Il Parnaso PT I

A cura di Andrea Bardi

 

 

Dopo aver completato la Disputa e la Scuola di Atene, Raffaello procede, tra il 1510 e il 1511, a impegnare la terza parete della Stanza, quella “di verso Belvedere”[i]con l’allegoria della poesia e con la raffigurazione del Parnaso (fig. 1), associato al tondo a fresco della Poesia sul soffitto (Fig. 2).

Il monte Parnaso, collocato all’intersezione di tre regioni dell’entroterra greco – Beozia, Focide e Ftiotide – è assurto, in epoca classica, a sede del dio Apollo e delle Muse. La stessa parola luvia (un idioma parlato tra il II e il I millennio a.C. nella penisola anatolica) parnassas, infatti, sarebbe da tradurre come “casa degli dei”.

 

Il Parnaso: i personaggi

Nel grande affresco vaticano – che raggiunge quasi i sette metri di larghezza – il Parnaso è casa di un dio in particolare, Apollo, delle nove Muse e di un consesso di poeti, antichi e moderni, suddivisi in quattro grandi “zone” tematiche[ii]: in alto a sinistra, troviamo i grandi autori dell’epica classica e medievale (Fig. 3), con Omero al centro, circondato da Virgilio, Dante, Stazio – dietro Virgilio – e il giovane Ennio, seduto sulla sinistra di Dante.

 

Più in basso, Saffo (fig. 4), costituisce – assieme a Pindaro (?), Catullo (o forse Tibullo o Properzio), Orazio e Petrarca – il raggruppamento della lirica (fig. 5).

 

Sul lato opposto dell’affresco, trovano spazio i grandi tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide, fig. 6) e, più in alto, tutti gli esponenti di quei generi “mediani” come l’elegia o l’epigrammatica (fig. 6).

 

Le questioni attributive: due poeti “mediani”

Se l’individuazione degli autori classici non ha comportato particolari problematiche, vista la loro lunga e consolidata tradizione figurativa, circa i poeti “moderni” gli studiosi non hanno ancora individuato un accordo comune. Qualsiasi tentativo di ricostruzione dell’identikit di alcuni poeti – e di due personaggi in particolare – non può, però, non partire da due fonti specifiche, le Vite vasariane (1568) e la Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino (1695).

Circa la fonte vasariana, va tuttavia chiarito, sin da subito, che la sua descrizione del Parnaso non si fonda tanto sull’osservazione diretta dell’affresco, quanto dalla visione dell’incisione a bulino realizzata da Marcantonio Raimondi nel 1517 (Fig. 7), il cosiddetto Parnaso I oggi ai Musei Civici di Pavia.

 

Nell’incisione di Raimondi, che costituisce l’unica testimonianza del progetto originale di Raffaello, Vasari individua, al di sotto di una infinità di Amori igniudi con bellissime arie di viso”[iii]non presente nella versione definitiva dell’affresco, molti poeti, tra i quali riconosce Giovanni Antonio Tibaldeo  (“il Tibaldeo similmente et infiniti altri moderni”)[iv]. La presenza di Tebaldeo viene confermata da Giovanni Paolo Lomazzo che, nel Libro dei Sogni (1563), nel menzionarlo, non nasconde le sue perplessità (“tanto che a me pare che di esservi quasi non fusse degno”)[v].

A cavallo tra XVII e XVIII secolo, Bellori, oltre a confermare le indicazioni vasariane (“Incontro veggonsi due altri Laureati, che il Vasari riferisce al Tibadeo, ed al Boccaccio”)[vi] è il primo a identificare, nella figura sull’estrema destra dell’affresco, “il Sannazaro laureato in nobil sembiante, raso, senza barba”[vii].Il poeta napoletano Jacopo Sannazaro è, per Vincenzo Farinella e Alberto Casadei (Il Parnaso di Raffaello. Criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, 2017) un’ipotesi plausibile. I due studiosi, nella loro analisi, legano il personaggio sbarbato del Parnaso a una xilografia di Sannazaro contenuta nell’edizione Perna (Basilea, 1577) degli Elogia doctorum virorum (con incisioni di Tobias Stimmer)[viii] e all’effigie su una medaglia di Girolamo Santacroce.

Ancora Casadei e Farinella gettano nuova luce su un altro personaggio, l’uomo barbato dai capelli corti e neri che, in alto a destra, rivolge il suo sguardo allo spettatore. Se precedentemente questi veniva spesso associato (Vasari, Lomazzo, Bellori) a Giovanni Antonio Tebaldeo, sono i due studiosi a proporre una valida alternativa. Scartando l’ipotesi Ariosto – al tempo dei fatti ambasciatore degli Estensi e perciò inviso a Giulio II – essi chiamano in causa il poeta Jacopo Sadoleto. Autore del fortunato poemetto De Laocoontis statua (1506) Sadoleto, che all’epoca aveva poco più di trent’anni – pressappoco l’età che si può desumere dalla fisionomia del personaggio dipinto – può essere a buona ragione considerato come una figura di primo piano nella monumentale operazione celebrativa nei confronti di quella fervida stagione culturale di Giulio II, il cui ruolo di protettore delle arti e delle lettere viene sancito del resto anche dai due monocromi di base, il primo con Augusto impedisce agli esecutori testamentari di Virgilio di bruciare l'Eneide (Fig. 8) e il secondo con Alessandro il Grande fa riporre i poemi omerici in un prezioso scrigno di Dario (Fig. 9).

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le Vite, p. 71.

[ii] A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello: criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, p. 62.

[iii] G. Vasari, Le Vite, p. 71.

[iv] Ibidem

[v] Le parole di Lomazzo sono riportate in A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello, p. 62.

[vi] G.P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 56.

[vii] Ibidem

[viii] A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello, p. 65.

 

 

 

 

Bibliografia

Paul Barolsky, Raphael’s “Parnassus” scaled by Bembo, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 19, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 2000, pp. 31-33.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Alberto Casadei, Vincenzo Farinella, Il Parnaso di Raffaello. Criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, in “Ricerche di Storia dell’Arte”; n. 123, Roma, Carocci, 2017, pp. 59-72.

Beth Cohen, The “Rinascimento dell’Antichità” in the art of painting: Pausanias and Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 3, no. 4, Chicago, The University of Chicago Press, 1984, pp. 29-44.

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Luba Freedman, Apollo’s glance in Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 16, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 1997, pp. 20-25.

Kathi Meyer – Baer, Musical Iconography in Raphael’s Parnassus, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, vol. 8, no.2, Wiley – The American Society for Aesthetics, 1949, pp. 87-96.

Antonio Paolucci, Raffaello in Vaticano, “Art Dossier”, n. 298, Firenze – Milano, Giunti, 2013.

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Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.

Paul F. Watson, On a window in Parnassus, in “Artibus et Historiae”, vol. 8, no.16, Cracovia, IRSA, 1987, pp. 127-148.

Emanuel Winternitz, Archeologia musicale nel Parnaso di Raffaello, in “Ecclesia”, n. 9, Città del Vaticano, 1955, pp. 452 – 457.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

http://projects.mcah.columbia.edu/raphael/htm/raphael_parnas_draw.htm

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-73

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-74

https://www.royalacademy.org.uk/art-artists/work-of-art/study-for-the-parnassus-fresco-in-the-vatican-1

https://m.museivaticani.va/content/museivaticani-mobile/en/collezioni/musei/stanze-di-raffaello/stanza-della-segnatura/stanza-della-segnatura.html

https://www.treccani.it/vocabolario/parnaso


SCUOLA DI ATENE PT III

A cura di Andrea Bardi

 

I personaggi

Un’altra delle novità apportate da Raffaello nella Scuola – elemento prontamente rilevato da Most – è la straordinaria ricchezza del parterre di personaggi, che da un manipolo (Pinturicchio, Perugino) arrivano a sfiorare l’incredibile numero di sessanta unità. Alcuni di questi personaggi, nota ancora Most, sono stati individuati senza particolari difficoltà già dal Vasari: il gruppo centrale, con Platone e Aristotele (con le fattezze di Leonardo e di Bastiano da Sangallo, fig. 1), ma anche le figure di Diogene (fig. 2), Donato Bramante, nei panni di Euclide (fig. 3) e di Raffaello (nei panni di Apelle, fig. 4). L’aretino, tuttavia, commise alcuni grossolani errori di valutazione, identificando addirittura dei “Vangelisti” e un “San Matteo”[i]. A queste figure Bellori aggiunse Socrate, “calvo”[ii], Pitagora (Fig. 5), Empedocle, Epicarmo e Archita, ipotizzando anche la presenza di Francesco Maria della Rovere, nipote del pontefice, nel “nobil giovinetto ammantato fino al collo in candido manto fregiato d’oro con la mano al petto” (fig. 6). Particolare rilievo ha assunto anche Eraclito (fig. 7), personaggio non presente nel cartone preparatorio dell’Ambrosiana (fig. 8) e comunemente associato a Michelangelo Buonarroti.

 

Oltre a queste suggestioni, si è altresì già fatto accenno a come, nell’Ottocento e in piena temperie positivistica, le ricerche sulla Scuola – nello specifico, quelle relative all’identificazione precisa dei personaggi – avessero raggiunto un livello quasi “isterico” e maniacale. Tale “isteria identificativa” fa capo a Johann David Passavant (Raffaello d’Urbino e il padre suo, Giovanni Santi, 1839), il quale volle leggere, sulla scorta delle Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio, l’intera scena come il dispiegamento cronologico della filosofia antica, dai primordi (i presocratici, in alto a sinistra) al suo massimo sviluppo (Platone e Aristotele, al centro) fino all’inevitabile declino (in basso a destra, le scuole filosofiche del periodo imperiale). Fu solo nel 1883 che Anton Heinrich Springer (La “Scuola di Atene” di Raffaello) “riuscì a dimostrare […] la futilità di questo sforzo interpretativo semplicemente stilando sotto le figure una lista delle varie identità proposte dai diversi studiosi”[iii]. Ribadita, in sede successiva, anche da Heinrich Wolfflin (L’arte classica. Introduzione al Rinascimento Italiano, 1924), questa tesi è accolta anche da Most, che non ritiene necessario identificare ogni personaggio al fine di arrivare ad una comprensione esaustiva dell’affresco.

Nel corso del Novecento, tuttavia, alcuni dati precedentemente accettati sono stati messi in questione. Prima Konrad Oberhuber (Raffaello. Il Cartone per la Scuola di Atene, 1972) e poi Giovanni Reale (La Scuola di Atene di Raffaello, 2005) hanno rivolto la loro indagine sul presunto ritratto di Francesco Maria della Rovere. Entrambi gli studiosi, ribaltando il pensare comune, hanno avanzato l’ipotesi che la figura efebica, vestita di bianco, potesse raffigurare l’ideale greco della kalokagathia, formula con la quale si riassume la concezione ellenica di “Bello/Bene”.

Negli anni Novanta, poi, Daniel Orth Bell (New Identifications in Raphael’s School of Athens, 1995) ha messo in discussione anche l’identificazione di uno dei personaggi di sinistra con Socrate. Lo storico, partendo dall’identificazione della figura vicina, in abiti militari – comunemente associata ad Alcibiade – con Pericle, ha sostituito il filosofo “calvo” e dal “naso camuso” (fig. 9) con Anassagora, che di Pericle fu maestro. Anassagora – sostiene Bell – sosteneva che l’universo si ordinasse in distinti livelli di materia organica. Proprio a quei livelli, dunque, sembrerebbe accennare Anassagora, ritratto dal pittore nell’atto di contare con la mano[iv].

Una simile considerazione complica di fatto la situazione, costringendo lo studioso a dover trovare un nuovo e credibile candidato per il ruolo di Socrate. Anche questa volta, tuttavia, Bell effettua un’operazione di sostituzione, individuando in Socrate il personaggio disteso sulle scale, fino a quel momento universalmente accettato come Diogene. La ciotola, che il filosofo cinico, in un episodio ben noto della sua vita, aveva lanciato ad un bambino che beveva con le mani, si trasforma nel contenitore della cicuta, il veleno che diede la morte, dopo un ingiusto processo, proprio a Socrate. La tesi di Bell verrebbe giustificata, inoltre, dalla presenza di due giovani nelle vicinanze (Crito e Apollodoro, che di Socrate erano discepoli), i quali non troverebbero giustificazione alcuna se associati a Diogene[v]. Quella di Bell è una suggestione affascinante, dal momento che rimetterebbe al centro della composizione “i tre filosofi greci più importanti”(trad.mia)[vi], riservando un posto marginale a Diogene, il quale andrebbe – a sua volta – a sostituire il presunto Plotino (fig. 10), un anziano uomo vestito con una semplice tunica rossa, un indumento che il padre della filosofia cinica aveva indossato fino al momento della sua morte. Il recupero di una centralità di Socrate – continua lo storico – ben si presterebbe, poi, ad un raffronto con la scena opposta, la Disputa del Sacramento. In una simile prospettiva, infatti, l’ingiusto sacrificio di Socrate verrebbe letto come un’anticipazione del sacrificio di Cristo[vii].

 

 

 

 

Bibliografia

Daniel Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, in “The Art Bulletin”, vol. 77, no. 4, New York, College Art Association, 1995, pp. 638-646.

Glenn W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo (1999), trad. it. di Daniela La Rosa, Torino, Einaudi, 2001.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.

 

Note

[i] G. Vasari, Le Vite, p. 69.

[ii] G. P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 35.

[iii] G. W. Most, Leggere Raffaello: la “Scuola di Atene” e il suo pre-testo, p. 11.

[iv] D. Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, p. 641.

[v] Ivi, p. 642.

[vi] Ivi, p. 643.

[vii] Ivi, p. 644.


LA SCUOLA DI ATENE PT II

A cura di Andrea Bardi

 

Una fonte inaspettata: il Protagora platonico

Nel suo contributo, capitale per la storia degli studi sulla Scuola, Most ha segnalato anche una fonte letteraria, apparentemente innocua eppure non priva di risvolti. Si tratta del Protagora (IV sec. a.C.), un testo in cui Platone narra dell’arrivo del sofista ad Atene. Nel testo Ippocrate, desideroso di incontrare Protagora, si fa accompagnare da Socrate alla casa di Callia, ricco cittadino presso il quale soggiornava il sofista. Nel brano in cui è descritto l’arrivo di Socrate e Ippocrate – spiega Most – l’arrangiamento, la disposizione dei personaggi ha molti e sorprendenti tratti in comune con l’impaginato della Scuola, come la divisione in gruppi e l’accento posto su una figura centrale. Innanzitutto Protagora, scrive Platone, “passeggiava su e giù nel lato del portico”, e creava, insieme ad altre figure tra cui Callia, proprietario della “più illustre e opulenta magione di Atene”, un primo gruppo di personaggi intenti silenziosamente ad ascoltarlo:

“Degli altri, che facevano coda a questi per raccoglierne i discorsi, la maggior parte parevano forestieri, di quei che Protagora si tira dietro dalle varie città per le quali passa, ammaliandoli con la voce, come Orfeo”

Queste figure, continua il filosofo,

“quando egli [Protagora] coi suoi si voltava […] si dividevano in bell’ordine, su due file di qua e di là”

Andando avanti nella descrizione, Platone introduce altri due gruppi di personaggi. Nel primo, “alcuni di loro”, spiega, “pareva che interrogassero Ippia sulla natura e su taluni fenomeni celesti”, mentre gli altri “di che ragionassero […] non mi riuscì di capire”. Se centrale, dunque, è il tema del dibattito, è altresì corretto notare come sia anche un altro elemento ad accomunare i due episodi. Sia nel Protagora che nella Scuola di Atene, infatti, è presente un giovane – che, almeno nell’affresco, non possiede un identikit accertato – presentato da Platone come

“un giovanetto d’ottima indole, com’io credo, ma certo di bellissimo aspetto – lo chiamavano, se non erro, Agatone – e non mi stupirei che fosse l’amasio di Pausania”[i].

L’ipotesi di Most, pur se non dirimente, rimane tuttavia decisamente intrigante, se si considera la fortuna del Protagora negli ambienti intellettuali del Rinascimento italiano. Nel Quattrocento, l’opera platonica era stata tradotta da Marsilio Ficino. Quest’ultimo, nel Sommario introduttivo, aveva del resto posto l’accento sull’eccezionale abilità descrittiva di Platone, in grado di far attivare con estrema efficacia un processo di visualizzazione nella mente del lettore. Scrive Ficino:

“Mox quasi pictor sophistarum fastum, vanitatemque ante oculos ponit”

(“Quindi, come un pittore, egli pone davanti ai nostri occhi il fasto e la vanità dei sofisti”)[ii]

Certo è che Raffaello non era in grado di padroneggiare la lingua greca, né tantomeno quella latina (egli dovette leggere Vitruvio a partire dalla traduzione in volgare di Marco Fabio Calvo)[iii], motivo per cui la sua conoscenza dell’opera platonica implicava necessariamente la presenza di un letterato, di un umanista alla corte pontificia che potesse fungere da intermediario. Il nome avanzato da Most – assai probabile e rientrante nel ventaglio delle proposte “canoniche” – è quello di Egidio da Viterbo, tra i maggiori studiosi di Platone della sua epoca ed evidentemente molto familiare con il Protagora[iv].

 

Egidio da Viterbo e alcune ipotesi sull’architettura

Il filosofo e cardinale Egidio da Viterbo (1469-1532) è, nell’ipotesi di Most, la chiave interpretativa corretta per gettare luce sull’altrettanto rilevante questione del modello architettonico, della fonte individuata da Raffaello per il maestoso impianto scenografico della Scuola. La tesi più accreditata, in sede accademica (già da Vasari e Bellori), ha sempre voluto che fosse la Basilica di San Pietro in Vaticano a fornire la base per l’affresco. Proprio Bellori, ancora nella Descrizione, dedica all’architectura picta della Scuola queste parole:

“In ultimo deve attendersi il nobile edificio del Ginnasio delineato in forma di magnificentissimo Tempio, che serba una prima idea della Basilica Vaticana, apparendone, secondo la veduta, le navi in croce, li pilastri, e gli archi, li quali sostentano il timpano, e ‘l giro della cupola, ove ne’ due peducci in faccia sono dipinte due donne maestose: l’una col globo del Mondo nelle mani, l’altra col libro della vera dottrina insegnata nel Tempio dal Vicario di Cristo”[v]

Quelli dipinti da Raffaello, tuttavia, sono due edifici. Alle spalle dell’arco posteriore della croce greca della Chiesa – struttura che il Sanzio impiegò anche nella progettazione di Sant’Eligio degli Orefici (1516) – il pittore colloca un ulteriore arco trionfale. Quest’ultimo, nell’ipotesi di Most – rafforzata dalla “ben testimoniata familiarità di Raffaello con le rovine archeologiche di Roma”[vi] – sarebbe ispirato al cosiddetto Monumentum Argentariorum (Arco degli Argentari, o Arco di Settimio Severo al Foro Boario), mentre l’edificio prospiciente, a croce greca, sarebbe frutto di una rilettura originale tanto della basilica petrina quanto del cosiddetto Janus Quadrifrons (Giano Quadrifronte), un arco risalente al periodo costantiniano e vicinissimo all’Arco di Settimio Severo. Giano, poi, era – per Egidio, fautore di una forte politica di rivalutazione etrusca anche basata su falsi acclarati (Annio da Viterbo) – l’inventore della filosofia. “Quale sede più appropriata si potrebbe immaginare”, si domanda Most, “per una sinossi idealizzata di tutta la filosofia antica se non il tempio del re […] che per primo introdusse tale disciplina?”[vii]

 

 

 

 

Note

[i] Le parole del Protagora platonico sono riportate in Ivi, pp. 40-41.

[ii] Ivi, p. 48.

[iii] Ivi, p. 50.

[iv] Ivi, p. 51.

[v] G. P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, pp. 46-47.

[vi] G. W. Most, Leggere Raffaello: la “Scuola di Atene” e il suo pre-testo, p. 58.

[vii] Ivi, p. 62.

 

 

 

 

 

Bibliografia

Daniel Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, in “The Art Bulletin”, vol. 77, no. 4, New York, College Art Association, 1995, pp. 638-646.

Glenn W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo (1999), trad. it. di Daniela La Rosa, Torino, Einaudi, 2001.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.


LA SCUOLA DI ATENE PT I

A cura di Andrea Bardi

 

 

Il dibattito interpretativo sulla Scuola di Atene

Sulla parete opposta rispetto alla Disputa, argomento approfondito in precedenza, Raffaello dispiega quello che con ogni probabilità e il suo affresco più noto. La Scuola di Atene (Fig.1), la cui datazione viene fatta risalire attorno al 1510, occupa, in ordine cronologico, la seconda delle pareti (quella ad ovest) della Stanza della Segnatura. Il titolo con cui l’affresco è universalmente conosciuto, La Scuola di Atene, non corrisponde, tuttavia, alle intenzioni di Giulio II, il quale affidò a Raffaello il compito di tradurre in figura la Filosofia, come si evince, del resto, dal piccolo tondo affrescato sulla volta (Fig. 2), all’interno del quale la rappresentazione allegorica della disciplina è affiancata da due putti recanti cartigli con l’iscrizione “CAUSARUM COGNITIO” (“conoscenza delle cause”, ovvero lo scopo ultimo della speculazione filosofica).

 

Una prima interpretazione – errata – del soggetto dell’affresco venne tentata da Giorgio Vasari, il quale, nella Vita di Raffaello da Urbino, parla di come il pittore

havendo ricevute molte carezze da Papa Iulio cominciò nella camera della segnatura una storia quando i teologi accordano la Filosofia & l’Astrologia; con la Teologia; dove sono ritratti tutti i savi del mondo che disputano in vari modi”[i]

Più di un secolo dopo fu Giovan Pietro Bellori (Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino,1695) a riportare la discussione su un binario più corretto. Nel brano relativo all’affresco, lo storico romano contesta l’ipotesi vasariana già a partire dal titolo, che fa riferimento proprio all’ “antico Ginnasio di Atene”. Oltre ad offrire all’opera un titolo pressoché definitivo – la storiografia protestante nordeuropea sistematizzò in seguito tale riferimento – Bellori parte con lo sconfessare l’intera costruzione teorica dell’aretino:

“improprio ancora è il nome impostole dal Vasari: la concordia della Filosofia, ed Astrologia con la Teologia, non vi essendo ne Teologi, ne Vangelisti, com’egli lungamente descrive”[ii]

per poi mettere a fuoco quello che è il reale soggetto dell’opera, ribadendo come l’intenzione di Raffaello fosse quella di

“raccorre insieme gli studi, e le scuole de’ più illustri filosofanti, non di una età sola, ma de’ più celebri del Mondo per formare l’Immagine della Filosofia”[iii].

 

La Scuola di Atene e l’evoluzione iconografica della Filosofia

Dopo aver chiarito ogni dubbio relativamente alla terminologica adottata – e, di conseguenza, alla tematica affrontata dal pittore nell’affresco – si rende ora necessario un approfondimento descrittivo dell’opera e il suo inquadramento all’interno della tradizione pittorica europea.

Incorniciata dall’arco acuto della parete di fondo, La Scuola di Atene altro non è che un consesso di filosofi – in prevalenza greci, ma non solo – che occupano la scalinata di dislivello di due ambienti. Inquadrati dall’infilata di due botti a lacunari geometrici, i principi della tradizione filosofica greca – Platone e Aristotele (rispettivamente a destra e a sinistra) – costituiscono il baricentro della composizione, il polo magnetico di riferimento attorno al quale gravitano, su entrambi i lati, cinquantotto figure, molte delle quali sono state individuate con un buon margine di certezza.

Prima di affrontare la questione – delicata – dell’identificazione dei personaggi, occorre tuttavia provare a dare all’opera un posto nella storia, per chiarirne tanto i legami con la tradizione precedente quanto i motivi di distacco e di originalità nei confronti della stessa. Lo studioso che si è occupato di tracciare, sia pur per sommi capi, una storia dell’iconografia della Filosofia è stato Glenn W. Most, in un articolo dedicato all’affresco vaticano, originariamente pubblicato nel 1996 e tradotto nel 2001 da Einaudi (Leggere Raffaello: “La Scuola di Atene” e i suoi pre-testi). Oltre a porsi sulla scia di Springer (1883) e alla sua critica all’eccesso di zelo dimostrato da certa storiografia positivistica, “colpevole” di aver provato – senza successo – di fornire un identikit preciso ad ognuno dei quasi sessanta personaggi ritratti, il contributo di Most agli studi raffaelleschi risulta essere estremamente utile per due motivi: se da un lato lo studioso fornisce ipotesi affascinanti – sebbene non provate – relativamente alle fonti e agli uomini chiave dietro l’elaborazione concettuale dell’opera (argomento che verrà discusso successivamente), dall’altro il suo merito è indubbiamente quello di aver dato una collocazione precisa, all’interno di un filone iconografico ben preciso, alla Scuola di Atene.

L’iconografia della Filosofia, spiega Most, nasce nella letteratura tardoantica, con il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio (524 d.C. ca.), testo in cui la Filosofia appare come una donna caratterizzata, già a queste altezze cronologiche, dalla presenza di due attributi canonici, il libro e lo scettro. Anche il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (V secolo) e la Psychomachia di Prudenzio (390-405 d.C.) sembrano aver partecipato alla creazione di un’iconografia comune, in cui al tema della Filosofia si accompagnava quello delle arti liberali e quello dei vizi e delle virtù[iv].

Nelle arti visive, il periodo della tardoantichità e successivamente il Medioevo videro la diffusione di due grandi modelli iconografici: la Filosofia, infatti – le cui fattezze erano ancora femminili – poteva venire sia isolata sia circondata da un numero ristretto di personaggi maschili, che a loro volta potevano essere identificati come filosofi. Altre volte ancora, la Filosofia veniva attorniata anche dalle personificazioni delle arti liberali (Coppa Horst, XII secolo; Manoscritto miniato dell’Hortus deliciarum di Herrad di Landsberg, anch’esso del XII secolo). Un modello simile era ancora vivo nella tradizione europea ai tempi di Raffaello, testimoniato dal frontespizio della Margarita Philosophica di Gregorius Reisch (1504)[v].

Julius von Schlosser e Ernst Gombrich – continua lo studioso – arrivarono a proporre un confronto della Scuola con testi cronologicamente più vicini agli affreschi Vaticani –  e sicuramente conosciuti dall’urbinate – ovvero le Virtù di Pinturicchio nel Collegio del Cambio di Perugia (fig. 3) e le arti liberali di Pinturicchio nell’Appartamento Borgia (fig. 4)[vi]. Sia in Pinturicchio che in Perugino, tuttavia, si era in presenza di una narrazione unificata, di una struttura unica e comprensiva tanto dell’allegoria filosofica quanto dei “praticanti”. In questa prospettiva l’innovazione apportata da Raffaello consiste, sostanzialmente, nell’aver separato i due elementi, scomponendo l’impaginazione tradizionale e riservando al primo elemento il tondo della volta e al secondo un’intera parete.

 

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le vite, p. 69.

[ii] G. P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 30.

[iii] Ivi, p. 31.

[iv] G. W. Most, Leggere Raffaello: “La Scuola di Atene” e il suo pre-testo, p. 21.

[v] Ivi, p. 22.

[vi] Ivi, p. 24.

 

 

 

Bibliografia

Daniel Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, in “The Art Bulletin”, vol. 77, no. 4, New York, College Art Association, 1995, pp. 638-646.

Glenn W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo (1999), trad. it. di Daniela La Rosa, Torino, Einaudi, 2001.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.


LA STANZA DELLA SEGNATURA DI RAFFAELLO IN VATICANO

A cura di Andrea Bardi

 

La Disputa del Sacramento

 

“Fece in un’altra parete un cielo con Cristo e la Nostra Donna, San Giovanni Batista, gli Apostoli e gli Evangelisti e Martiri su le nugole con Dio Padre, che sopra tutti manda lo Spirito Santo e massimamente sopra un numero infinito di Santi, che sotto scrivono la Messa; e sopra l’Ostia, che è sullo altare, disputano”[i]

Con queste parole Giorgio Vasari introduce il suo approfondimento sulla Disputa del Sacramento, affresco che, opponendosi alla celeberrima Scuola di Atene, occupa nella sua interezza la parete che ci si lascia alle spalle non appena si entra nella Sala. L’affresco (500x770 cm, fig. 1) si presenta come la traduzione pittorica della Teologia, una delle quattro discipline fondative dell’ordinamento umanistico che, assieme a Filosofia, Poesia e Giurisprudenza, rendono la Sala, nelle parole di Antonio Paolucci, “un capolavoro di antropologia culturale cattolica”[ii].

 

Il soggetto: disputa o non disputa?

Il nome con cui l’affresco è universalmente noto (Disputa del Sacramento) deve la sua fortuna al sopracitato passo vasariano, in cui lo storico aretino, descrivendo la scena, impiega, reiterandolo, proprio il verbo disputare (“un numero infinito di santi, che…disputano”; “Santi Dottori cristiani, i quali…disputando”; “faccendone segno co ‘l disputar con le mani”). L’indicazione vasariana si presta molto a letture erronee, una delle quali – quella che ha effettivamente preso piede dal Seicento in poi – vorrebbe il corteo di santi e dottori impegnato in una discussione. Un più corretto inquadramento tematico della scena permette, al giorno d’oggi, di inserirla nella lunga e proficua tradizione iconografica del Trionfo dell’Eucarestia o Trionfo della Chiesa, rigorosamente divisa in Ecclesia Militans (“Chiesa Militante”) e in Ecclesia Triumphans (“Chiesa Trionfante”). Va detto, infatti, che Giorgio Vasari “non intendeva affatto di fissare o proporre un titolo complessivo”[iii]. Parte della critica straniera arrivò addirittura ad intendere, spingendo il paradosso fino all’estremo, la disputa come una protesta nei confronti del dogma dell’Eucarestia. Ludwig von Pastor invece riaffermò, nella prima metà del Novecento, il principio secondo cui l’intento di Raffaello fosse “l’indagare, l’insegnare, l’apprendere […] tutto in rapporto a quell’Uno ed Eterno che è sempre presente sopra gli altari nel SS. Sacramento”[iv]. Ancora Bricarelli, invece, individuava nell’antifona O sacrum convivium la fonte iconografica dell’affresco[v] definito poi dal Muntz “la più alta espressione della pittura cristiana […] il più perfetto compendio di quindici secoli di fede”[vi]. Il soggetto proposto, il Trionfo, viene successivamente confermato da altri studiosi come Ernst Gombrich, Konrad Oberhuber, James Beck[vii].

 

La Disputa I: il disegno preparatorio e i significati simbolici

Una iniziale meditazione sull’architettura compositiva generale viene eseguita dall’artista in un disegno, che John Shearman definì Disputa I (fig. 2), oggi custodito presso la Royal Library del Castello di Windsor. Rispetto alla versione finale, nello studio – un acquerello con rialzi a biacca – Raffaello dispone i personaggi del registro inferiore dinanzi ad un porticato, oltre a non inserire, nella parte centrale, l’altare. La Disputa I evidenzia inoltre come l’artista non sentisse il bisogno di fornire un abbozzo dell’intera composizione, bensì di una sola metà (la sinistra) che sarebbe stata ripetuta successivamente in maniera perfettamente speculare.

 

Richiamando una tesi precedentemente espressa da Matthias Winger (Progetti ed esecuzione nella Stanza della Segnatura), Kim Butler Wingfield (Networks of knowledge: inventing Theology in the Stanza della Segnatura) ha portato l’attenzione sulla struttura architettonica che, ancor presente nello studio, è stata poi definitivamente accantonata nella versione finale dell’affresco. Il piano originale di Raffaello – sostiene Winner – era centrato sul concetto agostiniano di Civitas Dei, la “città di Dio” in cui le pietre da costruzione altro non sono che i cittadini stessi (Agostino usa l’espressione lapides vivi, ovverosia “pietre vive”)[viii]. Nei piani di Giulio II, pontefice fortemente legato al Corpus Domini, l’aspetto da tenere in maggiore considerazione doveva essere invece quello della corporalità di Cristo, del suo essere anche carne oltre che verbo[ix]. In virtù dell’emersione di predicazioni eretiche dal nord Europa, poi (Wycliffe, Hus) la riaffermazione della natura terrena di Cristo acquisisce, nell’affresco, un significato eminentemente politico.

 

Il registro inferiore: l’Ecclesia Militans

Il registro inferiore della composizione è interamente popolato dal consesso di dottori della chiesa, santi teologi ma anche letterati che, disposti a semicerchio attorno all’ostensorio, formano l’“esercito” del Signore, la Chiesa Militante (Ecclesia Militans, fig. 3). La chiara fama di molti di questi personaggi ha reso, poi, la loro identificazione estremamente semplice.

 

Ponendosi in ideale continuità con il brano paesistico del fondale, la figura che chiude la composizione all’estremità sinistra altri non è che Donato Bramante, soprintendente, all’epoca, del cantiere per la nuova Basilica di San Pietro, il cui avanzamento dei lavori è del resto richiamato sullo sfondo. Tra le altre figure presenti, i quattro Dottori della chiesa ricoprono delle posizioni privilegiate. Fiancheggiando l’altare da sinistra (Girolamo, Gregorio Magno) e da destra (Agostino, Ambrogio) i dottori sono individuati precisamente grazie ai nomi inscritti nelle aureole. La loro presenza risulta fondamentale per un motivo molto semplice: è ai Dottori, infatti, che si deve la sistemazione teorica del dogma della Transustanziazione, ovverosia la reale (e non simbolica) presenza di Cristo nell’Eucarestia. San Girolamo, affiancato dal leone, uno dei suoi simboli canonici di accompagnamento, aveva sottolineato la presenza di Cristo nell’ostia (Commento a Matteo) così come del resto aveva fatto Agostino (Sermoni). Su Gregorio, invece, è caduta recentemente l’attenzione di Kim Butler-Wingfield (Networks of Knowledge: Inventing Theology in the Stanza della Segnatura, 2017). La studiosa, a partire dal confronto iconografico effettuato da Frederick Hartt tra il santo dottore e una una medaglia, oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, in cui l’orafo Caradosso Foppa aveva effigiato Giulio II, ha posto l’accento sulla centralità di Gregorio. Quest’ultimo aveva, tra il VI e il VII secolo, modificato la preghiera Eucaristica introdotta da Sant’Ambrogio (375 d.C.). In occasione di una messa, poi, lo scetticismo di una donna circa l’effettiva veridicità della Transustanziazione erano stati fugati grazie alla preghiera di Gregorio, che ebbero come conseguenza la trasformazione del pane nel vero corpo di Cristo. Attorno alla metà del XIV secolo, la leggenda trovò enorme diffusione anche in relazione all’imago pietatis di Santa Croce a Firenze, che era considerata l’immagine effettivamente vista secoli prima in occasione della messa. La medaglia di Caradosso, così come altre effigi fatte eseguire dal della Rovere, recava, sul verso, proprio l’imago pietatis di Santa Croce, e questo particolare inevitabilmente va a rafforzare il legame ideale tra i due pontefici. Le analogie, anche e soprattutto di carattere fisionomico, tra Giulio II e Gregorio si spiegherebbero, secondo la studiosa, anche alla luce del particolare accanimento dimostrato dai lanzichenecchi nel 1527 verso l’immagine di Gregorio/Giulio, che è infatti fortemente danneggiata. L’ira dei mercenari imperiali, nota Butler-Wingfield, si spiegherebbe perfettamente proprio considerando una simile confusione tra ciò che l’immagine rappresenta (Gregorio) e la sua effettiva ricezione. È tuttavia un altro particolare ad essere risolutivo per la studiosa: Gregorio/Giulio è, insieme a Sisto IV sul lato opposto (ancora un della Rovere) l’unico personaggio a poter disporre della visione del Trionfo celata agli altri; da ciò ne deriva la conclusione che l’episodio inscenato è una visione del santo. Questi, ancora nel Liber Moralium – testo a commento di Giobbe presente ai suoi piedi nella Disputa – aveva fortemente contestato la teoria secondo la quale il corpo di Cristo non era, al momento della Resurrezione, solido, opponendo invece il principio di corpo palpabile per veritatem naturae[x].

Collocato perfettamente al centro della scena, l’ostensorio, centro di gravità dell’intera composizione, si pone perfettamente all’interno di una verticale ideale che lo congiunge con la Trinità (la colomba dello Spirito Santo, il Figlio e il Padre). Ciò che appare dell’ostia, la sua componente materiale, va così ad integrarsi alla sua essenza – il corpo di Cristo – accessibile alla sola visione del consesso di santi e patriarchi che lo circondano. A destra, altri personaggi riconoscibili sono pontefici come Sisto IV e Innocenzo III. Ai piedi del primo, zio di Giulio II, compare il trattato De sanguine Christi, altra rivendicazione forte circa la natura terrena di Cristo e altro prezioso indizio della decisa presa di posizione ideologica da parte di Giulio. Ai lati di Innocenzo, poi, compaiono i due maggiori teologi del Duecento, Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio (canonizzato da Sisto IV nel 1482), che come i dottori della Chiesa recano il loro nome all’interno del nimbo, precedendo nel corteo lo stesso Dante Alighieri che proprio ai due santi aveva lasciato ampio spazio nei canti X-XII del Paradiso. Nel canto X, Tommaso è il primo a palesarsi al poeta:

“Io fui de li agni de la santa greggia

che Domenico mena per cammino

u’ ben s’impingua se non si vaneggia”

(Dante, Paradiso, X, 94-96)

Se nel canto successivo Dante continua a lasciare la parola al bue muto (epiteto con cui Tommaso venne ribattezzato dai suoi confratelli all’Università di Parigi), il quale descrive la vita e l’eredità di Francesco d’Assisi, un’operazione analoga è condotta, nel canto XII, da Bonaventura (questa volta in riferimento a Domenico di Guzman), che viene così introdotto dall’Alighieri:

“Io son la vita di Bonaventura

da Bagnoregio, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.”

(Dante, Paradiso, XII, 127-129)

 

 

L’Ecclesia Triumphans

 

Al di sopra di una cortina di nubi dal quale fa capolino una molteplicità di piccole teste di putti, una teoria di santi circonda le figure della Vergine e di Giovanni Battista, a loro volta collocate ai lati di un Cristo in gloria. Assiso anch’esso su una nube, la sua figura sovrasta la colomba dello Spirito Santo, fiancheggiata a sua volta da quattro piccoli angeli intenti a tenere aperti i quattro Vangeli canonici. Schiere angeliche si innalzano del resto anche nella porzione superiore della scena, in prossimità del profilo dell’arco, e affiancano l’immagine perfettamente ieratica e frontale di Dio Padre che, tenendo in mano il globo terrestre, viene dotato di un nimbo (aureola) quadrato e circondato da una cascata di angeli che sembrano fluire verso il basso all’interno di linee disposte a raggiera.

Così come per la Chiesa Militante, anche per l’Ecclesia Triumphans (fig. 4) sul registro superiore l’individuazione dei santi effigiati risulta compito relativamente intuitivo. All’estrema sinistra, il gioco di sguardi tra San Pietro e Adamo (riconoscibile dalla nudità) precede le figure di San Giovanni Evangelista e di Re David, intento a suonare la cetra. Completano la figurazione Santo Stefano e il profeta Geremia. Il lato destro, chiuso invece da San Paolo, prosegue verso l’interno con Abramo, una figura di apostolo – la cui identità non è ancora perfettamente chiarita (San Giacomo o San Matteo) – Mosè (quest’ultimo riconoscibile dalle Tavole della Legge), San Lorenzo e Giuda Maccabeo.

 

La Disputa: le fonti iconografiche

Ogni analisi che si ponga come scopo quello di approfondire ad un discreto livello la questione relativa alle fonti iconografiche di un dato testo figurativo non può prescindere dai suoi precedenti. Prima di soffermarsi su parallelismi più diretti ed immediati, appare necessario effettuare una ricognizione che metta a fuoco questioni meno ovvie. Ancora Butler-Wingfield si sofferma, a tal proposito, sull’iconografia del Trionfo di San Tommaso. Tra le diverse variazioni sul tema menzionate dalla studiosa, quella offerta da Benozzo Gozzoli per Santa Caterina a Pisa (ora al Louvre, fig. 5) appare adeguata e perfettamente inscrivibile nella storia personale di Giulio. Così come nella Disputa, infatti, anche nella pala pisana compare la figura di Sisto IV. Da una prospettiva più eminentemente figurativa, poi, nel Trionfo di Tommaso appare quell’idea di asse centrale invisibile che lega una figura principale (Tommaso) alla quale si sovrappone quella del Padre Eterno.

 

La pala di Benozzo non esaurisce, però, il campionario di modelli a cui Raffaello sembra aver fatto riferimento per l’organizzazione, per l’impaginazione generale della scena. Fonti più vicine a lui, non cronologicamente ma geograficamente – le basiliche paleocristiane – potrebbero avere avuto un ruolo, un’influenza nelle scelte dell’urbinate. Alcune ipotesi sono state individuate, a tale scopo, dalla studiosa americana Bonnie Kutbay (Early Christian iconography in Raphael’s disputa), che ha inizialmente proposto un confronto con il mosaico absidale di Santa Costanza[xi] e con la decorazione del catino della basilica petrina, la cui conformazione venne copiata ai primi del Seicento (1605) da Giacomo Grimaldi, prima dei lavori di demolizione della navata portati avanti da Paolo V e affidati a Carlo Maderno (1612). La Kutbay sottolinea come tanto nei mosaici petrini quanto nella Disputa la separazione tra cielo e terra venisse segnalata da una linea curva, e di come la stessa rappresentazione del Paradiso fosse portata avanti per mezzo di linee radianti. Elemento, questo, che si ripete anche in altri mosaici absidali, quello dell’Incoronazione della Vergine, che Jacopo Torriti completò nel 1296 in Santa Maria Maggiore (fig. 6), o quello di San Clemente. La disposizione semicircolare degli apostoli attorno a Cristo, tuttavia, risale addirittura al V secolo (mosaici di Santa Pudenziana, Roma, fig. 7).

 

L’analisi dei modelli a disposizione di Raffaello va infine portata alle soglie del Cinquecento, addentrandosi all’interno del corpus pittorico raffaellesco. Il primo esempio utile a riguardo è il Giudizio Universale affrescato tra il 1499 e il 1501 da Fra Bartolomeo e Mariotto Albertinelli in una delle cappelle dell’Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze (Fig. 8). L’affresco, oggi staccato e conservato al Museo San Marco, appare, pur nelle lacune nella parte superiore, il precedente più vicino – almeno per la conformazione della parte superiore – alla Disputa ma, ancor prima, alla Trinità e santi (1505-1508, fig. 9), altra opera condotta a quattro mani da Raffaello e Perugino per la cappella Sansevero.

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, p. 69.

[ii] A. Paolucci, Raffaello in Vaticano, p. 10.

[iii] A. Spadaro, La civiltà cattolica, p. 334.

[iv] Le parole di Pastor sono riportate in ibidem, nota 1.

[v] C. Bricarelli, Il pensiero cristiano del Cinquecento nell’arte di Raffaello, p. 59. Le parole di Bricarelli sono riportate in A. Spadaro, la civiltà cattolica, p. 334.

[vi] Le parole di Muntz sono contenute in A. Spadaro, La civiltà cattolica, p. 335.

[vii] B.L. Kutbay, Early christian iconography in Raphael’s Disputa, p. 245.

[viii] Kim Butler Wingfield, Networks of knowledge: inventing Theology in the Stanza della Segnatura, p. 180.

[ix] Ibidem.

[x] Ivi, p. 187.

[xi] B. L. Kutbay, early christian iconography in Raphael’s disputa, p. 247.

 

 

Bibliografia

Kim Butler Wingfield, Networks of Knowledge: Inventing Theology in the Stanza della Segnatura, in “Studies in Iconography”, vol. 38, Kalamazoo, Medieval Institute Publications of Western Michigan University, 2017, pp. 174 – 221.

Bonnie L. Kutbay, Early christian iconography in Raphael’s Disputa, in “Journal of Literature and Art Studies”, vol. 9, no. 2, 2019, David Publishing, pp. 245-260.

Antonio Paolucci, Raffaello in Vaticano, “Art Dossier”, n. 298, Firenze – Milano, 2013.

Deoclecio Redig de Campos, Raffaello nelle stanze, Milano, Martello, 1965.

John Shearman, Raphael as architect, in “Journal of the Royal Society of Arts”, vol. 116, no. 5141, Londra, Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, 1968, pp. 388-409.

John Shearman, The vatican stanze: functions and Decoration (1971), in George Holmes (a cura di), Art and Politics in Renaissance Italy. British Academy Lectures, New York, The British Academy Press, 1993.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.


LA CORTE DI URBINO E RAFFAELLO PT II

A cura di Maria Giulia Marsili

 

Gli anni di formazione di Raffaello

In questa seconda parte verrà analizzata la figura di Raffaello Sanzio, ponendo l’attenzione sugli anni giovanili trascorsi nel territorio umbro – marchigiano ed il forte legame creatosi con questa zona, che l’artista ricorderà sempre.

 

«il 28 marzo o il 6 aprile dell'anno 1483, in Venerdì Santo a ore tre di notte, d’un Giovanni de’ Santi, pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno et atto a indirizzare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù»
Da Giorgio Vasari, Vita di Raffaello da Urbino, in Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, 1568.

 

Nonostante l’incertezza sulla sua presunta data di nascita, sicuramente certa è la sua data di morte: il 6 aprile 1520 il giovane Raffaello Sanzio si spegneva a Roma dopo 15 giorni di malattia, a soli 37 anni. Malgrado la sua breve vita, le sue opere hanno segnato in modo decisivo il passaggio dal primo Rinascimento alla “maniera moderna”. La madre, Magia di Battista di Niccolò Ciarla, scomparve nel 1491, non lasciando nel giovane Raffaello un vivido ricordo. Il padre, Giovanni Santi rappresentò invece un pilastro importante per la sua formazione personale ed artistica: pittore – seppur definito dal Vasari “non molto eccellente” – attivo alla corte urbinate all’epoca dei Montefeltro. Egli delineò in Raffaello l’idea di “artista di corte consapevolmente colto”, impegnato in ambito artistico in senso lato: non solo in ambito pittorico ma anche teatrale e letterario. La sua opera maggiore fu il poema in terza rima redatto negli anni Ottanta del Quattrocento dal titolo La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca di Urbino. Tuttavia anche Giovanni Santi morì presto, il 1 agosto 1494, lasciando nell’undicenne Raffaello un vuoto colmato dall’enorme stimolo culturale che gli tramandò. Frequentando la bottega paterna egli apprese i primi insegnamenti in materia di pittura ed inoltre potè entrare in contatto con le varie personalità artistiche che giungevano alla corte dei Montefeltro, aprendo così il lungo processo di assimilazione che lo caratterizza. In eredità al figlio lasciò proprio la sua attiva bottega, la quale godeva di un solido patrimonio e di un diretto protettorato da parte delle famiglie più illustri della zona.

 

Raffaello, fra Perugia e Città di Castello

La sua continua assimilazione di ogni stimolo culturale, che portò Raffaello ad essere il grande artista rivoluzionario del suo tempo, caratterizzò il suo operato fin dai primi anni. Prima della sua morte il padre Giovanni Santi fece in tempo a mandare il figlio a Perugia, alla bottega di Pietro Perugino – conosciuto precedentemente durante un possibile soggiorno dell’artista ad Urbino – il quale deteneva il dominio del mercato artistico cittadino e la cui impronta è onnipresente nelle opere giovanili dell’artista.

 

Ma fu nella vicina Città di Castello che Raffaello compì le prime opere autonome: fra queste si menziona lo Stendardo della SS. Trinità e la grande pala d’altare, oggi danneggiata da un terremoto, raffigurante San Nicola da Tolentino, firmata come “Magister”. Quest’ultimo appellativo fu accompagnato a quello di “Illustris” nello stesso anno: nel 1500, a soli 17 anni Raffaello era già consapevole del suo potenziale e non perse occasione per renderlo noto. Nella città operavano già Signorelli e Pinturicchio, i quali Raffaello ebbe sicuramente modo di conoscere e che ritroviamo in alcuni tratti delle sue opere giovanili.

 

Gli anni fiorentini e il rapporto con le Marche

Fu l’ambizione il motore che portò Raffaello nell’autunno del 1504 fuori da Urbino e dall’Umbria, e Firenze si presentava ai tempi come luogo prediletto per “cercar fortuna” e nuovi stimoli. Qui entrò in contatto con le opere dei grandi della tradizione quattrocentesca della generazione precedente – Donatello, Masaccio e Luca Della Robbia – ma soprattutto ebbe modo di conoscere i protagonisti indiscussi della scena – Leonardo Da Vinci e Michelangelo Buonarroti – i quali avevano già dato inizio alla grande rivoluzione della “maniera moderna” rinascimentale del “pensare per figure”. Dallo studio delle loro opere Raffaello approfondì il suo percorso di sintesi artistica, approfondendo soprattutto l’osservazione anatomica delle figure, del loro movimento e delle loro espressioni.

Tuttavia, due delle tre grandi pale d’altare che Raffaello realizzò a Firenze erano ancora destinate a Perugia: la Pala Ansidei per la chiesa di S. Fiorenzo e la Pala Baglioni per la chiesa di S. Francesco al Prato, commissionata da Atalanta Baglioni per la morte del figlio Grifonetto durante la sanguinosa lotta contro la famiglia Oddi per il predominio sulla città. Nella prima opera, nonostante il progresso ottenuto nella realizzazione dell’ombreggiatura e del chiaroscuro, spicca ancora quella quiete meditativa tipica delle opere del Perugino, in cui le figure, seppur vicine, non sembrano essere in contatto fra loro.

 

La seconda, la Pala Baglioni, può essere considerata l’opera decisiva del passaggio di Raffaello dalla giovinezza alla maturità: l’artista scelse di “dipingere una storia” – che secondo Leon Battista Alberti era il compito più alto della pittura – rifacendosi ad una serie di citazioni provenienti dalle opere di Michelangelo e dai traguardi leonardeschi. Nonostante ciò il paesaggio rimane ancora quello vivido del Perugino, ricco di suggestioni fiamminghe, luminoso e pieno di nitidi colori.

 

 

 

Bibliografia

Thoenes, Raffaello (1483-1520). L’invenzione dell’alto Rinascimento, edizione italiana a cura di Francesca del Moro, Modena, TASCHEN GmbH, 2012.

Strinati, Raffaello, “Art e Dossier”, n. 97, Giunti, Firenze, 1995.

Lorenza Mochi Onori, saggio del catalogo della mostra “Raffaello e Urbino”, 2019.

P. Di Teodoro e V. Farinella, Santi, Raffaello, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 90, 2017.

 

Sitografia

http://www.gallerianazionalemarche.it

http://www.gallerianazionalemarche.it/collezioni-gnm/lo-studiolo/

http://www.terredelperugino.it/panorami-ispirato-perugino/

https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-da-montefeltro-duca-di-urbino/


LA STANZA DELLA SEGNATURA DI RAFFAELLO IN VATICANO

A cura di Andrea Bardi

 

Storia della Stanza "della Segnatura"

La Stanza detta “della Segnatura” [Fig. 1] afferisce all’insieme di ambienti che, in corrispondenza dell’ala settentrionale del secondo piano del complesso dei Palazzi Apostolici Vaticani, formano l’appartamento che papa Giulio II della Rovere [Fig. 2], salito al soglio pontificio il 31 ottobre 1503, volle, ad un certo punto, predisporre ad uso privato. Circa il motivo del trasferimento in questi ambienti, risolutive appaiono le parole del cerimoniere pontificio Paride de’ Grassis il quale, nel suo diario personale, così scriveva:

“Hodie papa incepit in superioribus mansionibus palatii habitare, quia non volebat videre omni hora, ut mihi dixit, figuram alexandri praedecessoris sui, inimici sui, quem marranum et iudaeum appellabat, et circoncisum”[i]

 

 

Fu un movente di carattere politico, dunque – l’acrimonia, l’odio accumulato negli anni nei confronti di papa Alessandro VI Borgia – a spingere della Rovere a trasferirsi dall’appartamento del rivale (da pochi anni frescato dal Pinturicchio) altrove. Le notazioni di De’ Grassis risultano utili, tuttavia, anche per comprendere la datazione dell’insediamento di Giulio in quelle che sarebbero divenute poi famose come le Stanze. Il brano, risalente al 26 novembre 1507, riporta l’indicazione “hodie” (oggi) ed è perciò immediatamente comprensibile che fu quello il giorno esatto in cui il pontefice stabilì in quegli ambienti la sua residenza.

Da quel momento in poi, Giulio II intraprese una campagna decorativa che vide, in un primo momento – come recita del resto l’Opusculum de mirabilibus Novae & Veteris Urbis Romae, scritto nel 1509 da Francesco Albertini – un gruppo di pictores concertantes, che comprendeva nomi di assoluto rilievo come Luca Signorelli, Bramatino, Sodoma, Peruzzi e Lorenzo Lotto. Proprio a quest’ultimo risultano due pagamenti (7 marzo e 9 marzo 1509) per delle pitture “in camera bibliothece” e “in cameris superioribus papae prope librariam”[ii].

L’arrivo di Raffaello, nel 1508, venne, secondo la testimonianza di Giorgio Vasari, favorito in certa misura dall’architetto e compaesano Donato Bramante, all’epoca al lavoro nel cantiere di rinnovamento di San Pietro. Scrive Vasari:

“Bramante da Urbino, essendo a’ servigi di Giulio II, per un poco di parentela, ch’aveva con Raffaello & per essere di un paese medesimo, gli scrisse che haveva operato col papa, il quale haveva fatto fare certe stanze, ch’egli potrebbe in quelle, mostrare il valor suo, piacque il partito a Raffaello”[iii]

Una volta giunto a Roma, Raffaello colpì il pontefice a tal punto che egli decise di distruggere tutti gli interventi pittorici della campagna decorativa in corso e di affidare all’urbinate un nuovo ciclo da realizzare ex novo. Il primo pagamento a Raffaello risale al 13 gennaio 1509, mentre il 4 ottobre dello stesso anno il pittore, nominato da Giulio scriptor brevium apostolicorum, divenne il solo maestro all’opera nella stanza (precedentemente risultava ancora affiancato dal Sodoma). Gli interventi artistici di Raffaello, discussi in successivi approfondimenti, verranno completati nel 1511. Un’iscrizione che corre sullo sguincio della finestra a dividere, nella parete delle Virtù e della Legge, le due scene con Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano [Fig. 3] e Gregorio IX che approva le Decretali [Fig. 4] recita infatti:

 JVLIVS II. LIGVR. PONT. MAX. ANN. CHRIST. MDXI. PONTIFICAT. SVI. VIII

Essendo stato eletto nel 1503 (31 ottobre), l’ottavo anno di pontificato (“ANN. […] PONTIFICAT. SVI. VIII”) è dunque il 1511.

 

 

La funzione. Le ipotesi degli studiosi.

Il problema relativo a quella che era la funzione originaria della sala rimane, allo stato attuale della ricerca, l’interrogativo più stimolante. L’appellativo “della Segnatura”, che viene impiegato, sempre da De’ Grassis, già nel 1513, deve la sua fortuna ad una erronea considerazione di Giorgio Vasari[iv], per il quale l’ambiente fungeva da sede del Tribunale pontificio della Segnatura Gratiae et Iustitiae. Tali mansioni, tuttavia, venivano portate avanti nella stanza ancora oggi conosciuta come Stanza dell’Incendio, e proprio a partire da tali considerazioni la critica si è, a partire dalla fine dell’Ottocento, interrogata sulle ipotetiche funzioni della sala in questione. La posizione più accreditata, al giorno d’oggi, vorrebbe la sala una biblioteca privata del pontefice. Il primo storico ad avanzare tale ipotesi fu l’austriaco Franz Wickhoff nel 1893 (Die Bibliothek Julius II). A suffragare tale ipotesi, la suddivisione tematica degli scaffali – già vista nella biblioteca di Niccolò V – e soprattutto un costante riferimento all’oggetto libro lungo tutte le pareti dipinte. L’idea di Wickhoff incontrò però, sin da subito, il parere contrario di altri storici: Paul Fabre, già nel 1895, oppose all’ipotesi dell’austriaco una seconda suggestione ancora a partire dall’Opusculum. In queste righe, la “pensilis Julia” – così era chiamata la biblioteca privata di Giulio II – era decorata con “signa […] planetarum et coelorum” (simboli dei pianeti e delle stelle). L’altra fonte messa in campo da Fabre fu una lettera scritta il 20 gennaio 1513 da Pietro Bembo il quale, elogiando l’operato del pontefice – ormai sul punto di morte – descriveva ambienti che evidentemente non potevano coincidere con la Stanza della Segnatura per la presenza – non attestata in tale ambiente – di marmi. Anche l’aggettivo pensilis venne ritenuto da Ernst Steinmann (Die Sixtinische kapelle, 1905) risolutivo: la biblioteca privata di Giulio si trovava, per lui, in una posizione sopraelevata rispetto alle Stanze.

 

Godefridus Hoogeweerf, attorno alla metà del secolo scorso, connesse un certo “Magister Johannes Ruisch”, pagato (14 ottore 1508) per delle pitture “in cameris superioribus S.D.N. papae”, a un collaboratore di Giovanni da Udine, un certo “Giovanni” fiammingo citato da Vasari proprio nella vita del maestro friulano. I tentativi di identificazione delle parti spettanti, nella Stanza della Segnatura attuali, all’olandese sembrano però destinati al fallimento, e questo per una ragione fondamentale. Più che un pittore nel senso tradizionale del termine, Johannes Ruysch era un eminente cartografo, e a partire da tali considerazioni, unite alla consapevolezza del fatto che all’arrivo di Raffaello le decorazioni della sala vennero totalmente sostituite dall’intervento dell’urbinate, Stefano Pierguidi ha avanzato l’ipotesi che la Segnatura fosse, analogamente alla futura Guardaroba Nuova di Cosimo I a Palazzo Vecchio, “un microcosmo in cui, attraverso le scienze della cosmografia e della cartografia, fosse rispecchiato l’ordinamento del macrososmo”[v]. In tal senso, lo studioso ridiscute l’interpretazione data da una parte di critica contraria alla tesi di Wickhoff – confermata da John Shearman – circa un passo tratto dalla vita vasariana di Baldassarre Peruzzi (edizione del 1550) in cui un ciclo di “tutti i Mesi di chiaro scuro, et in questi tutti gli esercizi che si fanno mese per mese per tutto l’anno” veniva erroneamente fatto coincidere con il ciclo cosmologico dei “signisque planetarum et coelorum” di cui parlava Albertini. Egli recupera, inoltre, la testimonianza di Isabella d’Este che in una lettera del 1507, e per il tramite di Fioramonte Brognolo[vi], chiedeva repliche del “mapamondo et signi celesti, che sono depinti in due spere solide in la libaria del papa”. Non pitture, dunque, bensì mappamondi decoravano la biblioteca privata del pontefice.

Ludwig von Pastor – e in tempi più recenti Vincenzo Farinella – non hanno escluso, d’altra parte, che, piuttosto che trattarsi della biblioteca privata del papa, la Stanza della Segnatura potesse essere stata impiegata come studiolo da parte di Giulio, e questo in virtù di un programma iconografico perfettamente compatibile con tale tipologia di ambiente.

 

 

 

Note

[i] Casadei, Farinella 2017, p. 59. Le annotazioni del diario di De’ Grassis vengono originariamente riportate in Redig de Campos 1965, p. 6, nota 2, e in Shearman 1971, p. 188.

[ii] Agosti 2017, p. 527.

[iii] Vasari 1568, p. 69.

[iv] Unger 2012, p. 278.

[v] Pierguidi 2010, p. 157.

[vi] Ivi, p. 152. La lettera di Isabella d’Este venne connessa all’Opusculum di Albertini da Ludwig von Pastor (1912).

 

 

Bibliografia

Barbara Agosti, La funzione della Stanza della Segnatura al tempo di Giulio II nella storiografia artistica del Novecento, in Survivals, revivals, rinascenze (studi in onore di Serena Romano), a cura di Nicolas Bock, Ivan Foletti, Michele Tomasi, Roma, Viella, 2017, pp. 523-530.

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Arnold Nesselrath, Lorenzo Lotto in the Stanza della Segnatura, in “The Burlington Magazine”, vol. 142, no. 1162, Londra, The Burlington Magazine Publications, 2000, pp. 4-12.

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Daniel M. Unger, The pope, the painter, and the dynamics of social standing in the Stanza della Segnatura, in “Renaissance Studies”, vol. 26., no. 2, Hoboken, Wiley, 2012, pp. 269-287.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.

Edgar Wind, The four elements in Raphael’s “Stanza della Segnatura’”, in “Journal of the Warburg Institute”, vol. 2, no. 1, Londra, The Warburg Institute, 1938, pp. 75 – 79.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

“Il principe delle arti nella Roma dei Papi”, video YouTube, 1:07:48, pubblicato da “Scuderie del Quirinale”, https://www.youtube.com/watch?v=HXT0v9zUQ0Y&list=PLD_FcoDiSjEq4wX-P17vCQBbEIV9gT2VR&index=4

“Raffaello, la “Stanza della Segnatura’ spiegata da Antonio Paolucci”, video YouTube, 30:07, pubblicato da “Arte&pittura”, https://www.youtube.com/watch?v=A-JKRq1fXU0&t=81s

Cathleen Hoeniger, The Art Requisitions by the French under Napoléon and the Detachmente of Frescoes in Rome, with an Emphasis on Raphael, in CeROArt. Conservation, exposition, restauration d’objets d’art, HS, 11 aprile 2012, DOI:10.4000/ceroart.2367 (consultato il 26 ottobre 2020).


LA CORTE DI URBINO E RAFFAELLO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Raffaello Sanzio e Urbino

Quello di Raffaello è il terzo grande nome – accanto a quello di Leonardo Da Vinci e di Michelangelo Buonarroti – che caratterizza il lucente periodo del Rinascimento italiano. I suoi grandi capolavori del periodo fiorentino e romano, che rispecchiano perfettamente tutti gli ideali classici rinascimentali, sono frutto della continua assimilazione e rielaborazione di ogni stimolo culturale incontrato lungo il suo percorso, che partì eccezionalmente dall’allora piccolo ducato di Urbino. Negli ultimi decenni del Quattrocento la città di Urbino era divenuta teatro privilegiato per l’operato dei grandi artisti ed architetti dell’epoca, invitati a corte dal duca Federico da Montefeltro. Quest’ultimo, condottiero, capitano di ventura e soprattutto grande uomo di cultura e mecenate, influenzò e caratterizzò gli anni successivi che inaugurarono il Cinquecento sotto il segno di una florida e salda cultura artistica, dando spazio anche all’esperienza scientifica e tecnica. In questo “locus amoenus” delle arti mosse i primi passi Raffaello Sanzio, il quale seppe cogliere ogni possibile impulso da quell’ambiente, così motivante ed energico, prima di spostarsi a Firenze e poi definitivamente a Roma, dove tutt’ora la sua salma è conservata all’interno del Pantheon.

 

«Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette mentre era vivo di esser vinta;

ma ora che è morto teme di morire»

 

In questa prima parte verrà analizzato quel fervore culturale che caratterizzò la città di Urbino negli ultimi anni del Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento, ponendo l’attenzione sulla figura del duca Federico da Montefeltro.

 

L’Urbino dei Da Montefeltro

Se il 1483 fu l’anno che vide la nascita della brillante stella di Raffaello, l’anno precedente un’altra stella altrettanto lucente vide la sua fine: il duca Federico da Montefeltro morì il 10 settembre 1482 durante la guerra di Ferrara. Il duca nacque nel 1422 a Gubbio, ma i suoi natali sono piuttosto confusi: i più lo vogliono figlio illegittimo – poi legittimato dalla bolla papale di papa Martino V – di Guidantonio da Montefeltro, dal quale successivamente ereditò il ducato di Urbino, a seguito della morte prematura di Oddantonio, al potere per meno di un anno, dal 1443 al 1444. Federico, dopo aver ottenuto il titolo ducale di Urbino da papa Sisto IV, riuscì a trasformarlo in breve tempo nel secondo centro artistico rinascimentale più importante della Penisola, secondo solamente a quello di Firenze, guidato da Lorenzo il Magnifico. Portato alla massima espansione territoriale ed ad una prosperità economica mai vista prima, il ducato divenne centro nevralgico per i maggiori pittori, architetti, ingegneri dell’epoca: Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Francesco di Giorgio Martini, Leon Battista Alberti. Per comprendere al meglio, con una sola immagine, la sintesi perfetta dell’essere del duca Federico si può osservare la famosa opera di Pietro Berruguete, realizzata per l’interno del prezioso studiolo all’interno di Palazzo Ducale.

 

Il duca, seduto su una lussuosa sedia rivestita in velluto verde, si presenta come un perfetto condottiero e capitano di ventura: indossa la sua armatura sotto ad una cappa purpurea foderata di ermellino ed ha con sé una spada e la mazza del comando. Al contempo egli appare assorto nella lettura di un codice, come a voler sottolineare il suo profondo interesse per la cultura. Al suo fianco, con un braccio delicatamente appoggiato a lui, è rappresentato il figlio Guidobaldo, nato nel 1472, anch’egli vestito in modo estremamente lussuoso: la diagonale immaginaria fra il volto di Federico e quella del figlio simboleggia la trasmissibilità ereditaria del potere, ottenuta, come già detto, solamente nel 1474.

 

Il Palazzo Ducale e lo studiolo di Federico

 

“Tra l’altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni cosa sì ben opportuna lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva”

Da Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, 1528.

 

Fra le numerose committenze legate a Federico da Montefeltro, che connotano ancora oggi la città di Urbino, vi è l’edificazione di quella “città in forma di palazzo” – come la definì Castiglione nel suo Cortegiano – che è il Palazzo Ducale. Constata l’insufficienza del vecchio palazzo Bonaventura, fino ad allora sede della casa dei Montefeltro, Federico optò per l’edificazione di una nuova imponente costruzione in pieno stile rinascimentale, servendosi dei numerosi ingegneri ed architetti che giungevano numerosi alla corte di Urbino, divenuta culla dell’umanesimo matematico. Dalla prima aggregazione di varie dimore feltresche, adiacenti alla zona occupata ora da piazza Rinascimento, iniziata già nel 1445, Federico inaugurò la prima fase di costruzione nel 1447 sotto la responsabilità dell’architetto e scultore fiorentino Maso di Bartolomeo. Ingenti rinnovamenti sopraggiunsero nel 1468 con l’arrivo dell’architetto dalmata Luciano Laurana, allievo di Leon Battista Alberti, in precedenza attivo a Mantova per la famiglia Gonzaga. Con la realizzazione dello scalone e del cortile d’onore e della caratterizzante facciata dei Torricini si giunse all’impostazione rinascimentale dell’architettura contraddistinta da un elevato equilibrio delle parti.

 

L’ultima fase di edificazione, dal 1476 al 1482, vide la realizzazione della rampa elicoidale che collegava il mercatale con lo stesso palazzo, e dell’imponente facciata ad ali, per opera di Francesco di Giorgio Martini da Siena: nobile architetto molto apprezzato alla corte dei Da Montefeltro che progettò inoltre la realizzazione del duomo di Urbino e di altre svariate numerose fortezze nell’ampio territorio della casata.

 

A seguito di questo breve e conciso excursus sulla costruzione del Palazzo Ducale, è essenziale soffermarsi sul piccolo luogo dedicato agli studi che Federico da Montefeltro fece costruire all’interno sul suo palazzo dal 1475. L’uso di adibire una piccola stanza, lontana dai clamori degli ambienti principali della residenza, venne ripreso già dal XIV secolo su consuetudine francese: ciò è prova della profonda cultura ed impegno che Federico poneva in questo ambito. Il suo interno rappresenta un’invidiabile exempla di come uno studiolo dovesse essere al tempo, esso è un vero e proprio gioiello da custodire. Le tarsie lignee ad opera di Giuliano e Benedetto da Maiano, che ricoprono la parte inferiore della stanza rappresentano – con un magico effetto trompe-l’oeil – armadi e sedili con oggetti soliti degli studioli di cardinali, insieme alla figurazione delle tre Virtù teologali. Il tutto adornato da strumenti musicali e matematici che rimandano alla tradizione pitagorica e platonica cara alla cultura matematico-scientifica di Federico. Nella tribuna superiore sono presenti 14 ritratti (all’epoca 28) di uomini illustri, filosofi, poeti e padri della Chiesa realizzati quasi certamente da Pedro Berruguete su disegno del fiammingo Giusto di Gand. È interessante notare come tutto sia permeato dal forte dualismo fra sacro e profano: la sintesi fra i due ambiti risultava essenziale ed efficace a Federico, come a dimostrazione della sua polivalente cultura. Ma non solo, in quell’epoca l’ambivalenza fra cristiano e pagano si trovava all’acme, tanto che successivamente sarà anche proposta da Raffaello all’interno delle Stanze Vaticane.

 

 

Bibliografia

Thoenes, Raffaello (1483-1520). L’invenzione dell’alto Rinascimento, edizione italiana a cura di Francesca del Moro, Modena, TASCHEN GmbH, 2012.

Strinati, Raffaello, “Art e Dossier”, n. 97, Giunti, Firenze, 1995.

Lorenza Mochi Onori, saggio del catalogo della mostra “Raffaello e Urbino”, 2019.

P. Di Teodoro e V. Farinella, Santi, Raffaello, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 90, 2017.

 

Sitografia

http://www.gallerianazionalemarche.it

http://www.gallerianazionalemarche.it/collezioni-gnm/lo-studiolo/

http://www.terredelperugino.it/panorami-ispirato-perugino/

https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-da-montefeltro-duca-di-urbino/


SULLE TRACCE DI UN’OPERA RAFFAELLESCA: IL SUCCESSO DELLA MADONNA DEL VELO

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Al Museo Pontificio della Santa Casa di Loreto è possibile visitare, fino al 17 ottobre 2021, una suggestiva mostra che integra esperienza visiva ed esperienza virtuale: La “Madonna di Loreto” di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera.

Questa mostra, curata dal dott. Fabrizio Biferali e dal dott. Vito Punzi, si inserisce nell’ambito delle celebrazioni raffaellesche del 2020 - in occasione dei 500 anni dalla morte del grande artista marchigiano - ma posticipata a causa dell’emergenza sanitaria.

Il fulcro dell’esposizione lauretana è un’opera di Raffaello conservata al Musée Condé di Chantilly, in Francia: La Madonna del velo o La Madonna di Loreto (fig. 1). Eseguita tra il 1511 ed il 1512, dopo aver terminato gli affreschi della Stanza della Segnatura nei Palazzi Vaticani e aver ritratto un anziano papa Giulio II, Raffaello realizza questo dipinto che Vasari descrive così:

 

«un quadro di Nostra Donna bellissimo, fatto medesimamente in questo tempo, dentrovi la Natività di Iesu Cristo, dove è la Vergine che con un velo cuopre il Figliolo, il quale è di tanta bellezza che nell’aria della testa e per tutte le membra dimostra essere vero filgiuolo di Dio: e non manco di quello è bella la testa et il volto di essa Madonna, conoscendosi in lei, oltra la somma bellezza, allegrezza e pietà; èvvi un Giuseppo che, appoggiando ambe le mani ad una mazza, pensoso in contemplare il Re e la Regina del cielo, sta con una ammirazione da vecchio santissimo»[1].

 

Fig. 1 - Raffaello Sanzio, Madonna del velo, circa 1511-1512, olio su tavola, 120x190 cm, Musée Condé, Chantilly. Credits: Di Raffaello Sanzio - Web Gallery of Art: Immagine Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1082824.

 

Giorgio Vasari ricorda che questo dipinto si trovava nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, insieme al ritratto di Giulio II (fig. 2), e che veniva esposto al pubblico durante le feste solenni.

Fig. 2 - Raffaello Sanzio, Ritratto di Papa Giulio II, circa 1511-1512, olio su tavola, 108x81 cm, The National Gallery, Londra. Credits: Di Raffaello Sanzio - National Gallery, London, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=100865.

Il doppio nome dell’opera, secondo l’ipotesi più accreditata, è dovuto alla donazione da parte di un devoto di una copia al santuario della Santa Casa di Loreto, collocata nella Sala del Tesoro dove rimase dal 1717 al 1797. Il soggiorno lauretano di quest’opera ebbe una tale risonanza al punto da far acquisire all’originale anche il nome di Madonna di Loreto. D’altronde è nota ai più la devozione verso questo santuario di papa Giulio II, che diede un nuovo slancio architettonico ed artistico alla basilica ponendola sotto la giurisdizione della Santa Sede.

Il motivo iconografico del quadro raffaellesco è la natività, con la Madonna ritratta nel momento di scoprire – o coprire – il Bambin Gesù. Il velo è un simbolo antico che allude alla Passione e morte di Gesù: infatti, secondo un’antica tradizione, quando fu crocifisso Gesù indossava lo stesso velo con cui la Madonna lo coprì alla nascita. Il merito del pittore urbinate è stato quello di rendere in maniera mirabile la profonda tenerezza e l’intimo rapporto affettivo tra la madre ed il figlio, che sembrano entrambi completamente assorti e complici, mentre in secondo piano San Giuseppe osserva con rigoroso rispetto la scena giocosa.

Intento dell’esposizione è lo studio delle vicende legate a questo dipinto e l’analisi storico-critica di analoghe iconografie contemporanee o successive ad esso, mirando a raccontare il mistero di un’opera che fu oggetto di centinaia di riproduzioni e repliche.

La mostra si presenta in una duplice veste – virtuale e visiva – ed è suddivisa in tre tappe, che permettono al visitatore di calarsi in diverse esperienze sensoriali.

La prima tappa è di tipo multimediale: un video immersivo introduce il visitatore alla comprensione dei due dipinti del pittore urbinate originariamente conservati nella chiesa di Santa Maria del Popolo di Roma - La Madonna del Velo (o Madonna di Loreto) e il Ritratto di Giulio II – ed allo svelamento di copie o repliche del primo dipinto, alcune presenti in mostra, altre solo narrate virtualmente. In questa presentazione virtuale non mancano alcuni esempi virtuosi, come quello del maestro veneziano profondamente influenzato da Raffaello, Sebastiano del Piombo, che si cimentò più volte nella rappresentazione di questo soggetto portandolo ad estreme conseguenze. Le sue due versioni della Madonna del Velo, un olio su tavola databile al 1525 ed un olio su lavagna del 1535 (fig. 3), restituiscono un’atmosfera meno gioiosa: il Bambin Gesù è profondamente addormentato, prefigurazione della sua futura passione e morte.

Fig. 3 - Sebastiano del Piombo, Madonna del Velo, circa 1535, olio su lavagna, 112x88 cm, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Credits: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30693731.

Nel video è presente anche un’interessante disamina circa la committenza raffaellesca, necessaria per comprendere la genesi dell’opera.

Al termine di questa esperienza sensoriale, si presenta la seconda tappa in cui al visitatore vengono svelate le opere in presenza, ovvero copie dell’originale raffaellesco postume e contemporanee che attestano la grande fortuna del soggetto iconografico, allestite nel salone degli Svizzeri del Museo.

Analizzando innanzitutto il territorio marchigiano, una prima copia è quella eseguita da Raffaellino del Colle - Madonna del Velo con tre arcangeli – tra il 1531 ed il 1532 (fig. 4). Si tratta di un olio su tela conservato nel Museo Diocesano Leonardi di Urbania, originariamente destinata all’oratorio del Corpus Domini a Urbania. La scena è qui incorniciata in un’ambientazione architettonica di maggior rilievo: dietro alla Sacra Famiglia si apre un paesaggio naturalistico introdotto da una capanna di legno e da una grande colonna spezzata. I tre arcangeli circondano la Sacra Famiglia, dando l’impressione di volerla proteggere: San Michele, vestito di un’elegante armatura con elmetto, e San Gabriele, inginocchiato davanti al Bambin Gesù in silente adorazione, osservano il tenero gioco tra la Madonna e suo figlio, mentre San Raffaele volge lo sguardo verso lo spettatore indicando con la mano destra la scena principale. Il fulcro del dipinto è l’atto della Madonna di svelare o coprire il piccolo Gesù con il velo, mentre alle loro spalle un anziano San Giuseppe appoggiato al bastone li osserva pensoso. Un dipinto architettonicamente più complesso, ma che tenta di evocare la stessa divina tenerezza trattata nel capolavoro raffaellesco.

Fig. 4 - Raffaellino del Colle, La Madonna del Velo con tre Arcangeli, circa 1531-1532, olio su tela, Urbania, Museo Diocesano Leonardi. Credits: Arcidiocesi di Urbino, Urbania e Sant'Angelo in Vado, Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali.

L’area tosco-romana è ricca di copie di questo soggetto: la mostra lauretana ne espone due di pittori anonimi che tentano di riproporre la stessa caratterizzazione stilistica e fisionomica dei personaggi raffaelleschi e che sono espressione di uno stimolo ricevuto da un’incisione (fig. 5) – esposta anch’essa in mostra – del mantovano Giorgio Ghisi.

Fig. 5 - Ignoto copista di Raffaello Sanzio, La Madonna del velo, circa 1550, olio su tavola, 127x96cm con cornice. Credits: Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Torino.

Nella stessa sala il visitatore viene calato in un contesto immersivo a forte impatto emotivo in cui vengono narrati i dettagli della Madonna del Velo e di alcune sue copie.

Terza ed ultima tappa è un’esperienza virtuale: su uno schermo ad altissima definizione, grazie alla tecnologia interattiva touchless, il visitatore può scoprire da vicino i dettagli del capolavoro raffaellesco.

 

Note

[1] Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori. Consultabile online: http://vasari.sns.it/cgi-bin/vasari/Vasari-all?code_f=print_page&work=le_vite&volume_n=4&page_n=175

 

Bibliografia

Fabrizio Biferali, Vito Punzi, La Madonna di Loreto di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2021

 

Sitografia

https://www.santuarioloreto.va/it/museo.html

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-07/madonna-velo-raffaello-biferali-loreto-500.html

http://vasari.sns.it/vasari/consultazione/Vasari/indice.html


LA LOGGIA DI PSICHE ALLA FARNESINA

A cura di Federica Comito

Villa Farnesina: la loggia di Amore e Psiche

La Loggia di Psiche si trova all'interno di Villa Farnesina e prende il nome dal ciclo di affreschi di Raffaello e bottega che la decora, ovvero il mito di Amore e Psiche. Era l’ingresso principale della villa, ma l’apertura venne chiusa con delle vetrate nel 1659 nel corso di alcuni restauri per proteggere gli affreschi e la pittura a trompe-l’oeil (Ingannare l’occhio/illusione del reale) nelle lunette. Il tema degli affreschi doveva celebrare le nozze di Agostino Chigi avvenute nel 1519 con Francesca Ordeaschi, infatti le peripezie di Psiche ripercorrono la medesima travagliata scalata sociale della Ordeaschi che da cortigiana si elevò al rango di moglie legittima del banchiere.

Nell'opera di Bellori “La descrizione delle immagini dipinte da Raffaello d’Urbino nel Palazzo Vaticano e nella Farnesina alla Lungara” viene suggerito che la fonte delle scene affrescate è l’Asino d’Oro di Apuleio, anche se non si sa quale delle molte versioni in circolazione. La leggenda di Amore e Psiche, come viene narrata nell’Asino d’Oro, deve essere stata nel Rinascimento uno dei miti più amati e conosciuti. Un’altra fonte possibile sembra essere la poesia La Psyche di Niccolò da Correggio (1491), dedicata a Isabella d’Este. Le numerose versioni del mito offrono lo spunto ad altrettante varianti figurative; anche i differenti significati che si attribuiscono alla storia sono importanti per interpretare la decorazione della Loggia di Psiche.

Il mito

La storia lunga e travagliata narra della bellissima Psiche, adorata come una dea dai suoi concittadini, a tal punto da scatenare l’invidia di Venere, la dea della bellezza, che decide di inviare suo figlio Amore a scoccare una freccia per farla innamorare dell’uomo più brutto della Terra. Amore, incantato dalla bellezza di lei, si punge con una freccia innamorandosi perdutamente della fanciulla. Decide così di portarla al suo palazzo ad un’unica condizione: lei non avrebbe mai dovuto vedere il suo aspetto. Tuttavia Psiche è spinta dalla curiosità e, tentando di illuminare il volto dell’amato dormiente, fa cadere una goccia di olio bollente dalla lampada svegliando così Amore. Psiche, ormai abbandonata dal suo amante, decide di suicidarsi ma viene fermata dagli dei. Allora, sperando di placare l'ira di Venere per aver disonorato il nome del figlio, arriva al tempio della Dea consegnandosi a lei. Venere sottopone Psiche a diverse prove sempre più difficili, fino a giungere all'ultima che provocherà la caduta di Psiche in un sonno profondo. Sarà Amore a risvegliarla e, con l’aiuto di Giove, la condurrà sull'Olimpo. Dalla loro unione nascerà Voluttà.

Raffaello e la “bottega”

Non sappiamo quando Agostino Chigi commissionò il lavoro a Raffaello, ma in una lettera scritta da Leonardo del Sellaio e indirizzata a Michelangelo datata 1° gennaio 1519, ne viene annunciata l’inaugurazione; possiamo quindi ipotizzare che ci stesse lavorando da almeno due o tre anni. Vi è generale consenso sul fatto che Raffaello sia autore dell’intera invenzione formale, tuttavia partecipò in modo limitato all'esecuzione. Dati i molteplici impegni che ebbe dal 1514 in poi (continuazione delle stanze Vaticane; viene nominato capo architetto della fabbrica di San Pietro; diviene soprintendente delle antichità e scavi di Roma; esegue i cartoni per gli arazzi sistini; esegue ritratti impegnativi per Leone X e grandi tavole per Francesco I di Francia) Raffaello dovette organizzare una sua “bottega”, ovvero un gruppo di artisti che lavoravano per lui e da lui apprendevano. Ciò significa che si occupò dell’ideazione e del progetto, riuscendo ad organizzare anche il lavoro esecutivo affidato in gran parte ai suoi collaboratori. Vasari individua Giulio Romano come l’esecutore della maggior parte degli affreschi della Loggia, confermato anche dalla Dacos la quale includeva Giovan Francesco Penni. Giovanni da Udine è stato scelto da Raffaello per realizzare i festoni vegetali che costituivano un preliminare lavoro di suddivisione degli spazi destinati ad accogliere le scene figurate; solo successivamente ai festoni vegetali sono stati eseguiti gli episodi della favola di Apuleio. La preziosità delle decorazioni vegetali deriva dalla tecnica e dalla precisione nei particolari, infatti un ampio studio botanico ha dimostrato come Giovanni da Udine fosse estremamente preciso nella raffigurazione di questi elementi, così da poter oggi essere individuati come specie. In particolare è stata possibile l’individuazione di cinque specie appena giunte dall’America precisamente granturco, zucchina, il fagiolo comune e due tipi di zucche.

 La Loggia di Psiche: struttura e la decorazione

Le pareti sono scandite da lesene tripartite, sui lati brevi in due campate e sui lati lunghi in cinque. Festoni vegetali delimitano le superfici dipinte; al centro della volta due grandi arazzi dipinti con le scene del Banchetto Nuziale e Concilio degli Dei; dieci pennacchi nella fascia immediatamente sottostante agli arazzi con gli episodi del racconto; quattordici vele con amorini che portano le insegne degli dei; cinque archi che scandiscono le aperture della loggia e presentano negli intradossi una decorazione a grottesche in campo bianco con intrecci vegetali. Il grave stato di conservazione degli archi è dovuto al fatto che queste fossero le zone maggiormente esposte agli agenti atmosferici ed escluse da qualsiasi protezione per almeno 150 anni, ovvero prima che venissero aggiunte le vetrate nel 1659.

La decorazione ad affresco ha inizio sul lato breve sulla sinistra della loggia: Venere mostra ad Amore Psiche fanciulla. La sequenza prosegue poi come nei maggiori cicli di affreschi del Rinascimento, in senso orario verso il successivo pennacchio, in cui Amore indica alle tre Grazie qualche cosa in basso. I temi dei successivi quattro pennacchi sono evidenti: Venere si lamenta con le dee Cerere e Giunone; Venere vola sul carro dorato verso l’Olimpo; prega Giove; Mercurio in volo. Le due scene successive sono state lette come rappresentazione della terza prova di Psiche, Attingere l’acqua allo Stige. Infine Mercurio conduce Psiche sull’Olimpo. Quest’ultima scena dovrebbe apparire tra le due principali (Banchetto nuziale e Concilio degli Dei) in cima al soffitto, dove invece si trova lo stemma di Giulio II, amico di Agostino, che escludeva molte soluzioni artistiche per il soffitto.

Dopo L’acquisizione dell’edificio da parte dello stato nel 1927, venne inserito un pavimento marmoreo e vennero realizzati i due candelabri in marmo di Siena sormontati da coppa portalampada in alabastro, copiando un esemplare conservato nei musei Capitolini. Vennero scelti sia marmi antichi come l’Africano delle grandi fasce in corrispondenza delle paraste, che di cava moderna come il Rosé di Brignoles dei grandi riquadri. I marmi usati per i pannelli interni, sono il Verde antico della Tessaglia e il Rosso Griotte, il Giallo di Siena brecciato e il Bianco di Carrara e il Bardiglio.

L’organizzazione del cantiere

Nella realizzazione pratica degli affreschi, l’esecuzione preliminare di una griglia di base, che definiva e separava tra di loro le superfici delle scene, poteva essere stata ideata per facilitare la presenza di due pittori sul ponteggio che avrebbero potuto dipingere contemporaneamente in punti diversi della volta. La stessa conformazione architettonica della volta ad arco ribassato, che si collega quindi gradualmente alle pareti, favoriva il lavoro degli artisti, impedendo che fossero di intralcio gli uni agli altri. Questo lascerebbe sottintendere l’utilizzo di un ponteggio unico, grande quanto l’ampiezza dell’intera loggia. Un sistema organizzativo così preciso costituisce un elemento caratterizzante del cantiere, sicuramente previsto da Raffaello già della fase progettuale.

La meraviglia che questa Loggia ha sempre suscitato e la fama che ha giustamente meritato, si devono piuttosto all'invenzione straordinaria del progetto di Raffaello, che non alla sua materiale costruzione, che come è stato già detto, è in gran parte affidata ai suoi collaboratori. Raffaello esprime un nuovo concetto di utilizzo della decorazione pittorica in rapporto all'architettura facendola anzi diventare il tramite più diretto con lo spazio esterno. Giovanni da Udine aveva infatti eseguito il fogliame dei festoni di un colore verde lucente che aveva la funzione di riflettere la mobilità luminosa delle piante nel giardino su cui la loggia si apriva, ponendosi così come un impressionista ante litteram. Raffaello ha sempre avuto una spiccata sensibilità per ciò che circonda da vicino la sua opera e utilizzò la sua decorazione per creare un passaggio tra il giardino e la loggia. Il giardino diventa il teatro immaginario del girovagare della protagonista degli affreschi: Psiche. Un progetto quindi carico di nuovi insegnamenti per gli artisti anche delle generazioni future.

Proviamo a immaginare l’ingresso a questa loggia aperta sul giardino, senza le vetrate che oggi vediamo e senza le finte nicchie monocrome alle pareti, eseguite solo alla fine del seicento da Carlo Maratti. Attraversando il giardino ricco di vegetazione e statue si giungeva ad una scalinata da percorrere con soggezione: si vedevano apparire lentamente gli dei che facevano capolino dai pennacchi e gli amorini che, volteggiando, venivano incontro al visitatore. Queste figure oggi, invece di avanzare verso di noi stagliandosi sul fondo azzurro intenso e luminoso di Raffaello, sfuggono risucchiate dall'azzurro chiaro della preparazione di quel cielo che non esiste più. La decorazione della loggia appariva dunque come una finestra sull'Olimpo rilucente di colori e palpitante, che esaltava il nuovo concetto di architettura di villa suburbana o viridario dell’architetto Baldassarre Peruzzi.

 

BIBLIOGRAFIA

Sherman, Studi di Raffaello.

Varoli Piazza, Raffaello la Loggia di Amore e Psiche.