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A cura di Stefania Melito

L’ORIGINE DI UN NOME: IL GOLETO

L’abbazia del Goleto, o cittadella monastica del Santissimo Salvatore al Goleto, è un complesso spettacolare di ruderi che si trova a S. Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino; fu fondato nel 1133 da S. Guglielmo di Vercelli su un terreno che gli era stato donato dal re normanno Ruggero, signore di Monticchio. Bisogna ricordare che pochi anni prima, precisamente nel 1126, il santo aveva fondato anche il monastero maschile di Montevergine, legando quindi idealmente i due luoghi che erano considerati dei veri e propri baluardi della fede.

L’etimologia del nome Goleto deriva da <<…una specie di giunco palustre che ivi abbonda, e che nel dialetto del luogo si chiama guglia o goglia, onde guglieto, goglieto, ed indi goleto>>

Il complesso del Goleto è abbastanza grande, immaginato come un monastero misto di monache e monaci, con una precisa ripartizione dei ruoli: alla Badessa era conferito il potere assoluto, mentre i monaci dovevano occuparsi degli aspetti liturgici e amministrativi. Vi erano due monasteri distinti: uno più grande, destinato ad accogliere le monache e situato accanto all’abside della chiesa del Santissimo Salvatore, e uno più piccolo per i monaci, situato dinanzi alla facciata della medesima chiesa.

Fig. 1: veduta dall’alto

Il “motore” del complesso era la Badessa, alla quale spettava anche il compito di incentivare le nuove costruzioni attirando ricchezze e maestranze, ed alcune badesse nel corso del tempo promossero importanti lavori. Una delle prime opere ad essere realizzate fu la torre, in stile romanico, fatta edificare nel 1152 dalla badessa Febronia: originariamente doveva essere a due piani, ma oggi ne è rimasto in piedi soltanto il tronco inferiore. Nella sua edificazione furono anche recuperati e riutilizzati materiali lapidei di un vicino mausoleo romano, quello di Marco Paccio Marcello, ancora oggi riconoscibilissimi grazie ad alcuni bassorilievi incisi su di essi.

Fig. 4: veduta della torre dal chiostro

La torre fu costruita a scopo difensivo: il monastero è situato in un luogo isolato, e le monache erano quasi tutte rampolle di famiglie aristocratiche; la solitudine del luogo poteva quindi accendere strani pensieri in qualche malintenzionato. Addirittura esiste un Diploma di re Ruggero, datato 1140, con cui il sovrano ordinava <<…che non fosse molestato da alcuno il monastero di S. Salvatore del Goleto e le sue possessioni, chiese, obbedienze, ecc., e che nessuno, – non eccettuati gli stessi vescovi -, poteva esigere alcunché dai beni di quella chiesa>>.

La badessa Febronia ottenne anche dal figlio di Ruggero, Simeone signore di Monticchio, la possibilità di far pascolare le greggi della Badia del Goleto nei suoi territori, versandogli in cambio 1800 ducati. Si capisce quindi come il monastero traesse sostentamento anche dal pascolo degli animali e dalla cura dei terreni.

L’ABBAZIA DEL GOLETO: GLI AMBIENTI

Al centro dei ruderi si trova la cosiddetta Cappella o Atrio inferiore, in stile romanico, ossia una cappella funeraria a due navate risalente al 1200, in cui è conservata la pregevole scultura di una matrona risalente al periodo augusteo. Tale cappella conservò le spoglie del fondatore, San Guglielmo, fino al 1800 circa, quando poi furono traslate a Montevergine.

L’ambiente è caratterizzato da colonne basse su cui poggia la volta a crociera, mentre all’ingresso sono posizionate due colonne monolitiche sormontate da capitelli bassi. L’area sepolcrale, in pietra rossa locale, e una porta che conduceva alla chiesa del Salvatore, completano l’ambiente.

Fig. 5: il sarcofago in pietra rossa

C’è da dire che, oltre a svolgere il suo ruolo di conservazione delle spoglie umane, la cappella veniva anche utilizzata come una sorta di “incrocio”, tipico dei monasteri benedettini, che serviva a smistare le persone verso i vari ambienti; a conferma di ciò vi sono cinque porte, che immettono in luoghi diversi del monastero.

Fig. 6: l’interno della Cappella inferiore

Uno di questi luoghi è il piccolo cimitero delle monache: era concepito come una successione di sedili in pietra, il cosiddetto “scolatoio” o putridarium, costituito da sedute con un foro centrale al di sotto del quale era collocato un recipiente. I corpi delle defunte, decomponendosi lentamente, si depositavano nel recipiente, e costituivano un potente simbolo sia della caducità delle cose terrene, sia delle diverse fasi di sofferenza che l’anima doveva attraversare per liberarsi dal suo involucro mortale.

Un altro ambiente a cui si accede attraverso un arco a sesto acuto è la cosiddetta chiesa Superiore, o cappella di San Luca. Costruita circa cinquanta anni dopo quella inferiore per accogliere le reliquie di San Luca, può essere definita come uno degli ambienti più originali dell’intero complesso.

Fig. 7: la Chiesa superiore

La sua costruzione fu voluta dalla badessa Marina II nel 1255, ed è caratterizzata da una facciata che presenta un arco a sesto acuto contenente una croce ancorata posta al disotto di un rosone a sei petali, il cosiddetto esagramma, che allude al Sigillo di Salomone.

Fig. 8: la facciata della chiesa superiore

Nell’interno è possibile ammirare le due navate, che reggono volte a crociera ogivali. La struttura, a pianta quadrata, poggia su semi-colonne incassate nei muri perimetrali e su due colonne centrali sormontate da capitelli a doppia fila asimmetrica di foglie ricurve. La base ottagonale delle colonne e i capitelli richiamano lo stile di Castel del Monte, e quindi è possibile ipotizzare qui la presenza di maestranze che avevano lavorato nella residenza federiciana pugliese.

Fig. 11: dalla chiesa superiore verso l’esterno

Pregevoli sono i due altari: quello maggiore, destinato ad accogliere l’ulna del Santo, è caratterizzato da una forma a cassa atta ad accogliere la preziosa reliquia, mentre il secondo altare, molto più semplice, è costituito da una lastra appoggiata a quattro colonnine angolari. Entrambi sono marmorei. Evidente è il passaggio dall’arte romanica, che caratterizza la cappella inferiore, all’arte gotica, che permea la cappella superiore.

Degli affreschi interni non si è salvato quasi niente, se non degli stralci della vita di San Guglielmo e degli ovali che ritraggono due Badesse.

Fig. 12: lacerti di affreschi

Particolare la scala esterna che dà accesso alla chiesa, costituita da un corrimano a forma di serpente con una mela in bocca.

Fig. 13: la scala esterna e il corrimano a forma di serpente

Questo simbolo può essere interpretato come un elemento che richiami la tentazione di Adamo ed Eva, ma non bisogna dimenticare che nell’esoterismo il serpente rappresenta la Conoscenza: una delle immagini presenti nelle culture di tutto il mondo, l’uroburo, è proprio un serpente che si morde la coda, e simboleggia la natura ciclica delle cose. È quindi contemporaneamente sia un simbolo cristiano sia un simbolo esoterico, così come altri presenti all’interno dell’Abbazia.

Ultimo ambiente, profondamente danneggiato, di cui si hanno pochissime notizie, è la chiesa del Vaccaro: fu costruita al posto della diroccata chiesa di S. Salvatore, i cui resti furono riutilizzati per la nuova chiesa, la cui costruzione fu affidata al famoso architetto napoletano tra il 1735 e il 1745. Doveva essere a croce greca con una cupola sul transetto, ma oggi non ve n’è traccia. Resta soltanto la doppia scala d’ingresso alla chiesa e, grazie ad un lavoro di restauro, il bellissimo pavimento che presenta al centro una rosa “octolobata”, ossia a otto petali. Anche qui vi sono state delle interpretazioni esoteriche, in quanto il numero otto simboleggia l’equilibrio cosmico.

Fig. 14: la chiesa del Vaccaro

Il monastero conobbe un periodo di grande splendore per due secoli, fino alla morte dell’ultima badessa, Maria, avvenuta nel 1515. Il papa Giulio II aveva infatti decretato nel 1506 che con la morte della badessa il complesso del Goleto sarebbe stato chiuso e accorpato a Montevergine, e così successe. Ciò non impedì però all’abbazia di continuare a crescere, tanto da affidare la costruzione di una nuova chiesa al Vaccaro; con la soppressione però degli ordini monastici del 1810 voluta da Napoleone tutto il complesso cadde nell’oblio.

Si deve a padre Lucio Maria De Marino, benedettino stabilitosi al Goleto nel 1973, l’opera di sensibilizzazione sullo stato di degrado del monastero. È grazie a lui e al suo incessante interesse se oggi, grazie a un lavoro di restauro condotto dalla Soprintendenza, il monastero ha ripreso a funzionare, nonostante i gravi danni provocati dal terremoto del 980. Non vi sono più le monache, ma soltanto un monastero maschile con una piccola comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, che provvede all’animazione liturgica e che all’interno del Goleto discretamente prega, vive e tramanda la storia dell’abbazia.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli archivi di Stato, XXV, ABBAZIA DI MONTEVERGINE REGESTO DELLE PERGAMENE, a cura di G. MONGELLI O. S. B., vol. I (sec. X-XII), Roma

 

SITOGRAFIA

https://www.goleto.it/storia.asp

https://www.borgando.it/campania/rocca-san-felice-abbazia-goleto/ 

https://www.italianways.com/labbazia-del-goleto-capolavoro-del-romanico-campano/

http://www.jesuscaritas.it/wordpress/?p=4831

https://storie.ivipro.it/db/abbazia-del-goleto/  

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