IL BASTIONE DI MALTA A LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione: il Bastione di Malta, stemma araldico della città di Lamezia Terme

L’imponente bastione medievale che si trova a guardia della città di Lamezia Terme accoglie con la sua maestosità i visitatori che si dirigono in città provenendo dal litorale costiero. Protagonista indiscusso della storia della città lametina, è stato scelto dal pittore Giorgio Pinna, molto attivo nella piana lametina nel secolo scorso, per essere rappresentato sullo stemma araldico della stessa. Si tratta di uno dei monumenti architettonici meglio conservati della zona e rientra nella schiera di torri riferite al sistema difensivo di epoca medievale delle coste calabresi.

L’edificio risale al XVI secolo: sotto le pressioni del viceré di Napoli Pedro da Toledo che lo volle fortemente, fu eretta una struttura possente che potesse far fronte alle sempre più frequenti incursioni saracene che sopraggiungevano dal mare.

Attualmente il bastione di Malta risiede nel territorio di Gizzeria lido, un tratto di costa che all'epoca della sua realizzazione rientrava nella giurisdizione dell’abbazia benedettina di Sant’Eufemia Vetere; nello specifico il monumento godeva della potestà degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, meglio noti con il famoso nome di Ordine dei Cavalieri di Malta, gestori del vicino feudo di Sant’Eufemia Vetere. È proprio al loro ordine che si deve la costruzione materiale della struttura e delle altre torri che si snodano ad intervalli più o meno regolari lungo la costa.

Descrizione architettonica del bastione di Malta

L’edificio è composto essenzialmente da un tronco di piramide a base quadrata costituito da spesse mura, svasato al primo livello. Presenta quattro caditoie ricavate nel coronamento liscio senza archeggiature e beccatelli in rilievo. Fatta eccezione per pochissimi interventi visibili anche ad occhio nudo, come nel caso di due strutture presenti sul terrazzo e qualche apertura nella scarpa, la torre è stata realizzata in un unico periodo edilizio.

Il primo livello è composto da un solo ambiente sormontato da volte a botte, mentre è nel secondo livello che si può apprezzare quello che doveva essere l’ingresso originario. Sul prospetto principale è, infatti, presente uno stemma a scudo che campeggia proprio sull'ingresso; si tratta dello scudo del Balì Fra Signorino Gattinara, recante un'iscrizione datata 1634 che gli attribuisce il merito di aver armato il bastione di macchine belliche a difesa delle incursioni da parte dei corsari, ammodernandolo.

Il livello superiore, composto da tre ambienti dalle dimensioni più ridotte rispetto al precedente piano, presenta una merlatura esterna che lo circonda interamente; su di esso si sviluppa un’ampia terrazza all'interno della quale è fissato un punto trigonometrico noto. Non a caso, vista l’imponenza e la sua posizione a ridosso della strada principale, già in passato le popolazioni lo consideravano un punto di riferimento fondamentale per l’orientamento; partendo dall'entroterra, infatti, chi si metteva in viaggio per raggiungere la zona marina lo chiamava “a vesta a campana”, paragonando la sua forma svasata alla “la gonna a campana”, che ricorda le ampie gonne degli abiti folkloristici indossate dalle donne locali.

Leggende e curiosità

Non di rado ci si trova di fronte a monumenti su cui i popoli hanno fantasticato, tramandando dicerie che col tempo sono diventate vere e proprie leggende; anche in questo caso, per così dire, la storia si ripete. Durante gli scavi archeologici che hanno interessato il vicino castello normanno-svevo di Nicastro, infatti, il rinvenimento di un'ampia cisterna ha fatto credere ai non esperti del settore che si trattasse di un enorme passaggio segreto scavato nel sottosuolo, direttamente collegato al bastione di Malta, così che, in caso di incursioni, un messo potesse raggiungere con una via preferenziale il palazzo e avvisare i castellani; si tratta ovviamente di una mera invenzione.

Il bastione di Malta fu usato anche durante la seconda guerra mondiale assolvendo il suo ultimo compito da fortezza militare in quanto fu usato come postazione antiaerea.

Attualmente il Bastione di Malta è proprietà del comune di Lamezia Terme, mentre precedentemente, con la vendita dei beni ecclesiastici imposta da Giuseppe Bonaparte del Regno di Napoli, era diventato di proprietà privata.

 

Bibliografia e sitografia

Casiello De Martino S., San Giovanni a Mare: storia e restauri, Arte Tipografica 2005;

Castanò F., Rossi P, Drawings and archive documents of Hierosolomytan Castles in Southern Italy. In: González Avilés, Ángel Benigno (Ed.). Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII Centuries: Vol. VI: Proceedings of the International Conference on Modern Age Fortifications of the Mediterranean Coast, FORTMED 2017. Alacant: Publicacions Universitat d’Alacant, 2017, pp. 161-168;

De Sensi Sestito G., Tra l'Amato e il Savuto - Volume 1, Rubbettino editore 1999, pag. 305;

Mazza F., Lamezia Terme: storia, cultura, economia, Rubbettino editore 2001;

Occhiato G., Rapporti culturali e rispondenze architettoniche tra Calabria e Francia in età romantica: l'abbazia normanna di Sant'Eufemia, Mélanges de l'école française de Rome 1981, pp. 565-603;

www.comune.lamezia-terme.cz

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

www.comune.lamezia-terme.cz.;

Castanò F., Rossi P, Drawings and archive documents of Hierosolomytan Castles in Southern Italy. In: González Avilés, Ángel Benigno (Ed.). Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII Centuries: Vol. VI: Proceedings of the International Conference on Modern Age Fortifications of the Mediterranean Coast, FORTMED 2017. Alacant: Publicacions Universitat d’Alacant, 2017. ISBN 978-84-16724-76-5, pp. 161-168;

Occhiato G., Rapporti culturali e rispondenze architettoniche tra Calabria e Francia in età romantica: l'abbazia normanna di Sant'Eufemia, Mélanges de l'école française de Rome 93.2 (1981): 565-603;

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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CHIESA DI SAN MARCO A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La piccola chiesa di San Marco sorge all'estremità sud-orientale nel centro storico di Rossano su un banco di roccia tufacea. Edificata intorno al X secolo, probabilmente dopo il terremoto che colpì Rossano nel 950 d.C., la chiesa di San Marco è considerata uno dei massimi esempi di architettura religiosa bizantina in Calabria. Originariamente nasce come oratorio bizantino dedicato all'ascesi comunitaria dei monaci. I monaci eremiti vivevano nelle sottostanti grotte di tufo, utilizzando il piccolo oratorio per le preghiere comunitarie, per la meditazione, per i canti corali, e soprattutto per la lettura dei testi sacri. La struttura pare che sia stata fatta costruire a proprie spese da Euprassio, protaspatario delle Calabrie, che a quel tempo dimorava a Rossano. Egli edificò questa chiesa, che ai tempi di San Nilo era dedicata a Santa Anastasia, ed in seguito a San Marco. Molti credono che in questo luogo, prima che Euprassio avesse disposto di fabbricarvi questa chiesa, ne esistesse un’altra dedicata a San Marco, che forse andò in rovina.

Fig.1 - Chiesa di San Marco.

La struttura originaria presenta strette affinità con la Cattolica di Stilo. Di forma quadrata e pianta a croce greca, con cupola centrale e quattro volte intorno, tipicamente bizantine, la chiesa di San Marco presenta anche quattro pilastri che reggono la cupola centrale, terminanti con capitelli ornati. La facciata orientale è adornata da tre absidi semicircolari, con piccole finestre bifore in alto a transenna di stucco. L'interno dell'oratorio (fig.2) è diviso in nove riquadri da quattro pilastri ciascuno, sul riquadro centrale e su quelli angolari si levano le cupole. La struttura ha subito nel tempo una serie di aggiunte e manomissioni oltre a restauri resi necessari dai danni del terremoto del 1836, che tuttavia non ne hanno compromesso la fisionomia originale. Sul lato sinistro, quello dell'ingresso, sorgeva un pseudo campanile addossato alla cupola angolare, che nell'intenzione del costruttore locale doveva simulare una torretta quadrata sormontata da cupola.

Fig.2 - Chiesa di San Marco, interno.

Numerose aggiunte di abbellimento furono compiute in età barocca, quali il soffitto “di tavole rusticamente a rosoni” e un nuovo altare. Nel secolo scorso la chiesa è stata utilizzata come cimitero dei colerosi. Fra il 1926 e il 1931, a cura della soprintendenza alle antichità bruzio-lucane, fu condotta una campagna di restauro grazie alla quale è emerso sul muro di sinistra, in fondo al presbiterio, un frammento di affresco raffigurante una Madonna Odigitria (fig.3). L’affresco è stato datato al XIII secolo ed è l’unico resto di una decorazione pittorica originariamente molto estesa.  Il recente restauro dell'edificio avvenuto tra il 1977 e il 1980 ha portato alla luce due fosse, una delle quali destinata alla sepoltura comune dei cadaveri, l'altra invece doveva essere una sorta di passaggio segreto che conduceva direttamente alla Cattedrale di Rossano e quindi fungeva da possibile via di fuga. Alcuni pezzi scultorei come la mensa d'altare (fig.4), dal bordo decorato a motivi geometrici  e un frammento scultoreo decorato a foglie ed un'acquasantiera con un fiorone scolpito a risparmio.

Bibliografia

Burgarella F., “La Calabria bizantina (VI-XI secolo)”. In San Nilo di Rossano e l’Abbazia greca di Grottaferrata.

Burgarella F., “Rossano in epoca bizantina”. Daidalos, 2003, Vol. III, n. 3, pp. 10-15.

Fiorenza E., “La Cattolica di Stilo”. Laruffa Editore, Reggio Calabria 2016.

Musolino G., Santi eremiti italo greci. Grotte e chiese rupestri in Calabria. Rubbettino 2002, pag. 105.

Loiacono P., Restauri a monumenti della Calabria e della Basilicata / d’Italia, Anno 25, ser. 3, n. 1 (lug. 1931), p. 43-47.

Kruautheimer R., Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, p. 380.

Roma G., “Monasteri bizantini fortificati sul territorio della Calabria settentrionale. Problemi archeologici e Lettura.”. In Histoire et culture dans l’Italie byzantine: Ecole Française de Rome, 2006, Collection de L’Ecole Française de Rome Vol. 363, pp. 505-514.


LA MORTELLA: UN GIARDINO INCANTATO

A cura di Stefania Melito

Quando l’amore plasma la natura e una follia si trasforma in stupenda realtà. È la descrizione che più si avvicina alla storia del giardino “La Mortella”, conosciuto anche come Museo-giardino, che si trova ad Ischia, e che può davvero sembrare, in alcuni tratti, una favola moderna.

La storia de la Mortella

I protagonisti di questa storia che sembra davvero una favola sono due: Susana Valeria Rosa Maria Gil Passo, vivace argentina dagli occhi verdi, e William Walton, geniale compositore britannico.

Susana, nata nel 1926, è la tipica ragazza argentina di buona famiglia: colta, raffinata, apprende l'inglese prima dello spagnolo. Sin da piccola però si rivela uno spirito ribelle e anticonvenzionale, tant'è che a 22 anni, cosa del tutto inedita per una ragazza della sua estrazione sociale, va a lavorare al Consolato britannico a Buenos Aires, dove incontra William Walton. Compositore di grande fama e molto apprezzato dai suoi contemporanei, nato nel 1902, Walton ha 46 anni quando arriva in Argentina per delle conferenze. E' un tipo deciso, ribelle, anticonformista. Susana gli organizza la conferenza stampa di presentazione al Consolato, Walton la nota e improvvisamente decide di sposarla. Con un coraggio che rasenta la pazzia la sera stessa le chiede di sposarlo. 24 anni di differenza sembrano non essere un ostacolo per i due, che nel giro di due mesi si sposano e partono per l'Europa, destinazione Italia. Nel 1949 si stabiliscono sull'isola d’Ischia, in un primo momento in una casa in affitto. Entrambi appassionati di natura, piante rare e giardini, nelle loro peregrinazioni sull'isola individuano un terreno che li affascina: è una brulla distesa di roccia lavica che guarda il mare, costituito da una valle e la soprastante collina, in località Zaro a Forio. Non è la solita terrazza sul mare, anzi ha un qualcosa di abbandonato e solitario, ed è simile a una cava di pietre. Si chiama “le Mortelle”, nome dovuto alle numerose piante di mirto che vi crescono. Comprano questo terreno con l’intenzione di farvi una sorta di giardino esotico e vi costruiscono una villa, che chiamano “La Mortella”, convincendo nel frattempo l’architetto costruttore di giardini Russel Page ad andare a dare vita al loro sogno un po’ folle. L’architetto impiegherà dieci anni per finire il giardino, che verrà costantemente curato e arricchito dalla coppia, trasformandolo in un capolavoro.

Fig. 3: i Walton nella loro casa ad Ischia. https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/03/21/foto/lady_susana_walton_il_decennale_della_scomparsa-251874273/1/#2

Il progetto

Russel Page immagina di dividere la Mortella in due parti: la cosiddetta “Valle”, ossia la parte di terreno che sta ai piedi della collina, e la “Collina” stessa. La prima parte, la Valle, dov'è anche la casa dei coniugi, è stata sviluppata da Page, ha la forma di una “L” ed è caratterizzata da un clima sub-tropicale e ombroso: qui vivono molte specie acquatiche come le ninfee, di cui una, la cosiddetta Victoria, è particolarissima; il primo giorno di fioritura è bianca e di sesso femminile, mentre il secondo giorno diventa rosso scuro e di sesso maschile.  Viene descritta così: <<‘LEI’ sboccia all'imbrunire e resta aperta fino alla tarda mattinata del giorno seguente, poi si chiude. ‘LUI’ si riapre nel tardo pomeriggio con i petali e i sepali mutati in rosso porpora. In una sola notte il fiore cambia sesso e colore, per poi immergersi nelle acque.>> Fa parte della cosiddetta Victoria House, una specie di serra tropicale dove crescono anche altre piante. La serra ospita una sorta di mascherone ispirato ad un'opera di Sir Walton.

Fig. 4_ la Victoria house. Fonte lamortella.org 

Altro arbusto particolarissimo presente qui è il Gingko biloba, un albero-fossile che si credeva fosse estinto fino a quando non fu ritrovato in Cina nel XVIII secolo, e la sua riscoperta destò talmente tanto scalpore che Goethe gli dedicò alcuni versi (Queste foglie d'albero d'Oriente,/che sono state donate al mio giardino,/rivelano un certo segreto,/che compiace me e i saggi./E' forse una creatura vivente chi si è divisa?/son due che hanno deciso/di manifestarsi in uno?/Per rispondere a tale domanda,/ho trovato la giusta risposta:/non noti, nei miei versi,/che son io uno e doppio?)

Fig. 5: Gingko biloba. Fonte lamortella.org

Orchidee e altre specie caratterizzano questa parte insieme a numerose fontane, tra cui si ricorda la cosiddetta Fontana Bassa, dono di Russel Page a sir William in occasione dell'ottantesimo compleanno di quest'ultimo.

La seconda parte, la Collina, è opera di Susana Walton, che ha cominciato la sua creazione nel 1983, anno della morte del marito. È popolato da specie appartenenti per lo più alla macchia mediterranea in quanto, a differenza della Valle, è una sorta di terrazza a strapiombo sul mare con un microclima diverso. Si inizia con il Giardino Mediterraneo, che deve il suo nome alla presenza di piante tipiche dell'area mediterranea, e che ospita il Ninfeo, caratterizzato da una fontana d’acciaio e tre nicchie, e il luogo di sepoltura di lady Walton, una semplice lastra su cui è inciso il suo nome e la scritta "genius loci", lo spirito del luogo.

Fig. 6: la fontana d'acciaio, cosiddetta "Specchio dell'anima". Fonte lamortella.org

La particolarità della "Collina" consiste nella presenza di costruzioni architettoniche particolari: il Teatro greco, che ogni estate ospita concerti di musica sinfonica, ricavato da un lato della collina e fiancheggiato da rose e piante aromatiche.

Fig. 7: il teatro greco. Fonte lamortella.org

Continuando, dopo una foresta di piante tropicali, si giunge in un luogo sopraelevato, colmo di pace e del suono di campane bene auguranti, ove al centro spicca un tempietto Thai;

Fig. 8: il tempio Thai. Fonte lamortella.org

Altro luogo simbolico è il cosiddetto Tempio del Sole, un'antica cisterna a tre vani trasformata in tempio, ove rappresentazioni della Musica si intrecciano ad affreschi raffiguranti le Muse, Apollo e soggetti ispirati alle coppie di amanti di Pompei.

L’angolo più particolare della Collina è la cosiddetta Glorieta, un pergolato di rose rampicanti circondato da un laghetto artificiale di pezzetti di vetro blu, donato dal collezionista americano Andy Cao.

Fig. 10: il laghetto artificiale. Fonte lamortella.org

Nel 1983 sir Walton morì a causa di un cancro; è stato seppellito sotto una roccia in Collina che domina tutto il giardino, la stessa roccia che lui definì “la mia roccia” la prima volta che la vide.

Fig. 11: la roccia di sir William. Fonte la mortella.org

La moglie invece è morta nel 2010. Oggi “La Mortella” è di proprietà di una Fondazione italo-britannica, con a capo il principe Carlo d’Inghilterra, ed è stata trasformata, per volontà di Susana Walton, in un luogo dedicato ai giovani compositori, “un laboratorio critico per lo studio delle opere di William ed un centro di eccellenza mondiale per rappresentazioni di musica, teatro e danza”. Il giardino privato è visitabile nel periodo della fioritura (29 marzo – 4 novembre), e ogni anno sono circa cinquantamila le persone che vengono qui ad ammirare la sua straordinaria bellezza, testimonianza di un sogno d’amore divenuto realtà.

Fig. 11: una bellissima immagine di lady Susana Walton. Fonte lamortella.org

CATTEDRALE DI MARIA SANTISSIMA DI ROMANIA A TROPEA

A cura di Antonio Marchiano

La facciata della cattedrale di Maria Santissima di Romania

La Cattedrale di Maria Santissima di Romania venne edificata a Tropea tra la fine del XII e l’inizio XIII secolo ad opera dei Normanni. Si tratta di un impianto a tre navate divise da pilastri ottagonali sormontati da archi a sesto acuto con doppia ghiera; tre absidi semicircolari concludono le navate. All'esterno risalta in maniera evidente la parete nord caratterizzata da un basamento in cui trova posto una serie di archi sormontata da un ordine di finestre e pseudo finestre caratterizzate da conci calcarei alternati a mattoni e conci di pietra lavica. La parete stessa è interrotta dall'ingresso settentrionale evidenziato da un portale settecentesco in marmo in cui trova posto un rilievo marmoreo riproducente l’icona della Beata Vergine Maria di Romania. La facciata principale è caratterizzata da un grande rosone del XVI secolo, dal portone dell’ingresso principale e da una piccola porta che immette nella navata sinistra. In alto, nel portone più grande, è collocata una scultura marmorea raffigurante la Madonna con il Bambino. Le absidi, interamente ricostruite sulle fondazioni originarie, riprendono il partito decorativo del fianco settentrionale.

Fig. 1 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania a Tropea.

Nella prima cappella di destra troviamo alcune sepolture della famiglia Galluppi, risalenti al 1598 e al 1651, e la tomba del filosofo Pasquale Galluppi. Nella seconda cappella è collocato un grande Crocifisso ligneo del XVI secolo. Andando avanti segue l’ingresso laterale meridionale e la tomba della famiglia Gazzetta (1530). Da qui si accede alla sagrestia e alla sala capitolare che ospita i ritratti dei Vescovi della Diocesi e arredi lignei settecenteschi. Ritornando alla navata destra si prosegue e si giunge alla cappella del SS Sacramento e di S. Domenico, che ospita pregevoli altari in marmo policromi e decorazioni del 1740; lateralmente è l’altare di S. Domenico e di S. Francesco di Paola. I pennacchi della volta e delle lunette ospitano tele di Giuseppe Grimaldi raffiguranti il martirio di Santa Domenica. Uscendo dalla cappella, in fondo all'abside della navata destra, vi sono l’organo e l’altare con la Madonna del Popolo, opera di Fra Agnolo Montorsoli (fig.2), seguace del Buonarroti, scolpita nel 1555.

Fig. 2 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, scultura di Fra Agnolo Montorsoli.

Sulla parete dell’abside maggiore è collocata l’icona della Beata Vergine Maria di Romania (fig.3), opera di scuola giottesca attribuita a Lippo Beninvieni (metà del XIV). Il quadro di scuola giottesca, eseguito su tavola di cedro, è stato ritoccato più volte nel tempo con l'aggiunta di quattro angioletti ai lati, e reso rettangolare nella parte superiore, originariamente circolare. La pietà popolare le attribuisce numerosi miracoli che protessero la città da terremoti, pestilenze e dalla distruzione bellica.

Fig. 3 - Cattedrale di Maria Santissima di Romania, Icona.

L'icona miracolosa della Madonna di Romania

La leggenda dice che al tempo delle lotte iconoclaste l’icona fu trafugata da marinai tropeani ad una imbarcazione proveniente dall’Oriente-bizantino sospinta da una tempesta nel porto di Tropea: per questo venne denominata Madonna della Romania. Riparate le avarie, il capitano cercò di ripartire ma la nave rimaneva ferma in rada. Nella stessa notte il Vescovo della città sognò la Madonna che gli chiedeva di rimanere a Tropea e diventarne la Protettrice. Il sogno si ripeté per varie notti. Alla fine il Vescovo, convocati gli alti funzionari e i cittadini, si recò al porto a prendere il quadro della Madonna. Non appena il quadro fu portato a terra la nave ripartì.  Successivamente la Madonna venne ancora in sogno ad un altro vescovo, avvertendolo di un terremoto che avrebbe devastato la Calabria. Questi il 27 Marzo 1638 istituì una processione di penitenza, che coinvolse tutto il popolo tropeano. Durante la processione si scatenò il terremoto che non procurò alcun danno ai tropeani.  Da un altro terremoto, molto più forte e più tragico, furono salvati successivamente i tropeani: quello del 1783 che investì la Calabria intera, ridisegnandone il volto geo-fisico visibile ancora oggi. Da questo avvenimento si rafforzò la devozione di Tropea per questa Madonna a cui i tropeani, riconoscendone l'intercessione benefica, diedero il titolo di Protettrice, e tutt'oggi i tropeani ricordano quel 27 di marzo 1638. Attribuite alla Madonna di Romania furono anche la salvezza dall'epidemia di peste che nel 1660 si espanse a Tropea e in tutto il regno di Napoli e che portò migliaia di vittime e poi, durante la seconda guerra mondiale, la non esplosione di due grandi ordigni bellici, anch'essi custoditi nella cattedrale di Tropea a ricordo di quella tragedia evitata.

Nella navata maggiore troviamo il pulpito settecentesco sotto il quale è collocato un bassorilievo della Natività, opera di Pietro Barbalonga (1598) facente parte, in origine, della cappella Galzerano. Passando dalla navata sinistra, nell'abside troviamo l’altare della Madonna della Libertà in marmo carrarese (statua del XVII) con un pregevole tabernacolo marmoreo di scuola toscana del XV secolo, commissionato dal Vescovo Pietro Balbo, di origine Toscane. Sull'uscita laterale verso il nord, un bassorilievo raffigurante la Resurrezione, attribuito al Gagini (metà del XVI secolo) e due tondi raffiguranti l’Annunciazione, dello stesso periodo. Purtroppo la chiesa ha subito numerosi rimaneggiamenti nei secoli a causa di terremoti ed incendi, fu riportato al suo stile architettonico originario con gli interventi di restauro del 1927-1931 che cancellarono quasi ogni traccia in stile Barocco e Neoclassico.

 

Bibliografia

De Sensi G., Sestito e Antonio Zumbo, Il Territorio in età antica, in Tropea - Storia, Cultura, Economia, a cura di Fulvio Mazza, Soveria Mannelli 2000.

Foti G., Attività della Soprintendenza archeologica della Calabria nel 1980, Atti XX CSMG, Istituto per la storia e l'archeologia della Magna Grecia, Taranto 1981.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 31-32.

Pugliese F., Guida artistica, in Tropea, a cura di Pasquale Russo Vibo Valentia 2002.


FILIPPO LIPPI

Filippo Lippi nasce a Firenze nel 1406 e muore a Spoleto nel 1469. Entrato giovanissimo nell’ordine dei Carmelitani, aveva una ventina d’anni quando Masaccio affrescava le pareti della Cappella Brancacci, stesso luogo in cui Filippo Lippi esercitava il suo ruolo religioso.

Deve essere stato tra i primi e più attenti osservatori di una pittura così nuova, così rivoluzionaria entro quell’ambiente fiorentino che, pochi anni prima, aveva ammirato la ricca ed elegante fantasia tardo-gotica di Gentile da Fabriano.

Nel 1432 Filippo dipinge la sua prima opera documentata: il “Conferimento della Regola Carmelitana” (1432 – 1433). Nella parte conservata vediamo un paesaggio iniziale, con volumetrici frati in conversazione: non sarebbe possibile una simile concezione, a meno di dieci anni dall’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano, senza lo studio delle opere di Masaccio. Ma la prospettiva degli edifici non è così ferma, così certa, così umana come nel maestro. Né gli uomini posseggono la coscienza e l’eroica dignità di quelli che vivono sulle pareti della Cappella Brancacci. La luce chiara, non contrastata, dona serenità umana, terrena.

Grazie a quest’opera si va delineando lo stile di Filippo Lippi. È lo stesso stile che troviamo sia nella “Madonna dell’ Umiltà” che nella “Madonna di Tarquinia”.

Nella “Madonna dell’umiltà” (1432) la madre accoglie tra le braccia un florido ed impetuoso Bambino in uno spazio prospettico serrato dalle linee di fuga e affastellato di elementi. Il panneggio della Madonna si fa metallico, come quello di una scultura, e la luce diventa, insieme alla linee, protagonista.

Nella “Madonna di Tarquinia” (1437)la scena è rappresentata entro un ambiente descritto con scrupolosa attenzione ai particolari. Sulla sinistra, attraverso una finestra, si intravede un panorama naturale. Sul fondo un portone ci introduce in un cortile, caratteristico delle ville toscane.

 

Nell'“Incoronazione della Vergine” (1441 – 1447) Filippo Lippi si attiene ad uno schema già fissato dall’Angelico, e in base a criteri di gerarchia dottrinale addensa le figure in masse prospettiche, che formano piani inclinati ai lati del trono; la luce scende lungo la fitta gradinata delle teste degli angeli e dei santi, ma il fondo, che agisce come superficie riflettente, è formato da strisce alternate chiare e scure. Poiché l’artista punta a rappresentare una luce che si propaga, il suo interesse si concentra sugli elementi più animati, che permettono vivaci passaggi chiaroscurali: i volti, i veli agitati dai movimenti del corpo.

Un'opera in cui emerge una certa tendenza alla raffinatezza è il cosiddetto “Tondo Bartolini” o “Madonna col Bambino” (1452): in quest’opera possiamo notare come le forme si raffinano per uno studio condotto sull’Angelico che, tuttavia, risente degli sviluppi che l’artista ha ottenuto in seguito ai suoi esperimenti pittorici con la luce. Il segno è più sensibile, lo spazio diventa più scuro, realizzato grazie alla scacchiera dei pavimenti e dei soffitti, oltre che con la convergenza delle numerose linee delle pareti, del letto, della scala. In quest’opera, una delle migliore dove cogliere la natura di Filippo Lippi, non si raggiunge un’espressione religiosa: il fatto sacro diventa narrazione di un evento lieto, la nascita, entro un ambiente borghese.

È tra il 1452 ed il 1464 che vengono eseguiti gli “Affreschi per il Duomo di Prato”:  in questo ciclo pittorico l’artista riesce a sviluppare pienamente la sua nuova concezione del rapporto tra sentimento e pittura, e tra pittura e spazio – luce.

“I funerali di Santo Stefano”: la scena si svolge in un ambiente basilicale, monumentale, ma la monumentalità non esprime grandiosità interiore, è piuttosto una parata di dignitosi borghesi che assumono una posa consona al momento, senza una diretta ed autentica partecipazione. La linea del Lippi, carezzevole e sinuosa, prelude a quella del Botticelli, ma non ne possiede la forza espressiva.

Tra le opere più tarde, poco prima della partenza da Firenze, si deve con ogni probabilità collocare la “Madonna col Bambino e due angeli” (1465 circa): viene espresso, in quest’opera, l’amore per la bellezza raggiungendo, con la linea, una straordinaria eleganza nella Vergine nel tenero bambino e nell’angelo di destra. La luminosità dei colori, i lievi trapassi chiaroscurali, rendono la serenità con cui vivono i personaggi, malgrado una certa pensosità della madre. Il gruppo è rappresentato dinnanzi ad una finestra aperta, su un ampio panorama che riceve e riflette luce. Per farne apprezzare la vastità il punto di vista è rialzato.


DOMENICO VENEZIANO

 

L’artista che con ogni probabilità ha portato a Firenze le prime, inquietanti notizie dell’arte fiamminga è Domenico Veneziano (Venezia, 1406 circa – Firenze, 1461).

La descrizioni che il Vasari da del Veneziano risponde bene alla luminosità, alla raffinata eleganza delle sue figure, alla fresca atmosfera primaverile in cui le fa vivere.

“L’Adorazione dei Magi” è la pala di partenza da cui capire il percorso pittorico che egli compie da Venezia a Firenze. Tre componenti culturali convergono nella coerenza di questo capolavoro: Masaccio, nella Madonna e nei cavalli, a sinistra; Gentile da Fabriano, nei personaggi vestiti coi ricchi costumi del tempo e Pisanello, nei volatili, nell'elegantissimo pavone nella minuscola figura dell’impiccato; i Fiamminghi, nella panoramica del paesaggio. Domenico Veneziano tende ad una sintesi delle varie esperienze: il paesaggio è si una panoramica ad orizzonte alto, in cui tutte le cose trovano il loro posto, ma è anche un grande canale che convoglia la luce dal cielo al primo piano, dove si immedesima con le masse delle figure. La grande intuizione dell’artista è che non c’è antitesi tra spazio teorico e spazio delle cose e, meno che mai, tra prospettiva e luce: la luce non è separazione ma unitarietà, l’elemento comune che può saldare i due sistemi della visione.

Il primo documento sicuro che abbiamo di lui è una lettera, scritta di suo pugno il primo aprile del 1438 in cui chiede a Piero de Medici di intercedere presso il padre Cosimo affinché gli commissioni una tavola.

La “Pala di Santa Lucia de Magnoli” è ciò che ne consegue: l’opera ci permette di capire il significato dell’arte di Domenico Veneziano ed il suo peso nell’ambito culturale fiorentino. I quattro santi si dispongono su una linea triangolare convergente nella Vergine. Essi vivono, saldamente, occupando il loro “posto” umano, nello spazio antistante, realizzato con la spartizione geometrica del pavimento; ciascuno è individuato psicologicamente e volumetricamente. La Madonna siede sul trono, sotto l’arco centrale di un portico, al di la del quale vi è un cortiletto con archi e nicchie; sopra il muro che lo cinge si vedono spuntare le punte degli alberi di arancio. È dunque uno spazio prospettico fiorentino, malgrado il residuo gotico del sesto acuto degli archi anteriori, che, tuttavia, snelliscono la composizione. Nei pennacchi troviamo delle profilature di origine romanica, che comprovano l’attenzione posta dal Veneziano nello studio della tradizione locale.

“L’Annunciazione”: i due protagonisti occupano un posto, che è il loro: ciascuno vive, da persona, l’evento e, al tempo stesso, per via dei legami prospettici, in relazione all'altro. Essi vivono uno spazio intimo. Vi è, tuttavia, un passaggio graduale dal chiostro, parzialmente aperto, al giardino, chiuso intorno, ma libero verso il cielo e naturalisticamente ornato di piante e, infine, al mondo esterno, di cui si intuisce l’esistenza, al di la del basso muro merlato e dalla porta chiusa da un paletto.

Il pittore viene considerato a ragione parte integrante dell’ambiente artistico fiorentino, pur non rinunciando al tenero colorismo veneto. La presenza di Domenico Veneziano a Firenze, oltre al valore intrinseco della sua arte, è stata di importanza determinante. Senza di lui sarebbero impensabili la sintesi spazio – luce – colore di Piero della Francesca e, in gran parte, l’indirizzo della pittura fiorentina nella seconda metà del secolo, causato dalle novità che egli ha portato a Firenze.

 


CARAVAGGIO: LA CATTURA DI CRISTO

 

Nel buio della notte una luce improvvisa e straordinaria trasforma una scena di ressa umana, quasi un groviglio di corpi, in una scena sacra. Sulla destra un giovane, in cui si ravvisa il ritratto del Caravaggio, protende la mano per illuminare con una lanterna Giuda che bacia Cristo. Sulla sinistra un altro personaggio, stravolto nel volto e nell'urlo, spalanca la propria mano quasi a bloccare e forse impedire l'assalto dei soldati, che già stanno ghermendo un Cristo inerme che subito si consegna, intrecciate le mani nel gesto di resa e di umano abbandono. Un immaginario triangolo fra le mani di Cristo e quelle dei due personaggi laterali racchiude quel bacio e vi trasferisce tutta la forza emotiva della scena. E se il giovane con la lanterna è davvero Caravaggio appare chiaro quale sia il ruolo dell'artista: fare luce nel buio e liberarne la verità. E' chiaro che questa luce ha un puro valore simbolico considerando che la vera luce è esterna al dipinto e serve ad esaltare il dramma. i tempi si accorciano e quasi si annullano: tutto avviene nell'istante in cui Giuda da il bacio, mentre qualcuno grida, qualcuno fa luce, i soldati sopraggiungono e Cristo si abbandona, senza resistenza, perché tutto era già stato annunciato. Si sviluppa in questa scena il concetto di hic et nunc che Caravaggio matura lentamente via via restringendo i tempi narrativi in un solo fotogramma.

Alla metà del 1601, non ancora trentenne e già a Roma da quasi nove anni, Michelangelo Merisi, grazie alle sue tele in San Luigi dei Francesi ed altre private, aveva già raggiunto un'insperata notorietà tanto da essere ritenuto da alcuni come il più innovativo pittore vivente. Nel mese di giugno l'artista aveva cambiato signore alloggiando nel palazzo del cardinale Girolamo Mattei. Questi era tra le personalità più rappresentative della curia oltre ad appartenere ad uno dei casati più nobili e benestanti della Roma dell'epoca. Per il Mattei Caravaggio realizzerà la Cena ad Emmaus, il San Giovanni Battista e la Presa di Cristo nell'orto che viene terminato prima della fine dell'anno. Nel 1603 con la morte del cardinale è molto probabile termini anche la permanenza dell'artista presso al famiglia. I tre quadri eseguiti per lui restano in seno alla famiglia almeno fino al 1607-1608, mentre già nel 1616 dagli inventari scompare la Cena in Emmaus, probabilmente ceduto al cardinale Scipione Borghese, e simile sorte toccherà al San Giovanni Battista e alla Presa di Cristo. In particolare quest'ultimo fu ceduto sotto nome di un altro artista per saldare le gravi difficoltà economiche dei discendenti della famiglia Mattei ad una coppia scozzese, gli Hamilton Nisbet, che lo conservarono all'interno della famiglia fino a quando l'ultima discendente dovette metterlo all'asta. Il dipinto fu acquistato da una signora irlandese, Mary Lea Wilson, la quale era rimasta colpita dalla rappresentazione drammatica dell'aggressione subita dal Cristo che le ricordava la morte violenta del marito avvenuta nella guerra per l'indipendenza del sud Irlanda. Convertitasi al cattolicesimo la Wilson donò il quadro alla comunità di Sant'Ignazio di Dublino che conservò gelosamente il dipinto fino all'Agosto del 1990, quando il rettore chiese l'assistenza dei curatori della National Gallery di Londra per attestare lo stato di conservazione delle opere. Fu così riconosciuto il dipinto di Caravaggio in quanto menzionato da fonti antiche e di cui si conosceva la composizione e l'opera fu ricondotta al suo legittimo autore.

Il dipinto ha un supporto formato da una singola tela di canapa la cui trama appare identica a quella del San Giovanni Battista conservato ai Musei Capitolini, quadro che precede la composizione della Presa di Cristo di pochi mesi. La pittura è di colore bruno ed è formata da ocra rossa e gialla, terra d'ombra, grani di terra verde ed una certa quantità di bianco di piombo. La mestica è distesa in modo abbastanza irregolare e sembra che i pigmenti non siano stati mescolati a sufficienza tra loro tanto da far pensare che si sia agito in gran fretta. La tecnica usata è quella di un'esecuzione abbastanza rapida preceduta da alcuni tratti generali di abbozzo dati probabilmente con un pigmento bianco che si intravede in alcune parti della superficie. A ciò è seguita la campitura del fondo e la costruzione delle figure, il tutto portato avanti con pennellate veloci date con sicurezza senza preoccuparsi troppo di completare tutte le parti. Nelle zone dove mancano queste pennellate finali traspare la preparazione bruna. Ciò è particolarmente evidente nella mano di Giuda e sotto la manica del San Giovanni in fuga. Le analisi hanno riscontrato anche un'altra frequente abitudine dell'artista, quella cioè di aggiustare la composizione verso la fine con pennellate correttive. Le indagine radiografiche e le riflettografie a raggi infrarossi hanno fornito informazioni circa l'esecuzione del dipinto, durante la quale Caravaggio ha apportato vari cambiamenti che nonostante non siano sostanziali appaiono significativi: tra tutti sul volto di Giuda è stato modificato il profilo e spostato più in basso la posizione dell'orecchio.

La composizione del dipinto è orizzontale cioè da "Quadro mezzano" come venivano definiti all'epoca. La tipologia è lombardo-veneta con struttura compatta e figure di tre quarti come appare frequentemente in quegli anni nei lavori eseguiti da Caravaggio per i privati. La studiata riduzione dello spazio intorno ai personaggi serve al pittore per dare maggiore impatto alla scena aumentandone così la drammaticità. La fonte che illumina la scena non è visibile, ma si presume sia la luna con i raggi che cadono dall'alto verso destra rischiarando solo quello che serve ad enfatizzare l'azione ed i volumi.

L'episodio della cattura di Cristo nell'orto figura in tutti e quattro i vangeli canonici seppure con differenze di narrazione. Caravaggio opera una sintesi di tutti gli elementi presenti nel racconto evangelico e ce ne da la sua personale versione in un quadro che è come una lente di ingrandimento puntata prevalentemente sui volti e sulle mani di pochi personaggi illuminati dalla luce di una lanterna. Il quadro è chiaramente diviso in due blocchi di figure contrapposte: quello di destra sembra un pesante macigno che si riversa addosso a Cristo inerme con la brutalità degli sguardi truci e la pesantezza degli elmi e delle corazze che assorbono e rimandano la luce. I visi dei soldati sono schermati, allusione possibile alla furia di una violenza che preferisce restare senza nome e senza volto; le mani invece si stringono a tenaglia come se volessero afferrare una preda. L'insieme figurativo di sinistra ci presenta il Cristo interamente esposto al rancore di Giuda e alla rabbia delle guardie: i suoi occhi non incrociano quelli del traditore, non trasmettono rimprovero all'irruenza di chi lo bacia con visibile astio. La visione della cattura di Gesù nell'orto sembra portata maggiormente in primo piano dai due volti che stanno sullo sfondo quello di un apostolo, forse Giovanni, che lancia un urlo di sgomento ed alza il braccio; e poi quello non più di un apostolo ma di Caravaggio stesso, che rendendo contemporaneo a sè l'amore che tradisce e l'amore che subisce ha voluto renderli contemporanei anche a ciascuno di noi.

 


IL DUOMO DI SALERNO E LA CRIPTA

A cura di Stefania Melito

INTRODUZIONE

La cattedrale primaziale metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno, altresì detta Duomo di Salerno, o Cattedrale di San Matteo, o semplicemente San Matteo per i salernitani, è la chiesa principale della città. Il suo titolo di cattedrale è in realtà solo onorifico, in quanto essa è una basilica minore, ma si fregia del titolo di cattedrale in quanto riveste particolare importanza per il suo territorio e per la Chiesa.

Fig. 1: Di Berthold Werner, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32936645

LA STORIA DEL DUOMO DI SALERNO: ROBERTO IL GUISCARDO

Costruito tra il 1076 e il 1084 quando era arcivescovo Alfano I, il duomo di Salerno fu voluto da Roberto il Guiscardo, personaggio fondamentale per la storia di Salerno. Sposo in seconde nozze della principessa longobarda Sichelgaita di Salerno, principessa guerriera che secondo la leggenda lo accompagnava in battaglia cavalcando al suo fianco, unì normanni e longobardi sotto un'unica bandiera formando di fatto un impero che si estendeva dalla Sicilia a Malta e comprendeva tutta l'Italia Meridionale. Strinse un patto d'alleanza con il papa Gregorio VII, dopo averlo salvato dall'assedio delle truppe imperiali di Carlo IV a Castel Sant'Angelo nel 1084 e aver saccheggiato Roma; il pontefice quindi si trasferì a Salerno sotto la protezione del duca.

A questo si aggiunse un altro episodio, a metà tra mito e leggenda, che concorse alla fondazione della chiesa, ossia la traslazione delle spoglie di San Matteo. Il santo infatti morì in Etiopia e fu sepolto a Velia, ove rimase per circa 500 anni. Da lì, nel 954, apparve in sogno ad una donna del posto, Pelagia, e a suo figlio, il monaco Atanasio, pregandoli di disseppellirlo: il monaco voleva condurre la salma a Costantinopoli, ma non riuscì a partire dal porto di Amalfi. Allora nascose la salma in una chiesa nei pressi di Casal Velino, dove il vescovo della diocesi di Paestum Giovanni la prelevò per condurlo a Capaccio. Dalla Cattedrale di Capaccio le spoglie furono poi portate a Salerno, ove giunsero il 6 Maggio del 954 d.C. e deposte nell'aula Sanctae Dei Genitricis, ossia il luogo che sarebbe poi diventato il duomo.

DESCRIZIONE DEL DUOMO: LA PORTA DEI LEONI

Il Duomo di Salerno presenta una prima facciata, ciò che resta della chiesa originale, con una porta fiancheggiata da due statue: una di un leone, simbolo della potenza della Chiesa, e una di una leonessa con il cucciolo, simbolo della Carità, a cui si accede tramite una doppia scala settecentesca di marmo che è andata a sostituire quella originale in pietra. Sul portone, un cartiglio che ricorda l’alleanza fra Salerno e Capua e decorazioni fitomorfe che alludono alla Passione di Cristo, nonché altre due rappresentazioni di animali: una scimmia, simbolo dell'eresia scacciata, e una colomba che mangia dei datteri, simbolo dell'anima che gode dei piaceri ultraterreni.

Fig. 2: la porta dei leoni

Dalla facciata si passa ad un quadri-portico, in cui è molto evidente il retaggio delle dominazioni arabe e normanne nonchè la predominanza dello stile romanico: tale portico è infatti uno degli unici esemplari di porticato romanico in Italia. Esso è composto da una fila inferiore di colonne di recupero, provenienti da Paestum e necropoli vicine, sormontate da dischi policromi, e da una fila superiore di colonnine raggruppate a gruppi di cinque (pentafore); in tutta la decorazione emergono stilemi arabeggianti. Il centro del cortile è occupato da una fontana, un vecchio fonte battesimale, mentre tutt’intorno al colonnato sono stati posizionati nel corso degli anni sarcofagi romani, quasi a voler comporre una specie di “album” delle famiglie illustri della città.

Fig. 3: Di Bellsalerno - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42852236. Particolare del colonnato interno.

Al lato del quadriportico si eleva il campanile arabo-normanno, risalente alla metà del XII secolo. Esso si eleva per un'altezza di 52 metri, ed è formato da quattro blocchi, tre cubici sormontati da un tiburio a cupola, tutti con bifore di alleggerimento ai quattro lati: la cupola finale è in stile amalfitano. Il campanile, che ospita ben otto campane, presenta sulla faccia meridionale una lapide che recita: "«TEMP(O)R(E) MAGNIFICI REG(IS) ROG(ERI) W(ULIELMUS) EP(ISCOPUS) A(POSTOLO) M(ATTHEO) ET PLEBI DEI», che tradotto significa «Al tempo del Magnifico Re Ruggiero il vescovo Guglielmo (dedicò) all'Apostolo Matteo e al Popolo di Dio».

Fig. 4: Di Bellsalerno - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62662905

Alla cattedrale si accede mediante un portone di bronzo del 1099, proveniente da Costantinopoli, che presenta formelle in oro e in argento (ormai diventate verdastre) raffiguranti San Matteo e animali allegorici.

Fig. 5: https://www.salernodavedere.it/il-duomo-di-salerno-la-cattedrale-di-san-matteo/. Porta d'ingresso.

L'interno della chiesa presenta una struttura a tre navate con volta a botte, molto simile a quella dell'abbazia di Montecassino, che termina in un transetto triabsidato: la decorazione all'interno, risalente al Seicento, molto probabilmente fu eseguita al di sopra di affreschi precedenti di scuola giottesca, come dimostrano alcuni lacerti ritrovati in una delle cappelle laterali.

Fig. 6: pianta del duomo

 

Fig. 7: gli affreschi ritrovati

In generale l'impianto originario della cattedrale è stato stravolto dagli interventi seicenteschi di Carlo Buratti: di originale restano soltanto il pavimento musivo nei pressi della zona absidale e gli amboni, anch'essi rimaneggiati ma sufficientemente leggibili nella loro conformazione originale. Collocati subito prima dell'iconostasi, ossia della divisione che un tempo si ergeva fra la zona absidale e la zona ove si radunava il popolo, i due amboni sono l'ambone Guarna del 1180, chiamato così perchè donato dall'arcivescovo Romualdo Guarna alla cattedrale di Salerno, e l'ambone D'Ajello, del 1195, donato dalla famiglia dell'arcivescovo D'Ajello. L'ambone a sinistra, l'ambone Guarna, è più piccolo ed è di forma quadrangolare con un piccolo terrazzino sporgente: la sua tipologia di costruzione è detta "a cornu evangeli"; l'ambone di destra, l'ambone D'Ajello, molto più grande e detto "a cornu epistulae", è una cassa quadrata sorretta da dodici colonnine. Entrambi gli amboni presentano lastre intarsiate a motivi arabeggianti.

 

Di tutta la chiesa, quel che sorprende per la sua magnificenza è la cripta sottostante, alla quale si accede tramite una scalinata. È un ambiente riccamente affrescato, barocco, risalente al 1081 circa ma oggetto di rifacimento da parte degli architetti Domenico e Giulio Cesare Fontana nel ‘600. La decorazione policroma del pavimento, un alternarsi di piccole formelle nere su fondo bianco, esplode sul fusto delle colonne che reggono la volta e si inserisce perfettamente tra gli affreschi del soffitto racchiusi da cornici. Il soggetto raffigurato è il miracolo di San Matteo: leggenda vuole che in occasione dell’assedio di Salerno, avvenuto nel 1544 da parte di Ariadeno Barbarossa, si scatenasse una grande tempesta che allontanò e distrusse la flotta nemica. La tradizione attribuì questo evento ad un miracolo di San Matteo, eleggendo quindi il Santo a patrono della città; ancora oggi, durante la festa di San Matteo (21 settembre), viene innalzata un’immagine del Santo dipinta su un telo con la scritta “Salerno è mia, io la difendo”. Altri affreschi della volta rappresentano S. Grammazio, il Miracolo della liberazione di un indemoniato, la guarigione di un malato e la Sapienza, la Fortezza e la Giustizia. Al centro della cripta, circondato da una balaustra, vi è un altare a fossa che contiene le spoglie di san Matteo e la tradizionale statua bifronte del Santo. La tradizione vuole che il Santo sia raffigurato così affinché possa essere visto in volto da qualsiasi punto della cripta.

Fig. 10: Di MarcoGasparro - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74974600

SITOGRAFIA

http://www.agirenotizie.it/2015/09/il-duomo-e-san-matteo-con-due-facce/

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/14-visita-vituale.html

http://www.cattedraledisalerno.it/visita-virtuale/la-cripta.html

http://www.lacittadisalerno.it/cronaca/il-santo-che-protegge-la-citt%C3%A0-salerno-%C3%A8-mia-io-la-difendo-1.1555848

https://www.costieraamalfitana.com/duomo-di-salerno/

www.salernonews24.com

www.medioevo.org


PALMA IL VECCHIO, TRA TIZIANO E GIORGIONE

 

Fig. 1: Sacra Conversazione

Per stendere la biografia del Palma bisogna rifarsi alle carte d'archivio esplorate con successo da valenti ricercatori tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Non si conosce la data di nascita del pittore, tuttavia tenendo presente che il Vasari lo dice morto all'età di quarantotto anni, è possibile ricavarla per sottrazione dalla data di morte avvenuta nel 1528. Nacque quindi intorno al 1480 a Serina nel bergamasco. Il suo vero cognome fu Nigreti  o Negreti ed il più antico documento che lo riguarda risale al 1510 a Venezia, dove si firma "Jacomo de Antonio de Negreti depentor" quale testimone di un testamento. Palma fu un soprannome d'arte e lo si incontra per la prima volta nel 1512. Nel 1513 risulta iscritto alla Scuola di San Marco e residente a San Moisè. Tra il 1520 e il 1521 gli vengono pagati cento ducati per una pala con lo Sposalizio della Vergine dipinta per Sant'Antonio di Castello a Venezia. E' solo a partire dal 1520 che il Palma riesce a collocare le sue pale e i suoi polittici sugli altari della città, mentre in precedenza le commissioni erano pervenute da fuori. Nel 1524 è a Serina per sistemare degli affari di famiglia, infine nel luglio del 1528 fa testamento. Fu chiamato "Il Vecchio" per distinguerlo da Jacopo Palma il "Giovane" che era un suo pronipote e che operò più tardi.

Fig. 2: Madonna con il Bambino fra i santi Giovanni Battista e Maria Maddalena
Fig. 3: Sacra Famiglia con Maria Maddalena e San Giovanni

Jacopo Nigreti detto il Palma non esordì alla pittura con la tempra di un innovatore. Arrivava a Venezia da un paese del Bergamasco con un fondo di provincialismo atavico, in un momento in cui il progredire della pittura veneziana si misurava non ad anni ma a mesi vista la presenza in città di artisti come Lotto, Tiziano e Giorgione. Ci fu quindi un primo inevitabile periodo di ambientamento a proposito del quale gli studiosi del pittore non sono concordi. L'orientamento della critica è di ritardare verso la fine del decennio 1500 - 1510 certi fatti risolutivi che un tempo gravitavano verso il principio del secolo. L'avventura di Giorgione comincia ad avere un peso effettivo sulle sorti della pittura veneziana solo verso il 1508, stessa cosa per la data del San Girolamo di Lotto (1506). Così un pittore che giungesse a Venezia dalla terraferma era naturale entrasse nell'orbita del Bellini, che nonostante fosse settantenne, rimaneva ancora il leader della pittura veneziana, o in quella del Carpaccio. Il Palma si accostò a quest'ultimo: la Madonna di Berlino, il suo dipinto più antico, rievoca composizioni carpaccesche dei primissimi anni del nuovo secolo. Spaesato di fronte al vario panorama figurativo della città, Palma il Vecchio dovette appoggiarsi al Previtali, un pittore bergamasco già introdotto a Venezia nella cerchia del Bellini. Tuttavia queste scelte iniziali non vincolano il gusto del Palma, che si evolve per tutto il decennio con tappe di estremo interesse. La Madonna fra due committenti ispirato ad un quadro di Carpaccio rivela che il momento di attrazione verso quest'ultimo è ormai alla fine. Immagina una Vergine matronale, seduta su un gradino, che si dilata a destra per stendere il braccio a protezione del gentiluomo e a sinistra per offrire il ginocchio come piedistallo al Bambino benedicente la gentildonna. Il drappo che è steso alle sue spalle spartisce il paesaggio in due vasti riposanti riquadri sui quali stampano le loro minute sagome i due sposi committenti dell'opera. Il Palma largo, equilibrato, riposante, che conosciamo dalla sua produzione più tarda si incontra qui in embrione per la prima volta.

La Madonna fra due sante e due committenti della Galleria Borghese ci porta più avanti nel decennio di circa due anni. Lo schema frontale e simmetrico già si articola su piani diversi di profondità e il primo piano è tenuto dalle masse triangolari dei due committenti rampanti e affrontate come in uno stemma gentilizio. Si sono riscontrate in questo tentativo di suggellare la spazialità entro poche ampie campiture di colore spunti tratti da Tiziano, Lotto. Il dipinto testimonia che nel 1508 il Palma è ancora un pittore in fase di ambientamento, di esplorazione, non del tutto immemore del primo sodalizio con il Previtali ma deciso a non mancare l'appuntamento con il nuovo. Questo quadro si apprezza meglio se si tiene conto che nel 1508 esplode in pubblico il genio privato di Giorgione, si ha la prima affermazione di Tiziano al Fondaco, la rivelazione di Sebastiano del Piombo, l'arrivo di Fra Bartolomeo della Porta da Firenze, la partenza di Lotto. La Madonna con due santi e committenti di poco posteriore deriva il suo schema dal quadro di Bellini in San Francesco della Vigna. L'ambito della meditazione è ora decisamente belliniano e anche la Madonna con Santi e committenti rielabora questo prototipo belliniano. Viene meno ogni capriccio di luce e di moto, ogni figura s'inclina in modo da offrire il fianco più ampio alla superficie e quindi alla campitura del colore.

E' da posticipare di almeno un lustro il momento in cui il Palma inizia a dipingere le composizioni per le quali è universalmente noto: le sacre conversazioni. Dopo la Pala di Zerman che è un tentativo del Palma di adeguarsi al nuovo modo imposto da Tiziano e Sebastiano del Piombo, sono gli sviluppi stessi della pittura lagunare a orientare il pittore verso prove di gusto a lui più congeniali e soprattutto verso un affinamento dei suoi mezzi espressivi. Nel momento di meditazione giorgionesca che fa seguito alla sua morte prematura e in concomitanza con la partenza per Roma di Sebastiano del Piombo, il Palma esegue alcuni capolavori: i ritrattini di Budapest, Il Marte e Venere, il Pastore e la ninfa Pollen, il Concerto Crichton-Stuart, la Famiglia dell'alabardiere e le due ninfe. Pose languide, reclinar di capi, gestire trasognato e sospeso, musica, lettura, teste di pastori coronate d'alloro, un vago allegorizzare, macchie di verde tenero e fiorito stipato fino a saturare lo spazio del dipinto, naturali alcove di casti nudini di ninfe. E' un momento importante per la maturazione pittorica del Palma dove era forte il rischio di un ritorno ai modi giovanili sulla scia del Previtali e del Carpaccio. Mentre i tempi della pittura veneziana, si legga Tiziano, premevano. Nei dipinti di Tiziano ampie masse di colore tonale, atteggiate in torsioni e scatti falcati, inarcavano lo spazio da esse generato figure di un'umanità pulsante e le facevano convergere in un dialogo serrato secondo un'esigenza costruttiva che approderà nell'Assunta. Il Palma più noto è debitore a questo momento di Tiziano, la sua cronologia esce dall'ombra non appena si commisurano i suoi passi a quelli dei maestri a lui contemporanei. Il suo gusto si stabilizza in questi anni e il pittore all'epoca trentacinquenne è nel pieno della maturità. Se Tiziano intende la "Sacra conversazione" come dialogo serrato, come azione, il Palma da al tema una soluzione paesistica come incontro di santi e sante all'aperto e le sante sono le stesse donne raffigurate nelle mezze figure femminili, ora giovinette eleganti e capricciose nella grazia femminile dei loro gesti, ora donne di una bellezza più matura. Ora il Palma sguscia e dilata piani di colore chiaro e smagliante su distese di cieli, colline e paesi che nessuna vicenda atmosferica potrebbe mai turbare.


LA CHIESA DI SAN DONATO AL PANTANO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa di San Donato al Pantano si trova a San Donato di Ninea, in provincia di Cosenza: si presenta a navata unica, ma in età posteriore è stata addossata alla parete sinistra una navatella di dimensioni minori. L'edificio ha una copertura a spioventi, e vi si accede attraverso due ingressi di età moderna. L’entrata principale è preceduta da una scala a gradini semicircolari in cemento, mentre l’entrata laterale è disposta sulla parete sud-est.

Fig. 1 - Chiesa di San Donato.

All'interno la chiesa a navata unica presenta una ricca decorazione pittorica solo parzialmente conservata in contro-facciata, sulla parete destra e su quella sinistra all'altezza del presbiterio. Gli affreschi presenti nella chiesa sono una tra le novità più significative della pittura monumentale bizantina in Calabria: non è facile la lettura stratigrafica delle pitture, sia per i margini piuttosto incerti di alcuni riquadri sia per la deliberata scelta di rinnovare singole porzioni dei dipinti murali “lasciando a vista” parti già esistenti. Il precario stato di conservazione lascia scorgere almeno sei figure stanti, di cui tre sono meglio visibili a lato della porta e sono identificabili, per le vesti liturgiche, con santi vescovi. Nell'ultima sagoma sulla sinistra, che dà inizio al santorale conservato, ossia alla successione delle figure dei santi sulle pareti, potrebbe essere individuata una figura di arcangelo. Accanto ad essa si dispongono due dei tre santi vescovi e uno di essi è identificato come S. Basilio, grazie all'iscrizione oggi leggibile. Questi sono stretti l’uno accanto all'altro e si toccano lasciando solo lo spazio sufficiente per le lettere greche.

I santi vescovi (fig.2) indossano il phelonion e reggono al petto con la mano sinistra un libro, mentre con la destra benedicono alla greca. L’altro santo vescovo, identificato grazie alla presenza di un’iscrizione “О АГΙОС ΝΙΚΟΛ АОС” ,è S. Nicola e indossa uno sticharion (tunica) azzurra, un phelonion rosso, che lascia intravedere l’epimanichion (il polsino) ocra della mano destra benedicente alla greca, il largo epitrachelion (la stola), anch'esso ocra e l’enchirion (il fazzoletto liturgico appeso alla vita) bianco e nero, che presenta il medesimo decoro della parte terminale dell’omophorion (il pallio) bianco, ornato da due grandi poloi sulle spalle. Nella figura di S. Nicola possiamo rintracciare dei confronti stilistici con le pitture absidali della vicina chiesa dello Spedale di Scalea. I santi vescovi di primo strato sono oggi visibili al di sotto di alcuni pannelli seriori pertinenti a una fase decorativa molto più estesa che riguarda l’intero edificio. La stratigrafia non è del tutto chiara e quindi non è possibile dire con certezza se il Cristo assiso in trono, appartenga al secondo o terzo strato. Alla fase pittorica del Cristo appartengono anche l’Arcangelo e la Vergine posti a sinistra e da esso separati da una testa coronata pertinente ad uno strato inferiore, ma comunque posto al di sopra dei santi vescovi. Il Cristo (fig.3) siede su un trono con spalliera perlata e schienale decorato e regge qualcosa (forse un libro) con la mano sinistra.  In alto troviamo un’iscrizione “Gesù Cristo” in greco “ΙС ХС”, mentre sul lato sinistro compare un’altra iscrizione “МΝΗСΤΗ” “ricordati di”.

Sulla parete destra d’ingresso a San Donato al Pantano sono raffigurati santi monaci, più grandi del naturale, fortemente compromessi dalla caduta dell’intonaco. A sinistra, per l’attributo delle catene, è forse possibile identificare la figura di S. Leonardo con il pastorale dal riccio zoomorfo, mentre sulla destra l’altra figura è ancora senza nome. Entrambe sono identificate come monaci dal koukoullion a punta, che nel S. Leonardo si prolunga nell’anabolos e sul quale, invece, il santo anonimo indossa il mantello bruno.

Fig. 4 - Parete destra, Koimesis.

Nella chiesa di San Donato al Pantano è presente una scena: la koimesis la terza di simile soggetto presente in Calabria dopo quella individuata nella chiesa del Campo a S. Andrea Apostolo dello Ionio e quella più tarda nella Cattolica di Stilo. La scena è composta da ventuno figure: al centro, su un catafalco perlato, è distesa la Vergine, intorno alla quale si dispongono gli Apostoli che vestono tuniche e mantelli di semplice foggia e che stringono nella mano destra un rotolo, tranne nei casi del santo, che abbraccia i piedi della Madonna e di quello chino su di lei. Poco più in alto, circondato da due angeli in volo dalle mani velate, compare un cristo che sorregge e quasi offre a loro l’animula della Vergine. Alla scena partecipano due donne aureolate in alto a sinistra e due vescovi, identificabili dai paramenti sacri (phelonion e omopholrion), che, con il libro al petto, si dispongono ai lati degli angeli e quindi del Cristo, quasi a rafforzare il valore liturgico della scena. La campagna pittorica di questa chiesa fu affidata a pittori diversi: al più dotato si devono gli splendidi santi monaci a dimensione più grande del vero e la figura del Cristo assiso in Trono. Lo dimostra la perizia nell'uso della linea per disegnare i volti e nel restituire consistenza e vitalità attraverso sapienti tocchi cromatici, oggi in buona parte perduti perché condotti a secco. Le pitture presenti nella chiesa avanzano datazioni diversificate e poco coerenti tra loro che spaziano dall’XI secolo del Cristo in trono fine XII secolo della Koemesis e alla metà del XIII secolo per i santi monaci.

 

Bibliografia

Falla Castelfranchi, M., I ritratti dei monaci italo-greci nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, in “Rivista di Studi bizantini e neoellenici”, 39, 2002, pp.145-155.

Leone, G. Primi appunti per una ricerca sull’iconografia dei santi calobrogreci. I tre San Fantino, in chiesa e società nel mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, II, a cura di P. Borzomati et alii, Soveria Manelli 1998, pp. 1309-1353.

Martucci, A., Archeologia e topografia nella valle dell’Esaro e dell’Occido /Martucci A. Martucci G., 2006, p.136.

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