LE BOTTEGHE NAPOLETANE SULLA SCENA DI BETLEMME

A cura di Ornella Amato e Camilla Giuliano

 

Introduzione

Breve storia del presepe da Betlemme a Napoli

L'origine storica del presepe va ricercata nei Vangeli di Matteo e Luca dove, in circa 180 versi, sono riportati l’arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme e la nascita del Cristo.

Nel 1223 San Francesco d'Assisi, a Greccio, decise di mettere in scena quanto scritto nel testo sacro, affinché tutti potessero conoscere il vero significato del Natale.

Dopo di lui furono molte le iniziative cristiane che diedero vita alla celebrazione dell’evento; dalle scene teatrali si passò alla rappresentazione con statuette prodotte artigianalmente. Il primo presepe della storia venne realizzato da Arnolfo di Cambio nel 1283 ed è oggi conservato nella basilica Santa Maria Maggiore a Roma.

 

Le origini dell’arte presepiale napoletana

Il presepe è stato ben presto apprezzato nelle corti napoletane dove, in particolare con l'arrivo dei Borboni nella seconda metà del XVIII sec., raggiunse un livello altissimo.

La storia racconta che il re Carlo di Borbone, insieme alla regina Maria Amalia e all’intera corte, era solito trascorrere parte delle giornate estive a preparare mattoncini, casette e abiti per i personaggi che avrebbero animato il presepe della Cappella del palazzo reale della capitale, prendendo spunto e idee da coloro che animavano quotidianamente i vicoli e le strade.

Nasceva così il presepe napoletano quale trasposizione plastica del centro della città, con personaggi popolari abbigliati seguendo i costumi del tempo, coi suoi colori, le sue botteghe, le grida delle madri che dai balconi chiamavano i figli che si attardavano a rincasare.

La Napoli del XVIII sec. diventava, così, una nuova Betlemme.

 

Questa nuova arte divenne un simbolo della napoletanità nel mondo tanto da essere celebrata tutt’oggi nei principali musei cittadini, come dimostrano i presepi presenti nella Cappella del Palazzo Reale nel cuore della città e alla Reggia di Caserta o anche il più famoso presepe Cuciniello all’interno del Museo Nazionale di San Martino.

 

Il 28 dicembre 1879, Michele Cuciniello, presentava al pubblico un presepe di sughero, stucco e cartapesta in cui si ricreava la città coi suoi borghi e le sue case, nel quale si muovevano personaggi del popolo napoletano che s’intrecciavano con i protagonisti della Natività.

 

Si può affermare con certezza che il diletto estivo dei Borbone ed il presepe Cuciniello rappresentino il punto di partenza dei maestri presepiali di San Gregorio Armeno[1] che hanno portato fuori dalla città un’opera artigianale tutta napoletana.

 

L’arte presepiale napoletana dei giorni nostri

I maestri presepiali di Via San Gregorio Armeno tutt’oggi mantengono viva la tradizione inaugurata dai Borbone e realizzano presepi in sughero, legno e cartapesta guardando come modello al presepe Cuciniello, abbigliando i pastori con costumi tipicamente settecenteschi, evitando di discostarsi dalla tradizione, sforzandosi di mantenerla viva.

 

Nella realizzazione del presepe, l’iconografia perseguita è sempre uguale: il centro della scena è quello della Natività, le cui statuine vengono inserite nella grotta secondo un criterio ben preciso: al centro è il Bambino alla cui sinistra è inginocchiata la Vergine, rappresentata secondo la tradizione mariana, con una tunica bianca e con indosso un manto azzurro il cui bordo è talvolta dorato; a destra, in piedi, c’è San Giuseppe con indosso una tunica ed un mantello, in genere  viola e marrone e che tiene nella mano destra una piccola lanterna, mentre, con la sinistra regge e si poggia ad un bastone.

 

Dietro la Sacra Famiglia, trovano posto il bue a destra e, a sinistra, l’asino, mentre schiere angeliche scendono sulla grotta.

Davanti o anche dentro la grotta, s’incontrano i primi due personaggi tipicamente campani: gli zampognari che, con zampogna e ciaramella, suonano la ninna nanna al Bambino Gesù.

 

Secondo una leggenda, gli zampognari suonerebbero Tu scendi dalle Stelle, canto natalizio composto da Sant’Alfonso Maria dei Liguori nel dicembre del 1754.

La tradizione vuole anche che la loro origine sia dell’area beneventana.

In Campania, gli zampognari sono considerati il vero simbolo del Natale umile e semplice, il suono della zampogna e della ciaramella si sente lungo le strade in due momenti ben precisi del mese di dicembre: nove giorni prima della Solennità dell’Immacolata Concezione, con la novena all’Immacolata, e nove giorni prima di Natale con la novena di Natale.

La loro iconografia è abbastanza semplice: oltre agli strumenti, sono sempre abbigliati con vesti che ricordano i pastori, presenti sulla scena generalmente nella parte alta, insieme al loro gregge, a ricordare l’Annuncio di Gloria dato proprio ad essi, dagli angeli.

Il centro abitato, con le sue case, le sue botteghe, i suoi abitanti, invece si sviluppa generalmente ai lati.

Le case rimarcano quelle del centro storico partenopeo e dei suoi vicoli: bucati stesi ai balconi di ferro, finestre con inferriate curve, gabbiette per gli uccellini esposte fuori ai piccoli balconi, personaggi della Napoli del ‘700 che si mostrano nel loro quotidiano, lungo le strade della città.

 

La parte di maggior interesse è di certo data dalle rappresentazioni dei mestieri: si tratta di botteghe e attività le cui mercanzie sono esposte all’esterno dei locali e che facilmente si ritrovavano non solo nel centro città, ma anche nei quartieri più popolari ai quali ci si ispirava.

Non manca mai il pescivendolo, sul cui banco non devono mancare le vasche coi capitoni e il baccalà, poiché sono parte integrante del cenone della tradizione napoletana, e il fruttivendolo con le sue primizie, che chiudono il cenone ed il pranzo di Natale, la tradizionale osteria, nella quale non è protagonista solo l’oste, ma in genere i suoi clienti che sono riuniti intorno al tavolo.

 

Tra le botteghe, un ruolo particolare è quello della pizzeria.

Quella della pizza è una tradizione antichissima, che trae origine dalla focaccia lievitata dell’epoca dei romani che a loro volta s’ispirarono, all’uso di acqua, farina e lievito di alcune popolazioni risalenti al 3000 a.C.

In realtà il termine pizza venne introdotto solo tra il 1500 e il 1600, quando veniva venduta per strada dai fornai su delle bancarelle. Inizialmente era una pietanza per il popolo povero, ma a partire dall’ 800 ebbe grande diffusione in tutta Italia divenendo simbolo della cultura napoletana.

L’arte della pizza divenne così un mestiere, il pizzaiolo più famoso della storia fu Raffaele Esposito, che nell’11 giugno del 1889 chiamò la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, Margherita, in onore della regina di casa Savoia e del re Umberto I.

Il mestiere del pizzaiolo divenne un’icona della tradizione partenopea, e come tale si ritrova fra le statuette dei presepi a Napoli.

 

È tradizione mettere dietro al presepe, una scenografia che ricordi paesaggi orientali o più semplicemente un cielo stellato su cui poggiare la cometa. Nel presepe napoletano, questa tradizione è mantenuta, ma è spesso affiancata da vedute della città, come il golfo col Vesuvio o scorci di strade con cupole in lontananza.

 

La presenza delle cupole delle chiese, paradossalmente, non deve sorprendere: si tratta di chiese presenti in città al momento della realizzazione dei presepi, poiché sono solo i momenti della Natività e dell’annuncio ai pastori che vengono traslati da Betlemme a Napoli.

 

Conclusioni

Il presepe napoletano, nato nella seconda metà del Settecento da un diletto estivo della corte borbonica, oggi è una forma d’arte riconosciuta in tutto il mondo, conservata nei musei cittadini, che vuole rappresentare una nuova Betlemme: una Betlemme ricostruita, guardando ai vicoli, alle strade, alle case della Napoli del XVIII sec. e di coloro che la vivevano.

I loro abiti e le loro abitudini, trasposti sul presepio, non stonano con la rappresentazione della Natività, che segue sempre l’iconografia tradizionale e che deriva dal presepe di Greggio del 1223, realizzato da San Francesco d’Assisi, ma la inglobano armonicamente, come se fosse parte naturale di esso, senza temere sbavature.

 

 

 

 

 

Note

[1] Via San Gregorio Armeno è una delle strade del centro storico di Napoli lungo la quale si trovano esclusivamente botteghe di maestri presepiali e nelle quali si realizzano pastori che ricordano quelli del ‘700 napoletano; è nota anche come la via dei presepi e del Mercatini di Natale permanenti.

 

 

 

 

Sitografia

www.artigianatopresepiale.com

www.brundarte.it

www.presepi.com

www.porcellaneartistichenapoli.com

https://www.visitnaples.eu/napoletanita/sapori-di-napoli/la-storia-del-presepe-e-dell-arte-presepiale-da-betlemme-al-presepe-cuciniello , consultato il 01/11/2022;

https://www.campania.info/napoli/cosa-vedere-napoli/san-gregorio-armeno/ , consultato il 01/11/2022;

https://storienapoli.it/2020/12/17/via-san-gregorio-armeno-storia/#:~:text=Anzi%2C%20la%20santa%2C%20in%20modo,durante%20la%20fuga%20dall'Oriente. consultato il 01/11/2022;

http://www.gessetticolorati.it/wordpress/wp-content/uploads/2016/10/scheda_presepe.pdf , consultato il 01/11/2022;

https://artepresepe.it/storia-presepe/ , consultato il 04/11/2022;

http://www.enzococcia.com/mestiere-pizzaiuolo/ , consultato il 05/11/2022;

https://italpizza.it/blog/quali-sono-le-origini-della-pizza , consultato il 05/11/2022;


IL MUSEO NAZIONALE DI CAPODIMONTE E LE OPERE TIZIANESCHE

A cura di Alessandra Apicella

 

Tra la seconda metà del ’500 e la prima metà del ’600 il tramonto delle signorie italiane comportò anche lo smembramento delle sue imponenti e centenarie collezioni artistiche. Un caso emblematico è quello che lega il sovrano inglese Carlo I Stuart e la collezione mantovana: l’intenso desiderio da parte di Carlo I di avere una collezione principesca e gli enormi debiti del duca di Mantova, Vincenzo II, implicò, dal 1627, un imponente trasferimento di capolavori, causando l’indignazione dei cittadini che si offrirono di riacquistare la collezione. Alla fine, le opere si allontanarono dal suolo italiano ma giunsero in Inghilterra tutte annerite, forse a causa del mercurio che si trovava nella stiva della nave. Molti furono i casi di disgregazione di intere collezioni per motivi economici, ma molti furono anche i trasferimenti da un luogo all’altro per motivi dinastici. È questo il caso della collezione Farnese.

Il nucleo costitutivo delle raccolte del Museo di Capodimonte risale al collezionismo raffinato dei Farnese, quando nel 1734, in seguito al trasferimento sul trono napoletano di Carlo III di Borbone, con lui venne trasferita anche tutta la ricca collezione ereditata dalla madre, Elisabetta Farnese, che pose inevitabilmente la necessità di una sede che fosse degna di una simile raccolta. La costruzione della reggia di Capodimonte sulla collina, a partire dal settembre del 1738, coniugò questa necessità con la passione venatoria del sovrano, svolgendo, allo stesso tempo, anche una funzione abitativa. Dopo vari momenti di declino e ripensamenti relativi alla funzione di questo luogo, fu soltanto nel 1957 che si augurò l’ambizioso progetto di una sede museale adeguata ai dipinti e agli oggetti medievali e moderni, trasferiti dalle sale del Museo nazionale, che venne limitato al contesto archeologico. La collezione di Capodimonte è costituita essenzialmente da pitture del Rinascimento emiliano e romano e da opere fiamminghe raccolte essenzialmente a Roma, poi spostate nella metà del Seicento quasi tutte a Parma, dapprima nel palazzo del Giardino e poi in quello della Pilotta, per poi essere definitivamente trasferite a Napoli agli inizi del Settecento. Nella reggia si conserva dunque quello che è il nucleo più corposo e rilevante della collezione pittorica Farnese. Vi sono anche custoditi reperti come porcellane, ceramiche, piatti, utensili da cucina, armature, argenti, arazzi e oreficerie.

 

All’interno della variegata collezione Farnese non si può non ricordare la straordinaria produzione tizianesca, a cui, all’interno del museo, è dedicata la Sala 2. Si tratta soprattutto di ritratti. Tiziano, in breve tempo, divenne infatti uno degli artisti più richiesti e rinomati a livello europeo, nell’ambito di questo genere di commissioni. I suoi personaggi emergono solitamente maestosi, a busto quasi sempre intero, da uno sfondo volutamente scuro ed indistinto. In tal modo i volti risaltano per contrasto e con alcuni particolari, conferendo alle figure un senso di realistica fisicità. In linea con il suo straordinario successo, il Vecellio divenne nel 1533 “el pintor primero” (il pittore ufficiale) dell’imperatore Carlo V, per il quale realizzò numerosi ritratti di straordinaria profondità psicologica.

Nelle sale e nei corridoi della reggia si possono osservare: il ritratto di Pier Luigi Farnese (1546), il ritratto di Filippo II (1551-1554), il ritratto di Carlo V (1533-1535), il ritratto di Paolo III (1543), il ritratto di Paolo III con il camauro (1545-1546), il ritratto del cardinale Alessandro Farnese (1545-1546), il ritratto di giovinetta (1544-1545), la Maddalena penitente (1533), l’Annunciazione (1557), ed infine la Danae (1545) ed il ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (1546), sicuramente le più famose.

 

La tela della Danae fu dipinta ad olio da Tiziano nel 1545 per il cardinale Alessandro Farnese. Nel quadro è rappresentato un soggetto di mitologico ed erotico allo stesso tempo: la figlia del re Argo, Danae, viene posseduta da Giove sotto forma di pioggia dorata, come narrato dall’episodio delle Metamorfosi di Ovidio. La figura femminile, dalla struttura corpulenta, quasi statuaria, sembra ricalcare una perduta opera di Michelangelo, la Leda (tempera su tavola, 1530, perduto), o ancora l’allegoria della Notte, scolpita ancora dal Buonarroti per la Sagrestia Nuova dei Medici a Firenze. Quello che colpisce in modo immediato è la resa del colore, vibrante e luminoso, della donna in primo piano in contrasto con lo sfondo scuro, il cui unico spiraglio di colore è l’apertura sul cielo sulla destra, che risulta essere l’unica variazione di colore del quadro rispetto alla netta predominanza dell’oro e del marrone. Lo stesso Michelangelo commentò l’opera, come riporta Giorgio Vasari nelle sue Vite, rimproverando, però, al pittore veneto una mancanza di attenzione al dettaglio e al contorno. Scrive Vasari: ‹‹molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene e che non avessono que’ pittori miglior modo nello studio.››[1]

 

Sempre legato alla figura del cardinale Alessandro Farnese, questa volta come personaggio del quadro e non come committente, è il ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (olio su tela, 1546). La tipologia è la stessa del ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, dipinto da Raffaello nel 1518. Nella tela tizianesca il verismo risulta essere estremo e le diverse gradazioni di rosso, danno un senso di profondità all’opera, tanto dal punto di vista formale quanto da quello psicologico, creando un’atmosfera quasi cupa. Commissionata dallo stesso papa, l’opera finisce per divenire emblema del fenomeno del nepotismo che, sotto un’apparente devozione, trapela nei gesti e negli sguardi dei più giovani, sintomi della loro ambizione e degli intrighi che li coinvolgono. Per Tiziano le forme, liberate dall’obbligo del disegno, acquistano una vivezza ed un realismo che fino ad allora erano rimasti sconosciuti all’ambiente artistico veneto e infatti la sua sperimentazione pittorica proseguì fino alla fine, attraverso nuove, personalissime tecniche: le pennellate divennero più rapide e febbrili, i toni più scuri e tragici, e la stesura veloce del colore in un disegno appena abbozzato creava delle rappresentazioni palpitanti di vita. Il quadro è databile all’ ultima fase della sua produzione, come si può addirittura notare nella mano destra mancante del papa, dettaglio quasi non percepibile, poiché l’attenzione risulta totalmente rapita dall’atmosfera straordinariamente riflessiva che aleggia intorno ai personaggi.

 

La collezione Farnese, con i suoi capolavori legati agli artisti più vari e prestigiosi, rappresenta un fiore all’occhiello all’interno del Museo di Capodimonte, pienamente enfatizzata e valorizzata dal museo stesso. Gran parte della collezione è oggi esposta a Napoli, in altri due complessi, il Museo archeologico e il Palazzo Reale. Altre opere sono invece esposte in importanti sedi come la reggia di Caserta, la Galleria nazionale di Parma, il British Museum di Londra ed in altri musei sparsi per il mondo.

 

 

 

Note

[1] Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Con ritratti, volume 13, Firenze, Felice Le Monnier, 1857, p. 35.

 

 

 

 

Bibliografia

Salvatore Settis e Tommaso Montanari, Arte. Una storia naturale e civile, volume 3. Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi scuola, 2019

Maria Cecilia Mazzi, In viaggio con le muse. Spazi e modelli del museo, Edifir Edizioni Firenze, 2010

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti. Con ritratti, volume 13, Firenze, Felice Le Monnier, 1857.

 

Sitografia

https://it.wikipedia.org/wiki/Catalogo_dei_dipinti_del_Museo_nazionale_di_Capodimonte


FRANCESCO SOLIMENA

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione

Francesco Solimena è considerato l’interprete di una corrente artistica che trae spunto dal naturalismo e dal barocco, ma è ingentilito da una componente classicista che trova nelle sue opere e nei colori della sua tavolozza il punto più alto della scuola pittorica napoletana negli ultimi decenni del XVII sec. e la prima metà del XVIII, di cui diventa il protagonista indiscusso.

Terziario domenicano, noto alle cronache contemporanee come ‘l’Abate Ciccio’, era solito presentarsi in pubblico – e nei suoi autoritratti - indossando abiti clericali. 

 

Biografia

Francesco Solimena nacque a Canale di Serino, nell’avellinese, il 4 ottobre 1657 da Angelo Solimena e Marta Resignano. Iniziò a formarsi presso la bottega del padre[1] a Nocera dei Pagani, una piccola comunità di cui era originaria la madre e dove viveva la sua famiglia.

In realtà, quella con il padre era una collaborazione sporadica più che una vera e propria formazione all’arte pittorica, poiché in realtà era stato avviato ad importanti studi umanistici e letterari. Questa collaborazione che si esplicò inizialmente nella tela della chiesa del Corpo di Cristo a Nocera Inferiore raffigurante San Gennaro intercede per fermare l’eruzione del Vesuvio.

 

La visita alla sua famiglia compiuta da Papa Benedetto XIII quando era ancora cardinale, lo indirizzò definitivamente all’arte pittorica, poiché lo stesso porporato rimase fortemente colpito dal talento del giovane Francesco ed insistette presso il padre affinché lo avviasse definitivamente alla pittura. All’età di 17 anni, nel 1674, giunse a Napoli, ma continuò la collaborazione col padre in particolare per la realizzazione degli affreschi per la chiesa di San Domenico a Solofra a partire dal 1675 fino al 1680.

 

L’arrivo nella capitale 

A Napoli si formò inizialmente presso l’accademia di pittura di Francesco De Maria[2], ma l’arrivo nella capitale lo portò inevitabilmente a studiare anche le tele del Merisi, presenti al Pio Monte della Misericordia e in San Domenico Maggiore, i caravaggeschi, la fabbrica della Cappella Tesoro di San Gennaro al Duomo, il realismo del cavalier calabrese Mattia Preti ed la nuova corrente barocca che in quegli anni andava prendendo forma attraverso l’opera pittorica di Luca Giordano.

La conoscenza delle opere di artisti di tale portata lo spinse a cercare nuove esperienze cromatiche, portando sulla sua tavolozza sia i colori scuri del tenebrismo pretiano, sia il cromatismo brillante del barocco giordanesco, applicando il tutto all’interno delle opere che realizzò nella capitale a partire dagli anni Ottanta del XVII secolo. 

Le committenze dell’epoca riscontravano nelle sue tele personaggi caratterizzati da gentilezza ed eleganza, nobiltà nella forma ed un raro equilibrio composito.

La critica coeva lo apprezzò sin da subito e colse in lui la somma di tutte le arti pittoriche a partire dall’arrivo del Caravaggio a Napoli; di certo, testimonianza di tale qualità la offriva l’affresco nella controfacciata della chiesa del Gesù Nuovo con l’episodio biblico della Cacciata di Eliodoro dal Tempio che indubbio stupore dovette suscitare tra i contemporanei. Immediatamente prima realizzava Il Martirio dei Giustiniani a Scio, il cui virtuosismo preludeva proprio all’affresco del Gesù Nuovo.

 

A Napoli, il giovane Solimena inevitabilmente si confrontò anche con la pittura di Giovanni Lanfranco. Il Lanfranco era giunto in città nel 1633 ed il suo nome era tra i più blasonati tanto da essere presente ai maggiori cantieri artistici dell’apoca, come quello della Certosa di San Martino, la cupola del Gesù Nuovo e la Cappella del Tesoro al Duomo, così come era stato per Luca Giordano. Considerando che il Lanfranco – nel suo decennio napoletano- aveva rotto la tradizione caravaggesca insieme al Giordano, non si esclude possa aver rappresentato il punto di svolta del Solimena che, abbandonati gli insegnamenti paterni e del De Maria, riuscì ad imprimere una svolta alla sua carriera iniziando ad emergere con uno stile proprio che era elegante e formale, squarciando i colori della tavolozza con un velo dorato che definiva e illuminava le figure.

 

Le commissioni 

L’estro e la velocità di esecuzione – che fu seconda solo al Giordano – gli procurarono un’enorme quantità di committenze non solo private ma anche pubbliche, in tutta la capitale ed oltre.

A Napoli lavorò alla volta della cappella dedicata a Sant’Anna del Gesù Nuovo, andata perduta col violento terremoto che colpì la città nel 1688, ed anche alla tela raffigurante SS. Francesco, Domenico, Ignazio, e Filippo Neri[3] per la chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Fuori dalla capitale si occupò della tela dedicata alla Madonna del Rosario per il convento delle monache domenicane di Sessa Aurunca[4] e della commissione che gli venne dal monastero di Montecassino – nel 1681 – col San Girolamo, San Francesco e sant’Antonio Abate[5].

L’ultimo ventennio del XVII secolo fu tra i più proficui: le commissioni pubbliche aumentavano incessantemente, non c’era chiesa o ordine religioso del regno che non cercasse “l’Abate Ciccio” per offrirgli un incarico.

Seguirono infatti le commissioni delle chiese napoletane dei Santi Apostoli, dove nel 1683 realizzò gli affreschi dedicati alla Maddalena e a Santa Teresa, quelle di San Nicola la Carità e Santa Maria Donnaregina col Miracolo delle Rose[6] del 1684, dove affrescò anche il coro delle monache che era stato iniziato dal Giordano, e il San Francesco davanti al Papa.

 

Solimena compì pochissimi viaggi, di cui uno a Firenze, ma la sua opera si esplicò soprattutto nelle chiese del regno. Nella sua casa era attivo ed operante il suo studio: qui le tele venivano realizzate e poi spedite ai committenti.

Nonostante la fama acquisita, fu continuo il confronto con le opere del Giordano e del Lanfranco[7], un raffronto che gli consentì uno studio quasi permanente delle figure e dei cromatismi, ma che finì per coinvolgerlo in lavori sempre più importanti, come quelli eseguiti nell’ultimo decennio del XVII secolo per la sagrestia del basilica napoletana di San Paolo Maggiore, che affrescò per intero. Fu questo il lavoro della sua consacrazione. In particolare, firmò e datò gli affreschi raffiguranti La caduta di San Paolo (1689) e La caduta di Simon Mago (1690).

 

Intanto a Roma nel 1690 fu fondata l’Accademia dell’Arcadia[8] promossa dalla regina Maria Cristina di Svevia e da un gruppo di letterati radunati intorno a lei. Ne derivò una committenza che ordinava tele ed affreschi le cui tematiche non fossero lontane dalle argomentazioni della neonata Accademia, come l’affresco che Solimena realizzò nella volta di Palazzo Tirone Nifo[9] a Napoli[10], commissionatogli dal commerciante Giuseppe Tirone. A questi anni è anche databile la tela Agar e Ismaele nel deserto confortati dall’Angelo, che rappresenta l’episodio biblico nel momento in cui l’angelo ordina ad Agar di ritornare a casa da Abramo e da Sara, insieme al figlio Ismaele.

 

Nello stesso anno realizzò anche l’Allegoria di un Regno, in cui rimarcò i canoni dell’Accademia.

 

Al 1699 è datato il Riposo durante la fuga in Egitto.

Nel 1700 a Roma fu proclamato l’Anno Santo[11]. Il Solimena volle recarsi nella città papale in occasione del Giubileo. Era per lui la prima volta nella città eterna e fu l’occasione di vedere e apprezzare tutta l’arte classica e tutto quanto era presente in città: a seguito di questo viaggio ed in conseguenza dell’elezione del soglio pontificio di Papa Clemente XI, realizzò la tela Clemente XI che veste monaca una sua nipote[12].

Nell’aprile del 1702 giunse a Napoli Filippo V di Spagna e, contemporaneamente, rientrò da Madrid Luca Giordano, dopo avervi trascorso ben dieci anni. Il rientro nel regno dell’ormai anziano Giordano non scalfì minimamente la fama e le committenze del Solimena che, all’arrivo del Re di Spagna, fu convocato a corte perché realizzasse un suo ritratto. La committenza reale non fu di facile realizzazione poiché il pittore dovette lavorare con intorno l’intera corte, ciononostante il Ritratto di Filippo V fu un successo e ne furono richieste di diverse copie, inoltre l’alta aristocrazia napoletana moltiplicò eccezionalmente le sue committenze all’ormai famosissimo Francesco Solimena, richiedendogli tele con i propri ritratti.

Nel 1705 realizzò l’opera mitologica Diana e Endimione e nel 1709 l’affresco Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei Domenicani per la volta della sagrestia della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.

 

Sviluppò la scena dividendola in tre ordini centralizzati: i personaggi rappresentati furono raffigurati in maniera disordinata, come se stessero vivendo un momento caotico in cui sta trionfando la Fede e si sta consumando la caduta degli eretici.

Nel 1710 fu l’anno della tela dal tema biblico Rebecca al pozzo, con l’episodio tratto dal Libro della Genesi. La tela rimarcava l’episodio in cui il servo di Abramo, Eliezer, cerca una sposa per Isacco e la scelta ricade proprio su Rebecca; il pittore scelse di raffigurare i personaggi con abiti contemporanei e su una scena del quotidiano di inizio ‘700.

 

Il decennio successivo fu caratterizzato da un ritorno al tema sacro, in particolare quello mariano: le Madonne con Bambino si caratterizzarono per le iconografie estremamente delicate, con toni caldi e figure morbide, come la Madonna con Bambino del 1720. Tra il 1722 e il 1723 realizzò la pala San Filippo Neri intercede con la Madonna e il Bambino per la città di Torino e, negli anni 1725-1730, la tela Madonna e Bambino con San Mauro.

 

Continuavano intanto le committenze per i ritratti reali, come dimostra l’opera L’Imperatore Carlo VI e il Conte Althann Gundacher, del 1728.

 

Probabilmente eseguita nel 1729[13] è la Deposizione commissionata al pittore dal principe Eugenio di Savoia.

 

Nel 1730 realizzò la tela Rebecca lascia la casa del padre e nel 1732 lavorò al ritratto del principe Diego Pignatelli d’Aragona.

 

L’anno successivo gli fu commissionata l’Annunciazione per la Chiesa di San Rocco a Venezia, in occasione di un grande restauro che interessò la struttura.

Dal 1734 e fino al 1738, lavorò incessantemente al Palazzo Reale di Napoli, per la corte dei Borbone, partecipando anche alla decorazione dell’appartamento del piano nobile, lavori che furono ordinati per le nozze di Carlo di Borbone[14] con Maria Amelia di Sassonia. Successivamente, negli anni 1739-41, sebbene anziano, si dedicò alla realizzazione della grande tela Enea si presenta a Didone.

 

L’architettura

La naturale inclinazione al disegno e l’inserimento di elementi architettonici all’interno dei suoi dipinti sono, probabilmente, alla base del suo essere anche un architetto. La sua figura in qualità di architetto[15] non è particolarmente nota anche se di sua mano sono i disegni per il Palazzo Solimena a Napoli, la villa in cui visse a Barra e, soprattutto, diede un notevole contributo per la realizzazione delle ville del Miglio d’oro[16], in particolare Villa Campolieto ad Ercolano, realizzata da Mario Gioffredo, suo allievo. Realizzò anche disegni preparatori per altari.

 

La ‘bottega’ di Solimena e i suoi allievi

Francesco Solimena non ebbe una vera e propria bottega poiché il suo fu piuttosto uno studio pittorico ubicato all’interno della sua villa; ciononostante ebbe numerosi allievi. Egli, infatti, credeva molto nell’insegnamento non solo dell’arte pittorica, ma di tutte le arti poiché riteneva che la pittura fosse subordinata sia alla scultura che all’architettura, sebbene rimanesse quasi esclusivamente un pittore. La sua grandezza nell’arte pittorica e il rispetto per le altre forme d’arte, fecero sì che dai suoi insegnamenti traesse forma anche la scuola scultorea napoletana che fiorì proprio in quei decenni.

 

Gli ultimi giorni

La quantità di committenze ricevute fece di lui un uomo estremamente ricco; l’amore per l’arte pittorica lo portò a dipingere fino alla fine dei suoi giorni. Il grande artista si spense a Barra[17] il 5 Aprile 1747 nella sua villa che disegnò e costruì e presso la quale aveva il suo studio[18]. Le sue spoglie oggi sono conservate ancora a Barra, nella chiesa domenicana di Santa Maria della Sanità.

Il 5 Aprile del 1997, nel duecentocinquantesimo anniversario della sua scomparsa, la circoscrizione del quartiere Barra gli ha dedicato una targa commemorativa a nome del comune di Napoli e dell’ordine dei Domenicani.

Conclusioni

Erede della pittura di Luca Giordano, Solimena rappresenta da un lato il punto di arrivo della scuola pittorica napoletana, che aveva visto la luce negli anni in cui era presente in città il Caravaggio, e dall’altro il punto di partenza della sua internazionalità, fatta non più di pittori che lasciano la città alla volta delle corti straniere, ma di tele realizzate in città e spedite all’estero.

Così come per Luca Giordano, anche per Francesco Solimena è tuttora difficile una catalogazione definitiva delle sue opere data la vastità del suo catalogo ricco e che si arricchisce sempre più spesso.

La sua vita e il suo lavoro, infatti, furono un tutt'uno: la sua fu una “formazione continua”, sempre alla ricerca di armonie cromatiche; uno studio dell’arte pittorica organizzato e destinato alla realizzazione di un vero e proprio perfezionismo artistico; le sue opere furono molto apprezzate a Napoli ma anche alle corti presenti sull’intera penisola italiana e all’estero.

La sua committenza fu esigente, raffinata ed elegante, così come raffinati ed eleganti furono i protagonisti delle sue opere e così come fu egli stesso: nei suoi autoritratti si rappresentò come un uomo colto, raffinato ed elegante. Certamente trasportò sulla tela, tramutandole in pittura, queste stesse qualità, accentuate dai colori brillanti del Barocco trionfante.

 

 

 

 

Note

[1] Angelo Solimena si era formato presso la scuola di Luca Giordano.

[2] Franceso De Maria era un seguace tardivo della scuola bolognese dei Carracci e aveva fondato un’accademia in città.

[3] La tela è andata perduta.

[4] Oggi la tela si trova al Gemaldegalerie di Berlino.

[5] Tela oggi perduta.

[6] La tela non è più nella collocazione iniziale poiché è stata estremamente compromessa durante i diversi rifacimenti subiti dal complesso Donnaregina

[7] Quest’ultimo operante spesso all’interno delle stesse chiese in cui il Solimena lavorava.

[8] Le tematiche dell’Accademia richiamavano tematiche della storica regione della Grecia, legate ai pastori e nel genere letterario a mondi e tematiche idilliache.

[9] Oggi all’interno del palazzo vi è una scuola media statale di I° grado.

[10] L’affresco è datato agli anni immediatamente successivi la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia per la scelta iconografica.

[11] L’Anno Santo venne proclamato da Papa Innocenzo XII, ma poiché il Pontefice venne a mancare fu chiuso da Papa Clemente XI nel gennaio del 1701.

[12] Il disegno preparatorio è conservato al British Museum di Londra.

[13] L’opera è stata datata al 1729 grazie allo studio di documenti d’archivio, ma la datazione resta incerta.

[14] Carlo III di Borbone di Spagna nel 1734 aveva conquistato il regno di Napoli e divenne re di Napoli e del regno delle due Sicilie semplicemente col nome di Carlo senza aggiungere numerazione alcuna.

[15] Il lavoro di architetto fu limitato alla realizzazione di disegni, mai alla costruzione.

[16] Il Miglio d’oro è un tratto di strada lungo un miglio, nel quale sono presenti diverse ville realizzate nel corso del ‘700. È detto “d’oro” proprio per la bellezza che le caratterizza. Oggi l’insieme delle ville dell’area è curato dalla Fondazione Ville Vesuviane.

[17] Ai tempi del Solimena, l’area di Barra era poco fuori la città di Napoli. Oggi è un quartiere del capoluogo campano.

[18] La villa è andata perduta durante un bombardamento della Seconda guerra mondiale.

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Vincenzo Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Napoli Ed. Scientifiche Italiane, 1996, pp. 8, 149-156.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-solimena_%28Dizionario-Biografico%29/#:~:text=SOLIMENA%2C%20Francesco consultato il 18/06/2022

https://museosandomenicomaggiore.it/sagrestia-affresco-solimena-museo-san-domenico-maggiore/  consultato il 20/06/2022

https://www.museionline.info/pittori/francesco-solimena consultato il 21/06/2022

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/04/07/villa-campolieto-ad-ercolano/ consultato il 21/06/2022

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/10/13/la-basilica-di-san-paolo-maggiore-a-napoli/ consultato il 22/06/2022

https://www.progettostoriadellarte.it/2020/02/20/la-chiesa-del-gesu-nuovo/ consultato il 22/06/2022

https://www.linkabile.it/un-gioiello-darte-sconosciutopalazzo-tirone-nifo/ consultato il 22/06/2022

https://progettocultura.intesasanpaolo.com/patrimonio-artistico/opere/agar-e-ismaele-nel-deserto-confortati-dallangelo/ consultato il 22/06/2022

http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_35827 consultato il 22/06/2022

https://www.palazzomadamatorino.it/en/node/25210 consultato il 23/06/2022

https://www.jstor.org/action/doBasicSearch?Query=francesco+solimena&so=rel consultato il 23/06/2022

https://news-art.it/news/francesco-solimena-ed-eugenio-di-savoia--precisazioni-sulle.htm consultato il 23/06/2022

 

ORNELLA AMATO

Laureata nel 2006 presso l'università di Napoli "Federico II" con 100/110 in Storia * indirizzo storico - artistico. Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.

Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it


PIAZZA TRENTO E TRIESTE

A cura di Ornella Amato

 

Il “Sipario” sul Palcoscenico di piazza del Plebiscito

Introduzione

Chiunque abbia visitato almeno una volta la città di Napoli, sa bene che il cuore pulsante della città stessa è piazza del Plebiscito che rappresenta la piazza della rinascita della Napoli che trionfa, che vive, che si mostra all'Italia, all'Europa e al mondo intero. Per accedervi bisogna passare per una vera e propria “porta di accesso”: piazza Trieste e Trento.

Piazza Trieste e Trento: le origini 

Piazza Trieste e Trento è una delle piazze più note della città non tanto per la sua storia quanto per il punto in cui si trova: in principio era un semplice slargo adiacente il palazzo del viceré, oggi è il luogo in cui s’incrociano le vie dello shopping e dei palazzi nobiliari della città: via Roma, via Chiaia e via San Carlo.

Per la sua collocazione, la piazza è considerata una sorta di “salotto all’aperto e di accesso al Plebiscito”, nel quale è piacevole prendere un caffè presso lo storico Gran Caffè Gambrinus che, soprattutto tra ‘800 e ‘900, nelle sue sale in stile Liberty, coi suoi stucchi tutt’oggi esistenti, ha visto accomodarsi ai suoi tavolini personaggi di caratura internazionale come Oscar Wilde e l'imperatrice d'Austria Elisabetta di Baviera, ma anche grandi nomi napoletani come Matilde Serao, Totò, i De Filippo.

 

Grazie alla sua struttura circolare, ma estremamente irregolare e che si apre a ridosso delle tre vie più note della città, consente uno sguardo a tutto tondo dell’area limitrofe: dalle facciate del palazzo della Prefettura a quelle della chiesa di San Francesco di Paola e di palazzo Salerno (distaccamento del Ministero della Difesa) e l’imponente facciata di palazzo Reale, strutture che delimitano l’area di piazza del plebiscito, la cui panoramica, da piazza Trieste e Trento, è pressoché completa.

 

Nel momento in cui lo sguardo coglie il limite esterno di piazza del Plebiscito attraverso l’ultimo angolo visibile della facciata del palazzo reale, l’occhio si concentra sulla fontana detta “del carciofo” o, come in maniera dispregiativa la chiamano i napoletani “il carciofo di Achille Lauro”, fontana che l'ex sindaco della città volle donare ai suoi concittadini. 

 

Sono presenti, in senso antiorario: una parte dei giardini di palazzo reale con l’accesso alla biblioteca nazionale ad esso adiacente, l' accesso laterale al Real Teatro di San Carlo,  via San Carlo che separa il teatro dalla “dirimpettaia” Galleria Umberto, la chiesa di San Ferdinando, nota come la “Chiesa degli Artisti”, che tutt'oggi  accoglie esponenti dell’antica nobiltà partenopea, ed infine via Roma, meglio nota come via Toledo, dal nome della cittadina spagnola poiché da essa si raggiungono i  quartieri spagnoli, che erano i vicoli abitati da esponenti delle milizie spagnole di stanza a Napoli al servizio del viceré. 

 

In quel periodo la piazza, denominato largo Santo Spirito, divenne luogo di stazionamento per le carrozze. La sua capienza era sufficiente da tenere diverse carrozze contemporaneamente e, sebbene oggi si presenti in maniera completamente diversa da come in principio doveva essere, non è difficile immaginare folle di cocchieri attendere che i nobili presso i quali sono a servizio escano dal palazzo reale.

 

Da piazza San Ferdinando a piazza Trieste e Trento: il perché del nuovo nome

Successivamente la piazza ottenne il nome di piazza San Ferdinando, volendo omaggiare la chiesa barocca dedicata a San Ferdinando che si affaccia su di essa; ancora oggi sono moltissimi i napoletani che continuano a chiamarla così, quasi “rifiutando d’istinto” la denominazione di piazza Trieste e Trento.

 

La nuova denominazione risale al 1919 e fu voluta dai Savoia e attuata a mezzo Regio Decreto, a celebrazione dell’annessione delle due città all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. E’ considerata anche “la piazza dei palazzi del potere” poiché su di essa si affaccia, al civico 48, palazzo Zapata, che ospitò il cardinale spagnolo Zapata, che nel 1620 era stato viceré della città, nonché alto esponente del Tribunale dell’Inquisizione, ma ben presto fu rimosso dal suo incarico direttamente dai sovrani di Spagna, che temevano una rivolta popolare per il pessimo rapporto che instaurò con la città.

 

Oggi il palazzo ospita la Fondazione Circolo Artistico e Politecnico ed il Museo “Giuseppe Caravita, Principe di Sirignano”, con in mostra le opere di artisti napoletani dei secoli XIX e XX. Al civico 14, invece, così come ricorda anche una lapide, vi abitò Gaetano Donizetti e qui ebbe sede la redazione de Il giornale, periodico a cui collaborò anche Benedetto Croce.

La fama della piazza, sebbene possa sembrare il contrario, in realtà non è stata messa in ombra dall’adiacente e più nota piazza del Plebiscito, piuttosto “Trieste e Trento”, come la chiamano i napoletani, è riuscita ad accentrare in sé non solo la multietnicità culturale partenopea, ma grazie alla “posizione strategica” nella quale si trova è divenuta crocevia e luogo di incontro della Napoli dello shopping, della cultura, dell’architettura storico – artistica e della storia della città.

Non c’è e non ci può essere confronto con piazza del Plebiscito che – complici anche le maggiori dimensioni – è divenuta palcoscenico di un vero e proprio teatro all’aperto, un palco su cui sono saliti - e di certo continueranno a salire - grandi nomi. Ma per salire su questo palco, o anche più semplicemente per attraversare la piazza simbolo di Napoli, l’urbanistica ha voluto che si passasse attraverso “Trieste e Trento” che, come un ricco sipario, si apre e lascia accedere su di essa.

Piazza Trieste e Trento è una di quelle piazze della città dalla quale passano tutti: il napoletano ed il turista, lo storico e lo studente, il giovane per lo shopping all'ultima moda, l'anziano che per abitudine si reca al Gran Caffè Gambrinus e legge il quotidiano accomodato ai tavolini mentre sorseggia un buon caffè e, ogni tanto, alza lo sguardo e si lascia rapire da tutto quanto di incommensurabile è intorno a lui e intorno alla piazza.

Sitografia

grancaffegambrinus.com

cosedinapoli.it


16 LUGLIO LA ‘BRUNA’ E IL CARMINE DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione

Piazza Mercato si trova di fronte al porto commerciale della città di Napoli, in un’area urbana fuori dai circuiti turistici tradizionali, sebbene si tratti di una piazza nella quale si sono svolti molti dei momenti più significativi della storia partenopea.

 

Cenni Storici 

L’area era inizialmente un semplice slargo, chiamato Campo del Morcino e si trovava fuori dalle mura cittadine.

La situazione cambiò con l’arrivo degli angioini: Carlo d’Angiò ne ordinò che, in quello slargo, venisse eseguita la condanna a morte di Corradino di Svevia.[1]

Successivamente fu inglobata nell’area urbanistica e divenne una zona commerciale prendendo il nome di Foro Magno spostandovi, al suo interno, tutto il commercio che prima si svolgeva nell’area in cui si trovava l’agorà di età classica.[2]

Intorno al nuovo foro, fu costruito il primo borgo degli orefici,[3] nelle cui botteghe lavoravano gli orafi francesi giunti in città per volontà degli stessi regnanti.

 Nei secoli successivi, pur continuando ad essere il centro della vita commerciale della città, fu utilizzata per ospitare soprattutto i patiboli delle esecuzioni delle condanne a morte di diversi esponenti della storia partenopea: nel 1647 quella di Masaniello[4] e, negli anni della Rivoluzione napoletana del 1799, qui trovarono la morte per impiccagione i giovani repubblicani, tra loro Luisa Sanfelice ed Eleonora Pimentel Fonseca.

Oggi, Piazza Mercato continua ad ospitare una ricca area commerciale ed è nota anche come Piazza del Carmine poiché su di essa si innalza la Basilica dedicata alla Madonna del Carmine o del Carmelo, detta la Bruna, icona estremamente venerata dai napoletani.

 

La Basilica dedicata alla Madonna del Carmine, detta la Bruna

 

La chiesa si presenta a croce latina, navata unica e dodici cappelle laterali, sei per ciascun lato.

Conta, inoltre, due pregiatissimi organi, di cui uno posto sulla controfacciata.

 

Il soffitto è cassettonato e caratterizzato al centro dalla presenza di una statua lignea della Vergine.

È una basilica barocca, sebbene abbia origini gotiche ed è considerata la chiesa degli Artisti, poiché ha visto la celebrazione di esequie di molte personalità artistiche napoletane come Antonio de Curtis, in arte Totò.

Una datazione precisa sull’edificazione della Chiesa non esiste, è certo che fu iniziata dopo il 1283 ed i lavori proseguirono per diversi decenni del XIV sec., fino ad arrivare poi all’età barocca, durante la quale è stata rivestita dei marmi policromi tutt’oggi esistenti.

La Sagrestia è espressione dell’arte settecentesca napoletana sia negli arredi che negli affreschi, è stata voluta dai Borbone ed è dedicata ai Santi Carlo e Amalia.

 

Il barocco trionfante lo si riscontra i in particolare sull’altare, alle cui spalle è collocato il quadro con l’icona della Madonna del Carmine, detta la Bruna o del Carmelo.

Il quadro della ‘Mamma r’o’ Carmene’[5] ovvero: La Vergine del Carmine, detta La Bruna 

 

Il quadro ligneo rettangolare raffigurante la Vergine del Carmine o del Carmelo, è posto alle spalle dell’altare maggiore dell’omonima basilica e rappresenta una Madonna con Bambino. 

La Vergine è rappresentata su uno sfondo dorato che ricorda i mosaici bizantini ed   indossa un manto blu acquamarina il cui colore vuol simboleggiarne la sua Maternità Divina, su di esso è dipinta una stella pendula che ne rappresenta la Verginità perpetua, ha bordi dorati e, sulla fronte, si vede il bordo rosso della tunica che indossa sotto il manto e, della quale si vedono anche i polsini, il cui colore è il simbolo dell’amore eterno.

Il Bambino in braccio alla madre è retto da entrambe le mani, ma la sinistra si presenta più grande dell’altra, è quasi aggrappato al bordo del manto materno e, con la mano destra le tiene teneramente il volto.

La Vergine, invece, si presenta dai tratti somatici allungati e con la pelle dal colorito bruno, da cui deriva l’appellativo di Madonna Bruna.

Il Suo viso di madre, si accosta e tocca teneramente quello del Bambino, poggiando su di Lui il suo sguardo amorevole.

Il Bambino, invece, non ha un viso fanciullesco, anzi, ha un’espressione quasi austera, con lo sguardo rivolto verso l’esterno della tavola pur rimanendo, coi gesti, legato alla madre.

L’origine della tavola è stata per lungo tempo legato ad una leggenda nella quale si raccontava fosse stata realizzata dell’Evangelista Luca.

Studi diversi, hanno smentito la leggenda e l’hanno attribuita ad un anonimo toscano duecentesco.

Diversi sono stati i restauri di cui è stata oggetto, il più importante è stato ad opera del pittore napoletano Francesco Solimena.

Dalla Palestina a Napoli: dalla fede al folcklore popolare

La storia racconta che l’effige giunse a Napoli portata dai Carmelitani direttamente dal Monte Carmelo in Palestina che, dopo la prima crociata, scapparono per il timore di essere catturati dai musulmani e dopo che fu eretta la nuova chiesa carmelitana in città, il culto si diffuse velocemente tra la popolazione.

Alla sacra effige della Bruna furono attribuiti diversi miracoli, in particolare si faceva riferimento a storie di conversione, ma non mancarono calamità e terremoti per la cui cessazione si chiedeva la Sua intercessione, catastrofi che – la storia di Napoli racconta - cessavano miracolosamente, a seguito delle preghiere o dell’esposizione della tavola.

 

L’incendio al Campanile del 15 Luglio

 

Il campanile risale al 1631, è alto 75m ed è considerato il più alto tra quelli presenti in città.

Alla Vergine del Carmelo è anche dedicato l’incendio al Campanile, uno spettacolo pirotecnico che si tiene ogni anno la sera del 15 luglio, vigilia della Solennità a Lei dedicata.

La storia racconta che durante gli anni di Masaniello si era soliti costruire un carro a cui dare fuoco per ricordare la vittoria dei cristiani durante la battaglia di Goletta contro gli infedeli.

Masaniello era uno dei capi addetti all’accensione del fuoco al fortino che innestava lo scoppio; secondo alcuni storici, era per lui l’occasione per dar vita alle sue rivolte.

Col passar degli anni, ed in particolare con l’avvento dei Barbone, il carro fu sostituito dal campanile: lungo i suoi 75m d’altezza, vengono ancora oggi posizionati fuochi pirotecnici che si accendono attraverso uno stoppino che accende il primo razzo che, a sua volta, innesca la miccia di tutti gli altri dando vita all’incendio ed illuminando a giorno la piazza. 

Alla fine dello spettacolo è tradizione che si aprano le porte della Basilica affinché i fedeli presenti possano entrare e ringraziare la Vergine.

 

Le celebrazioni del 16 Luglio

 Il 16 luglio – nel Giorno Solenne a Lei dedicato – stendardi e gonfaloni mariani vengono esposti e portati in processione lungo le vie cittadine, soprattutto quelle dei quartieri popolari.

Il culto mariano della Vergine del Carmine si intreccia col culto di Maria Santissima dell’Arco,[6] collegandosi quotidianamente con quello del popolo napoletano che invoca la Madre di Dio chiamandola semplicemente Mamm r’ ‘o Carmene. [7]

Mamm r’ ‘o Carmene è infatti una delle espressioni più utilizzate nel linguaggio partenopeo quando c’è un momento di timore, di difficoltà, quando Le si vuole chiedere aiuto; rivolgersi alla ‘Mamma del Carmine’ è come rivolgersi alla propria madre; è un vero e proprio intercalare del popolo napoletano.

Conclusioni

La devozione alla Madonna del Carmine, a Napoli, è fortemente sentita.

Le celebrazioni in Suo onore, sono seconde solo a quelle del Santo Patrono Gennaro del 19 settembre.

Carmine, Carmela, Bruno Carmine od anche Carmine Bruno, sono i nomi che – dopo Gennaro – più si riscontrano tra i napoletani.

Sono espressione di una devozione popolare che ha origini lontane, che trova nel passato remoto le sue radici, nel presente i motivi per portarle avanti, nel futuro la speranza per continuarle.

 

 

 

 

Note

[1] La storia racconta che la madre, Elisabetta di Wittelsbach tentò invano di salvare il figlio, attraverso il pagamento di un riscatto, ma fu inutile poiché al suo arrivo la condanna a morte era stata già eseguita. Era il 28 ottobre 1268. Per dargli degna sepoltura, la regina chiese ed ottenne che fosse sepolto nella Chiesa dei Carmelitani antistante la piazza. Tutt’oggi la Chiesa ne custodisce i resti. 

[2] Area in cui sorge la Basilica di San Lorenzo Maggiore voluta proprio dal casato angioino.

[3] Tutt’oggi esistente nella sua collocazione originaria.

[4] Secondo le cronache del tempo, il capo popolo Tommaso Aniello detto Masaniello, viveva alle spalle della Piazza; oggi – in quel luogo – c’è una targa in sua memoria.

[5] Mamma del Carmelo.

[6] Entrambi i culti – sebbene riferiti alla Vergine Maria e riconosciuti dalla Chiesa di Roma, sono tradizionalmente associati a culti popolari.

[7] ‘Mamma del Carmine ‘ovvero rivolgersi alla Vergine del Carmine per chiederLe aiuto come lo si chiede ad una mamma.

 

 

 

Sitografia

www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/18972 consultato in data 29/05/2022

www.santuariocarminemaggiore.it/icona-madonna-bruna-2/ consultato in data 29/05/2022

www.touringclub.it/evento/napoli-da-piazza-mercato-alla-chiesa-del-carmine-0 consultato in data 01/06/2022


LUCA GIORDANO

A cura di Ornella Amato

Luca Giordano: il passaggio dal caravaggismo al barocco nella città di Napoli attraverso la sua formazione e le sue opere

 

Introduzione

Luca Giordano, figlio di Antonio e Isabella Imparato, nacque a Napoli il 18 ottobre 1634. Il padre aveva una piccola bottega di arte pittorica e, oltre ad essere un pittore, era anche un mercante di opere d’arte. Fu probabilmente con lui che Luca imparò fin da giovane l’arte pittorica. Infatti, Bernardo De Dominici racconta che il padre Antonio lasciò incompleti due putti per gli affreschi che gli erano stati commissionati nella Chiesa di Santa Maria La Nova e che il piccolo Luca, a soli 8 anni, li completò in maniera egregia.

Luca Giordano[1] si formò inizialmente all’ombra del Vesuvio, in una città che aveva visto l’opera rivoluzionaria del Caravaggio, ma che stava vivendo un momento storico estremamente particolare. La città stava infatti attraversando gli anni del vicereame Spagnolo e della rivoluzione di Masaniello e nel panorama artistico era giunto – già nell’estate del 1616 - il pittore Jusepe de Ribera, noto poi alla critica come Lo Spagnoletto, uno dei massimi esponenti della pittura napoletana e del caravaggismo stesso. La pittura del Ribera e gli eventi che coinvolgeranno Napoli saranno la base per la formazione artistica del Giordano stesso.

 

Gli eventi storici

La rivolta napoletana antispagnola nel biennio 1647-48 e la drammatica epidemia di peste che colpì la città nel 1656 divennero materiale per gli artisti che nelle opere a loro commissionate - soprattutto ex voto per la città liberata dal morbo – intrapresero una “ripulitura” della loro tavolozza dai toni cupi tipici del crudo naturalismo del Caravaggio per sostituirli coi cromatismi della corrente barocca.

Ne consegue che la peste del 1656 finì col diventare un momento di divisione tra le due correnti artistiche: da un lato il caravaggismo, che inizia quasi ad essere accantonato, e dall’altro il barocco, che inizia ad affermarsi sempre di più.

 

Le prime opere documentate

Le prime opere documentate del Giordano risalgono all’anno 1653 e riprendono lo stile di Caravaggio prima e del Ribera poi, come ad esempio La morte di Seneca o La flagellazione. Per quest’ultima, i richiami allo stesso soggetto caravaggesco sono estremamente evidenti: il Cristo alla colonna, i flagellanti in abiti contemporanei e il fascio di rami usato per flagello sono tutti dettagli che rimandano proprio alla Flagellazione commissionata al Merisi dalla famiglia De Franchis.

 

Negli anni immediatamente successivi lavorò alla decorazione delle lunette della cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo.

 

Una delle opera che probabilmente influenzò lo stile del Giordano fu la Porta San Gennaro, una delle porte della città di Napoli, affrescata tra il 1657 ed il 1659 da Mattia Preti e rappresentante il santo patrono che intercede presso la Vergine per la fine del morbo del 1656. In realtà non sappiamo quanto il modo di lavorare del Preti dovette colpirlo, ma di certo la “velocità di esecuzione” del Preti diventerà la sua caratteristica tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Luca fa presto”.

 

La formazione oltre Napoli

Fuori da Napoli, il giovane Giordano si spostò prima a Roma e poi a Venezia, ma successivamente lavorò anche a Firenze e in Spagna, dove tutt'oggi si trovano alcune delle sue opere.

Le esperienze romane si riveleranno fondamentali per completare la sua formazione: l’incontro con Pietro da Cortona lo portò infatti ad adottarne le morbidezze cromatiche e formali. A Roma ebbe anche modo di studiare da vicino gli affreschi di Raffaello in Vaticano e le opere di Annibale Carracci e di consolidare la sua fama di copista e disegnatore.

Il soggiorno nella Serenissima durò circa sei mesi, interrotto solamente da un momentaneo ritorno a Napoli negli anni ’70. Lo studio dell’arte veneta, probabilmente in concomitanza con la sua naturale predisposizione al disegno e la conoscenza delle opere di Tiziano, contribuì poi alla creazione di quello che sarà poi il suo stile definitivo.

 

Le commissioni pubbliche e le opere della maturità

Grazie alla sua abilità pittorica, alle cromie utilizzate, alla fama crescente e alla velocità di esecuzione, dagli anni ‘60 agli ’80 del XVII secolo le commissioni si moltiplicano: rare sono le chiese napoletane e della provincia all’interno delle quali non sia presente un suo affresco o una sua tela.

Durante la sua carriera Giordano predilesse il tema sacro, che interpreta con disinvoltura ed è proprio in queste tematiche che risalta la sua evoluzione pittorica: ne sono dimostrazione i Santi protettori di Napoli adorano il crocifisso e soprattutto  San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste (1660-61) al Museo di Capodimonte, dove è conservata anche  la coeva Sacra Famiglia che ha la visione dei simboli della Passione (1660).

 

Nella tela di Capodimonte è da notare l’influenza del Preti, in particolare nei corpi dei morti di peste rappresentati nella parte inferiore della composizione, dove è rappresentata una donna col seno scoperto sulla quale un bambino cerca di avvicinarsi, probabilmente per succhiare il latte dal seno materno. Una scena estremamente simile si riscontra nel bozzetto del già citato affresco pretiano.

 

Le committenze private

Le committenze giordanesche non annoverano solo opere pubbliche degli ordini religiosi del ‘600 napoletano, ma anche di privati.

La volontà di ascesa sociale porta le famiglie di magistrati e dell’alta borghesia - come già era successo con i De Franchis e il Merisi ai tempi della realizzazione della Flagellazione – a rivolgersi ai pittori “più in voga del momento”.

Una serie di tele – tutt’oggi in collezioni private – dai soggetti non solo sacri, ma anche profani, concorsero ad elevare ulteriormente la fama del Giordano; tra queste si ricordano: il Trionfo di Bacco, il Convito degli Dei, Diana e Atteone[2].

Il decennio 1670-1680 lo vede impegnato in Toscana: ospitato a Firenze da Andrea del Rosso, realizzò gli affreschi della cupola della Cappella Corsini e di Palazzo Medici Riccardi. Dopo queste commissioni crebbe la fama internazionale del pittore, che soggiornò per un decennio in Spagna, con incarichi sia a Madrid che a Toledo.

 

Nel 1702, al suo rientro definitivo a Napoli, non mancarono lavori a tema profano, ma le commesse furono soprattutto di carattere religioso: tra le tante si ricorda il ciclo di affreschi con Le storie di Giuditta realizzato nel 1704 per la cappella del Tesoro della Certosa di San Martino.

 

L'artista morì a Napoli il 12 Gennaio 1705 e venne sepolto nella chiesa di Santa Brigida, di cui nel 1678 ne aveva affrescato la cupola.

 

Conclusioni

Il lavoro “veloce e perfetto” del Giordano fu molto apprezzato dai suoi contemporanei. La sua personalità pacata, antitesi di quella del Caravaggio, e la fama di una “persona per bene”, fecero di lui l’artista a cui rivolgersi senza remore.

La sua briosa tavolozza, ripulita del buio del naturalismo crudo del Caravaggio, lo rende il pittore per eccellenza dell’età barocca a Napoli. I toni splendenti del barocco, infatti, si sposano perfettamente con le forme che l’artista dona con grazia ai suoi personaggi, a qualunque tematica essi appartengano.

Dall’8 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021, Napoli gli ha dedicato la mostra “Luca Giordano – dalla Natura alla Pittura”, presentando un percorso espositivo nel quale i capolavori dell’esponente della pittura barocca napoletana sono stati riproposti alla città che gli ha dato i natali, sebbene non si possa parlare di una completezza: la capacità di disegno e la velocità di esecuzione hanno di certo contribuito  alla smisurata quantità di commissioni ricevute, da cui deriva l’impossibilità della realizzazione di un catalogo che sia unico e definitivo.

 

 

 

Note

[1] La prima biografia di Luca Giordano è stata scritta da Bernardo de Dominici, nel testo Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani stampato per la prima volta tra il 1742 e il 1745.

[2] Cit.: V. Pacelli La Pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Cap.III pag. 149. Ed. Scientifiche Italiane

 

 

Bibliografia

Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, cap. 3, Il passaggio dal naturalismo al Barocco: protagonisti ed eventi. Luca Giordano: l’affermazione barocca a Napoli, pp. 141-149, Ed. Scientifiche italiane 1996

 

 

Sitografia

https://www.academia.edu/38081931/Luca_Giordano_a_scartamento_ridotto_Laffresco_e_i_rami_per_la_Sagrestia_Nuova_1668_in_San_Gennaro_patrono_delle_arti_Conversazioni_in_cappella_2018_Dedicato_a_Giuseppe_Galasso_a_cura_di_Stefano_Causa_Napoli_2018?email_work_card=view-paper

https://www.ecodellesirenetour.it/luca-giordano-pittore-uomo-e-leggenda/

https://www.museionline.info/pittori/luca-giordano


UN’UMANISTA D’ECCEZIONE: GIOVANNI PONTANO E LA CAPPELLA PONTANO

A cura di Alessandra Apicella

 

Giovanni Pontano

Nel contesto napoletano la parabola dell’Umanesimo fu strettamente legata alla figura di un sovrano, Alfonso I, che, conquistato il potere nel 1442, inaugurò la stagione aragonese, destinata a durare fino alla fine del secolo. Conscio dell’importanza e del valore politico che il mecenatismo poteva avere in un regno come quello napoletano, intorno a lui riunì un’intera generazione di umanisti e letterati di grande spessore. Figure come Antonio da Pisa, Andrea dell’Aquila, Bartolomeo Facio e Lorenzo Valla furono solo alcune delle autorevoli personalità che gravitarono intorno alla figura del sovrano aragonese e che coniarono l’immagine di una corte all’avanguardia e dinamica. Tra questi, non si può non menzionare un personaggio di eccezione che si impose immediatamente in questo panorama: Giovanni Pontano.

 

Di origine umbra, dopo un’iniziale formazione nella terra natìa, Pontano si trasferì nella più grande città di Napoli, alla corte di Alfonso I, dove si guadagnò immediatamente la protezione e la simpatia del più anziano letterato di corte, il Panormita. Sempre più legato alla dinastia aragonese, Pontano, già assunto nella Cancelleria nel 1452, instaurò un rapporto sempre più solido negli anni seguenti, durante il regno di Ferdinando I d’Aragona, detto Ferrante.

 

Letterato prolifico in ogni campo, godeva di un’erudizione greca e latina senza paragoni, che gli permise di misurarsi con opere che andavano dalla lirica latina di materia amorosa, sulla scia catulliana, alla produzione di dialoghi più impegnati dal punto di vista tematico, dalla caratura più ufficiale e più connessa alle sue mansioni a corte. Guadagnata una posizione di rilievo all’interno dell’Accademia del Panormita, di cui avrebbe preso il comando alla morte del letterato, divenne precettore per Alfonso duca di Calabria e iniziò ad occupare un ruolo di primo piano nell’ambito della politica di Ferrante. All’acme della sua carriera umanistica e politica, dopo aver ricevuto l’incoronazione come poeta laureato a Roma nel 1486 e la nomina a primo segretario reale l’anno successivo, la discesa del re francese Carlo VIII e l’inizio delle guerre d’Italia comportò un tracollo generale, che influenzò anche la sua produzione letteraria, più incline adesso ad una visione sconsolata delle vicende umane.

 

La Cappella Pontano

Legata a questo periodo sia da un punto di vista cronologico che simbolico è la committenza del mausoleo di famiglia, la cosiddetta Cappella Pontano.

 

Edificata durante gli anni Novanta del Quattrocento, la basilica sorge addossata alla chiesa di Santa Maria Maggiore, e dalla sua posizione è possibile identificare un carattere peculiare. La cappella è infatti posizionata come un’antica tomba romana, a lato di una strada: via dei Tribunali, una delle principali via della città. L’edificio nasceva come cappella gentilizia, in quanto di famiglia non nobile, ed era affiancata da quello che era il suo palazzo, attualmente non più esistente e sostituito intorno alla prima metà del XX secolo dal palazzo dell’Istituto Tecnico Commerciale Armando Diaz. La chiesa, adibita a mausoleo, è dedicata alla Vergine e a San Giovanni Evangelista e non presenta una paternità certa dal punto di vista architettonico. Le ipotesi oscillano, e i nomi che si fanno sono quelli di due personalità eminenti, fra’ Giocondo o Francesco di Giorgio Martini. L’edificio presenta alcune somiglianze, nella struttura, con un sepolcro in laterizio a forma di tempio, il Tempio romano del Dio Redicolo, databile intorno al II secolo d.C. e che, secondo la maggior parte degli studiosi, dedicato alla nobile donna romana, Annia Regilla.

 

Per quanto riguarda il progetto risulta accreditata l’ipotesi per cui Pontano lo avrebbe ottenuto da qualche architetto fiorentino, probabilmente grazie ai suoi contatti nel mondo erudito, da lui considerato e fatto proprio e poi messo in opera grazie a maestranze locali.

La cappella si presenta come un semplice blocco rettangolare di piperno, con due porte di accesso. Una, su via dei Tribunali, presenta anche delle decorazioni floreali, e quella di fianco alla chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. La facciata che si mostra su via del Sole, invece, è interamente di piperno. Le pareti sono decorate con paraste composite, poggianti su un alto basamento, ed i capitelli, ornati in modo molto raffinato, reggono una trabeazione continua che interessa tutto l’edificio. La parte conclusiva, in altezza, prevede un ampio e alto attico, volto a richiamare l’impianto architettonico trionfale. L’edificio prevede due ingressi e sui lati sono poste alcune inscrizioni che accompagnano la presenza di finestre. Queste iscrizioni, le tabulae marmoree, riportano, in latino, con un’elegante scrittura all’antica, alcuni motti di tipo civico, scritti dallo stesso umanista, e aventi come modello la produzione e la filosofia liviana.

 

L’ingresso principale, spoglio ma estremamente elegante nella sua semplicità marmorea, prevede nella parte alta un’ulteriore inscrizione, con i nomi dei santi, del committente e dell’anno di costruzione, sormontati dagli stemmi di famiglia dei Pontano e dei Sassone, famiglia della moglie, venuta a mancare nel marzo del 1490 e a cui è intimamente connesso il progetto di questo edificio.

 

Passando all’interno, in linea con l’esterno, è presente un unico grande vano rettangolare con copertura a botte. Anche qui sulle pareti sono poste delle epigrafi, in questo caso sia in greco che in latino, tanto di mano propria dell’umanista quanto citazioni di carattere funerario. Per quanto riguarda quelle ideate appositamente dal poeta, alcune di queste epigrafi furono pensate per familiari che sarebbero stati sepolti lì in futuro, tra cui lo stesso Pontano. Questi pensieri furono poi anche raccolti in un libro successivamente pubblicato, il De Tumolis.

In una generale tendenza armonica tra architettura e colori, il pavimento maiolicato crea un forte contrasto con le pareti bianche. Infatti, risulta costituito da formelle esagonali con motivi decorativi che vanno dai ritratti, agli stemmi, da altre iscrizioni a figure allegoriche, di cui è possibile apprezzare l’evidente influsso orientaleggiante.

 

Altra nota di colore si attesta nell’altare marmoreo contenente la reliquia pagana del braccio di Tito Livio e sormontato da un affresco della Vergine col Bambino e dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, attribuito alla mano di Francesco Cicino.

 

Abbandonata per molto tempo ed utilizzata nei modi più disparati, come abitazione o ancora come punto di vendita ortofrutticolo, la cappella solo nel XVIII venne sottoposta ad un primo intervento di restauro, per volere del re Carlo di Borbone, che permise il mantenimento delle forme dell’edificio originale e la possibilità di riportarlo alla sua funzione originaria. Utilizzata anche come deposito di bare durante la Seconda Guerra Mondiale, dal 1992 la cappella è entrata in custodia del Dipartimento Cultura del Comune di Napoli che ne ha permesso l’apertura e la fruibilità al pubblico.

 

L’opera, priva di paralleli analoghi sia in Italia centrale che settentrionale, si presenta come decisamente insolita, fondendo insieme elementi antichi e pratiche cristiane, nell’ottica di un rapporto quasi osmotico tra queste realtà. In più, il committente risulta essere un’umanista di prim’ordine che partecipa anche attivamente al progetto e alla sua decorazione lasciando una propria impronta e rendendo l’edificio, difatti, unico nel suo genere.

 

 

 

Bibliografia

Giancarlo Alfano, Paola Italia, Emilio Russo, Franco Tomasi, Letteratura Italiana. Dalle origini a metà Cinquecento, Mondadori Università, Milano 2018

Anthony Blunt, Architettura barocca e rococò a Napoli, edizione italiana a cura di Fulvio Lenzo, Mondadori, 2006

 

Sitografia

http://www.ilportaledelsud.org/cappella_pontano.htm

http://www.turismoanapoli.it/32-cappella-pontano-napoli.html

 

 

 


ORIGINE E ICONOGRAFIA DELLA TOMBOLA NAPOLETANA

A cura di Ornella Amato

 

 

 

Chest’ è ‘a man …

… E chist è ‘o cul’ ro’ panar’! [1]

  

L'Origine del gioco del Lotto tra Genova e Napoli

Il Gioco del Lotto nasce a Genova nel 1539 e arriva a Napoli circa 150 anni dopo. Qui non solo trova terreno fertile, ma affianca e fa sua la “Smorfia”, ovvero il Libro dell’interpretazione dei Sogni, che associa ad ognuno dei 90 numeri che la compongono una figura o un fatto e che consente l’interpretazione dei sogni, tramutandoli in numeri da giocare per tentare di vincere al Lotto.

 

A Napoli la tradizione della Smorfia e dell’interpretazione dei sogni è da sempre fortissima, tanto da aver ispirato alcune delle commedie di Eduardo De Filippo, come “Non ti pago”, dove l’esatta interpretazione di un sogno e la sua trascrizione in numeri porta ad una grossa vincita al lotto ed il diritto di rivendicare il sogno, con la relativa vincita in denaro, diventano materia di scontro su cui si muove la commedia. O anche “Natale in Casa Cupiello”, dove il fratello del protagonista è proprio impiegato presso uno dei Banchi del Lotto della città e rimarca il fatto che il “bancolotto” va bene, perché “la povera gente nei giorni di festa gioca …”, dove i giorni di festa a cui si fa riferimento sono le festività natalizie, periodo per eccellenza dedicato nelle case napoletane al gioco del lotto e della tombola.

 

Proprio alla “povera gente che gioca nei giorni di festa” sono legate le origini del gioco della Tombola, che nacque a Napoli da una costola del gioco del Lotto e che rischiò di provocare uno scontro tra Carlo III di Borbone e la Chiesa, rappresentata dal frate domenicano Gregorio Maria Rocco, religioso popolare nella capitale borbonica per i suoi sermoni di alto rigore.

 

Secondo la tradizione lo scontro risalirebbe al 1734, quando Carlo di Borbone volle ufficializzare e porre sotto il suo controllo il gioco del Lotto perché non fosse clandestino e per incrementare le entrate del regno. Padre Rocco considerava tale gioco assolutamente immorale perché contrario ai principi religiosi e cattolici e perché rischiava di spingere i credenti, presi dalla legalizzazione del gioco stesso, a dedicati più ad esso che alla preghiera, allontanandoli così dai testi Sacri.

L’unica soluzione attuabile era quella di arrivare ad un compromesso che accontentasse ambo le parti: il gioco del lotto venne così legalizzato, ma vietato durante il periodo natalizio. Tuttavia, ne conseguì lo sviluppo di una sorta di “lotto clandestino” nelle case, specie quelle dei rioni popolari, all’interno delle quali ci si riuniva per giocare.

 

Vita quotidiana, piccoli accadimenti apparentemente anche di poca importanza, eventi improvvisi: tutto veniva associato a uno o più numeri attraverso il libro della Smorfia. Ai numeri da 1 a 90 furono associati personaggi, luoghi, date, parti del corpo umano e mestieri che sono rimasti pressappoco inalterati fino ad oggi.

Una sorta di “maestro banditore” estraeva i numeri dal cestino indicandone la cifra, ma soprattutto cosa ad essi era associato, quasi a chiamarli per nome. Tutto questo consentiva anche ai molti analfabeti di poter partecipare al gioco poiché – anche non riconoscendo il numero estratto – potevano controllare sulla cartella il disegno ad esso corrispondente.

Sì, la cartella: un cartoncino su cui erano indicati 15 numeri divisi in tre file e accanto ad ogni numero il disegno con cui si interpretava il numero stesso.

I numeri da 1 a 90, la cartella per segnarli e il cestino da cui si estraggono erano e sono tutt’oggi i tre elementi fondamentali che compongono la Tombola Napoletana.

Il nome tombola deriva da “tombolo”, lo strumento di lavoro tondeggiante che vagamente ricorda un cestino e col quale si realizzano merletti, anche se il cestino da cui vengono estratti i numeri del gioco ha una singolare forma conica, con un’apertura alla sommità che consente la fuoriuscita del numero.

 

I 90 numeri e la loro interpretazione

Ognuno dei 90 numeri viene associato ad un’immagine, ad una definizione, a qualcosa che esiste nell’immaginario collettivo o che può essere riferito ad un sogno, ma anche a fatti e/o situazioni del quotidiano. Nel corso del tempo, diverse sono state le “aggiunte” e le “correzioni” a questi numeri. Basti pensare al numero 1 - l’Italia - associazione che è lecito pensare non possa risalire ai tempi del regno borbonico.

 

1 - L’Italia

2 - ‘a piccerella (la bambina)

3 - ‘a gatta (la gatta)

4 - ‘o puorco (il maiale)

5 - ‘a mano (la mano)

6 - chella ca guarda ‘nterra (l’organo femminile)

7 - ‘o vaso (il vaso)

8 - ‘a Maronna (la Madonna)

9 - ‘a figliata (gruppo di figli)

10 - ‘e fasule (i fagioli, ma dagli anni ’80 è stato sostituito da Maradona)

11 - ‘e suricille (i topolini)

12 - ‘e surdate (i soldati)

13 - Sant’Antonio (ricordandone la festività del 13 giugno, molto sentita a Napoli e provincia)

14 - ‘o mbriaco (l’ubriaco)

15 - ‘o guaglione (il ragazzo)

16 - ‘o culo (il sedere)

17 - ‘a disgrazia (la disgrazia o anche la “disgrazia di Pulcinella”)

18 - ‘o sanghe (il sangue)

19 - ‘a resata (la risata od anche “San Gennaro, patrono della città di Napoli che si festeggia il 19 settembre)

20 - ‘a festa (la festa)

21 - ‘a femmena annure (la donna nuda)

22 - ‘o pazzo (il folle)

23 - ‘o scemo (lo stupido)

24 - ‘e gguardie (poliziotti, carabinieri, guardie carcerarie)

25 - Natale

26 - Nanninella (Anna, ricordando la festività di Sant’Anna che si celebra il 26 luglio, nome molto comune tra le donne di Napoli e provincia)

27 - ‘o cantero (il vaso da Notte)

28 - ‘e zizze (il seno femminile)

29 - ‘o pate d’e criature (l’organo riproduttivo maschile)

30 - ‘e palle d’o tenente (le munizioni)

31 - ‘o padrone e casa (il proprietario di casa)

32 - ‘o capitone (l’anguilla femmina)

33 - l’anne ‘e Cristo (gli anni di Gesù Cristo)

34 - ‘a capa (la testa)

35 - l’aucelluzzo (l’uccellino)

36 - ‘e castagnelle (le nacchere spagnole)

37 - ‘o monaco (il monaco, il frate)

38 - ‘e mmazzate (le percosse, le botte)

39 - ‘a funa nganna (la corda al collo, l’impiccagione)

40 - ‘a paposcia (l’ernia inguinale)

41 - ‘o curtiello (il coltello)

42 - ‘o cafè (il caffè)

43 - ‘onna pereta for ‘o barcone (la donna pettegola)

44 - ‘e ccancelle (le carceri)

45 - ‘o vino buono (il vino gustoso)

46- ‘e denare (i soldi)

47 - ‘o muorto (la persona defunta)

48 - ‘o muorto che parla (il defunto che parla)

49 - ‘o piezz e carne (la donna prosperosa)

50 - ‘o ppane (il pane)

51 - ‘o ciardino (il giardino)

52 - ‘a mamma (la madre)

53 - ‘o viecchio (l’anziano)

54 - ‘o cappiello (il cappello)

55 - ‘a museca (la musica)

56 - ‘a caruta (la caduta)

57 - ‘o scartellato (il gobbo)

58 - ‘o paccotto (il pacchetto)

59 - ‘e pile (i peli)

60 - ‘o lamiento (il lamentarsi)

61 - ‘o cacciatore (il cacciatore)

62 - ‘o muorto acciso (il morto assassinato)

63 - ‘a sposa (la sposa)

64 - ‘a sciammeria (la giacca per cerimonie)

65 - ‘o chianto (il pianto)

66 - ‘e ddoje zetelle (le due donne nubili)

67 - ‘o totaro int’a chitarra (il totano nella chitarra)

68 - ‘a zuppa cotta (la zuppa cotta, la minestra che si mangia proprio nel periodo di Natale, generalmente il 26 dicembre)

69 - sott’e ‘ncoppa (il sottosopra)

70 - ‘o palazzo (il palazzo, la casa)

71 - l’omme ‘e merda (l’uomo meschino)

72 - ‘a maraviglia (la meraviglia)

73 - ‘o spitale (l’ospedale)

74 - ‘a rotta (la grotta)

75 - Pulcinella

76 - ‘a funtana (la fontana)

77 - ‘e riavulille (i diavoletti, il diavolo)

78 - ‘a bella figliola (la prostituta)

79 - ‘o mariuolo (il ladro)

80 - ‘a vocca (la bocca)

81 - ‘e sciure (i fiori)

82 - ‘a tavula ‘mbandita (il banchetto)

83 - ‘o maletiempo (il mal tempo)

84 - ‘a cchiesa (la Chiesa)

85 - ll’aneme ‘o priatorio (il purgatorio)

86 - ‘a puteca (il negozio)

87 - ‘e perucchie (i pidocchi)

88 - ‘e casecavalle (i caciocavalli)

89 - ‘a vecchia (la donna anziana)

90 - ‘a paura (la paura)

 

L’iconografia tradizionale della tombola napoletana

In questa sede vogliamo porre l’attenzione soprattutto su quei numeri che presentano un’iconografia tale da rimarcare abitudini e consuetudini del popolo napoletano e dal quale prendono spunto, diventandone rappresentativi, in particolar modo in riferimento al popolo dei vicoli, dei quartieri popolari dove le tradizioni – anche culinarie – trovano spazio tra i numeri - come dimostra il numero 68, che fa riferimento alla zuppa (la minestra, nello specifico la “minestra maritata”).

 

Oppure il numero 43, ‘onna pereta for ‘o barcone (la donna pettegola), od anche il 47 ed il 48, il morto e il morto che parla, poiché nel vissuto quotidiano dei napoletani, i defunti hanno sempre avuto un ruolo importante, così come le anime purganti, al numero 85, l’età di morte del Cristo (33, età e suo corrispettivo  nella tombola popolare napoletana),la maschera napoletana, Pulcinella al numero 75, il capitone – al numero 32 – che non deve mancare sulla tavole napoletane la sera della Vigilia di Natale.

 

 

Ma anche date e ricorrenze come il Natale, rigorosamente al 25 ed anche i mestieri e i personaggi che riempivano le ore del giorno: dai bottegai ai proprietari di casa, passando per le prostitute, od anche le donne anziane sedute (ancora oggi!) fuori le porte dei bassi all’interno dei vicoli, la Chiesa, il monaco, al numero 37, che voleva contrastare il diffondersi del gioco del lotto e, suo malgrado, aveva quasi favorito il diffondersi della tombola ed i Santi cui il popolo partenopeo è da sempre devoto, i sentimenti come la meraviglia al numero 72 e, in fondo al paniere, al numero 90, la paura.

Fig. 8

 

Sì la paura. La paura dell’incertezza del domani, del futuro, del “non sapere” cosa accadrà, la voglia di cercare risposte affidandosi ai sogni, alle interpretazioni, a un qualcosa di soprannaturale che indichi una via, che dia una risposta, ma anche e soprattutto la voglia di divertirsi, di giocare, affidando l’intero mondo del quotidiano popolare a 90 numeri, 90 numeri che, a detta dei napoletani, non sbagliano mai!

 

 

 

La foto in testa all'articolo è stata realizzata dall’autrice; per la fig. 2 e dalla fig. 4 alla 8 si ringrazia la famiglia Stellabotte per la concessione delle immagini della Tombola popolare napoletana.

 

 

Note

[1] “questa è la mano che estrae, questo è il fondo del paniere in cui ci sono i numeri da estrarre” frase di inizio gioco, detta a gran voce da chi estrae, mostrando la mano sinistra in alto, aperta e vuota ed il paniere nella mano destra che lo fa ruotare mescolando i numeri in esso contenuti.

 

 

Sitografia

www.unina.it

www.napolitoday.it

www.focusjunior.it

www.tombola.it

www.sognienumeri.it

 

ORNELLA AMATO

Laureata nel 2006 presso l’università di Napoli “Federico II” con 100/110 in storia * indirizzo storico-artistico.
Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it


ARTECINEMA : FESTIVAL INTERNAZIONALE DI FILM SULL’ARTE CONTEMPORANEA

A cura di Ornella Amato

 

 

Nel tempio della lirica napoletana, il Real Teatro San Carlo, si è svolta ieri sera (15 ottobre) la serata inaugurale della ventiseiesima edizione di ARTECINEMA - Festival Internazionale di Film sull’Arte Contemporanea, curata da Laura Trisorio, alla quale la stampa di settore, pur vincolata dalla normativa vigente in materia di Covid-19, non ha fatto mancare la sua presenza e il suo apprezzamento. A partire da oggi, 16 ottobre, la manifestazione proseguirà anche al Teatro Augusteo e potrà essere seguita, fino al 22 ottobre, anche sulla piattaforma digitale dedicata (online.artecinema.com).

Il programma, consultabile anche online, prevede una settimana di proiezioni dedicate all’arte contemporanea, alla fotografia e al design dei giorni nostri, il tutto raccontato dai migliori artisti presenti sulla scena internazionale. Per l’edizione di quest’anno i film selezionati sono 24 – nelle ventisei edizioni sono state proiettate complessivamente circa 700 pellicole – a loro volta divisi nelle tre sezioni in cui il Festival stesso è organizzato: arte e dintorni, architettura e design, fotografia.

L’evento si è aperto con la presentazione della curatrice Laura Trisorio, che ha invitato sul palco anche tutti i registi partecipanti al festival, ed è proseguito con il commosso omaggio all’artista napoletana Marisa Albanese, scomparsa di recente all’età di 74 anni dopo una lunga malattia e commemorata con la proiezione del cortometraggio a lei dedicato, Sguardo nomade – Viaggio nel lavoro di Marisa Albanese.

A seguire, la proiezione del film Banksy most Wanted, dedicato al celeberrimo street artist britannico, ancora oggi anonimo. Il film ha narrato l’intera parabola dell’artista di Bristol: dalla tecnica dello stencil, alla scelta di agire nell’anonimato, il “ricercato numero uno al mondo” nel sistema dell’arte contemporanea ha dato vita ad opere realizzate “di notte”, create all’insaputa del mondo, al sicuro anche dalle telecamere di sorveglianza e collocate con inimitabile maestria all’interno dei musei più noti di Londra, Parigi e New York. L’alone di mistero, l’anonimato e l’inafferrabilità hanno reso Banksy l’indiscutibile punta di diamante dell’arte contemporanea, un vero e proprio artista-brand, le cui opere salgono a cifre record (solo pochi giorni fa, Girl with balloon, opera già semidistrutta, è stata battuta da Sotheby’s a 22 milioni di euro), ma hanno destato in molti blogger, giornalisti il forte desiderio di svelarne il volto, di conoscerne il nome. Ma è davvero necessario conoscere la vita, i dati anagrafici, il volto di un artista per poterlo apprezzare in toto? O possiamo semplicemente lasciare che siano le sue opere a parlare per lui? Questo, in definitiva, pare essere l’interrogativo ultimo che il film lascia allo spettatore, la domanda a cui solo i posteri potranno dare una risposta.

 

 

 

 

 

ORNELLA AMATO

Laureata nel 2006 presso l’università di Napoli “Federico II” con 100/110 in storia * indirizzo storico-artistico.
Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it


STREET ART NAPOLETANA NAPOLETANITÀ E INTERNAZIONALITÀ NELL’ARTE DI STRADA DEL CAPOLUOGO CAMPANO

A cura di Ornella Amato

 

 

 

L’arte di strada che veste i palazzi e le strade di Napoli

Lungo le facciate laterali dei palazzi di Napoli e attraverso le strade nelle quali questi sono inglobati, i murales che li adornano si inseriscono perfettamente nell’ambito cittadino poiché la multietnicità che caratterizza la città di Partenope le consente di essere sempre inclusa nelle vicende internazionali e parteciparvi attivamente.

Generalmente si tratta di personaggi napoletani che, attraverso le loro arti, hanno fatto conoscere Napoli nel mondo e che la città che ha dato loro i natali oggi celebra, riportandoli tra la loro gente attraverso una forma d’arte che è apprezzata da tutti.

Un esempio è il murales dedicato all’attore Antonio de Curtis, meglio noto come Totò, in cui è rappresentato nelle vesti del “Re di denari” delle quaranta carte napoletane; sempre dedicato all’attore è quello dei Quartieri Spagnoli con Totò travestito da donna, un ricordo del film “Totòtruffa ‘62”.

 

Sempre ai Quartieri Spagnoli si trova quello dedicato a Diego Armando Maradona, un murales che, a partire dall’improvvisa morte del “Pibe de Oro” avvenuta il 25 novembre 2020, amatissimo a Napoli, è diventato anche “meta di pellegrinaggio” dei tifosi del calcio Napoli. Il murale, che è stato recentemente restaurato col patrocinio del Comune di Napoli, era stato realizzato in occasione della vincita del primo scudetto della SSC Napoli.

 

La città ha anche omaggiato il suo più grande interprete, Pino Daniele, quell’ “uomo in blues”, quel “nero a metà” che ne ha cantato i colori, i disagi, la multietnicità.

 

Jorit Agoch: lo street artist napoletano per eccellenza

Lo street artist Jorit Agoch, ovvero Ciro Cerullo, è nato a Napoli il 24 novembre del 1990. Fortemente attivo in diversi quartieri di Napoli, ha portato in città una cultura nuova, ricca e soprattutto chiara e diretta.

Da Quarto, piccolo comune in provincia di Napoli, all’internazionalità: a lui si devono i murales più noti della città partenopea. Sua, infatti, è la paternità del murales dedicato al Patrono San Gennaro operaio realizzato a Forcella – quartiere popolare napoletano non particolarmente distante dal Duomo - caratterizzato da un profondo realismo, tanto da sembrare non un Santo, ma un uomo napoletano, probabilmente un operaio, un padre di famiglia. Unico simbolo sacro è la mitra vescovile postagli sul capo. Le fattezze del viso sono estremamente realistiche e il volto è segnato da un segno rosso tribale, che rappresentano la firma dell’autore

 La sua “firma” si trova sul volto di tutte le sue opere, compreso il Diego Armando Maradona al quartiere di San Giovanni a Teduccio, realizzato nel 2017.

A Jorit Agoch si devono murales dedicati a personaggi contemporanei, personalità che con il loro lavoro, con il loro impegno hanno partecipato in un passato non particolarmente lontano o partecipano ancora oggi alla scrittura di nuove pagine di storia: il murales dedicato ad Antonio Cardarelli, medico a cui è stato intitolato l’ospedale più grande del Sud Italia e che ha sede a Napoli; l’opera dedicata al Prof. Ascierto, luminare dell’oncologia napoletana, un eroe dei giorni nostri.

Si ricordano anche i volti di Eduardo de Filippo dipinti sulle saracinesche degli ingressi del Teatro San Ferdinando di Napoli, teatro dei De Filippo.

 

Protagonisti delle sue opere sono anche personaggi che hanno subito ingiustizie o in attesa di ricevere giustizia, come George Floyd (rappresentato sul tetto di un palazzo nel quartiere di Barra) o la giovanissima Luana d’Orazio, operaia vittima di un incidente sul lavoro lo scorso 3 maggio e omaggiata da Jorit a Roma. Insomma, un quotidiano che viene raccontato attraverso bombolette spray come se si stesse scattando una foto per raccontare un fatto di cronaca, un momento, un uomo, una donna che, da persone comuni diventano personaggi pubblici, magari loro malgrado, e che trovano una prima forma di giustizia attraverso i murales che Jorit dedica loro.

 

Il realismo, i colori e toni forti lo rendono un “Caravaggio dei giorni nostri”.

Indistinguibile il segno tribale rosso, che anche lui ha tatuato sul volto: un segno che è la sua firma.

Un segno che “lascia il segno” sulle sue opere, che sono sempre più apprezzate.

Un’arte che, dalla piccola provincia napoletana, lo ha portato a livelli internazionali; un’arte che era iniziata anni addietro sui vagoni in disuso della ferrovia Cumana della fermata di Quarto Officina. Un’interpretazione, la sua, di un’arte giovane eppure da tenere al pari delle “arti maggiori”, in primis proprio la pittura.

 

Non solo Jorith Agoch

Tanti e diversi gli street artists che popolano la città che, armati di colori danno vita a capolavori che ornano e spesso riqualificano luoghi che purtroppo sono stati spesso dimenticati e che hanno rischiato di degradarsi sempre più.

In particolare, si fa riferimento a stazioni della metro e biglietterie che oggi – anche grazie ad un programma di recupero – sono tra le più belle d’Europa; in particolare si vuole ricordare il gruppo di street artists capitanati da Luca Danza, nome noto nell’ambiente napoletano.

 

Tanti, tantissimi nomi concorrono a realizzare la rosa degli artisti dediti all’arte di strada, un’arte che salva, denuncia, ma anche recupera. E non sono mancati nomi illustri, come quello dell’inglese Banksy.

 

La presenza di Banksy a Napoli

Al momento, sulla piazza internazionale lo street artist più famoso è l’inglese Banksy, che ha “regalato” un suo murale alla città di Napoli.

Qui ha infatti realizzato la Madonna con la pistola, in piazza Girolamini, così chiamata poiché al posto della tradizionale aureola ha proprio una pistola; infatti, ben si distingue la mano che impugna il revolver puntato, quasi come se fosse pronto a sparare, probabilmente una sorta di denuncia del rapporto tra malavita organizzata e religione. Tra l’altro l’opera è posta accanto ad un’edicola votiva raffigurante una Madonna con Bambino, raffigurata secondo l’iconografia tradizionale, che fa risaltare maggiormente il murale.

La Madonna – anche se non manca chi la identifica con Sant’Agnese – ha lo sguardo rivolto verso l’alto ed un’espressione afflitta; è rappresentata in bianco e nero, giocando su ombre ed espressioni.

Dell’opera, realizzata nel 2010, si sa solo che fu interamente e velocemente realizzata di notte, per evitare l’accalcarsi della folla.

Pare che in città esistesse un’altra delle opere di Banksy, andata perduta per errore: sembra, infatti, che sia stata “coperta” da un giovanissimo street artist ignaro del valore e dell’importanza del murale. Oggi, la Madonna con la pistola è protetta da un plexiglass.

 

La Street Art è una di quelle arti che, in un primo momento, è stata quasi vista come un atto vandalico, un gesto di ribellione di ragazzini che, come armi, usavano bombolette spray per imbrattare e sporcare, di notte, lungo le stazioni, sui binari verso i vagoni in disuso. La street art non è per sporcare, ma per “vestire” con pitture, colori e immagini nuove, a volte deformi e magari sarcastiche; è un’arte che oggi non solo è apprezzata e riconosciuta, ma richiesta quasi ovunque.

Perché la street art non è solo l’arte di strada, ma è stata ed è soprattutto l’arte che veste la strada.

 

 

Sitografia

jorith.it

viaggiapiccoli.it

napolike.it

travelfashiontips.com