delle figure di Piero ed il loro distacco dalle vicende umane si risolve soprattutto nel decoro di un comportamento pago di se stesso. Soltanto Pippo Spano (in foto) ha una vivezza che gli deriva da un'impostazione più realistica in alcuni particolari, nella mano che artiglia la spada, nella testa spiritata. Venendo ai personaggi femminili viene a mancare la certezza del riferimento fisionomico a favore di una più classica astrazione e risultano meno inerti nonostante le pose convenzionali. Nel Cenacolo di Sant'Apollonia è conferito all'impianto architettonico, di bellissima applicazione prospettica, l'insolito ruolo di protagonista. In questa architettura così razionale Andrea ha voluto rappresentare una scena intellegibile che avviene fra uomini negando ruoli di protagonisti e comparse. Ma nell'intento di caricare al massimo le entità morali dei personaggi le ha irrimediabilmente isolate in una fisica monumentalità: l'effetto di unitaria chiusura viene così frantumato dalla mancanza di conversazione fra Cristo e gli Apostoli, tanti monumenti ognuno per se stante.

Dopo queste impegnative composizioni l'arte di Andrea registra una svolta negli affreschi della SS. Annunziata databili al 1454 in cui si presentano al massimo dell'esasperazione quei caratteri di aspro naturalismo che già più volte erano affiorati in opere precedenti. Termine di passaggio e di incontro tra le due tendenze dovettero essere gli affreschi di Sant'Egidio: perduti purtroppo nella lettura diretta.

Fig. 7: monumento equestre a Niccolò da Tolentino

Nell'affresco col Nicolò da Tolentino in Santa Maria del Fiore, l'ultima opera eseguita da Andrea (1456) che ci rimanga, un vero monumento equestre è racchiuso in un rigore architettonico di impaginazione che ricorda quello del Cenacolo. Ma il cavallo del Tolentino, specie se paragonato a quello metafisico dell'acuto di Polo Uccello, ha un piglio più realistico, favorito dallo studio della muscolatura e delle vene, e il volto del condottiero, nella minuzia delle rughe e nell'espressione ben marcata, ha i segni dell'inasprito naturalismo delle ultime opere. Si uniscono così nella stessa composizione le due aspirazioni dominanti dell'arte più matura di Andrea: la tendenza al monumentale e l'avida, feroce esplorazione dei dati di natura.