ALLA SCOPERTA DEI GRANDI ARTISTI EMILIANI DEL SEICENTO A PIEVE DI CENTO

A cura di Valentina Fantoni

 

 

Pieve di Cento, piccolo borgo di origine medievale in provincia di Bologna, deve il suo nome alla presenza del fonte battesimale, chiamato anticamente pieve, nella propria chiesa di Santa Maria Maggiore, ergendosi così a luogo di riferimento per l’intera comunità cattolica del territorio circostante, che si estendeva nella vasta zona del comune di Cento e terre limitrofe.

Da sempre luogo di passaggio per i pellegrini che si recavano a Roma, attirati dalla presenza della statua lignea del Santissimo Crocifisso, Pieve visse un fermento religioso e culturale non indifferente. La sua posizione di confine fra le province di Bologna e Ferrara le permise di essere una realtà contaminata e contaminante: dal Trecento e per i secoli successivi Pieve sottostò per la maggior parte del tempo al potere politico dello Stato della Chiesa, mentre in alcune occasioni vide subentrare il potere del comune di Bologna, e per un brevissimo tempo, sul finire del Cinquecento, fu governata dalla famiglia ducale ferrarese degli Este. Nonostante sia stato motivo di dissidi, difficoltà e dispute, l’alternanza del potere politico non impedì lo sviluppo e la diffusione della cultura artistica del tempo, anzi favorì la contaminazione di differenti culture, come erano in quell’epoca quella bolognese e quella ferrarese. È grazie questo clima culturale, caratterizzato dalla necessità, da parte della Chiesa, di affermare la propria dottrina in difesa alla diffusione del culto protestante, che il numero di confraternite e ordini religiosi vide un momento di grande proliferazione. Il rinnovamento di alcuni spazi religiosi, come chiese o cappelle, creò l’occasione per l’affidamento di alcune importanti committenze artistiche. L’arte giocò infatti un ruolo fondamentale nel culto rinnovato della Controriforma, dal momento che le immagini, e quindi in particolar modo la pittura, erano lo strumento principale attraverso cui veicolare il messaggio religioso anche ai meno colti, a chi non sapeva o non aveva mai letto le Sacre Scritture. Fu proprio grazie a questo clima culturale e al fermento religioso e laicale che a Pieve approdarono alcune opere di grandi artisti, come Guido Reni, Scarsellino, Guercino e Lavinia Fontana.

L’opera principale che compare sull’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore, chiamata anche Collegiata, è la tela raffigurante l’Assunzione della Vergine eseguita da Guido Reni (Bologna, 1575-1642) nel 1600. La presenza artistica dell’opera del giovane e promettente artista bolognese nella chiesa principale di Pieve di Cento assunse un significato di grande rilievo per la storia e l’orgoglio pievese. Possedere un’opera come questa rappresentava per il paese un prestigio non solo culturale ma anche politico, dal momento che il valore del Reni era già riconosciuto nell’ambiente di Bologna, e non solo, e per la vicinanza politica tra la città bolognese e quella pievese. Inoltre, la commissione dell’opera per la Collegiata di Santa Maria Maggiore costituì un segno di riconoscimento verso il luogo stesso, mentre per l’artista rappresentò un’importante occasione per far conoscere i suoi più autentici valori agli inizi di quella che sarebbe stata una promettete carriera. La commissione dell’opera fu dovuta all’esecuzione del lascito testamentario del canonico Giuseppe Crescimbeni che, con testamento in data 21 settembre 1597, due giorni prima della morte, lasciò come erede dei suoi averi la Compagnia di Santa Maria, della quale era membro e cappellano, disponendo l’esecuzione di un nuovo altare maggiore per la Collegiata, commissionando anche l’esecuzione della relativa pala, che avrebbe dovuto avere come soggetto l’Assunzione della Vergine (fig.1). A commissionare l’opera al Reni fu un personaggio noto di Pieve di Cento, membro di una delle famiglie più conosciute ed importanti del paese, nonché membro illustre della Compagnia di Santa Maria: Giuseppe Mastellari. L’opera venne affidata al giovane artista bolognese verso la fine del 1599 e, secondo gli studi di Stephen Pepper, terminata e consegnata nell’agosto del 1600, proprio nel giorno della festività dell’Assunzione, il 15 agosto 1600. In tale occasione, l’opera veniva mostrata all’intera comunità pievese con grande orgoglio e fierezza e collocata sull’altare maggiore in tutto il suo splendore. L’opera, inoltre, può essere considerata come l’ultima opera importante che il Reni eseguì prima della sua partenza per Roma, nella primavera del 1601. La tela attraverso la rappresentazione del miracolo dell’Assunzione si connota come quelle immagini che venivano definite biblia pauperum, ovvero strumento di conoscenza per i meno colti, per coloro che non sapevano leggere le scritture o che non le conoscevano. Per comunicare lo sgomento e lo stupore che gli apostoli avevano vissuto in prima persona nel trovare il sarcofago vuoto, Guido Reni rappresentò le loro reazioni e la salita in cielo, in anima e corpo, della Vergine. In questo modo l’artista cercò di coinvolgere lo spettatore nell’azione, di commuoverlo e convincerlo della verità di fede attraverso il tramite dell’immagine. Inoltre, per rendere più immediata la lettura dell’opera, Reni suddivise la tela in due parti: quella superiore dedicata alla rappresentazione della salita in cielo della Vergine, e quindi simboleggiante il mondo celeste, mentre quella inferiore rilegata alla rappresentazione delle emozioni degli apostoli, e quindi simbolo della dimensione terrena vissuta da ogni cristiano. L’opera, commissionata per l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Pieve di Cento, dove è tuttora ammirabile, subì anche un tentativo di asportazione e alienazione per mano delle truppe napoleoniche, ma grazie all’amore e alla fermezza che dimostrò la comunità pievese nei confronti di quest’opera non fu possibile ai francesi trasferirla in patria.

 

Altro nome che compare a Pieve di Cento è quello di Scarsellino, all’anagrafe Ippolito Scarsella (Ferrara, seconda metà del Cinquecento – 1620), uno dei maggiori esponenti della pittura ferrarese tardo manierista e abile artista nel saper mediare la cultura pittorica ferrarese e veneta con quella emergente emiliana, tanto da aver influenzato anche il giovane Guercino. Fu uno degli artisti a cui si affidò e a cui fece riferimento il duca Cesare d’Este, per l’abbellimento di alcuni appartamenti e cappelle private, o per la riproduzione di importanti opere che rischiavano di essere perse in seguito alla devoluzione di Ferrara da parte dello Stato della Chiesa, avvenuta nel 1598.

Diverse sue opere approdarono a Pieve di Cento grazie alla committenza di alcuni membri della famiglia Mastellari, famiglia benestante e impegnata nel sociale in paese. La sua prima opera fu commissionata nel 1605 per mano di Alessandro Mastellari, che volle contribuire all’abbellimento della chiesa di Santa Maria al Voltone, edificio che si trovava di fronte alla chiesa parrocchiale (la Collegiata di Santa Maria Maggiore). L’opera venne commissionata per l’altare maggiore e doveva rappresentare, all’interno dell’episodio della Nascita della Vergine (fig.2), le vie devozionali e caritatevoli perseguite dalla Compagnia della Devozione di cui il Mastellari faceva parte, compagnia che presidiava la chiesa e l’Ospedale attiguo. Scarsellino fu molto abile e diede prova della sua bravura nell’impiegare le figure delle fanciulle e delle ancelle che assistettero la Vergine nel momento del parto per rappresentare le vie devozionali della compagnia: l’operosità verso il culto, preghiera e contemplazione. L’operosità verso il culto, intesa anche tra i doveri associativi nella Compagnia e verso l’assistenza al prossimo nell’ospedale e attraverso le opere caritative, nel dipinto viene rappresentata attraverso le figure operose ed attente dei diversi gruppi della composizione. La preghiera affettuosa, come si addice alla Madonna a cui è rivolta e come indica il nome della Compagnia, è simboleggiata dalle donne che assistono amorevolmente Maria, mentre la contemplazione, il più alto grado devozionale, che permette di instaurare un rapporto speciale e diretto con la Vergine, nel dipinto è rappresentato dai genitori di Maria, entrambi in atteggiamento contemplativo. La figura di Maria apparentemente sembra essere messa in secondo piano, ma la sua posizione all’interno della composizione è giustificata dal fatto che a lei si addice la venerazione, ma non l’adorazione, riservata e rivolta a Dio. Il dipinto e la disposizione delle figure all’interno di esso riproducono attentamente l’atmosfera che si poteva respirare negli ambienti della confraternita. Costruendo la scena pittorica in questo modo, Scarsellino soddisfò le richieste del committente, rendendo immediato il messaggio e il valore che la Compagnia volevano trasmettere a chi avrebbe osservato il dipinto sull’altare della chiesa. L’opera venne poi trasferita poco dopo la sua realizzazione e fu collocata nell’oratorio dell’Ospedale, per poi essere successivamente trasferita in Collegiata a seguito delle soppressioni napoleoniche. L’opera è tutt’ora visibile in Collegiata presso l’altare della Natività.

 

L’artista ferrarese venne contattato nuovamente nel 1615 per realizzare un’opera voluta dallo stesso Alessandro Mastellari, al momento della sua morte, per l’istituzione di una cappella dedicata ai Santi Michele Arcangelo e Giacomo presso l’altare del Santissimo Sacramento nella chiesa Collegiata. Scarsellino compose la scena dell’opera di San Michele Arcangelo abbatte il demonio accanto a San Giacomo ed Alessandro Mastellari (fig.3) collocando al centro l'Arcangelo in volo nell'atto di scagliare una lancia contro Satana, disteso a terra, rappresentando così la vittoria del bene sul Demonio. San Giacomo, invece, viene raffigurato in piedi, sulla sinistra, mentre regge trionfante il bastone del pellegrino. Sulla destra del dipinto Scarsellino posizionò e raffigurò, secondo la tradizione degli astanti votivi, vestito di nero, inginocchiato e a mani giunte, Alessandro Mastellari. L’artista ferrarese in quest’opera eseguì un vero e proprio ritratto del committente: mostrato di profilo, con il volto segnato da un naso pronunciato e da una folta barba, viene mostrato come un uomo modesto e umile, nel vigore degli anni, esaudendo probabilmente il volere dello stesso Mastellari di lasciare un’immagine austera di sé, nonostante fosse un uomo potente, ai massimi vertici delle istituzioni pubbliche e religiose di Pieve di Cento. L’opera raffigurante San Michele fu trasferita in un primo momento nella chiesa Collegiata, per la quale era stata voluta ed eseguita, ma passò in seguito nell’oratorio della chiesa di Santa Chiara, tra i beni della congregazione di Carità, per essere poi consegnata in deposito presso la Pinacoteca civica nel 1941, dove si trova tuttora.

 

Altro nome di spicco che compare a Pieve di Cento è quello di Guercino (Cento, 1501-Bologna, 1666), artista natio della vicina Cento. Le ragioni della presenza dell’opera del Guercino a Pieve di Cento possono essere individuate in una serie di fattori, strettamente legati al territorio e al particolare momento storico e artistico del tempo. Prime fra tutti, la presenza a Pieve della famiglia Mastellari, fautrice di numerose committenze artistiche (Guido Reni e Scarsellino), e la venuta a Pieve di Cento dell’ordine religioso dei padri Scolopi, destinatari dell’opera dell’artista centese. La presenza dei padri Scolopi si deve alla realizzazione della volontà di Giuseppe Mastellari di erigere un collegio per l’istruzione dei giovani pievesi, accanto al quale venne eretta una chiesa, intitolata alla Santissima Annunziata, per la quale venne commissionata l’opera al Guercino. La scelta iconografica particolare e ideata dall’artista stesso rappresenta l’attimo prima dell’annuncio, motivo per cui potrebbe essere più corretto riferirsi al dipinto con il titolo di Annunzianda (fig.4). La rappresentazione dell’annuncio viene quindi realizzata nel momento subito precedente all’incontro tra l’arcangelo Gabriele e Maria, ovvero quando il messaggero divino riceve le istruzioni da parte del Padre Eterno, episodio visibile nella parte superiore della tela. Maria viene rappresentata nella parte inferiore della tela, immersa in un’atmosfera tranquilla e austera, nell’atto della lettura, e non comunemente in quello della preghiera. Probabilmente la scelta di rappresentare la Vergine assorta nella lettura derivò da alcuni suggerimenti dei padri Scolopi, che volevano rendere chiaro e immediato, a chi avrebbe osservato il dipinto, che la loro missione era quella di istruire i giovani pievesi attraverso la lettura di testi, sacri e contemporanei. La composizione dell’opera, quindi, è semplice ed intuitiva, e di forte impatto dal momento che mostra l’imperturbabilità della Vergine difronte alla grandezza del volere divino. L’opera al tempo delle soppressioni napoleoniche, nel 1798, corse uno dei maggiori rischi di alienazione, ma come nel caso dell’opera del Reni, grazie all’opposizione della cittadinanza non fu possibile rimuovere il dipinto. La collocazione in Collegiata della pala del Guercino è relativamente recente. Infatti, nel 1924 dopo la sconsacrazione della chiesa dell’Annunziata era stata prima sistemata in sede comunale, presso la sala del Consiglio, in municipio, e solamente nel 1940, all’inizio della Seconda guerra mondiale trasferita con altre opere in Santa Maria Maggiore, e qui collocata sul primo altare a sinistra, l’altare dell’Annunciazione.

 

Altro nome importante presente a Pieve di Cento è quello di Lavinia Fontana (Bologna, 1552-Roma, 1614), una delle più note artiste di tutta la storia dell’arte. L’opera autografa che risiede nell’altare del Santissimo Sacramento in Collegiata, datata 1593, deve la sua presenza in terra pievese a un trasferimento, per obblighi testamentari, dall’altare della cappella privata della famiglia Paleotti in San Pietro a Bologna. L’opera raffigurante l’Assunzione (fig.5) approdò in Collegiata nel 1798 ed è uno dei massimi esempi di pittura di tema sacro dell’artista bolognese. Infatti, Lavinia fu tra le prime donne artiste a cimentarsi nella realizzazione di pale d’altare nel mondo cristiano cattolico, e questo fu possibile grazie alla sua bravura, ma anche alla stima che raccolse da parte dei colleghi e contemporanei fin dagli inizi della sua carriera. L’opera si distingue da quella omonima del Reni per il modo in cui la Vergine viene rappresentata durante l’evento miracoloso dell’assunzione. Qui Maria è accompagnata da uno gruppo di angioletti festanti e da un turbine di nuvole, mentre nella parte inferiore della tela si scorge il profilo della città di Bologna, luogo per cui era stata originariamente commissionata l’opera. La sua maestosità porta l’osservatore a prendere coscienza dell’evento miracoloso e della sua sacralità, aderendo così al mistero della fede della resurrezione in anima e corpo della Vergine. L’opera sebbene fosse in origine destinata alla cattedrale bolognese si trova ben inserita e in armonia con i capolavori presenti nella Collegiata di Santa Maria Maggiore, tutti dedicati a episodi della vita di Maria.

 

Nella piccola realtà paesana di Pieve di Cento è quindi possibile respirare un’atmosfera antica e piena di cultura grazie alla presenza di opere realizzate da grandi artisti quali furono Lavinia Fontana. Guercino, Scarsellino e Guido Reni.

 

 

 

Bibliografia

Giovanni Francesco Barbieri, Il Guercino, 1591-1666, catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico; Cento, Pinacoteca Civica e Chiesa del Rosario; 6 settembre - 10 novembre 1991; [Il Guercino, dipinti e disegni, Il Guercino e la bottega; Francoforte, Schirn Kunsthalle, Washington, National Gallery of Art]), a cura di sir Denis Mahon, introduzione di Andrea Emiliani, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1991

Guido Reni, 1575-1642, catalogo della mostra (Bologna, Pinacoteca Nazionale e Accademia di Belle Arti, Museo Civico Archeologico; 5 settembre – 10 novembre 1988; [Los Angeles, County Museum of Art, Forth Worth, Kimbell Art Museum]), a cura di Stephen Pepper, introduzione di sir Denis Mahon, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988

Guido Reni. Opera completa, Phaidon Press Ltd, London 1984, ed. cons. Istituto Geografico De Agostini, Novara 1988

La Collegiata di Santa Maria Maggiore di Pieve di Cento, a cura di Campanini, Samaritani, Costa Editore, Bologna 1999

La Pinacoteca civica di Pieve di Cento. Catalogo delle opere dal XII al XIX, a cura di Elena Rossoni, Minerva Edizioni, Bologna 2004

La Pinacoteca civica di Pieve di Cento. Catalogo generale, a cura di Rosalba D’Amico, Fausto Gozzi, Nuova Alfa Editoria, Bologna 1985

Lavinia Fontana 1552-1614, a cura di Vera Fortunati, Electa, Milano 1994

Lavinia Fontana bolognese, pittora singolare 1552-1614, a cura di Maria Teresa Cantaro, Jandi Sapi Editori, Roma 1989

Lavinia Fontana of Bologna (1552-1614), exhib. cat. (Washington, NMWA), edited by Vera Fortunati, Milano 1998

Lo Scarsellino, a cura di Maria Angela Novelli, Cassa di Risparmio di Ferrara 1964

Scarsellino, a cura di Maria Angela Novelli, Fondazione Carife, Cassa di Risparmio di Ferrara 2008

 

Sitografia

Dizionario biografico degli italiani Treccani – Guercino

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-francesco-detto-il-guercino-barbieri_(Dizionario-Biografico)

Dizionario biografico degli italiani Treccani – Guido Reni

https://www.treccani.it/enciclopedia/guido-reni_(Dizionario-Biografico)

Dizionario biografico degli italiani Treccani – Ippolito Scarsella

https://www.treccani.it/enciclopedia/scarsella-ippolito-detto-lo-scarsellino_(Dizionario-Biografico)

Dizionario biografico degli italiani Treccani – Lavinia Fontana

https://www.treccani.it/enciclopedia/lavinia-fontana_(Dizionario-Biografico)


FRANCESCO ALBANI

A cura di Mirco Guarnieri

Francesco Albani nasce a Bologna nel 1578. Dopo la morte del padre, che lo voleva studente di legge, nel 1590 l’Albani entrò nella scuola pittorica di Denijs Calvaert dove ebbe modo di conoscere Guido Reni e il Domenichino, di cui diventò molto amico. Dopo pochi anni, abbandonò la bottega del pittore fiammingo per entrare all’Accademia degli Incamminati. È proprio con l’ingresso nella scuola dei Carracci che ebbe inizio la produzione artistica dell’Albani: tra il 1596-98 presso l’oratorio di San Colombano a Bologna realizzò il San Pietro penitente1 e una piccola pala raffigurante l’Apparizione di Cristo alla Vergine2, mentre nel 1598 gli affreschi con le Storie tratte dall’Eneide3 a Palazzo Fava.

Assieme a Guido Reni nel Dicembre del 1599 entrò a far parte del Consiglio dei Trenta dell’Arte dei Pittori e sempre nello stesso anno portò a compimento la tela raffigurante la Madonna con le Sante Caterina e Maddalena4 per l’altare della famiglia Artemini nella chiesa dei Santi Fabiano e Sebastiano. In quest’opera notiamo come il pittore abbia preso spunto dalla Pala della Madonna con il Bambino e San Giovannino tra i Santi Giovanni Evangelista e Caterina d’Alessandria (Pala San Giorgio) realizzata 6 anni prima da Annibale Carracci.

Fig. 4

Nel 1601 il pittore si trasferì a Roma per collaborare con Annibale Carracci di cui prediligeva lo stile. Assieme a lui realizzò tra il 1602-1607 gli affreschi delle Storie di San Diego5 per la Cappella Herrera nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli (ora esposte tra il Museo d’Arte della Catalunya  a Barcellona e il Museo del Prado di Madrid) e le Lunette Aldobrandini6 tra il 1604-1610 per il palazzo Aldobrandini (ora esposte alla Galleria Doria Pamphilj): L’Assunzionea, la Visitazioneb (assieme a Sisto Badalocchio), l’Adorazionec (assieme a Giovanni Lanfranco) e la Sepolturad, avviata da Annibale ma conclusa da Francesco Albani. Un’altra decorazione realizzata dall’Albani fu il Sogno di Giacobbe7 realizzato a Palazzo Mattei tra il 1606-07. Nell’affresco si può notare come il pittore bolognese abbia tratto ispirazione dall’affresco raffigurante la stessa scena nella Loggia di Raffaello in Vaticano, molto probabilmente compiuta da un allievo della bottega del pittore d’Urbino7a.

Fig. 5
Fig. 5a
Fig. 7
Fig. 7a - Sogno di Giacobbe (allievo Raffaello).

Con la morte del maestro Annibale nel 1609, l’Albani divenne suo erede legittimo. Questo gli procurò numerose commissioni anche di enorme responsabilità: nel 1610 collaborò con il Reni alla decorazione della Cappella dell’Annunziata del Quirinale, con il Domenichino alla decorazione di Palazzo Giustiniani a Bassano Romano8 e nel 1611 decorò Palazzo Verospi9. In questi affreschi si evince come lo stile classicista divenne sempre più parte integrante della pittura dell’Albani, avvicinandolo a quella del Domenichino. Tra il 1612-1614 lo troviamo a decorare l’arco absidale e la volta maggiore10 di Santa Maria della Pace a Roma. La sua fama era ormai consolidata e poco prima di far ritorno nella sua città natale per la morte della prima moglie Anna Rusconi, ricevette la nomina di accademico di San Luca a Roma.

Fig. 9

Tornato a Bologna nel 1616 sposò Doralice Fioravanti, nonché modella delle sue Veneri. L’anno seguente realizzò per la chiesa di San Giorgio in Poggiale il Battesimo di Cristo11 (Pinacoteca Nazionale di Bologna), dirigendosi assieme a Lucio Massari a Mantova dal 1621 al 1622, dove decorò Villa Favorita per il duca Ferdinando Gonzaga tornando successivamente da solo a Roma,  dove vi rimase fino al 1625. In quest’ultimo soggiorno romano realizzò altre opere come il Mercurio e Apollo12 (Galleria d’arte antica, Roma) e la Danza degli amorini13 (Pinacoteca di Brera) entrambi datati al 1625. Divenne il favorito di Scipione Borghese, nipote di Papa Paolo V che nel 1622 acquistò quattro grandi tondi raffiguranti le Storie di Venere e Diana14, dipinti dall’Albani durante il precedente soggiorno bolognese. Pochi anni dopo vide sfumare il suo incarico per una pala d’altare nella Basilica Vaticana passato nelle mani di Valentin de Boulogne, ma nonostante ciò il pittore continuò tra il 1630-31 portò a termine gli affreschi della Cappella Cagnoli di Santa Maria di Galliera mentre l’anno successivo realizzò l’Annunciazione dal “bell’angelo”15 per la chiesa di San Bartolomeo e Gaetano.

Fig. 11
Fig. 15

Dal 1633 l' Albani si recò a Firenze chiamato da Gian Carlo de' Medici, per il quale raffigurò le Insidie di Venere e degli Amori alla castità di Diana. Nella Villa di Mezzomonte invece, l’affresco di Ganimede che offre a Giove la coppa dell’ambrosia16. Verso la fine degli anni Trenta del Seicento portò a compimento la pala d’altare per la Basilica Collegiata di San Giovanni in Persiceto raffigurante la Madonna in Gloria con i Santi Giovanni Battista, Matteo e Francesco17 (ora alla Pinacoteca Nazionale di Bologna). In quest’ultimo periodo della sua vita si dedicò quasi esclusivamente alla realizzazione di opere tratte dalle Metamorfosi di Ovidio come il Ratto d’Europa18 di cui abbiamo tre versioni: la prima datata al 1612, la seconda del 1639a (Galleria degli Uffizi) e l’ultima del 1645b (Hermitage, San Pietroburgo); Diana e Atteone19 datata 1617 la primaa (Louvre, Parigi), la seconda 1625b (Gemäldegalerie, Dresda) e la terza 1640c (Louvre, Parigi).

Fig. 16 - Foto presa da https://villacorsini.com/
Fig. 17

L’ultima opera attribuita all’Albani fu quella realizzata per Vittoria De Medici poco prima che la morte lo colpisse nel 1660, il Riposo dalla fuga in Egitto20 (Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze).

Oltre ad essere stato un pittore simbolo del classicismo assieme al Domenichino, fu uno dei primi a dedicarsi alla pittura di paesaggio, genere che ebbe molto successo nel XVII sec. Alcuni esempi di dipinti di paesaggio sono le Lunette Aldobrandini, la Toeletta di Venere21 del 1621-33 (Louvre, Parigi), la versione del 1635-40a (Museo del Prado, Madrid) e la Danza degli amorini con la statua dell’Amore22 del 1640 (Gemäldegalerie, Dresda).

Fig. 20
Fig. 22

 

Sitografia

http://www.artericerca.com/pittori_italiani_seicento/albani%20francesco/francesco%20albani%20biografia.htm

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-albani_(Dizionario-Biografico)/

http://www.avrvm.it/chiesa-dei-santi-bartolomeo-e-gaetano/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-albani_%28Enciclopedia-Italiana%29/


ANTON MARIA MARAGLIANO

Anton Maria Maragliano è stato il più importante artefice della scultura lignea genovese di età tardobarocca, autore di sculture devozionali, pale d'altare, statuette per il presepe, raffinato mobilio, immagini allegoriche, crocifissi e, soprattutto, enormi macchine processionali composte da gruppi scultorei, che necessitano di innumerevoli uomini per essere trasportate, come accade tutt'oggi nelle ricorrenze religiose.

Maragliano è il regista della devozione delle “casacce” liguri (confraternite religiose formate da laici, spesso in competizione fra loro, che hanno come sede un oratorio): questo è verissimo, ma sarebbe scorretto accostarlo solo ad una dimensione popolare, infatti egli lavorò anche per famiglie aristocratiche.

Cenni biografici

Nonostante gli approfonditi studi compiuti sull'artista, la sua vita rimane, ancora oggi, in gran parte un mistero. Si è cercato di ricostruirla grazie ai documenti emersi dagli archivi e ad un capitolo a lui dedicato da Carlo Giuseppe Ratti (artista e autore del 1700) nella sua raccolta di biografie sugli artisti locali sul modello di Giorgio Vasari, pubblicata nel 1762; tuttavia rimangono ancora molti dubbi e problemi.

Anton Maria Maragliano nasce a Genova nel 1664 in una famiglia mediamente agiata; il padre, Luigi, panettiere, non può però permettersi di avviare i figli agli studi: Anton Maria rimane di fatto analfabeta.

All’età di 16 anni viene messo a bottega dallo zio G. Battista Agnesi, scultore notevole (secondo Ratti frequentò anche la bottega di un certo Arata, definito modesto) che impartisce al giovane le prime nozioni sulla lavorazione del legno. Qualche anno dopo lo ritroviamo a collaborare con la fiorente bottega di Giovanni Antonio Torre (le modalità della collaborazione rimangono sconosciute) dove Maragliano inizia ad affinare la propria tecnica e a elaborare uno stile del tutto personale.

Nel 1688, Maragliano, ventiquattrenne, chiedeva, tramite una “supplica” rivolta al Senato della Repubblica di Genova, di potersi sottrarre all'obbligo di iscriversi all’arte dei bancalari (cioè dei falegnami, alla quale erano tenuti ad iscriversi anche gli scultori del legno), poiché l’artista sosteneva che la scultura in legno fosse, tra le arti liberali, la più nobile, allo stesso livello della pittura, lasciando trasparire un carattere orgoglioso e una grande consapevolezza di sé. Non conosciamo l'esito della causa, ma rimane il fatto che Anton Maria non risulterà mai iscritto alla suddetta corporazione. Circa nello stesso periodo, aprì una personale bottega e già nel 1692 assunse il primo aiutante, per poi trasferirsi dal 1700 nella celebre bottega di via Giulia, (oggi scomparsa per la costruzione di piazza De Ferrari e il taglio di Via XX Settembre) dalla quale fino alla sua morte e oltre uscirono enormi quantità di sculture, realizzate con l'aiuto di innumerevoli collaboratori. Spirò nel 1739 lasciando la gestione della bottega al nipote.

Panorama artistico e opere

La scena artistica genovese di fine ‘700 era dominata in pittura dai membri di “Casa Piola”, laboriosa bottega che vantava esponenti del calibro di Domenico Piola (il capobottega, ormai anziano), il figlio Paolo Gerolamo e Gregorio De Ferrari. Questi artisti, come Filippo Parodi in scultura, erano venuti in contatto con la rivoluzione artistica berniniana, una cultura figurativa che essi studiarono sia a Roma, sia tramite le opere di un grande scultore come Pierre Puget, che in dieci anni di attività, lasciò nella “Superba” poche, ma mirabili, sculture.

È in questo vivace contesto che Maragliano rivoluziona la scultura in legno: le sue opere sono il frutto di una stretta collaborazione con gli artisti genovesi sopraccitati, che in molti casi fornivano anche i disegni progettuali per le sue sculture.

Le opere di Anton Maria sono teatrali e ricche di forza patetica, in pieno stile Barocco, inoltre si allineano ai dettami della controriforma: i suoi personaggi sono facilmente riconoscibili dai tipici attributi che li contraddistinguono e sempre raffigurati in un evento particolarmente significativo della loro vita (es. figura 1: Giovanni Battista, rappresentato nel momento del suo martirio per decapitazione) e possiedono una forte espressività, di grande impatto, mirata a coinvolgere emotivamente il fedele che le osserva (es. figura 2: Compianto sul Cristo morto).

La cassa processionale eseguita nel 1694 per la confraternita di Celle Ligure (figure 3 e 4) è considerata il suo capolavoro giovanile. I modelli di questo simulacro non sono da ricercare nei precedenti in legno, bensì nelle tele di Gregorio De Ferrari, in particolare quella posta su un altare laterale della chiesa di Santa Maria delle Vigne a Genova (figura 5). Non si era mai visto prima nulla di simile: l’avvitamento del corpo di Lucifero e il volo soave dell’arcangelo conquistano lo spazio in ogni direzione, le figure sono in forte contrasto tra di loro: San Michele è un giovane bellissimo dai riccioli finemente lavorati grazie ad un sapiente uso della sgorbia, la pelle chiara, l'espressione pacata, vestito con una corazza dorata, compie una torsione nell'atto di planare sul diavolo, i capelli e le frange del gonnellino sono sferzate dal vento. Lucifero, invece, è paonazzo, le unghie affilate, i muscoli contratti, i capelli scompigliati e il volto, deformato dalla rabbia, si esibisce in un urlo terribile.

Figura 5 – Gregorio De Ferrari, S. Michele Arcangelo sconfigge il demonio, Genova, S. Maria delle Vigne.

Il San Sebastiano realizzato nel 1700 per la confraternita della Santissima Trinità di Rapallo (figura 6), invece, è un omaggio alla più bella opera che Pierre Puget aveva lasciato a Genova (in particolare nella basilica di Nostra Signora Assunta nel quartiere di Carignano, figura 7) raffigurante il medesimo soggetto, ma in marmo, realizzata tra il 1664 e il 1668. Il San Sebastiano di Maragliano è stato protagonista, nel 2018, di una grande mostra al Metropolitan Museum of Art di New York intitolata “Like Life: sculpture, colour and the body"; la fermezza dei curatori che per aggiudicarsi l'opera in prestito non hanno esitato a sborsare un'importante cifra (utilizzata per il trasporto ed il restauro) invita a riflettere.

Le casse processionali di Maragliano sono, talvolta, talmente affollate di personaggi e sculture di ogni tipo da raggiungere notevoli dimensioni e altezze: ne è un esempio la cassa che rappresenta Sant'Antonio in visita a San Paolo Eremita (figure 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14) realizzata nel 1709/1710 per l’oratorio di Sant'Antonio Abate, che è forse il più grande capolavoro del maestro per complessità, dimensioni e qualità dell'intaglio: il gruppo narra del momento in cui, secondo la leggenda, Antonio Abate recatosi nel deserto per far visita a Paolo Eremita, di veneranda età, giunge proprio nel momento del decesso di quest'ultimo e si ferma ad osservare la salma senza vita consumata dagli stenti dell'eremitaggio. Il pesante basamento è finemente scolpito a simulare un terreno roccioso ed è cosparso di intrecci vegetali e piccoli rettili, simboli allegorici della resurrezione. I personaggi possiedono i loro tipici attributi: il maialino, la mitria e il pastorale per S. Antonio; il fuoco e il teschio, simboli della vita eremitica, per S. Paolo; i due leoni, invece, sempre secondo la leggenda, scavano la fossa al posto di Antonio, stanco per il lungo viaggio. Ciò che Sant'Antonio non può vedere, ma è esclusivo privilegio di chi osserva, è la grandiosa gloria angelica che si innalza sopra al defunto e rappresenta l’anima dello stesso che ascende al cielo. Per realizzare questa complessa opera, Anton Maria, ricorre a un ingegnoso sistema di incastri tra le membra degli angeli e le nuvole, oltre che a sostegni strutturali in ferro, abilmente celati all’occhio di chi guarda, dimostrando di saper brillantemente superare anche le più complesse problematiche statiche.

Figura 12

Maragliano si cimentò spesso, nell'arco della sua vita, nel tema della crocifissione (figure 15, 16). I crocifissi del maestro presentano canoni ben precisi, a partire dal corpo smagrito che esibisce un’anatomia indagata nei più piccoli dettagli, mentre il bacino si sposta, in maniera più o meno accentuata a seconda dell'opera, sull'esterno ed è sempre avvolto da uno svolazzante perizoma. Ma è certamente nei volti (figure 17, 18) che si può cogliere con maggior precisione la personale firma di Maragliano: il naso dritto e a punta, gli occhi sporgenti, l'arcata sopraccigliare marcata e tondeggiante, capelli mossi con qualche ciocca che cade disordinata su un lato, seguendo l'andamento della testa, l'espressione aulica che trasmette serenità. Uno degli esemplari meglio riusciti è il crocifisso eseguito per la cappella dei signori Squarciafico (figura 16) nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria delle Vigne nei vicoli di Genova.

Oltre che nell’iconografia del Crocifisso morto, Maragliano eseguì anche un buon numero di Crocifissi in procinto di morire, detti “spiranti", drammatici ed espressivi, più adatti ad essere portati in processione. Un magnifico esempio è il crocifisso di San Michele di Pagana (Rapallo) scolpito nel 1738 (figura 19).

Figura 19 - Anton Maria Maragliano, crocifisso, 1738, legno scolpito e dipinto, S. Michele di Pagana, Rapallo (GE).

Conclusione

L'opera di Maragliano divenne un modello imitato per molti anni a venire ed ancora oggi le sue statue sono considerate modelli di bellezza inarrivabili alle quali ispirarsi, specialmente per ciò che riguarda la devozione popolare. Dal novembre 2018 fino al marzo 2019, in alcuni spazi del Palazzo Reale di Genova, è stata allestita un’importante mostra monografica sull’autore, a cura del professor Daniele Sanguineti dell'università di Genova, per celebrare un artista che rappresenta una coscienza collettiva per i genovesi, i quali tutt'oggi si fregiano di possederne un'opera, grande o piccola che sia, nel proprio oratorio o chiesa di quartiere, da poter tramandare alle generazioni future.

Fonti:

Anton Maria Maragliano, 1664-1739, “insignis sculptor Genue”, Daniele Sanguineti. Sagep.

Lezioni del corso di “storia dell'arte della Liguria in età moderna" con Laura Stagno.


DOMENICO ZAMPIERI DETTO IL DOMENICHINO

Il Domenichino

Domenico Zampieri nome d'arte del Domenichino nacque a Bologna il 21 Ottobre del 1581. In giovane età mostrò interessi artistici portando il padre a fargli frequentare la bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert. Assieme a lui studiarono anche Guido Reni e Francesco Albani con il quale condividerà l’inclinazione classicista. Nel 1595 Domenichino venne cacciato dalla bottega di Calvaert dopo che quest’ultimo sorprese il pittore felsineo a copiare delle stampe di Agostino Carracci. Trovò successivamente ospitalità presso l’Accademia degli Incamminati dove in quel momento vi operavano Ludovico e Agostino Carracci, visto che Annibale si trovava a Roma per le decorazioni di Palazzo Farnese. Successivamente all’Accademia giunsero anche l’amico Francesco Albani e Guido Reni che assieme a Ludovico Carracci e al Domenichino  affrescarono l’oratorio di San Colombano di Bologna nel 1600, attribuendo a quest’ultimo la Deposizione nel sepolcro1. L’anno successivo si trasferì a Roma, raggiungendo l’Albani per studiare le opere di Raffaello e collaborare con Annibale Carracci. Con lui collaborerà a Roma fino al 1609, anno della morte di Annibale. In questo periodo diverrà molto amico con il cardinale Girolamo Agucchi per cui dipingerà la Liberazione di Pietro2 del 1604, nella chiesa di San Pietro in Vincoli, ottenendo sempre in quell’anno la prima commissione pubblica a Roma per i tre affreschi nella Chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo e partecipa ai lavori di decorazione della Galleria di Palazzo Farnese portando a termine la Fanciulla e l’Unicorno3 per la serie degli Amori degli Dei, e tre paesaggi mitologici tra cui La morte di Adone.

Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3

Verso la fine del primo decennio del 1600 vennero realizzati altri capolavori a fresco come la Flagellazione di Sant’Andrea4 per San Gregorio al Celio (1608), le Storie di Diana5 nel palazzo Giustiniani a Bassano Romano (1609) e grazie all’appoggio di monsignor Giovanni Battista Agucchi, segretario del “cardinal nepote” Pietro Aldobrandini, nonché fratello del cardinale Girolamo Agucchi ottenne la commissione per affrescare la Cappella dei Santissimi Fondatori, nell’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata con le storie del santo6 terminata nel 1610. Sempre in quell’anno portò a termine su tavola, il Paesaggio con san Girolamo7 dove notiamo come il leone proviene da una xilografia di Tiziano, a conferma che nelle pitture di paesaggio il Domenichino rivolgeva l’attenzione verso l’arte veneziana.

Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6a
Fig. 6b
Fig. 6c
Fig. 6d
Fig. 6e
Fig. 7

Nel 1611 Pierre Polet gli commissionò la decorazione della cappella della propria famiglia in San Luigi dei Francesi con le Storie di Santa Cecilia8, prendendo come esempio per le figure le statue classiche e l’opera di Raffaello, l’Estasi di Santa Cecilia. Porterà a termine questa commissione nel 1614. Sempre quell’anno portò a termine la tela raffigurante la Comunione di San Gerolamo9 (Pinacoteca Vaticana) eseguito per l’altare maggiore di San Girolamo della Carità. Questo dipinto presenta una forte relazione con la tela di Agostino Carracci incentrata sempre sulla comunione del santo che si trova a Bologna, riprendendo l’uso di colori raffinati e, rispetto al Carracci, invertendo la composizione e diminuendo il numero delle figure presenti. Nel 1615 portò a termine l’Angelo Custode10 per una chiesa di Palermo (Museo Capodimonte, Napoli) mentre l’anno successivo, ancora una volta il monsignor Agucchi gli diede l’incarico di decorare una serie di paesaggi11 per la villa Aldobrandini a Frascati (National Gallery, Londra), trovando anche il tempo di dirigersi a Fano per compiere l’affresco con le Storie della Vergine12 nella cappella Nolfi del Duomo della città.

Fig. 8
Fig. 8b
Fig. 8c
Fig. 9
Fig. 10
Fig. 12a
Fig. 12b

Nel 1617 il pittore ricevette il pagamento per il completamento della Caccia di Diana13 e la Sibilla Cumana14 entrambi commissionati dal cardinal Pietro Aldobrandini (Galleria Borghese, Roma) e vide posta l’Assunta15 nel soffitto della chiesa di Santa Maria in Trastevere. La Caccia di Diana sebbene destinata alla collezione del cardinal Aldobrandini finì in quella del cardinal Scipione Borghese, impossessandosene con la forza dopo il rifiuto e il successivo incarceramento per alcuni giorni del Domenichino. L’opera tratta una scena dell’Eneide (V, 485-518) e si può notare come il pittore rielabori lo stile dei Baccanali tizianeschi, la sensualità delle opere del Correggio e la limpidezza raffaellesca. Dopo quanto accadutogli, il Domenichino lasciò Roma nel 1618 per dirigersi a Bologna dove completò la Pala della Madonna del Rosario16 (Pinacoteca Nazionale, Bologna) prima di trasferirsi a Fano per poi tornare nella sua città natale e sposarsi con Marsibilia Barbetti.

Fig. 13
Fig. 14
Fig 15
Fig. 16

Il Domenichino venne richiamato a Roma nel 1621 da papa Gregorio XV, venendo nominato architetto generale della camera apostolica, senza progettare nessun edificio. L’anno seguente ottenne l’incarico di affrescare i pennacchi17 e il coro della basilica di Sant’Andrea della Valle e qualche anno dopo di dipingere l’abside con le storie del santo18. In questa impresa notiamo come si sia discostato dal suo linguaggio classico avvicinandosi ad un recupero della resa atmosferica caratteristica di Ludovico Carracci. Anche nella realizzazione degli evangelisti sui pennacchi il pittore rimanda a tratti raffaelleschi, michelangioleschi e correggeschi, mentre per gli episodi del santo c’è un rimando alle opere del maestro bolognese. Il tutto venne portato a termine nel 1628.

Fig. 17a (cupola del Lanfranco).
Fig. 18a

Mentre porta a compimento l’incarico di Sant’Andrea della Valle, produceva altre tele come le Storie di Ercole (Louvre), il Rimprovero di Adamo ed Eva19, iniziato nel 1623 e terminato un decennio dopo, la Conversione di San Paolo per il duomo di Volterra, il martirio di San Sebastiano, ora in Santa Maria degli Angeli (prima nella basilica di San Pietro) e il Martirio di San Pietro da Verona20 del 1626 (Pinacoteca Nazionale, Bologna). Sempre nel 1628 inizia gli affreschi dei pennacchi21 per San Carlo ai Catinari raffiguranti le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza) conclusi nel Giugno del 1630.

Fig. 19
Fig. 20
Fig. 21a
Fig. 21b
Fig. 21c

Nel Giugno dello stesso anno il pittore parte alla volta di Napoli con moglie e figlia dopo aver accettato l’incarico per la Cappella del Tesoro del Duomo offerto dai Deputati della Cappella del Tesoro di San Gennaro. Non apprezzato dal Viceré e invidiato dagli altri artisti napoletani presenti in quel periodo, nel 1634 lasciò Napoli dirigendosi a Frascati ospitato nella Villa Aldobrandini, anche se all’inizio dell’anno successivo dovette rientrare nella città partenopea dopo che i Deputati del Tesoro di San Gennaro sequestrarono la moglie e la figlia del pittore. Fino al 1641 il Domenichino lavorò alla realizzazione dei pennacchi22 raffiguranti la Vita di San Gennaro nella Cappella, morendo il 3 Aprile dello stesso anno.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/domenichino_%28Dizionario-Biografico%29/


GUIDO RENI

Guido Reni nacque a Bologna il 4 Novembre 1575 da una famiglia di musicisti, Daniele Reni e Ginevra Pozzi. Il suo talento pittorico lo portò a resistere alle ambizioni musicali del padre, entrando nel 1584 nella bottega del pittore fiammingo manierista Denijs Calvaert, aggiungendosi ad altri allievi come il Domenichino e Francesco Albani. La permanenza di Guido Reni nella bottega del pittore fiammingo durò fino a poco dopo la morte del padre (1594), aderendo successivamente all’Accademia dei Carracci dove approfondì lo studio della pittura ad olio e dell’incisione a bulino. Un dipinto che ricalca quanto appreso nella bottega di Calvaert e in quella dei Carracci è l’Incoronazione della Vergine con i Santi Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Bernardo e Santa Caterina d’Alessandria1 datata tra il 1595 e 1598. Dopo varie collaborazioni con l’Accademia, il Reni se ne allontanò entrando in contrasto con Ludovico Carracci. Altre opere della fine 500 sono il San Domenico e i Misteri del Rosario2 (1598) e l’Assunzione della Vergine3 (1599-1600) per la parrocchiale di Pieve di Cento. Con l’inizio del nuovo secolo troveremo il pittore felsineo dirigersi più volte verso la capitale della cristianità, dove convocato dal cardinale Sfondrato portò a termine alcuni lavori come il Martirio di Santa Cecilia, Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano per la Basilica di Santa Cecilia a Trastevere e l’Estasi di Santa Cecilia con quattro santi (quest’ultimo dipinto copia intera del dipinto bolognese di Raffaello), ora collocata in San Luigi dei Francesi).Nel 1602 il pittore tornò nella città natale per il funerale di Agostino Carracci. Da Bologna passò a Loreto dove il cardinale Antonio Maria Galli gli commissionò Cristo in Pietà adorato dai santi Vittore e Corona, da Santa Tecla e San Diego d'Alcalà ora nella cappella della Sacra Spina del Duomo di Osimo e la Trinità con la Madonna di Loreto4 del 1604, per la chiesa della Trinità della stessa cittadina.

Tornato poi a Roma finì sotto la protezione del Cavalier d’Arpino, portando a termine nel 1605 La Crocifissione di San Pietro5 commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini per la chiesa di San Paolo alle tre fontane, mettendosi così a confronto con Caravaggio come avvenne per altre opere: il Davide con la testa di Golia6 del 1606 (Louvre), il Martirio di Santa Caterina d’Alessandria7 del 1607 (Museo diocesano di Albenga), L’incoronazione della Vergine8 del 1605-10 (National Gallery di Londra). Questo portò all’unione e alla reinterpretazione dello stile caravaggesco secondo la sua poetica artistica. La fama del pittore crebbe a tal punto da essere chiamato nel 1608 da Papa Paolo V per affrescare la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame nei Palazzi Vaticani. Venne chiamato anche dal cardinale Borgherini per gli affreschi di San Gregorio e Andrea al Celio con il Martirio di Sant’Andrea e l’Eterno in Gloria9 nel 1609. Con l’aiuto di Francesco Albani, Antonio Carracci, Jacopo Cavedone, Tommaso Campana e Giovanni Lanfranco il Reni portò a termine la decorazione della cappella dell’Annunciata10 nel Palazzo del Quirinale portando a termine i lavori nel 1610. Sempre lo stesso anno interruppe gli affreschi per la cappella Paolina in Santa Maria Maggiore per dei contrasti  avuti con il tesoriere, facendolo tornare a Bologna dove nel 1611 portò a termine per la cappella Berò (poi Ghisiglieri) in San Domenico a Bologna la Strage degli Innocenti11 e il Sansone vittorioso12 per Palazzo Zambeccari (entrambi ora alla Pinacoteca di Bologna). Tornato a Roma nel 1612 portò a termine gli affreschi di Santa Maria Maggiore per poi ricevere nel 1613 da Scipione Borghese l’incarico di affrescare l’Aurora13 per un Casino nel parco del suo Palazzo (ora Palazzo Pallavicini) concluso nel 1614.

Fig. 9
Fig. 10e

Dopo un breve soggiorno a Napoli, Reni tornò nella sua città natale dove si affermò come il maggiore artista del tempo. Portò a termine opere per la chiesa di San Domenico, come il San Domenico in Gloria14 nel 1615 e la Pietà della Pala dei Mendicanti15 del 1616 (Pinacoteca di Bologna) per la chiesa dei Mendicanti, la Crocifissione16 per la chiesa dei Cappuccini, l’Assunzione17 di Genova per la chiesa di Sant’Ambrogio, entrambe del 1617.Sempre in quell’anno dopo un primo rifiuto del Reni per la decorazione del Palazzo Ducale di Mantova (mandò i suoi discepoli Giovanni Giacomo Sementi e Francesco Gessi), il pittore giunse a Mantova realizzando quattro tele raffiguranti le Fatiche di Ercole (tutte datate tra il 1617 e 1620 ed ora esposte al Louvre): da alcune lettere possiamo dedurre che il primo dipinto fosse l’Ercole sul rogo18 e a seguire l’Ercole e Acheloo19, l’Ercole e l’Idra20 e Nesso e Dejanira21. Oltre alle Fatiche di Ercole ci furono altre opere di scene mitologiche realizzate per committenti privati come la Toeletta di Venere22 del 1621 (National Gallery di Londra), Atalanta e Ippomene di Napoli23 (1620-25, Museo di Capodimonte) e Madrid24 (1618-19, Museo del Prado), i due Bacchi fanciulli di Firenze25 (1615-20, Palazzo Pitti) e Dresda26 (1623, Gemäldegalerie) e Apollo e Marsia di Tolosa27 (1625, Musée des Augustins) e Monaco di Baviera28 (1633, Alte Pinakothek, Bayerische Staatsgemäldesammlungen).

 

Fig. 14
Fig. 22

Nel 1622 Reni si diresse nuovamente a Napoli per affrescare la cappella del Tesoro di San Gennaro, non raggiungendo però l’accordo economico. Prima di partire per Roma portò a termine tre tele per la chiesa dei Girolamini (inizialmente destinati alla chiesa di San Filippo Neri): Gesù incontra San Giovanni Battista29, San Francesco in Estasi30 e la Fuga in Egitto31. Arrivato a Roma portò a termine nel 1625 il ritratto del cardinale Roberto Ubaldini32(collezione privata) del 1631 e la Trinità33 per la chiesa dei Pellegrini, commissionata dal cardinal Ludovico Ludovisi e molte pale d’altare destinate a sedi più o meno importanti nella penisola come l’immacolata34 della chiesa di San Biagio a Forlì (1627) o l’Annunciazione35 del 1621 (Pinacoteca Civica di Fano) e il Cristo che consegna le chiavi a San Pietro36 del 1625 (Louvre) per la chiesa di San Pietro in Valle a Fano.

Fig. 32

 

Verso l’inizio del terzo decennio vi fu un cambiamento nello stile del Reni: introdusse nei suoi dipinti l’uso di una luce argentea e di toni chiari e preziosi come è possibile vedere nell’Annunciazione37 di Ascoli Piceno (Pinacoteca Civica Ascoli Piceno) del 1629 e nella Pala della Peste38 (Pinacoteca di Bologna) del 1630 commissionata dal Senato bolognese dopo la fine della pestilenza che colpì tutta l’Italia. Altre opere completate nell’ultimo periodo della sua vita furono il San Michele arcangelo39 (1635-36) per la chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma commissionato dal cardinale Onofrio, nonché fratello del papa Urbano VIII, le Adorazioni dei pastori di Londra40 (1640 ca, National Gallery) e Napoli41 (1642 ca Certosa di San Martino), la Flagellazione di Cristo42 del 1640-42 (Pinacoteca di Bologna) e per ultimo il San Pietro penitente43(collezione privata M).

Pare accertato che il pittore negli ultimi anni soffrisse di depressione, portandolo ad eseguire pennellate veloci e sommarie riconosciute dalla critica del 1900 come una consapevole scelta estetica. Morì il 18 Agosto del 1642 all’età di 67 anni venendo sepolto nella basilica di San Domenico per volontà di Saulo Guidotti, suo amico facente parte del Senato bolognese.

Fig. 39

 

 

Sitografia :
Treccani Online
http://www.treccani.it/enciclopedia/guido-reni_%28Dizionario-Biografico%29/


GIOVANNI FRANCESCO BARBIERI DETTO IL GUERCINO

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino nacque a Cento il 2 Febbraio 1591 e verrà considerato uno degli artisti più rappresentativi della fase matura del Barocco. Venne nominato il Guercino a causa di uno strabismo congenito. Verso i 6 anni mostrò una particolare inclinazione al disegno quindi il padre lo fece studiare presso vari maestri minori emiliani come Bartolomeo Bozzi (1600), Benedetto Gennari (1607) e Giovan Battisti Cremonini (1610). Lo stile del Guercino andò piano piano definendosi rimanendo colpito dallo stile di Ludovico Carracci (ebbe modo di ammirare le sue opere durante il soggiorno bolognese), dello Scarsellino, di Carlo Bononi e dopo il soggiorno veneziano (1618) anche di Tiziano. Gli esordi del Guercino avvengono nei primi anni dopo il soggiorno bolognese, con la realizzazione di 3 tele per la chiesa di San Sebastiano a Renazzo; la Madonna col Bambino in trono tra i Santi Francesco, Antonio Abate e Bovo1 (1611-12) stilisticamente ispirato a Carlo Bononi, Il miracolo di San Carlo Borromeo2 (1612-13) ispirato in particolare per i giochi di luce allo Scarsellino e La Madonna col Bambino in gloria tra San Pancrazio e una monaca3 (1615-16) influenzato dal Carracci.

Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3

Nel 1616 il pittore centese inaugurò a Cento l’Accademia del Nudo, portando 23 alunni provenienti da tutta Italia a studiare sotto il Guercino.

Due anni più tardi per le chiese di Cento realizzò quattro pale d’altare come la Madonna della Ghiara con i Santi Pietro, Carlo Borromeo e il committente4 (riproduzione della Vergine di Reggio tratto da un disegno cinquecentesco di Lelio Orsi) dove si nota come il committente assomigli a Ludovico Carracci e il paesaggio crepuscolare circondato da rovine e alberi si rifaccia allo stile di Dosso Dossi; Sant’Alberto che riceve lo scapolare dalla Madonna del Carmine5 per la chiesa della Santissima Annunziata, San Bernardino da Siena che prega la Madonna di Loreto6 e San Pietro che riceve le chiavi da Cristo7 per la Basilica della Collegiata di San Biagio.

Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7

Queste ultime due pale d’altare sono state compiute dopo il soggiorno a Venezia, infatti nella pala di San Bernardino si nota come il Guercino si sia rifatto ai suggestivi effetti di luce di Tiziano e Veronese, mentre in quella di San Pietro l’influenza è dovuta allo studio della Pala Pesaro di Tiziano. Altri dipinti del Guercino legati alla pittura veneta sono La vestizione di San Guglielmo8 per la chiesa di San Gregorio e Siro e San Francesco in estasi con San Benedetto e un angelo9 per la chiesa di San Pietro a Cento dipinti entrambi nel 1620.

Fig. 8
Fig. 9

L’anno successivo Alessandro Ludovisi, divenuto papa Gregorio XV chiamò il Guercino a Roma, ricevendo come primo incarico la decorazione del Casino Ludovisi appena comprato dal nipote del papa. Assieme ad Agostino Tassi realizzò gli affreschi della villa, quali L’aurora10 e La Fama11 (1621). Successivamente realizzò il Ritratto di Gregorio XV12 (1622) e l’enorme pala commissionata per un altare della Basilica di San Pietro raffigurante la Sepoltura e gloria di Santa Petronilla13 (1623), rimossa poi nel 1730 per essere sostituita da una copia a mosaico di Pietro Paolo Cristofari. Il Guercino durante il soggiorno romano esegui pochi altri dipinti commissionati da personaggi come il cardinale Scipione Borghese, ma dopo la morte di Gregorio XV nel  1623 il pittore centese decise di tornare nella sua città natale. Da questo soggiorno lo stile del Guercino muta in parte assimilando uno stile classico di Guido Reni attenuando l’uso del chiaroscuro.

Fig. 10
Fig. 11
Fig. 12

 

Fig. 13

Tornato a Cento nel 1624, gli venne commissionato una Semiramide14 per Daniele Ricci poi donato a Carlo I d’Inghilterra. Questo dipinto impressionò moltissimo il sovrano inglese portandolo ad offrirgli un posto presso la corte inglese, rifiutata dal pittore. Questo non fu l’unico invito che ricevette: venne invitato dagli Estensi a Modena nel 1633 per dipingere i ritratti della famiglia, nel 1639 ricevette un simile incarico da Luigi XIII re di Francia e prima ancora per la regina di Francia. Tutti questi inviti furono declinati dal pittore preferendo una vita più tranquilla. Verso la fine degli anni 20 del 1600 il processo di transizione dell’artista alla fase matura delle sue produzioni è evidente nelle opere de La Madonna col Bambino benedicente15 (1629) e il Cristo risorto che appare alla Madonna16 (1628-30). Negli anni 40 del 1600 acquistò una cappella nella chiesa del Rosario di Cento, dove nel decennio successivo collocò alcuni dipinti in cui è chiaro il raggiungimento della fase matura del suo stile come San Giovanni Battista nel deserto17 (1650) e La Madonna col Bambino che appare al San Girolamo18 (1650-55), portata in Francia con le requisizioni napoleoniche (lo stile maturo del Guercino lo si riconduce alla composizione lineare, all’espressione emotiva dei soggetti e nell’uso di colori chiari e brillanti).

Fig. 14
Fig. 15
Fig. 16
Fig. 17
Fig. 18

Con la morte di Guido Reni avvenuta a Bologna l’8 Agosto del 1642 il Guercino vi si trasferì con la famiglia, ricevendo ben presto la richiesta da parte dei monaci della Certosa di Bologna di completare l’opera di San Bruno lasciata incompiuta dal pittore felsineo. Il Guercino la rifiutò proponendo un’opera fatta di sua mano raffigurante il santo, dipingendo così nel 1647 La Visione di San Bruno19. Due anni più tardi il fratello Paolo Antonio Barbieri morì portando il pittore in un profondo stato di malinconia. Il duca di Modena, Francesco I d’Este lo invitò nella sua tenuta estiva di Sassuolo facendogli superare questo momento di depressione. Dal suo rientro a Bologna subentrò la figura del cognato, Ercole Gennari che collaborò con il Guercino occupandosi dei suoi affari. Prima che giunga la morte il pittore porterà a compimento altre opere, una tra le tante il San Giovanni Battista20 del 1654. Morì l’11 Dicembre 1666 per un grave malore e verrà sepolto nella chiesa di San Salvatore.

Fig. 19
Fig. 20

 

Bibliografia

Il Guercino a Cento. Emozione barocca. Silvana Editoriale, 2019

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-francesco-detto-il-guercino-barbieri_%28Dizionario-Biografico%29/


CARLO BONONI

A cura di Mirco Guarnieri

Carlo Bononi: la vita

Carlo Bononi, secondo le fonti settecentesche, nacque a Ferrara nel 1569 ma studi recenti pongono la sua data di nascita un decennio più avanti. Il periodo storico in cui vive l’artista è quello della Devoluzione di Ferrara, passata poi sotto lo Stato Pontificio il quale però trascinerà la città ad un lento declino. Per quanto riguarda il periodo artistico siamo negli anni tra la Controriforma e la piena maturazione del nuovo linguaggio artistico naturalistico e barocco.

Grande disegnatore, inquieto sperimentatore e infaticabile viaggiatore sarà allievo - si dice - del Bastarolo per poi entrare in contatto con lo Scarsellino. I suoi riferimenti stilistici si trovano fuori Ferrara, in particolar modo per la tradizione cinquecentesca veneta di Tintoretto e Veronese e per ciò che di nuovo si stava presentando (Caravaggio, i Carracci e Simon Vouet).

Se dobbiamo trovare una data di inizio della carriera artistica di Bononi non la troveremo prima del 1600, infatti il suo primo dipinto è riconducibile al 1602 con la Madonna col Bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio(fig. 1) proveniente dalla residenza dei Consoli delle Vettovaglie, ora situato a Vienna. Il dipinto contiene riferimenti bastaroleschi che convivono con molteplici declinazioni (l’uso di tende e colonne tipiche della pittura veneta e l’espressione dolcemente sbalordita che riporta alla mente Correggio e Ludovico Carracci).

 

Attorno al 1605-1606 il pittore ferrarese porterà la sua carriera ad una svolta sostanziale. Oltre ad alcune incertezze in materia di conduzione pittorica presente anche nei dipinti precedenti, Carlo Bononi introdurrà un’anima nelle sue figure, facendo comunicare qualcosa di indefinito con un atteggiamento di leggera inquietudine, un indugiare mesto, eppure ammiccante in una compiaciuta tristezza. Le opere più rappresentative di questa svolta sono i due Angeli(figg. 2-3) del 1605-1606 della Pinacoteca di Bologna e Sibilla (fig. 4) del 1610 appartenente alla Fondazione Cavallini-Sgarbi.

 

 

I primi documenti che menzionano Carlo Bononi sono riconducibili al 1611 con le opere San Carlo Borromeo (fig. 5)per la Chiesa della Madonnina di Ferrara e l'Annunciazione (fig. 6), per la Chiesa di San Bartolomeo a Modena, poi dirottata l’anno successivo dallo stesso committente Ippolito Bentivoglio verso Santa Maria della Neve a Gualtieri. Queste due opere aprono la strada ad una formulazione del tutto moderna della pala d’altare nella quale diviene predominante l’aspetto emozionale. Importante anche è come ricorrerà a tutti gli espedienti narrativi della cultura barocca (sorpresa, luce e teatralità dispiegati in piena coscienza). Altre commissioni che Bononi riceverà saranno a Ravenna nel 1612, a Cento nel 1613 e Mantova nel 1614, ma quella che gli darà più fama sarà quella per il ciclo decorativo (figg. 7a-b-c-d-e-f-g-h-i-l) che orna la Basilica di Santa Maria in Vado  a Ferrara, concluso entro il 1617.

 

 

 

 

 

Dopo questi eventi il pittore capisce che Ferrara gli è troppo stretta e decide di andare in viaggio a Roma, ma non essendoci documentazioni a sufficienza non sappiamo se sia andato per trovare fortuna o per completare la sua formazione. Dopo Roma, Bononi si diresse a Fano dove presso la chiesa di San Paterniano, l’artista produsse una delle sue opere più intense e coinvolgenti, Il San Paterniano che risana la cieca Silvia (fig.8), facente parte delle storie del santo. In quest’opera notiamo come Bononi sia stato influenzato dal contatto con le opere caravaggesche (come le tele Cottarelli di San Luigi dei Francesi) dalle quali l’artista ha colto l’intimo vibrare della luce, il tono malinconico, la capacità di cogliere l’attimo e la pregnanza delle pose, senza però rinunciare alle sue radici emiliane.Un altro dipinto che riconduce alla pittura caravaggesca è Genio delle arti (fig. 9) del 1621-22 riconducibile ad Amor vincit omnia del Merisi. Inizialmente si pensava che l’opera di Bononi fosse unica, ma dopo recenti reperimenti, si è scoperto che un anno prima si trovava impegnato nel soddisfare le richieste di un’ancora ignota committenza,  richiedente un Genio delle arti, noto solo tramite fotografia.

 

Dal secondo decennio del 600 il talento del pittore ferrarese fu impiegato nel soddisfare committenze tra Ferrara e Reggio Emilia (definita in quel periodo la capitale della cultura figurativa del ducato estense) come la decorazione della Volta della Cappella Gabbi o dell’Arte della seta di Reggio Emilia. Sempre nello stesso anno Bononi concluse per il Refettorio di San Cristoforo della Certosa di Ferrara le Nozze di Cana (fig. 10), ispirato all'omonimo quadro di Veronese con chiari elementi di Barocco incipiente. Ma soprattutto ci fu la conclusione del ciclo di Santa Maria in Vado, intervenendo nel presbiterio. Un’altra opera di cui però non si sa con esattezza la data di conclusione è l'Angelo Custode (fig. 11) per la chiesa di Sant'Andrea a Ferrara (poi trasferito alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara nel 1863, prima che la chiesa venisse chiusa al culto). Carlo Bononi morirà il 3 Settembre del 1632 sepolto nella chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara.

 

 

 

Le figure 4; 7a,b,c,e,f,g,h; 9 provengono da https://www.palazzodiamanti.it/1607/opere-in-mostra.

La figura 5 proviene da https://www.museoinvita.it/sassu-bononi/

La figura 6 proviene da https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2017/12/mostra-carlo-bononi-palazzo-diamanti-ferrara/attachment/carlo-bononi-annunciazione-1611-gualtieri-santa-maria-della-neve/

Le figure 7i,l provengono da https://www.museoinvita.it/sassu_bononi_vado/

La figura 8 proviene da https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/carlo-bononi-secondo-andrea-emiliani

La figura 10 proviene da https://gallerie-estensi.beniculturali.it/blog/osservando-lo-splendore-del-gran-desco-delle-nozze-di-cana-di-carlo-bononi/

 

 

 

Bibliografia

G. Sassu, F. Cappelletti, B. Ghelfi, "Bononi l'ultimo sognatore dell'Officina ferrarese", Ottobre 2017, Fondazione Ferrara Arte.