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A cura di Alessandra Apicella

 

 

 

Tra la seconda metà del VI e dell’VIII secolo, l’Italia si ritrovò divisa in due aree di influenza: quella che faceva capo alla popolazione dei Longobardi e quella dell’esarcato, sottoposta al protettorato dell’Impero d’Oriente con sede a Costantinopoli. Per quanto concerne i primi, questi discesero in Italia dalla Germania Orientale nel 568 e i loro domini nella penisola interessarono due ampie aree: la Langobardia Maior, estesa dalle Alpi alla Toscana e la Langobardia Minor, concentrata prevalentemente nell’area centro-meridionale, importante centro politico dopo la sconfitta del re longobardo Desiderio da parte di Carlo Magno (771). Dopo la battaglia, una delle figlie di Desiderio, Adelperga, sposò il nobile longobardo di origine friulane, Arechi, che divenne principe di Benevento nel 774 con il nome di Arechi II.

Una volta spostato l’asse di interesse politico e sociale verso il meridione, i principali insediamenti longobardi principali di quest’area, Benevento, Salerno e Capua, divennero centri di irradiamento culturale di prim’ordine fino all’arrivo della popolazione normanna che si fece promotrice dell’unificazione dei territori sotto il medesimo dominio, quello di Ruggero II, nel 1130.

Tra i suddetti centri meridionali, la città di Capua divenne ben presto crocevia e polo culturale, sia per la sua posizione strategica che per la sua origine romana. La storia di questa città si caratterizza per molte fasi di stratificazione storica che hanno permesso lo sviluppo di realtà culturali differenti, in perfetta armonia tra loro, attraverso l’usuale tendenza di guardare al passato e alle proprie radici.

L’antico nucleo originario della città di Capua, chiamata altera Roma da Cicerone, corrisponde all’attuale Santa Maria Capua Vetere. Distrutta dalle incursioni saracene per una guerra interna al ducato di Benevento, la popolazione fu costretta alla fuga e si rifugiò nella zona di Triflisco, per poi collocarsi, a distanza di breve tempo, su un’ansa del fiume Volturno.

 

Il sito di questa rifondazione era in piena pianura, sul luogo di quella che era stata Casilinum, il porto della Capua antica, rispetto a quella più arroccata precedente, ma altrettanto inespugnabile grazie alla naturale difesa data dal fiume. La nuova città si pose subito in assoluta continuità con il suo passato romano e alto medievale, ereditandone nome, cittadinanza e tessuto sociale. Mentre il sito antico finiva in un decadimento progressivo a causa di mancanza di attenzione, la nuova città divenne capitale del principato di Capua, e riuscì ad estendere il proprio controllo anche su altre cittadine e territori limitrofi, come nel caso della frazione di Sant’Angelo in Formis. Quest’ultima, ai piedi del monte Tifata, è attualmente parte integrante della provincia di Caserta, nell’ambito del comune di Capua, e particolarmente famosa per l’omonima chiesa.

 

Edificata in epoca longobarda e dedicata al culto di San Michele, molto diffuso presso la popolazione, ricostruita e decorata nel 1072, per volere dell’abate Desiderio, come attestato dall’inscrizione in facciata, la basilica sorge sugli antichi resti di un tempio preesistente pagano, dedicato alla divinità preromana di Diana Tifatina. L’interpretazione etimologica del termine “in Formis” risulta ancora in dubbio, molteplici sono le ipotesi come quella che deriverebbe dal termine latino forma (acquedotto), che potrebbe indicarne la vicinanza ad un condotto o anche la derivazione dalla parola informis (senza forma), alludendo, invece, ad una condizione più spirituale.

 

L’edificio riprende lo schema paleocristiano basilicale con nartece e tre navate, terminanti in tre absidi, inoltre, è priva di transetto. La navata centrale è il doppio delle laterali in ampiezza ed è anche più alta, come si evince anche dell’esterno, riprendendo il modello benedettino-cassinese. La divisione tra le navate è marcata da colonne di spoglio, con capitelli corinzi che sorreggono archi a tutto sesto. Sia nelle colonne che nel tessellato del pavimento è possibile identificare materiali di spoglio provenienti dall’edificio pagano precedente, rinvenuto nel 1877 e di cui la basilica ne ripercorre il perimetro con l’aggiunta poi delle tre absidi finali. L’edificio presenta una strutturazione al suo interno in arcate, finestre monofore nella parte alta ed un tetto a capriate lignee.

 

La chiesa è celebre soprattutto per un importantissimo ciclo di affreschi, di cui è possibile datare la produzione entro l’epoca dell’abate Desiderio, rappresentato in atto di omaggio dell’edificio a Cristo nell’abside. L’abate è rappresentato con l’aureola quadrata, simbolo utilizzato per le persone ancora in vita, ma già con fama di santità, ed è descritto con minuta attenzione nelle vesti e nel volto, tanto da risultare quasi un ritratto. Nel modellino della chiesa, tenuto dall’abate, si sono invece riscontrate delle differenze rispetto all’edificio vero e proprio, sia nella resa degli archi del nartece che nella posizione del campanile: gli archi nell’edificio sono a sesto acuto, mentre nell’affresco a tutto sesto, e il campanile, che nell’edifico si trova a destra, è spostato a sinistra nella raffigurazione. Questa differenza potrebbe essere riconducibile tanto a delle modifiche avvenute poi nell’edificio quanto ad una tendenza semplificatoria della raffigurazione nella resa dell’affresco. Nel ciclo di affreschi, che culmina con la rappresentazione di Cristo in trono circondato dai tetramorfi e dalla volta celeste, nell’abside centrale, si dispiega la rappresentazione della storia dell’umanità.

 

Nella navata centrale si possono osservare scene del Nuovo Testamento, come compimento dell’Antico, raffigurato invece nelle navate laterali, secondo la considerazione per cui il ciclo veterotestamentario si pone come una sorta di previsione del nuovo. Il ciclo è suddiviso in tre registri per ogni parete, per cui il primo registro della parete di destra si concludeva in maniera continua nel primo registro della parete di sinistra, avendo nella posizione del coro il punto privilegiato di visione. Ogni scena, per sottolinearne l’indipendenza dalle altre, è dipinta all’interno di finti riquadri delimitati da colonne. Nella zona dei pennacchi, tra la fine della colonna e l’inizio del registro, sono rappresentati perlopiù Profeti con cartigli o Sibille, che si rifanno alla scena poi rappresentata nel registro sovrastante. L’attenzione al dettaglio della resa volumetrica e naturalistica dei personaggi si evince dalle particolari scocche rosse sul viso, elementi usuali nella pittura romanica-bizantina dell’epoca.

 

Data la prestigiosa committenza (l’abate Desiderio) e la vicinanza di questo luogo alla sede di Montecassino, è probabile che le maestranze fossero le stesse della sede abbaziale, che rappresentava un vero e proprio crogiolo artistico in cui erano presenti sia maestri italiani di tradizione latina, sia maestri di origine orientale, depositari della tradizione greco-bizantina. Il ciclo nella sua organizzazione presenta un forte impatto narrativo, enfatizzato anche dalla presenza di didascalie, quasi come se fosse una trasposizione di un codice miniato. In più è importante la lettura delle singole scene, oltre che quella complessiva, nell’ottica di analizzare il punto preciso in cui sono poste e della visibilità di cui godevano verso i fedeli e i monaci.

Per quanto riguarda l’esterno dell’edificio, la facciata è preceduta da un portico a cinque arcate ogivali, di cui la centrale è più alta delle altre e presenta elementi marmorei di reimpiego. Immediatamente visibile è anche l’altezza maggiore della navata centrale, che si mostra all’esterno con una resa a salienti e l’aggiunta di tre monofore. Le arcate sono rette da colonne di marmo cipollino a sinistra e granito grigio a destra, e presentano capitelli differenti tra loro, in quanto elementi di spoglio. Alla destra della facciata è presente il campanile, con un basamento in blocchi di reimpiego ed un fregio con decorazioni zoomorfe; al secondo piano si attesta una fila di bifore.

 

L’atrio presenta alcune decorazioni in corrispondenza delle lunette degli archi, di cui quella centrale presenta una particolarità: è visibile, infatti, una doppia lunetta, dovuta ad un innalzamento della volta. La più bassa presenta una maestranza maggiormente bizantina, più grafica e meno volumetrica; al contrario, quella più in alto, databile ad un intervento successivo, oltre a presentare una gamma cromatica più sgargiante, prevede anche una resa più dinamica delle figure di Cristo e degli angeli.

 

La basilica di Sant’Angelo in Formis riesce a racchiudere in sé secoli di storia che si sono propagati nel corso del tempo e che si mostrano attraverso dettagli e riusi di elementi di spoglio in perfetta armonia tra di loro, come parte integrante di una storia comune che racconta e mostra la natura caleidoscopica e artistica del meridione italiano.

 

 

Bibliografia

Bertelli C., Invito all’arte 2. Il Medioevo, edizione azzurra, scolastiche Bruno Mondadori, 2017

Bonelli R., Bozzoni C., Franchetti Pardo V., Storia dell’architettura medievale, editori Laterza, 2012

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