LA VILLA DI TIBERIO A SPERLONGA

A cura di Vanessa Viti

SPERLONGA: UN TUFFO NELL'ANTICHITÀ

LA VILLA DI TIBERIO

Tacito e Svetonio definirono "Spelunca" la residenza imperiale, da qui prese il nome la cittadina di Sperlonga.

Sul litorale laziale, nel già citato comune di Sperlonga, si trovano i resti di un'antica villa romana. Era il 1957 quando si scavava per costruire la strada litoranea che collega Terracina e Gaeta, grazie a quei lavori vennero riportati alla luce i resti dell'antica residenza dell'imperatore. La villa di Tiberio si estendeva per 300 metri, ed era costituita da vari ambienti disposti su terrazze: la residenza imperiale, le caserme con le stalle, le terme, la piscina e la meravigliosa grotta decorata.

LA GROTTA

La grotta era, per Tiberio e la sua corte, un luogo dedicato allo svago e ai banchetti. All'interno di essa si trovavano dei gruppi scultorei che avevano come tema principale le gesta dell'eroe omerico Ulisse.

L'ingresso della grotta era preceduto da una grande vasca con acqua marina, nel cui centro era stata costruita un'isola che fungeva da sala da pranzo estiva. All'interno, collegata con la vasca esterna, vi era una piscina circolare con il gruppo scultoreo di Scilla. Dal primo ambiente principale si aprivano due vani: a destra si trovava un ninfeo con cascate e giochi d'acqua, mentre a sinistra si apriva uno spazio a ferro di cavallo che ospitava il gruppo marmoreo dell'accecamento di Polifemo.

Le opere che raccontano il Rapimento di Palladio e Ulisse che trascina il corpo di Achille erano poste all'ingresso della grotta. La scultura di Ganimede rapito dall'aquila si trovava al di sopra dell'ingresso.

Purtroppo tutte le opere vennero ritrovate frammentate, molto probabilmente vittime di vandalismo. Addirittura si pensa alcuni monaci,  durante l'Alto Medioevo, potrebbero aver ridotto le opere in macerie per ordine della Chiesa. Nonostante i resti mal ridotti, gli storici e gli archeologi riuscirono ad evincere che tutte le opere sono originali greci di epoca ellenistica. Se si osserva il gruppo di Polifemo, ci appare subito evidente che la figura di Ulisse, il volto in particolar modo, ha molte affinità con il volto del Laocoonte (conservato nei Musei Vaticani); infatti, su alcuni frammenti ritrovati a Sperlonga, vi sono riportate le iscrizioni dei nomi degli scultori Agesandro, Atanodoro e Polidoro, autori appunto del Laocoonte.

Le opere, attualmente, sono ospitate nel Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, appositamente realizzato nel 1963.

I GRUPPI SCULTOREI NELLA VILLA DI TIBERIO

GRUPPO DI POLIFEMO

L'opera racconta il momento appena precedente all'accecamento. Il gigante Polifemo è rappresentato sdraiato e addormentato perché ebbro, l'eroe Ulisse è il più vicino al ciclope, due compagni sorreggono il palo che colpirà Polifemo nell'occhio, sarà proprio Ulisse a compiere questo gesto eroico,  un terzo compagno sorregge la ghirba che conteneva il vino. Ulisse, tra tutti, è l'unico vestito, indossa una tunica ed un mantello.

GRUPPO DI SCILLA

Il gruppo scultoreo rappresenta una delle più grandi opere scultoree antiche giunte fino a noi. L'opera racconta il momento in cui il mostro avvolge la nave di Ulisse e divora gli uomini attraverso le molteplici teste canine. Sei compagni di Ulisse sono caduti, addentati dal mostro, uno di loro viene addentato sulla testa e cerca disperatamente di liberarsi, un altro viene morso al ginocchio e prova ad aprire le fauci della belva con le mani. La figura più drammatica è sicuramente il timoniere, è aggrappato alla poppa della nave, il braccio sinistro teso in aria, le gambe spinte dal movimento della nave si sollevano, sulla testa l'enorme mano di Scilla. Il volto del malcapitato è rappresentato nel momento di massimo terrore, i suoi occhi sono sbarrati per la paura, occhi consapevoli: sarà trascinato negli abissi. Ulisse viene raffigurato nel momento in cui sta per colpire il mostro.

IL RATTO DI GANIMEDE

Opera in marmo policromo che evidenzia bene il piumaggio dell'uccello e rende eterno il momento in cui l'aquila di Zeus afferra Ganimede. Il mito narra che Zeus si fosse invaghito del giovane, il dio prendendo le sembianze di una gigante aquila lo prese e lo portò sull'Olimpo.

ULISSE CHE TRASCINA IL CORPO DI ACHILLE

I resti dell'originale pervenuti fino a noi sono ben pochi, vennero ritrovati soltanto i frammenti della testa e del braccio sinistro di Ulisse, le gambe ed il tallone ferito di Achille.

IL RATTO DEL PALLADIO

Il gruppo scultoreo purtroppo è stato quasi interamente perso, viene rappresentato il momento esatto in cui Ulisse sta per sfoderare la spada, nudo, coperto soltanto da un mantello.

 

SITOGRAFIA:

romanoimpero.com

treccani.it


L'evento Ophis: l'avventura e la creazione

Il mondo italico preromano: l'evento Ophis

Archeopercorsi è un’associazione che nasce da un amore viscerale per il territorio, la conoscenza e le nostre radici. Siamo un gruppo di laureati multidisciplinari alle soglie dei trenta (archeologi, architetti, filosofi e storici) le cui strade si sono incrociate qualche anno fa sulle orme di antiche tradizioni e usanze del nostro territorio Piceno. In una calda serata d’estate, attorno a una tavola rotonda di idee e pensieri, abbiamo deciso di unire ufficialmente le forze e costituirci come associazione no profit.

Obiettivo? Il desiderio comune di promuovere le bellezze storico/artistiche della nostra terra, spesso dimenticata dai grandi circuiti del turismo nazionale e spesso ignota nelle sue peculiarità anche ai suoi stessi abitanti. Mettendo a disposizione ognuno le proprie competenze, creando percorsi insoliti e interattivi, momenti di aggregazione, laboratori ed eventi, noi di Archeopercorsi abbiamo cercato finalmente di dare gli strumenti nuovi e ormai necessari per far conoscere la terra che abitiamo. “Crea la tua Conoscenza” è infatti il nostro motto perché tante sono le strade del passato percorribili ancora oggi, ed ognuno di noi può scegliere quella che trova più affascinante.

Lo strumento più efficace è sicuramente quello sotto forma di evento. L'evento Ophis appunto.

L'evento Ophis 2019

Ed è proprio parlando di eventi che si è appena conclusa la nostra esperienza più importante a livello organizzativo: Ophis 2019, ad Offida (AP). Il borgo medioevale di Offida è da anni il leader nella ricettività turistica di natura culturale della zona e sicuramente si è dimostrato uno dei centri più vivi ed accoglienti del Piceno. Accoglienza che è stata data anche a noi ragazzi dell’associazione che abbiamo avuto il privilegio di organizzare la prima grande rievocazione storica sui popoli Italici del centro Italia coinvolgendo realtà delle regioni a noi vicine e affini. Lo scopo della serata e dell'evento Ophis è dare luce ai secoli di civiltà pre-romana, spesso messi in secondo piano dagli stessi manuali storiografici, ma che rappresentano le nostre radici più pure.

Il nome stesso dell’evento Ophis racchiude in se la radice indoeuropea del toponimo della città che ci ha ospitato, spalancando le porte del Museo Archeologico G. Allevi e permettendoci di animare le strade del paese con i nostri figuranti. Guerrieri, danzatrici, musici , vasai e ogni sorta di attività legata alla quotidianità italica hanno invaso le strade e gli ambienti del museo destando non poco interesse e curiosità da parte della popolazione locale e dei turisti , che soprattutto in estate, cercano spesso invano una risposta alla voglia di scoprire le nostre tradizioni al di fuori dei canali convenzionali. Il gran numero di persone che vi ha partecipato e l’entusiasmo sono motivo per noi di vanto e grande gioia e sicuramente ci danno la spinta ad andare avanti e la convinzione di aver imboccato la strada giusta da percorrere.

Il vice presidente di Archeopercorsi

Giampiero Mozzoni


BEATO ANGELICO: LA VITA E LE OPERE

A cura di Giulia Pacini

Frà Giovanni da Fiesole, meglio noto come BEATO ANGELICO, nasce a Vicchio di Mugello, Firenze, tra il 1396 ed il 1400, e muore a Roma nel 1455. Viene considerato come una figura fondamentale nella pittura italiana del XV secolo, fra le più discusse e, forse, più incomprese.

La critica romantica lo vedeva come ultimo erede della tradizione giottesca e, quindi, antagonista di Masaccio. Da qui il passo è breve a considerarlo un “reazionario”

Eppure l’ Angelico, sotto l’apparente fedeltà alla tradizione pittorica religiosa, è un uomo nuovo. Comprende i problemi dell’umanità in terra, ma li risolve con la fede nella giustizia divina. La posizione del pittore, del tutto particolare rispetto a quella degli altri artisti del primo ‘400, non è dunque reazionaria: l’Angelico pone l’uomo al centro della sua attenzione, sa che l’uomo può giungere a Dio comprendendolo, con la ragione prospettica, il creato, ma sa anche che questa comprensione è voluta da Dio stesso: perciò, nelle sue pitture, il dramma non esplode mai e anche gli episodi, per gli altri più dolorosi, come le Crocifissioni ad esempio, vengono contemplati da lui con la serenità che gli proviene dalla sicurezza che tutto è finalizzato.

ANNUNCIAZIONE E ADORAZIONE DEI MAGI (1425): il tabernacolo con l’ Annunciazione e l’Adorazione dei Magi sembra appartenere alla prima maturità del pittore, attorno al 1425. Nella cuspide, il piano di fondo è costituito da un parametro riccamente ornato, come la decorazione del pavimento, che, se non fosse per la diversa direzione della fascia sottostante, sembrerebbe quasi verticale. La bidimensionalità e la ricchezza decorativa richiamano alla pittura medioevale, a certe raffinatezze cromatiche, forse più senesi che fiorentine. Le figure dei protagonisti, sebbene non trovino uno stabile appoggio nel terreno, hanno una loro consistenza volumetrica, una loro pensosa umanità. Nella sottostante Adorazione gli uomini si distribuiscono spazialmente, vivono, non coralmente, ma da persone, l’evento del quale sono attori.

 

Tabernacolo con l' Annunciazione e l' Adorazione dei Magi, 1425, Museo di San Marco, Firenze

GIUDIZIO UNIVERSALE (1425-1430): sicuramente successiva all'opera di cui sopra è il Giudizio universale, in cui il senso dello spazio appare più maturo. La stessa forma trilobata della cornice superiore, di origine gotica, serve all’Angelico per creare una profondità semicircolare nel disporsi dei Santi, del Battista, della Vergine, attorno a Cristo giudice, contenuto dentro la mandorla formata da cherubini e circondata da angeli. Questa visione contemporanea di terra e cielo, e soprattutto questa espansione semicircolare della corte divina, avranno largo seguito nei decenni successivi: dal Ghirlandaio a Frà Bartolomeo, a Raffaello. Mentre a sinistra gli eletti si avviano verso la “città di Dio”, a destra, nell’inferno, chiuso da rocce simboliche e diviso in grotte, i dannati sono puniti secondo una iconografia medioevale comune in Italia ed in Francia, di origine popolare, con scopi didattici. L’opera mostra l’alta religiosità del pittore e la sua volontà educatrice.

Giudizio Universale, 1425 - 1430, Museo di San Marco, Firenze

VISITAZIONE (1433-1434): la scena fa parte della predella di una pala con l’ Annunciazione, dipinta per la chiesa di San Domenico a Cortona. Tra le molte tavole dedicate a questo tema dal Beato Angelico, questa è una delle più belle per lo smagliante fulgore dei colori che , accostandosi reciprocamente – in particolare i primari: rosso, giallo e blu-, generano un’intensa luminosità. Sulla destra si svolge il fatto sacro,mentre, sulla sinistra, una donna giunge salendo faticosamente, sullo sfondo di un paesaggio reale e riconoscibile: il Trasimeno con Castiglione del Lago, avvolti, per la distanza, in una leggera nebbiolina, come spesso appare nelle campagne umbre.

Visitazione, 1433 - 1434, Museo Diocesano di Cortona, Arezzo

TABERNACOLO DEI LINAIOLI (1433): IL Tabernacolo è definito così perché commissionato dall'Arte dei Linaioli, una delle potenti associazioni mercantili fiorentine che hanno avuto un peso non indifferente nella commissione di opere d’arte. Nell'opera si nota una definitiva adesione del Beato Angelico al Rinascimento, per la monumentalità della Madonna, le gambe della quale, con il manto, formano una solida base di appoggio, per il Bambino benedicente. Tuttavia, qualche concessione al passato è ancora visibile: dall'impostazione che deriva dalle Maestà due- trecentesche, a certa fluidità lineare gotica.

Tabernacolo dei Linaioli, 1433, Museo di San Marco, Firenze

L’IMPOSIZIONE DEL NOME AL BATTISTA (1435): in quest’opera possiamo notare come Zaccaria sia costretto a scrivere su una tavoletta il nome che desidera dare al figlio neonato, perché secondo il racconto del vangelo di Luca egli aveva perso l’uso della parola per punizione divina, non avendo creduto all'angelo che gli annunciava che lui e la moglie Elisabetta, ormai vecchi, avrebbero avuto un figlio. C’è qui una comprensione profonda dell’ umanesimo fiorentino, non soltanto per l’ “esattezza ed il rigore” ma, ancor più, per aver inteso il significato dello spazio delimitato, chiuso, ove si svolge la vita dell’uomo, e, al tempo stesso, aperto, sopra il muro di cinta, verso il mondo esterno.

L' imposizione del nome del Battista, 1435, Museo di San Marco, Firenze

Nel gennaio del 1436 il Papa Eugenio IV cedette ai domenicani di Fiesole l’antico convento silvestrino di San Marco in Firenze. Tra il 1437 ed il 1452, su commissione di Cosimo de Medici, Michelozzo lo ricostruì interamente. A Partire dallo stesso momento Beato Angelico si trasferì da Fiesole nella nuova casa domenicana, rivestendola di affreschi via via che procedevano i lavori di architettura. È un'opera monumentale: per la quantità delle pitture, per la complessità tematica, e soprattutto, per il livello qualitativo. L’intento predicatorio domenicano, il fine popolare qui è scomparso: l’opera infatti non si rivolge alla massa indifferenziata dei fedeli in chiesa, ma ai soli confratelli: il richiamo alla meditazione sui fatti sacri.

ANNUNCIAZIONE (1438 - 1440) : la scena si svolge sotto un portico rinascimentale. L’ambiente è completamente spoglio e privo di ogni decorazione superflua, di ogni arredamento, per accentuare l’essenzialità dello spazio. Il Santo domenicano che compare a sinistra non turba l’intimità del colloquio sacro fra l’Angelo, perché posto al di fuori delle linee prospettiche fondamentali e quindi dallo spazio in cui avviene il miracolo.

Annunciazione, 1438 - 1440, cella 3, Museo di San Marco, Firenze

CROCIFISSIONE (1441 - 1442): la Crocifissione viene trasformata, da descrizione del fatto drammatico, in meditazione pacata e profonda. L’affresco si trova nella “Sala del Capitolo” del Convento di San Marco ed occupa la parete di fronte all'ingresso. Ai piedi delle tre croci vi sono non soltanto le figure tradizionalmente unite nell'iconografia del tema in oggetto, ma anche i Santi di varie epoche per indicare la continuità secolare del cristianesimo e, soprattutto, i fondatori di vari ordini religiosi, fra cui quello dei domenicani stessi.  Al centro vi è Cristo crocifisso in mezzo ai due ladroni. In basso, da sinistra, i Santi Damiano, Cosma, Lorenzo, Marco, Giovanni Battista, la Vergine con Giovanni Evangelista e le pie donne; a destra, inginocchiati, i Santi Domenico, Gerolamo, Francesco, Bernardo, Romualdo, Tommaso. Nella cornice lunettata, al centro, sopra il Crocifisso, vi trova spazio un pellicano, simbolo della redenzione, ai lati i busti di nove patriarchi e della sibilla Eritrea. Nella cornice sottostante troviamo l’albero genealogico dell’ ordine domenicano con sedici Santi e Beati che affiancano il fondatore.

Crocifissione, 1441 - 1442, Museo di San Marco, sala Capitolare, Firenze

Attorno al 1445 Beato Angelico si reca a Roma. Nell'estate del 1447 inizia i lavori della Cappella San Brizio nel Duomo di Orvieto, che saranno poi proseguiti e compiuti da Luca Signorelli. Verso il 1450 rientra a Firenze, dove viene nominato Priore del convento di San Domenico di Fiesole. Tra il 1453 ed il 1454 torna a Roma, dove muore nel 1455.

A Roma affresca con aiuti, tra i quali Benozzo Gozzoli, la Cappella Niccolina per volontà del nuovo pontefice Niccolò V.

STORIE DI SANTO STEFANO E SAN LORENZO: per i protomartiri, l’angelico assume un tono maestoso, romano, per esprimere il significato storico della chiesa e della sua saldezza. Inserisce i personaggi in scenari complessi, davanti a colonnati in prospettiva, con le figure spesso in primo piano. La Cappella affrescata dall’ Angelico, prende il nome dal nuovo pontefice, Niccolò V, il Papa umanista a cui si deve il superamento delle polemiche tra i più rigorosi “osservanti” dell’antica fede ed i sostenitori delle nuove idee, con l’affermazione di un nuovo “umanesimo cristiano”, il cui perno è la riscoperta della “ romanità”.

Elemosina di San Lorenzo, 1447, Vaticano, Cappella Niccolina, Roma

Il Beato Angelico è considerato più un pittore rinascimentale che medioevale: la sua concezione della luce ha avuto un ruolo fondamentale non solo per i suoi immediati collaboratori e seguaci: senza di lui non sarebbero mai emersi Domenico Veneziano e Piero della Francesca.


CARAVAGGIO: LA CATTURA DI CRISTO

 

Nel buio della notte una luce improvvisa e straordinaria trasforma una scena di ressa umana, quasi un groviglio di corpi, in una scena sacra. Sulla destra un giovane, in cui si ravvisa il ritratto del Caravaggio, protende la mano per illuminare con una lanterna Giuda che bacia Cristo. Sulla sinistra un altro personaggio, stravolto nel volto e nell'urlo, spalanca la propria mano quasi a bloccare e forse impedire l'assalto dei soldati, che già stanno ghermendo un Cristo inerme che subito si consegna, intrecciate le mani nel gesto di resa e di umano abbandono. Un immaginario triangolo fra le mani di Cristo e quelle dei due personaggi laterali racchiude quel bacio e vi trasferisce tutta la forza emotiva della scena. E se il giovane con la lanterna è davvero Caravaggio appare chiaro quale sia il ruolo dell'artista: fare luce nel buio e liberarne la verità. E' chiaro che questa luce ha un puro valore simbolico considerando che la vera luce è esterna al dipinto e serve ad esaltare il dramma. i tempi si accorciano e quasi si annullano: tutto avviene nell'istante in cui Giuda da il bacio, mentre qualcuno grida, qualcuno fa luce, i soldati sopraggiungono e Cristo si abbandona, senza resistenza, perché tutto era già stato annunciato. Si sviluppa in questa scena il concetto di hic et nunc che Caravaggio matura lentamente via via restringendo i tempi narrativi in un solo fotogramma.

Alla metà del 1601, non ancora trentenne e già a Roma da quasi nove anni, Michelangelo Merisi, grazie alle sue tele in San Luigi dei Francesi ed altre private, aveva già raggiunto un'insperata notorietà tanto da essere ritenuto da alcuni come il più innovativo pittore vivente. Nel mese di giugno l'artista aveva cambiato signore alloggiando nel palazzo del cardinale Girolamo Mattei. Questi era tra le personalità più rappresentative della curia oltre ad appartenere ad uno dei casati più nobili e benestanti della Roma dell'epoca. Per il Mattei Caravaggio realizzerà la Cena ad Emmaus, il San Giovanni Battista e la Presa di Cristo nell'orto che viene terminato prima della fine dell'anno. Nel 1603 con la morte del cardinale è molto probabile termini anche la permanenza dell'artista presso al famiglia. I tre quadri eseguiti per lui restano in seno alla famiglia almeno fino al 1607-1608, mentre già nel 1616 dagli inventari scompare la Cena in Emmaus, probabilmente ceduto al cardinale Scipione Borghese, e simile sorte toccherà al San Giovanni Battista e alla Presa di Cristo. In particolare quest'ultimo fu ceduto sotto nome di un altro artista per saldare le gravi difficoltà economiche dei discendenti della famiglia Mattei ad una coppia scozzese, gli Hamilton Nisbet, che lo conservarono all'interno della famiglia fino a quando l'ultima discendente dovette metterlo all'asta. Il dipinto fu acquistato da una signora irlandese, Mary Lea Wilson, la quale era rimasta colpita dalla rappresentazione drammatica dell'aggressione subita dal Cristo che le ricordava la morte violenta del marito avvenuta nella guerra per l'indipendenza del sud Irlanda. Convertitasi al cattolicesimo la Wilson donò il quadro alla comunità di Sant'Ignazio di Dublino che conservò gelosamente il dipinto fino all'Agosto del 1990, quando il rettore chiese l'assistenza dei curatori della National Gallery di Londra per attestare lo stato di conservazione delle opere. Fu così riconosciuto il dipinto di Caravaggio in quanto menzionato da fonti antiche e di cui si conosceva la composizione e l'opera fu ricondotta al suo legittimo autore.

Il dipinto ha un supporto formato da una singola tela di canapa la cui trama appare identica a quella del San Giovanni Battista conservato ai Musei Capitolini, quadro che precede la composizione della Presa di Cristo di pochi mesi. La pittura è di colore bruno ed è formata da ocra rossa e gialla, terra d'ombra, grani di terra verde ed una certa quantità di bianco di piombo. La mestica è distesa in modo abbastanza irregolare e sembra che i pigmenti non siano stati mescolati a sufficienza tra loro tanto da far pensare che si sia agito in gran fretta. La tecnica usata è quella di un'esecuzione abbastanza rapida preceduta da alcuni tratti generali di abbozzo dati probabilmente con un pigmento bianco che si intravede in alcune parti della superficie. A ciò è seguita la campitura del fondo e la costruzione delle figure, il tutto portato avanti con pennellate veloci date con sicurezza senza preoccuparsi troppo di completare tutte le parti. Nelle zone dove mancano queste pennellate finali traspare la preparazione bruna. Ciò è particolarmente evidente nella mano di Giuda e sotto la manica del San Giovanni in fuga. Le analisi hanno riscontrato anche un'altra frequente abitudine dell'artista, quella cioè di aggiustare la composizione verso la fine con pennellate correttive. Le indagine radiografiche e le riflettografie a raggi infrarossi hanno fornito informazioni circa l'esecuzione del dipinto, durante la quale Caravaggio ha apportato vari cambiamenti che nonostante non siano sostanziali appaiono significativi: tra tutti sul volto di Giuda è stato modificato il profilo e spostato più in basso la posizione dell'orecchio.

La composizione del dipinto è orizzontale cioè da "Quadro mezzano" come venivano definiti all'epoca. La tipologia è lombardo-veneta con struttura compatta e figure di tre quarti come appare frequentemente in quegli anni nei lavori eseguiti da Caravaggio per i privati. La studiata riduzione dello spazio intorno ai personaggi serve al pittore per dare maggiore impatto alla scena aumentandone così la drammaticità. La fonte che illumina la scena non è visibile, ma si presume sia la luna con i raggi che cadono dall'alto verso destra rischiarando solo quello che serve ad enfatizzare l'azione ed i volumi.

L'episodio della cattura di Cristo nell'orto figura in tutti e quattro i vangeli canonici seppure con differenze di narrazione. Caravaggio opera una sintesi di tutti gli elementi presenti nel racconto evangelico e ce ne da la sua personale versione in un quadro che è come una lente di ingrandimento puntata prevalentemente sui volti e sulle mani di pochi personaggi illuminati dalla luce di una lanterna. Il quadro è chiaramente diviso in due blocchi di figure contrapposte: quello di destra sembra un pesante macigno che si riversa addosso a Cristo inerme con la brutalità degli sguardi truci e la pesantezza degli elmi e delle corazze che assorbono e rimandano la luce. I visi dei soldati sono schermati, allusione possibile alla furia di una violenza che preferisce restare senza nome e senza volto; le mani invece si stringono a tenaglia come se volessero afferrare una preda. L'insieme figurativo di sinistra ci presenta il Cristo interamente esposto al rancore di Giuda e alla rabbia delle guardie: i suoi occhi non incrociano quelli del traditore, non trasmettono rimprovero all'irruenza di chi lo bacia con visibile astio. La visione della cattura di Gesù nell'orto sembra portata maggiormente in primo piano dai due volti che stanno sullo sfondo quello di un apostolo, forse Giovanni, che lancia un urlo di sgomento ed alza il braccio; e poi quello non più di un apostolo ma di Caravaggio stesso, che rendendo contemporaneo a sè l'amore che tradisce e l'amore che subisce ha voluto renderli contemporanei anche a ciascuno di noi.

 


santa Maria del colle

La chiesa di Santa Maria del Colle, altrimenti detta collegiata, è situata a Pescocostanzo, in provincia dell'Aquila, ed è uno degli esempi più significativi e completi di Barocco abruzzese. Sorta in epoca rinascimentale oggi essa è il risultato di numerosi interventi di ricostruzione ed ampliamento succedutisi nel corso del XVI e XVII secolo. La denominazione di collegiata è legata alla localizzazione di un primo nucleo religioso sorto su di un colle all'esterno dell'originario centro urbano. All'esterno delle mura cittadine, su un colle poco distante, nella seconda metà dell'anno mille venne edificata una chiesa piuttosto grande, la cui fondazione e posizione si spiegano con l'influenza della tradizione benedettina e in particolare dell'abbazia di Montecassino. La prima testimonianza documentaria ci viene fornita da un atto di donazione del 1108 in cui un certo Odone cedeva al monastero di Montecassino "la chiesa di S. Maria di Pescocostanzo...".
Nessuna indicazione ci è stata tramandata circa la sua struttura originaria. Il 5 dicembre 1456 un terribile terremoto distrusse sia il paese sia la chiesa. La ricostruzione dell'edificio religioso fu immediata e tempestiva. 
La collocazione sul colle ha fortemente condizionato la configurazione dell'organismo religioso. Costruita sulla linea del crinale, la chiesa presenta la facciata principale, orientata ad est, in corrispondenza della parte terminale del colle. Il forte dislivello rispetto alla strada sottostante ha reso impossibile la costruzione di una gradinata che collegasse la chiesa alla strada. Così l'accesso venne realizzato sulla facciata laterale dove minore era il dislivello. Questa soluzione ha reso necessaria la costruzione di una seconda facciata frontalmente alla strada che immette nel borgo antico e che vista dall'esterno ha tutta l'aria di una facciata principale. La collocazione sul colle ha fortemente condizionato la configurazione dell'organismo religioso. Costruita sulla linea del crinale, la chiesa presenta la facciata principale, orientata ad est, in corrispondenza della parte terminale del colle. Il forte dislivello rispetto alla strada sottostante ha reso impossibile la costruzione di una gradinata che collegasse la chiesa alla strada. Così l'accesso venne realizzato sulla facciata laterale dove minore era il dislivello. Questa soluzione ha reso necessaria la costruzione di una seconda facciata frontalmente alla strada che immette nel borgo antico e che vista dall'esterno ha tutta l'aria di una facciata principale. 
Nel 1466, all'epoca della ricostruzione, la chiesa era a tre navate, ciascuna suddivisa in tre campate, costituite da archi a tutto sesto poggianti su pilastri a croce. Alcuni studiosi ritengono che le navate laterali fossero previste già dal progetto del 1466, altri spostano la datazione al Cinquecento. Di data certa, invece, è la costruzione della facciata principale sulla quale sono presenti due iscrizioni: una sul fregio del portale indica l'anno 1558, l'altra su una lapide indica l'anno 1561. Nel 1606, data incisa su una trave del soffitto, venne realizzato l'innalzamento del tetto allo scopo di aprire due finestre come fonti di illuminazione per la navata centrale e fu realizzata la copertura in legno intagliato della navata centrale. Nel corso del Cinquecento fu realizzata anche la facciata laterale, sul lato settentrionale dell'edificio, sulla quale venne trasposto il portale tardomedievale che in origine doveva trovarsi sulla facciata principale, sulla quale ne venne realizzato uno nuovo.
Nel corso del Seicento furono realizzate anche le coperture in legno delle navate laterali, poi decorate nel corso del secolo successivo, e delle navatelle, lasciate in nudo legno intagliato senza aggiunte decorative. 
La facciata laterale, a nord, presenta uno schema a due ordini di aperture ricorrente in molte chiese pescolane, che vede al centro un portale tardomedievale sormontato da una finestra ad ovale e sui lati due ampie finestre rettangolari, di semplice fattura. Il portale deriva dai modelli delle principali chiesa aquilane della fine del Duecento. Esso è costituito da tre ordini di cornici semicircolari. A concludere la composizione è una cornice più grande, aggettante e decorata con rosette e girali di acanto. La facciata principale è più complessa. Essa ripete lo schema tripartito con portale e rosone al centro e finestroni rettangolari laterali, a carattere spiccatamente rinascimentale, ma in aggiunta presenta due finestre ovali di piccole dimensioni poste poco più in alto del rosone e simmetricamente ad esso. Il portale, datato 1558, è diviso in due ordini; quello in basso è costituito da due lesene scanalate con capitelli corinzi, quello in alto, di minore altezza, presenta due lesene che chiudono una lunetta con arco. Un'alta trabeazione in alto chiude e definisce il portale. 
La collegiata, in linea con la maggior parte delle chiese pescolane, ha una struttura a pianta longitudinale a cinque navate di matrice rinascimentale, su cui si innestano gli interventi barocchi dei secoli XVII e XVIII. Si tratta di operazioni a carattere prevalentemente decorativo più che costruttivo. Unica eccezione è l'aggiunta della cappella del SS. Sacramento. E' l'unica struttura barocca di grande originalità e si trova in corrispondenza della terza campata in prossimità del presbiterio. Realizzata nell'ultimo decennio del Seicento presenta una pianta rettangolare con angoli smussati e copertura a cupola ovale che poggia su quattro archi in cui si aprono altrettanti finestroni. La cappella contiene tre altari, di cui uno in legno e due in marmo. A chiudere la cappella è lo splendido cancello in ferro battuto progettato da Norberto Cicco, architetto e scultore pescolano, realizzato dal fabbro Santo di Rocco tra il 1699 e il 1705 e completato nel 1717 dal nipote Ilario di Rocco. 
Come detto la maggior parte degli interventi barocchi nella chiesa pescolana sono di tipo decorativo. Partendo dall'ingresso la prima opera settecentesca che incontriamo è il battistero. A sinistra della gradinata interna si apre un piccolo vano rettangolare coperto da una cupola ovale e chiuso da un cancello in ferro battuto. Questo fu realizzato probabilmente da Ilario di Rocco nel 1753 e si ispira ai caratteri rococò che gli conferiscono un tono elegante e raffinato. Al centro dello spazio interno spicca il fonte battesimale, un tempietto circolare in marmo, realizzato da Filippo Mannella intorno al 1753 con marmi di provenienza napoletana. Ai lati della gradinata interna sono due acquasantiere di grande originalità e creatività realizzate nel 1621-22. Dall'ingresso è immediatamente visibile il pulpito addossato ad uno dei pilastri della navata centrale. Fu realizzato probabilmente nei primi del '600 ad opera di Bartolomeo Balcone, romano di nascita ma vissuto a Sulmona, dove ha realizzato il coro della SS. Annunziata. In legno di noce, è composto da pannelli intagliati e decorati a motivi vegetali ed antropomorfi, delimitati da lesene a carattere ionico. In basso, quasi a sostegno dell'intera struttura, è un putto alato che sostiene varie cornici lavorate. A copertura del pulpito è un baldacchino posto più in alto, che ne ricalca la forma. L'effetto dorato con cui si presenta oggi il pulpito è il risultato di interventi successivi. Affini al pulpito sono due altre opere barocche, il badalone e la cantoria. Il badalone, posto al centro del coro, è un leggio di grande importanza. La cantoria, di notevole dimensione, occupa tutta la parete di controfacciata della navata centrale. Una struttura lignea intagliata, dorata e colorata contiene un organo costituito da dodici registri articolati in tre torri, di cui quelle laterali più basse, quella centrale più alta si eleva fino al soffitto.
I soffitti sono una delle caratteristiche principali della chiesa, distinti in tre tipologie. Il più ricco e scenografico è certamente quello della navata centrale realizzato tra il 1670 e il 1682; il progetto e la direzione dei lavori appartiene a Carlo Sabatini; le dorature sono attribuite ai fratelli Gioacchino e Giuseppe Petti da Oratino; gli oli appartengono a Giovannangelo Bucci. Si tratta di una complessa struttura in legno intagliato, laccato e dorato suddivisa in lacunari, scomparti rientranti. Questi, nel numero di ottantacinque, hanno forme diverse, tonda, rettangolare o mistilinea, e sono stati concepiti come contenitori di tele dipinte ad opera di Bucci. I cassettoni sono molto profondi e questo crea l'impressione che i dipinti sprofondino al loro interno. Non è casuale la scelta del colore di fondo, il celeste, che allude all'apertura del soffitto verso il cielo. Unico precedente è dato dal soffitto della cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a Penne, realizzato circa trent'anni prima. Se il soffitto pescolano non rappresenta una novità, è certo che mette a punto una tipologia che troverà ampia applicazione nel Settecento, come nel caso della chiesa di San Bernardino a L'Aquila. I soffitti delle navate laterali adiacenti a quello centrale furono iniziati negli stessi anni ma portati a termine solo nel 1742. L'attribuzione del progetto spetta allo stesso Carlo Sabatini con qualche riserva per quanto riguarda quello di destra. Presentano la stessa impostazione architettonica e compositiva di quello centrale.

In conclusione si può affermare che la ricchezza della chiesa di Santa Maria del Colle, vero scrigno di tesori artistici, è insolita in un piccolo centro montano ed è per questo che genera meraviglia e stupore nel visitatore.

 
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cattedrale di Lamezia Terme

Localizzata nel quartiere di Nicastro, la Cattedrale di Lamezia Terme è stata il sipario di continui crolli e devastazioni a causa di numerosi eventi sismici che hanno colpito la zona, tra cui il terremoto del 1638 che ha raso al suolo l’intero edificio di natura normanna, evento che ha portato alla costruzione ex novo dell’attuale struttura architettonica in una postazione differente rispetto a quella della prima Chiesa madre, che doveva trovarsi nei pressi del rione San Teodoro, ai piedi del castello normanni. Il monumento si affaccia sul corso principale di stampo vittoriano della cittadina, al quale si accede attraverso una doppia scalinata modificata più volte durante gli anni. I lavori di riedificazioni della Cattedrale, voluti dal Mons. Giovan Tommaso Perrone, conseguenti al terremoto del 1638 che rase al suolo l’antica cattedrale del 1100 voluta dalla contessa Emburga, nipote di Roberto il Guiscardo, terminarono nel 1644 con la consacrazione del nuovo Duomo di Nicastro. Successive ed ulteriori modifiche interessarono anche il prospetto frontale. La facciata perde il rosone barocco inglobato all’interno di un’apertura ottagonale per lasciare spazio ad una più lineare facciata a saliente, la cui parte superiore viene circondata da una balaustra oggi rimossa, e quattro busti monumentali, due dedicati ai santi Pietro e Paolo e due dedicati ai papi Marcello II e Innocenzo IX, entrambi vescovi di Nicastro. Solo i portali dei prospetti laterali mantengono i loro motivi originali, senza subire intervento alcuno. Nella prima metà dell’ottocento la struttura è oggetto di un notevole ampliamento in risposta ai canoni neoclassici in voga in quegli anni; innalzate le volte a sostituzione del soffitto ormai danneggiato, si prosegue con l’estensione del transetto concluso da due absidi semicircolari e con l’edificazione di due cappelle aggiuntive nelle navate laterali. L’edificio si sviluppa su una pianta a croce latina, all’incrocio dei bracci quattro robusti pilastri sostengono ampi archi sui quali poggia il tamburo della cupola maiolicata di forma ottagonale, realizzata nel 1935. La maggior parte del materiale per costruire la nuova chiesa fu prelevato dalle rovine della cattedrale terremotata: furono riadattati i pilastri e gli archi in tufo della navata centrale, ora visibili solo in piccola parte. L'altare del crocifisso in porfido grigio fu costruito interamente, con la nicchia dello stesso crocifisso ligneo rinvenuto sotto le macerie. L’interno conserva la parte ornamentale sulla cantoria del vecchio organo monumentale del 1700 distrutto durante la guerra. Titolari del nuovo edificio continuarono ad essere gli Apostoli Pietro e Paolo, ma non fu abbandonato l'antico titolo dell'Assunta dedicato alla piccola cattedrale distrutta dai saraceni intorno all’anno 1000, come dimostra un antica tela che ritrae i santi Pietro e Paolo ai piedi dell'Assunta. Nel museo diocesano della città è conservata una pala di altare che testimonia ancora oggi la congiunzione esistente tra il vecchio titoli di Assunta e l’attuale nominazione agli apostoli.

Bibliografia e sitografia

 

  1. F. Mazza, Lamezia Terme – storia, cultura, economia, Rubbettino Editore, 2001, p.119.
  2. A. Paolucci, E. Sampietro, Cattedrali e Basiliche in Italia, G. Mondadori, 1998.
  3. R. La Scala, Il terremoto del 1638 a Nicastro, in Soricittà, aprile1994, pp. 132-135.
  4. A. Di Somma, Historico racconto de i terremoti della Calabria dall’anno 1638 fin’anno 41, Napoli, 1641, pp. 26-27, 59.
  5. N. Proto, Relazione del Restauro dell’Interno della Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, 1996.
  6. P. Francesco Russo La Diocesi di Nicastro, C.A.M. Napoli 1958.
  7. C. Gattuso, F. Villella, R. Marino Picciola, Il castello di Nicastro - il Piano Diagnostico, esempio di articolazione - IIth Convegno Internazionale AIES - Diagnosi per la Conservazione e valorizzazione del Patrimonio Culturale, Napoli, 15-16 Dicembre 2011.
  8. http://www.diocesidilameziaterme.it/CATTEDRALE-DEI-SS.-PIETRO-E-PAOLO.html
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Santa Maria ad Cryptas

La chiesa di Santa Maria ad Cryptas si trova a circa un chilometro dal paese di Fossa, in provincia dell'Aquila, e a qualche chilometro dall'abbazia di Santo Spirito ad Ocre, di cui fu dipendenza per un certo periodo. Essa rappresenta uno dei più begli esempi di architettura duecentesca. Le sue origini però sono più antiche e alcuni studiosi hanno sostenuto che essa nacque come un tempio romano-bizantino nel IX o nel X secolo d.C. che trova il suo elemento caratteristico nella presenza dell'ipogeo o cripta. Su questa struttura, circa quattro secoli dopo, venne eretto l'edificio religioso secondo lo stile gotico-cistercense, ad opera di maestranze benedettine.
La chiesa è dotata di due facciate: quella principale sul lato ovest e quella posteriore sul lato opposto. La facciata, sul lato ovest, è molto semplice con struttura a capanna; il prolungamento sul lato sinistro è l'effetto dell'aggiunta di rinforzo. Nel complesso molto lineare, il prospetto si caratterizza e si arricchisce grazie al portale a sesto acuto al di sopra del quale è una grande finestra rettangolare. Il portale è costituito da due pilastri a fascio rivestiti sui lati da colonnine alte e sottili a forma cilindrica poggianti su basi e culminanti in capitelli decorati a piccolo rilievo con rosoncini, fiori e palme. Due leoni sono adagiati sui capitelli (quello di destra manca) ed un terzo è sul culmine dell'archivolto. Nella lunetta doveva essere in origine un affresco ormai corroso dal tempo. La finestra che sormonta il portale risulta sproporzionata e stonata rispetto alla facciata. Certamente non si tratta dell'apertura originale che è stata sostituita in secoli più recenti.
La facciata posteriore ha un frontone triangolare e due aperture, una lunga e stretta a doppia strombatura in basso, ed una piccola quadrata in alto. I lati della chiesa presentano ciascuno due finestre a doppia strombatura, lunghe e strette, che mantengono l'originario stile borgognone. 
La chiesa è ad una sola navata di forma rettangolare con il presbiterio quadrato. La navata termina con un grande arco a sesto acuto sorretto da pilastri che immette nel presbiterio. Rialzata su tre gradini, di forma quadrata, la zona absidale è coperta da una volta a crociera divisa da quattro costoloni poggianti su altrettante colonnine cilindriche poste agli angoli dell'abside.
Le pareti laterali sono divise da lesene in tre campate; in quella di sinistra una delle lesene è sostituita da una semicolonna classica poggiante su base attica.
La copertura è in capriate in legno ma in origine è probabile che fosse in muratura. A testimoniarlo stanno gli accenni di archi e i pilastri di sostegno per gli archi che fanno supporre l'avvio di una volta a botte sestacuta simile a quella di San Pellegrino a Bominaco.
Al termine della navata, proprio sotto l'arco trionfale, si apre una gradinata di grossi mattoni che porta alla cripta sottostante; di piccole dimensioni (3x3,60 m) essa contiene un altare costituito da una mensa di pietra poggiata su un troncone di colonna ed un frammento di affresco raffigurante la Crocifissione. Questo spazio è tipico dell'architettura romanico-bizantina a cui la chiesa si ricollega per le sue origini. 
L'interno è completamente affrescato e queste pitture costituiscono il massimo pregio della costruzione.
Il grande ciclo di affreschi della chiesa di Santa Maria ad Cryptas presso Fossa appartiene al grande filone di cicli pittorici del Duecento abruzzese che comprende quello dell'oratorio di San Pellegrino a Bominaco, quello di San Tommaso a Caramanico e parte dei dipinti di Santa Maria di Ronzano. Esso è datato agli ultimi anni del Duecento e probabilmente tra il 1264 e il 1283. Gli affreschi ricoprono gran parte della chiesa dall'arco trionfale, al presbiterio, all'abside, alle pareti laterali ed infine alla controfacciata. L'intero ciclo presenta una varietà di temi più ampia rispetto a quello di Bominaco e si basa sull'accostamento delle scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. La vastità dell'affresco e la presenza di diverse mani nelle pitture fanno pensare ad un cantiere di lavori sotto un univo direttore. Il carattere unitario del ciclo scaturisce dalla direzione unica del direttore ma anche dalle affinità, sul piano della formazione e delle scelte, che legano i diversi pittori che vi lavorarono. L'intero ciclo risente della cultura bizantina soprattutto nelle scelte iconografiche. Un elemento innovativo nella resa iconografica è il carattere realistico con cui vengono ritratte le figure, in rottura con l'atmosfera drammatica e favolistica di altre narrazioni. Il realismo del ciclo di Fossa diventa un elemento di caratterizzazione e distinzione rispetto a quello di Bominaco.
La chiesa al momento non è visitabile per lavori in corso post sisma 2009.

Sitografia:

Regione Abruzzo/cultura

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duomo di cosenza

Le origini della Cattedrale sono incerte e, secondo la tradizione, una primitiva Cattedrale sarebbe andata distrutta durante le incursioni saracene del 975 e del 986, guidate dall’emiro Abul Al Casim che rase al suolo l’intera città, successivamente ricostruita e con essa riedificata ex novo anche la cattedrale sul colle Pancrazio. Nel 1568 fu disposto il restauro dell’edificio e dell’altare maggiore, senza annoverare le innumerevoli modifiche a carico degli arcivescovi che si avvicendavano alla guida della diocesi. Nel 1638 un violentissimo terremoto sconvolse Cosenza e la Cattedrale che fu nuovamente distrutta. I nuovi lavori effettuati dall’arcivescovo Capece Galeota nel 1748 portarono il Duomo ad un nuovo aspetto barocco che oltre a nascondere l’originaria morfologia, portarono alla scomparsa di numerose opere d’arte. In seguito anche l’arcivescovo Narni Mancinelli nel 1881 apportò ulteriori modifiche all’edificio. L’esterno dell’edificio presenta una facciata a capanna alla quale si accede da una breve scalinata incorniciata da ambo i lati da una lapidea balaustra (non più originale), la tripartizione interna è visibile già dall’esterno grazie alla presenza dell’imponente portale centrale e i due laterali tutti archiacuti composi da pilastrini e colonnine i cui capitelli sono decorati da foglie di acanto e quercia, la divisione è inoltre sottolineata da quattro imponenti pilastri quadrati sormontati da due piccoli rosoni presenti nel livello inferiore della facciata e un rosone centrale di dimensioni maggiori, ma meno decorato.  Nonostante le origini del monumento siano ignote è inevitabile osservare il chiaro influsso che la cultura bizantina ha avuto su di esso, soprattutto nello schema interno che segue quello basicale latino a tre navate e otto campate con copertura lignea.  Gli archi a tutto sesto collegano imponenti pilastri squadrati i cui capitelli sono ornati da frondose fasce di foglie. I pilastri che ornano la zona di sinistra, invece, presentano decorazioni tipicamente bizantine con una fascia anteriore composta da una serie di palme e una fascia superiore che riporta un motivo ad anello incrociati. Da quello che resta di un frammento marmoreo dell’originale pavimentazione in mosaico si può risalire alla scuola del maestro pugliese Nicolaus, in esso sono evidenti motivi geometrici e animali simbolici, chiaro riferimento alla altare maggiore della Cattedrale di Bari. La cappella dedicata alla venerazione di una icona intitolata alla Madonna del Pilerio, probabilmente in riferimento al culto spagnolo, è un’esplosione di barocco. Mentre per quanto riguarda il monumento funebre in onore della moglie del re di Francia, Filippo III, Isabella d’Aragona, è composta da un trittico che richiama le vetrate delle cattedrali francesi, in cui al centro è raffigurata una Madonna col bambino e ai lati il re di Francia e la regina con gli occhi chiusi, probabilmente perché eseguito attraverso un calco in cera sul viso dell’ormai defunta Isabella, il primo caso di copia del vero nell’arte sepolcrale del 200. Un’ulteriore curiosità relativa ai ritrovamenti che il Duomo ci ha regalato è stato il rinvenimento di un sarcofago di epoca sì romana, ma in cui fu sepolto il figlio di Federico II di Svevia e Costanza d’Aragona, Enrico VII detto lo sciancato, precedentemente recluso nel castello di Nicastro e morto, probabilmente suicida, durante un viaggio che avrebbe dovuto portarlo al cospetto del padre a seguito di una convocazione ufficiale.

Bibliografia e sitografia

L. Bilotto, Il Duomo di Cosenza, Ed. Effesette, 1989

G. Tuoto, La Cattedrale di Cosenza, Edizioni Delfino Lavoro, 2003

http://www.cattedraledicosenza.it/

www.cosenzapp.it ( foto facciata)

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TERME ROMANE DI REGGIO CALABRIA

Largamente impiegate in età romana, II secolo a.C., gli ambienti termali fruttavano il connubio esistente tra l’ingegno architettonico e le proprietà curative delle acque termali. Si presentavano come un complesso di edifici pubblici dotati di palestre, vasche per il nuoto, locali per bagni caldi, freddi e di vapore, gabinetti per massaggi e solarium per abbronzarsi. Inizialmente gli stabilimenti sfruttavano le sorgenti naturali, solo in età imperiale si assiste all’inserimento degli impianti anche in città, possibile solo grazie all’avanzamento tecnologico. L’acqua veniva riscaldata da focolari sotterranei, che diffondevano l’aria calda in spazi cavi presenti nella pavimentazione e nelle pareti detti ipocausti, dovuti alla presenza di sospensure atte a creare intercapedini tra pavimento e suolo. Lo sviluppo architettonico interno era composto da una successione di stanze, la prima presentava all’interno una vasca di acqua fredda, da cui prendeva il nome la sala stessa, frigidario, di forma circolare, con una copertura a cupola ed esposta il più delle volte a nord per mantenere la temperatura dell’ambiente ottimale; questa sala era seguita all'esterno dal calidario, in genere rivolto a mezzogiorno per sfruttare il calore naturale proveniente dal sole, anche esso di forma circolare. Il calidario poteva comprendere il laconico, il sudatorio e l'alveo, una vasca per il bagno in acqua calda. Tra il frigidario e il calidario era presente, alle volte, una stanza mantenuta a temperatura moderata, detta tepidario, in cui veniva creato un raffreddamento artificiale. Assieme al calidario si usava un altro ambiente che può essere ricondotto a quella che ai nostri giorni è detta sauna. Ulteriori strutture dette natationes erano disseminate nella struttura, si tratta delle vasche utilizzate per nuotare. Attorno ai già citati spazi principali potevano svilupparsi spazi secondari come ad esempio l'apodyterium, uno spazio adibito a spogliatoio, oppure la sala di pulizia e la palestra. Scoperte nel 1886 in occasione della demolizione del Bastione di San Matteo, i resti delle terme di Reggio Calabria si trovano lungo la Via Marina della città. La struttura è composta da una serie di pavimenti musivi dai motivi geometrici composti da tasselli bianchi e neri, ben conservati, appartenenti ad un complesso privato di età imperiale. Reggio era ricca di acque salutari e terme, le strutture dovevano trovarsi all’interno della cinta muraria di epoca classica, nei pressi del fiume Apsia, oggi denominato Calopinace. I resti delle terme presentano, oltre ai mosaici pavimentali, un gymnasium, cioè una palestra composta da un portico con numerose colonne, alcune rinvenute in mare. I resti si intersecano anche con una struttura muraria estranea al complesso, probabilmente dovuta alla successiva costruzione di monumenti ecclesiastici nella zona, o, più verosimilmente, dovuta alla costruzione dell’argine di contenimento del fiume quivi presente. Lo stabile si sviluppa per una lunghezza di 25.00 m di cui attualmente è visibile solo una porzione, grazie alla realizzazione di una recinzione che lascia a vista la struttura rendendola anche visitabile. Durante il rinvenimento delle terme, furono trovati frammenti di stucchi dipinti, colonne di granito e laterizi. Probabilmente l’ambiente veniva usato come sala per gli esercizi corporali, dove presumibilmente erano presenti i peristilii, che, secondo una delle ipotesi storiografiche avanzate sul ritrovamento, sono stati successivamente convertiti negli ambienti della chiesa bizantina realizzata sui resti delle terme, in seguito demolita per far spazio ad opere ingegneristiche di carattere militare. L'abbondanza di acqua a carattere termale presenti nella citta di Reggio permise la costruzione di numerosi impianti termali pubblici e privati sia lungo la costa marittima e che lungo l'estremità del Lungomare. Si tratta del segno tangibile di una città divenuta la sede di una civiltà raffinata e il centro di vita mondana, come attesta un'iscrizione del 374 d.C., rinvenuta nel 1912 nel luogo dove oggi sorge la Banca d'Italia, tra Corso Garibaldi e Via Palamolla, in cui si fa riferimento al terremoto del 305 d.C. dopo il quale il governatore della Lucania, Ponzio Attico, fece ricostruire un lussuoso complesso termale e restaurare il vicino palazzo del tribunale.

Bibliografia e sitografia

G. D’Amore; Il termalismo della Calabria nell’assetto del territorio, Atti Accademia Pelori-tana dei Pericolanti, vol. LXI, 1983.

F. Martorano; Carta archeologica georeferenziata di Reggio Calabria, Iiriti Editore, Di-cembre 2008.

D. Castrizio, M. R. Fascì, R. G. Lagana; Reggio Città D’arte, Reggio Calabria, 2006.

A. De Lorenzo, F. Martorano; Le scoperte archeologiche di Reggio di Calabria, pp. 1882-1888, L'Erma Di Bretschneider, 2001.

F. Canciani; Calcidesi, vasi, in Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale (Secondo supplemento), Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1994.

www.archeocalabria.beniculturali.it/archeovirtualtour/calabriaweb/tonnare1.htm

www.comune.reggio-calabria.it

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IL CASTELLO DI MANFREDONIA

Introduzione

Nel quindicennio manfrediano la politica delle fortificazioni appare caratterizzata da elementi che hanno un forte rapporto con il passato e con l’antico, in particolare per quanto riguarda il sistema castellano federiciano che non studia le modalità attraverso le quali creare delle differenze sostanziali tra le architetture della sua epoca e quelle militari e civili del periodo normanno.

Come il padre, anche Manfredi vuole porre la sua attenzione nei confronti delle strutture castellari regie; tra le varie innovazioni vuole dotare la città di Manfredonia di un sistema portuale dotato di mura tra il 1256 – 1258 e, per l’occasione, fa costruire una torre quadrata che verrà posta in seguito all’interno del Castello.
Il Castello di Manfredonia non è il frutto di un progetto unitario concepito fin dalla sua origine così come oggi ci appare, ma è il risultato di trasformazioni, ampliamenti e rifacimenti avvenuti in epoche diverse.

In origine tutta la struttura consisteva in uno spazio quadrilatero racchiuso da una cinta muraria raccordata da cinque torri a pianta quadrata, di cui quattro poste agli angoli e la quinta ubicata presumibilmente nei pressi della porta principale di Nord-est. I rimaneggiamenti delle epoche successive faranno assumere un aspetto estetico totalmente differente rispetto all’originario: la quinta torre, essendo stata smembrata, conserva poche tracce, mentre le altre, ad eccezione di quella posta a Sud-est, hanno cambiato la loro struttura formale da strutture quadrangolari a torrioni a pianta cilindrica.

Il castello di Manfredonia

Come tutti i castelli fortificati che si rispettino, presenta un torrione più alto degli altri: è consuetudine dei castelli medievali essere collocati su una motta, considerata il punto più alto della città, dalla quale spiccava il “donjon” (o “dongione”), torrione fortificato più alto degli altri che serviva come rifugio in caso di attacco nemico o abitazione del castellano.

Il castello di Manfredonia si connota, dal punto di vista architettonico, per una predominante derivazione sveva, geometricamente impostata e dalla linearità regolare della struttura, caratteristiche che lo accomunano anche ai castelli svevi costruiti fuori dall’Italia. Le fonti documentarie non confermano altrettanto però, visto che datano la costruzione al periodo di Re Carlo I d'Angiò.

Infatti i primi documenti che parlano del Castello di Manfredonia provengono proprio dalla Cancelleria angioina e risalgono all’aprile del 1279: in essi si fa riferimento al reclutamento di manodopera specializzata per l’inizio dei lavori, ma un’altra ipotesi probabilmente accettabile è quella in virtù della quale gli Angioini abbiano sopraelevato il Castello su fondazioni preesistenti, inserendole in un progetto più grande che ricordava gli albori della dinastia sveva, rendendole quasi omaggio, soprattutto ad un personaggio come Manfredi.

Di Salvatore Triventi - http://www.fotodasogno.altervista.org/, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=34905536

Con il governo della casa d’Aragona, (1442), si assiste ad un ulteriore processo di visibile trasformazione del Castello: negli ultimi anni del XV secolo, gli Aragonesi, all'interno di un complessivo progetto di fortificazione delle strutture difensive delle più importanti città costiere, dispongono per il Castello di Manfredonia la costruzione di una nuova cortina muraria inglobante la struttura primitiva. A queste mura viene data una leggera inclinazione “a scappata” tale da renderle più rispondenti alle mutate esigenze dell’arte difensiva conseguenti all’uso dell’artiglieria (all’epoca, per mandar via il nemico, una delle modalità più gettonate era l’olio bollente. Veniva occupato tutto il perimetro superiore della balaustra del Castello, comprese le torri e da quella posizione si gettava giù; la facciata a scappata consentiva uno scorrimento maggiore e più veloce dell’olio in questione). I torrioni cilindrici posti agli angoli della fortificazione presentano un ordine “casamattato”, detto così perché ospitava i cannoni e l’artiglieria per le battaglie ed era il luogo più sicuro del Castello, “a prova di bomba” come si suol dire; la casamatta, appunto, era il luogo che veniva distrutto per ultimo durante gli assedi poiché era chiuso all’interno e coperto nella parte superiore.

L’unico problema era che, quando si caricavano i cannoni o le armi oppure in caso di una bomba tirata con la catapulta che riusciva a raggiungere l’interno della casamatta, il fumo veniva trattenuto all’interno. La protezione era soltanto esterna per intenderci: la casamatta aveva comunque delle aperture per consentire la sistemazione delle bocche dei cannoni, ma se un esplosivo riusciva a raggiungere l’interno non c’era via di scampo in quanto dalla casamatta si poteva entrare ma non si poteva uscire.

La costruzione del grosso bastione posto ad Ovest del Castello, denominato dell’Avanzata o dell’Annunziata, segna per l’edificio un’altra tappa nella storia della sua edificazione, che nel corso del tempo è mutata anche nel Novecento, dando al Castello di Manfredonia l’aspetto che vediamo oggi.