IL DUOMO DI MESSINA

A cura di Felicia Villella
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La cattedrale di Messina si fa risalire al 1150, si tratta dunque di un edificio normanno, ma fu consacrata sotto gli Svevi nel settembre del 1197 alla presenza dell’imperatore Enrico VI, figlio di Federico detto Barbarossa e Costanza d’Altavilla. Da quel momento il duomo è stato oggetto di continue modifiche, fino al massimo rifacimento avvenuto sotto il dominio spagnolo, in pieno barocco. Solo nei primi anni del 900, a seguito del violento terremoto del 1908, fu restituita al monumento l’originale sobrietà tipica delle cattedrali normanni, a discapito dei pesanti stucchi e decori barocchi. Le vicissitudini, però, non finirono lì. Il duomo di Messina fu bombardato dagli americani durante la Seconda Guerra Mondiale e fu devastato anche da un incendio: ne seguì un rapido intervento di restauro che seguì i dettami di quello avvenuto precedentemente, tale da essere riaperto molto velocemente al pubblico ed elevato al rango di Basilica da Pio XII sotto l’Arcivescovo Angelo Paino.

Da un punto di vista architettonico, la facciata presenta tre portali tardo gotici originali, il più importante è sicuramente quello centrale, ricco di decori che rimandano al sacro e al profano, datato tra il 300 e il 500. Sono presenti anche due ingressi laterali della prima metà del 500. Bisogna soffermarsi sull'imponente campanile dotato di un sofisticato orologio meccanico e astronomico progettato dalla ditta Ungerer di Strasburgo e inaugurato nel 1933; a mezzogiorno il complesso sistema meccanico permette alle statue di bronzo dorato di muoversi. Sono presenti il carosello dei giorni della settimana, composto da divinità pagane portate su un carro trainato da diversi animali: ogni carro cambia alla mezzanotte (Apollo guidato da un cavallo, Diana da una cerva, Marte da un cavallo, Mercurio da una pantera, Giove da una chimera, Venere da una colomba e infine anche Saturno da una chimera). Segue il carosello delle età, composto da quattro statue che rappresentano le fasi della vita ( infanzia-bambino, giovinezza-giovane, maturità-guerriero, vecchiaia-vecchio, morte-scheletro). Dopo di che è rappresentata la chiesa di Montalto, luogo in cui secondo la tradizione apparve la Madonna in sogno a fra’ Nicola chiedendo la costruzione della chiesa. Si prosegue con una serie di scene bibliche, che variano in base al calendario liturgico, tra cui l’adorazione dei pastori e dei re Magi, la risurrezione di Gesù e la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Terminate le scene bibliche il posto è ceduto alla patrona di Messina, la Madonna della Lettera. La parte relativa all'orologio è il luogo di un’altra coppia di statue, Dina e Clarenza, che battono le ore e i quarti, due eroine che difesero la città dall'assalto delle truppe Angioine. Il gallo, alto 2.20 metri rappresenta il risveglio che a seguito dei tre ruggiti del leone, alto 4 metri e simbolo della provincia di Messina, di mezzogiorno, batte le ali e solleva la testa cantando il classico chicchirichì per tre volte. Infine sono presenti anche i quadranti delle ore, il calendario perpetuo, il planetario e la luna.

L’interno ripropone la tripartizione già visibile esternamente, le tre navate sono scandita da una doppia fila di 13 colonne che sorreggono archi a sesto acuto, dettagli che danno un senso verticistico all'edificio. Nell'abside centrale è proposto un Cristo Pantocratore, riproduzione di quello trecentesco. Le 12 cappelle sono occupate dalle statue degli apostoli, copie delle originali andate perse durante i bombardamenti. Tra le particolarità spicca sicuramente l’organo polifonico a cinque tastiere, secondo, in Italia, solo a quello del duomo di Milano. L’altare maggiore è dedicato alla patrona di Messina, la Madonna della Lettera, un’opera maestosa a cui contribuirono Juvarra e Guarini.

Bibliografia e sitografia

  • La Farina, Messina e i suoi monumenti, Messina, Stamperia G. Fiumara, 1840.
  • di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI; memorie storiche e documenti, Conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana Lazelada di Bereguardo, Volume I e II, Palermo, Stamperia del Giornale di Sicilia.

ANDREA DEL CASTAGNO

Fig. 1: Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

 

Andrea di Bartolo nasce nel 1421 a Castagno da un piccolo coltivatore. Due anni dopo la sua nascita ha inizio una guerra tra Firenze e Milano e Bartolo, seguendo l'esempio di altre famiglie, conduce in salvo la moglie ed i figli a Corella, un paesino a pochi chilometri protetto dalla fortezza di Belforte. Al cessare delle ostilità segue il ritorno a Castagno dove Andrea "cominciò per le mura e su le pietre co carboni o con la punta del coltello a sgraffiare ed a disegnare animali e figure si fattamente che si moveva non piccola maraviglia in chi le vedeva" (Vasari). Nel 1440 Andrea è già a Firenze da qualche tempo e già abbastanza noto perché gli fossero commissionate nella facciata del Palazzo del Podestà le immagini "ad uso di impichati" dei traditori che si erano adoperati "per macular lo stato di Firenze". Resta da determinare a quando risalga la sua venuta a Firenze e le origine della sua formazione che doveva essere già compiuta nel 1440 dato che l'artista era in grado di accettare un pubblica commissione. Nell'agosto del 1442 Andrea firma a Venezia la decorazione della cappella di San Tarasio in San Zaccaria. Nel 1444 la sua presenza è nuovamente documentata a Firenze da alcuni pagamenti per il cartone della Deposizione, il ritratto, perduto, di Leonardo Bruni. Il 30 maggio dello stesso anno Andrea si immatricola nell'Arte dei Medici e Speziali dichiarando di essere del popolo di Santa Maria del Fiore. Nel 1446 esegue piccoli lavori per l'opera del Duomo dalla quale ottiene per il padre l'incarico di guardia della foresta di Campigna. Al 1449 risale l'incarico per una pala per la chiesa di San Miniato fra le torri e dal 1451 lavora per l'ospedale di Santa Maria Nuova nella Cappella Maggiore della chiesa di Sant'Egidio continuando il ciclo di affreschi iniziato da Domenico Veneziano e Piero della Francesca con tre momenti della vita della Vergine: l'Annunciazione, la Presentazione al Tempio e la Morte. Nel 1453 sospende i rapporti con Santa Maria nuova senza portare a termine gli affreschi. Nel 1455 lo troviamo ad affrescare nella SS. Annunziata la cappella di Orlando de Medici con Lazzaro, Marta e Maria in una composizione perduta; nell'ottobre dello stesso anno vene incaricato di un'altra pubblica commissione in Santa Maria del Fiore: il monumento a Nicolò da Tolentino. Nel 1457 nonostante la peste rimane a Firenze, per saldare qualche debito, intento a dipingere un Cenacolo nel refettorio di Santa Maria Nuova. L'8 Agosto gli muore la moglie e Andrea la segue nel 19 Agosto 1457.

Fig. 2: particolare del Cenacolo di Sant'Apollonia a Firenze

Le scarse notizie, tutte posteriori di almeno sessant'anni alla morte dell'artista, che furono alla base della ricostruzione storica del personaggio che ne fece Vasari mostrano un tono di raccapriccio e di aperta condanna per la vicenda di un artista che dal suo tetro debutto aveva ricavato il soprannome di Andreino degli Impiccati e che in punto di morte aveva confessato di aver ucciso Domenico Veneziano. Questo fu sufficiente a suggerire al Vasari l'invenzione di un carattere forte che dalla confessione del delitto traeva le tinte più cupe per un'interpretazione romanzesca, mentre studi più recenti hanno dimostrato che fu il Vasari ad interpretare in maniera del tutto errata un fatto dell'epoca, tant'è vero che nel 1878 il Milanesi rintracciò la data di morte del Veneziano di quattro anni posteriore a quella del Castagno, dissipando definitivamente la leggenda del delitto. Alla valutazione favorevole dell'opera si opponeva il biasimo per l'assassinio a tradimento con il pericolo di interpretare la sua opera alla luce della sua vicenda privata. Questa fama perdurò fino a metà dell'Ottocento momento in cui di suo erano visibili solo il Monumento equestre di Nicolò da Tolentino e il primo Crocifisso di Santa Maria degli Angeli, riscoperto nel 1700. Al Cavalcaselle si deve nel 1847 la riscoperta degli Uomini illustri di Legnaia e in seguito la prima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli e l'intero ciclo di Sant'Apollonia. Nel corso del Novecento l'identificazione della tavola di San Miniato fra le Torri con l'Assunta di Berlino, il rinvenimento del David, quello del San Sebastiano, l'attribuzione degli affreschi di San Zaccaria hanno allargato la conoscenza della sua poetica di Andrea. Trovatosi ad esordire alla ribalta dell'arte fiorentina attorno al 1440 Andrea dimostra ai suoi inizi nella Crocifissione di essere suggestionato dal nuovo verbo stilistico di Masaccio.

Fig. 2: Crocifissione

Nell'abside della Cappella di San Tarasio, nella Chiesa di San Zaccaria a Venezia, la prima opera firmata e datata, gli Evangelisti a fianco del Battista e di San Zaccaria ostentano ai lati del Padreterno un modellato a forte aggetto secondo modi che tengono ad innervare una vitalità ed una corporeità esasperante. Ciascun personaggio è ritratto completamente assorto nella rappresentazione del proprio decoro in pose che ricalcano quelle visibili a Firenze nelle porte della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. Andrea del Castagno rifiuta l'apporto della luce come elemento di amichevole raccordo ed isola le figure con l'aiuto dei costoloni in vere e proprie fortezze. In una Venezia agli inizi del quinto decennio non si erano mai viste figure ammantate in panni dalle pieghe così tese e taglienti prendere possesso di un soffitto gotico con tanta rustica fierezza; mai un fregio di putti si era arrampicato sull'arco di un'abside tradendo la chiara eco donatellesca fin nello sbalzo risentito del modellato.

Qualunque fosse stata la produzione di Andrea a Firenze precedente al viaggio veneziano nel 1444 con la commissione del cartone per l'occhio della cupola di Santa Maria del Fiore gli si offriva l'occasione di competere direttamente con Paolo Uccello al quale negli stessi anni erano affidate altre due vetrate. L'impegno di Andrea si concentra sulla distribuzione delle masse dei dolenti in flessioni precise e controllate tenendo come fuoco il volto del Cristo Deposto, ai fini di una combinazione formale insolitamente armoniosa: anche i colori sono piacevoli e per una volta il sentimento di pietà è reso senza gesti esteriori e violente deformazioni.

Fig. 3: Nostra Signora dell'Assunta con i Santi Miniato e Giuliano

Ma dove Andrea tenta una soluzione di un problema di armonia di forme a scapito del caratteristico e addirittura del veristico è nel ciclo superiore degli affreschi nel refettorio delle Benedettine di Sant'Apollonia. Per la sua composizione ariosa costituisce senz'altro l'esempio più rappresentativo di un temperamento avvenuto nel suo gusto per potersi adeguatamente calare in forme di più attento controllo stilistico dove la luce plasma, modella ed intride. Il racconto si svolge in una successione di tre episodi: quello centrale della Crocifissione ed i due laterali della Resurrezione e della Deposizione che hanno come sfondo un suggestivo paesaggio di colline ed il cielo aperto solcato da angeli. Nella scena di sinistra il Cristo risorto, trasognato e malinconico sotto i ricci della frangia e l'ombra dell'aureola sovrasta le sentinelle che dormono in primo piano appoggiate al sepolcro dispiegando lo stendardo agli occhi stupefatti del soldato che lo fissa, in un insieme rigoroso ed equilibrato di intonazione quasi elegiaca. La spericolata invenzione compositiva dei tre episodi raccordati dall'elemento paese-cielo in virtù della capacità di sintesi della luce è mortificata da una sconcertante contraddizione, come se Andrea, una volta pervenuto ad una posizione di aggiornata e spontanea modernità ne abbia dubitato inserendo gli angeli legamento cari alla tradizione iconografica.

Fig. 4: Resurrezione

Il percorso di Andrea continua ad allontanarlo dalle suggestioni di Piero della Francesca creando il terreno sul quale si muoveranno da un lato gli Uomini Illustri di Legnaia e il Cenacolo di Sant'Apollonia e dall'altro gli affreschi della SS. Annunziata e l'ultima Crocifissione di Santa Maria degli Angeli. Nell'Assunta che è del 1449 - 50 il rapporto naturale delle figure con l'atmosfera fluttuante e mutevole è definitivamente perduto, sostituito da uno spazio convenzionale che annulla ogni rapporto vitale. Questo gruppo di opere conclude definitivamente il momento in cui l'artista scopre il valore innervante della luce con la dimostrazione del ciclo superiore di Sant'Apollonia e per la ricchezza dei rinvii annuncia il trapasso ai difficili episodi stilistici degli Uomini Illustri e del Cenacolo.

Fig. 6: ciclo degli Uomini Illustri, Pippo Spano

In queste ultime composizioni Andrea non esita a congelare il virtuosismo formale. Gli Uomini illustri dipinti a Legnaia, nel salone della casa di campagna dei Carducci, campiscono con grande piglio monumentale entro nicchie marmoree rettangolari e spartite da pilastri ornati. L'atteggiarsi in gesti di parata distoglie questi personaggi dall'impaccio di una vitalità interiore: mancano del trasognamento delle figure di Piero ed il loro distacco dalle vicende umane si risolve soprattutto nel decoro di un comportamento pago di se stesso. Soltanto Pippo Spano (in foto) ha una vivezza che gli deriva da un'impostazione più realistica in alcuni particolari, nella mano che artiglia la spada, nella testa spiritata. Venendo ai personaggi femminili viene a mancare la certezza del riferimento fisionomico a favore di una più classica astrazione e risultano meno inerti nonostante le pose convenzionali. Nel Cenacolo di Sant'Apollonia è conferito all'impianto architettonico, di bellissima applicazione prospettica, l'insolito ruolo di protagonista. In questa architettura così razionale Andrea ha voluto rappresentare una scena intellegibile che avviene fra uomini negando ruoli di protagonisti e comparse. Ma nell'intento di caricare al massimo le entità morali dei personaggi le ha irrimediabilmente isolate in una fisica monumentalità: l'effetto di unitaria chiusura viene così frantumato dalla mancanza di conversazione fra Cristo e gli Apostoli, tanti monumenti ognuno per se stante.

Dopo queste impegnative composizioni l'arte di Andrea registra una svolta negli affreschi della SS. Annunziata databili al 1454 in cui si presentano al massimo dell'esasperazione quei caratteri di aspro naturalismo che già più volte erano affiorati in opere precedenti. Termine di passaggio e di incontro tra le due tendenze dovettero essere gli affreschi di Sant'Egidio: perduti purtroppo nella lettura diretta.

Fig. 7: monumento equestre a Niccolò da Tolentino

Nell'affresco col Nicolò da Tolentino in Santa Maria del Fiore, l'ultima opera eseguita da Andrea (1456) che ci rimanga, un vero monumento equestre è racchiuso in un rigore architettonico di impaginazione che ricorda quello del Cenacolo. Ma il cavallo del Tolentino, specie se paragonato a quello metafisico dell'acuto di Polo Uccello, ha un piglio più realistico, favorito dallo studio della muscolatura e delle vene, e il volto del condottiero, nella minuzia delle rughe e nell'espressione ben marcata, ha i segni dell'inasprito naturalismo delle ultime opere. Si uniscono così nella stessa composizione le due aspirazioni dominanti dell'arte più matura di Andrea: la tendenza al monumentale e l'avida, feroce esplorazione dei dati di natura.


CHIESA DEL CAMPO A SANT'ANDREA

A cura di Antonio Marchianò

Sul versante jonico della Calabria troviamo la chiesa del Campo a Sant'Andrea Apostolo dello Jonio. Secondo la tradizione fu costruita sul luogo in cui fu trovato un quadro della Vergine. E’ di difficile la datazione ma dovrebbe risalire al IX- X secolo. Il nome iniziale era quello di chiesa di S. Martino ed in secondo tempo venne chiamata con il nome di Santa Maria di Campo. La chiesa presenta una struttura molto semplice, a forma quadrangolare di metri 10x13.

Fig. 1 - Chiesa del Campo, interno.

La chiesa, nei primi decenni del XII secolo passò ai Certosini della Certosa di Serra San Bruno. Il terremoto del 1783 la distrusse in gran parte. Nei primi dell'Ottocento il barone Pier Nicola Scoppa entrò in possesso della chiesa quando acquistò la Grancia dei Certosini in seguito alla soppressione dei beni degli ordini religiosi nel 1808, per volontà di Gioacchino Murat re di Napoli. Il barone fece ricostruire la chiesa e fece dipingere, o rinnovare, il quadro dell'Assunta. La baronessa Scoppa, in seguito, concesse in donazione i terreni di San Martino e la chiesetta del Campo al Collegio dei Padri Redentoristi, da lei fondato nel 1898. I Padri Redentoristi fecero restaurare la chiesa nel 1964, rifacendo fare il quadro della Vergine e rimodernando l'altare con marmi portati da altra chiesa. Nel 1985 nel corso dei lavori di restauro, sono stati rinvenuti degli affreschi bizantini, presumibilmente del X e XIII secolo.

Al suo interno troviamo un programma iconografico che si mostra in linea con quanto di norma è stato rilevato nell'Italia meridionale, in Puglia in particolare, tra il XII e XIII secolo. Il rinvenimento delle pitture bizantine è stato segnalato per la prima volta da Giorgio Leone, con una datazione approssimativa alla fine XII secolo, se non all'inizio del secolo successivo. Successivamente sono stati letti vari frammenti del ciclo e precisata la datazione alla prima metà del secolo XIII. Le pitture di S. Andrea Apostolo sono state inserite nella diffusione della cultura siciliana in Calabria secondo la Di Dario Guida. In questi affreschi si riscontra la presenza della Deesis nell'invaso del catino absidale dei santi padri della chiesa greca accompagnati da due santi diaconi, nel rispettivo semicilindro, dell’annunciazione, al lato fuori dell’abside; la koimesis, sulla parete opposta; un corteo di santi e probabilmente una raffigurazione della Madonna in trono sulla parete destra guardando l’abside e a sinistra rispetto all'antica entrata laterale presente sulla stessa parete e alla cui destra rimangono consistenti frammenti di un affresco esemplato sul modello di un’ icona agiografica rappresentante S. Marina e sulle cui scene ci sono giunte a noi iscrizioni in greco. Sulla parete a sinistra, guardando l’abside, ci sono dei piccoli frammenti emersi (fig.2-3). E’ possibile che vi fossero altri santi in fila, cosi come altri erano dipinti sui pilastri.

Il programma iconografico di riferimento costituisce un esempio della pittura bizantina nel XII secolo. La figura di S. Stefano (fig. 4) Protomartire, la quale si presenta bella e riccioluta, è l’unica figura superstite dove è possibile ammirare il viso.

In relazione alla perfetta adesione della cultura figurativa regionale alle istanze artistiche tardo comnene come si evince da un confronto, tra le pitture presenti a S. Andrea Apostolo sullo Jonio ed un’icona custodita nel Monastero di S. Caterina sul Monte Sinai attribuita da Kurt Weitzmann a un pittore dell’Italia meridionale, presumibilmente calabrese. Qualora l’assegnazione di questa icona risultasse vera, si potrebbe argomentare non solo su quanto delle situazioni stilistiche greche finora evidenziate sia veramente passato nella cultura artistica della Calabria medievale, ma anche su come tali trapassi furono elaborati dai pittori locali.

Fig. 4 - Chiesa del Campo, Santo Stefano Diacono.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Di Dario Guida M. P., Icone di Calabria e altre icone meridionali, Soveria Mannelli 1992, pp. 43-54.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Falla Castelfranchi, M., Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina dell’Italia meridionale e di un’immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massafra, in Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna, a cura di C. D. Fonseca, Galatina 1988, pp. 187-208.

Leone, G., Fragmenta picta. Per una storiografia della pittura calabrese in età normanna tra fonti, archeologia e restauri, in I Normanni in finibus calabriae, a cura di Cuteri, Soveria Mannelli 2003, pp. 143-171.

Weitzmann, Kurt, Mosaies in: Sinai treasures of the monastery of saint Catherine, ed K. A. Manafis, Athens, 1990, pp.61-67.


MONASTERO DI SANTA CHIARA

A cura di Stefania Melito

Introduzione e storia dell'edificio

Protagonista di una delle canzoni napoletane più famose di sempre (Munasterio ‘e Santa Chiara), il monastero di Santa Chiara di Napoli è una vera e propria oasi di pace all'interno del tessuto urbano napoletano, e rappresenta uno dei complessi monastici più grandiosi ed importanti della città partenopea.

Fig. 1: https://www.wga.hu/html_m/g/gagliard/index.html. Esterno Santa Chiara

Voluto da Roberto D’Angiò e dalla sua seconda moglie Sancia Maiorca come omaggio a San Francesco e Santa Chiara, santi ai quali i due sovrani erano devotissimi, il complesso fu costruito tra il 1310 e il 1328. I lavori furono eseguiti da Gagliardo Primario, architetto particolarmente attivo a Napoli in quel periodo, che immaginò l'aspetto dell'edificio sacro come la rappresentazione terrena della filosofia francescana improntata alla semplicità. In realtà, più che come una semplice chiesa, tale complesso fu immaginato come una sorta di cittadella francescana con l’aggiunta sia di un monastero femminile, destinato ad accogliere le Clarisse, sia di un convento maschile, ospitante i Frati Minori francescani. Il francescanesimo e la sua semplicità influenzarono anche lo stile gotico scelto per la costruzione: l'architetto infatti impostò la facciata con un aspetto simile ad una fortezza, in cui nel massiccio dell'architettura viene avanti in aggetto un corpo composto da tre archi gotici, due più piccoli ai lati e il terzo più grande centrale; sulla facciata a cuspide spicca un rosone traforato contornato da un motivo lineare. I fianchi del complesso riprendono ancora l'immagine della fortezza: possono essere orizzontalmente divisi in due parti, la prima, superiore, caratterizzata da fianchi massicci in cui sono evidenti robusti contrafforti intervallati da finestroni alti e stretti, e la seconda, in cui una fuga di archi gotici alleggerisce l'impianto e contorna l'entrata secondaria. Dal pronao si accede, tramite un portale strombato, all'interno della chiesa.

Fig. 2: Luca Aless / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0). Interno

Qui ci si trova dinanzi ad una navata unica, lunga 82 metri, larga 13 e alta 46, con dieci cappelle per lato e con un aspetto austero, conforme allo spirito che anima anche la facciata, di cui viene ripreso lo schema compositivo a due blocchi. Dal soffitto a capriate lignee infatti l'occhio è attratto dalla fila di finestre che fanno penetrare una luce quasi ascetica, che si frange sul parapetto che corre lungo tutti gli archi strombati sorretti da pilastri circolari a fascio. Un tempo, secondo il Vasari, la chiesa era totalmente rivestita dagli affreschi di Giotto e della sua bottega napoletana, e addirittura sembra che in una di queste cappelle vi fosse ritratta l'Apocalisse secondo uno schema compositivo ideato da Dante. Nel 1340 la chiesa fu aperta al culto. L’aspetto rimase immutato fino al 1742, quando furono chiamati ad adeguarla al gusto mutato della nuova epoca Ferdinando Sanfelice e Domenico Vaccaro. Costoro, con un vasto gruppo di decoratori e architetti, distrussero trifore e bifore, la pavimentazione e gli altari e riempirono l’interno di ornamenti barocchi che sconvolsero l’aspetto della chiesa. Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento provocò un incendio che distrusse in parte alcuni interni della chiesa, perdendo così tutti gli affreschi, sia le aggiunte posteriori sia quelli originali, di cui si sono salvati solo pochi frammenti. In seguito, i lavori di restauro si concentrarono sull'architettura medievale rimasta intatta ai bombardamenti, riportando la basilica all'aspetto originario trecentesco e omettendo il ripristino delle aggiunte settecentesche. I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. Le opere scultoree sopravvissute furono spostate nelle sale del monastero, che oggi accoglie il cosiddetto “Museo dell'Opera del Monastero”, mentre i sepolcri monumentali sono rimasti all'interno. Fra questi, degni di nota sono la sepoltura di Roberto D'Angiò realizzata dai fratelli Giovanni e Pacio Bertini, situato in fondo alla navata centrale, e le tombe di Carlo di Calabria e Maria di Valois opera di Timo da Camaino, scultore senese facente parte della bottega di Giovanni Pisano che concluse la sua carriera proprio a Napoli sotto i D'Angiò, progettando tra le altre cose Castel Sant'Elmo e la Certosa di San Martino.

La parte più famosa del Monastero è sicuramente il chiostro maiolicato, che ha conservato l’originario colonnato con 66 archi a sesto acuto, mentre l’aspetto attuale del giardino è opera del Vaccaro su commissione della badessa Ippolita da Carmignano.

Fig. 6: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Naples_santa_chiara_cloitre_trav%C3%A9e_centrale.JPG#globalusage

L’architetto infatti ristrutturò il Chiostro dividendo la parte centrale del cortile in quattro grandi aiuole, suddivise a loro volta da vialetti interni, e innalzò 64 piccoli pilastri in piperno impreziositi da maioliche disegnate da lui stesso: la celebre decorazione fu opera però degli artigiani Donato e Giuseppe Massa, che realizzarono e dipinsero a mano le maioliche policrome con scene di vita quotidiana di allora, motivi marinareschi, scene di vita agreste, miti e rappresentazioni allegoriche dei quattro elementi. Le "riggiole", ossia le mattonelle utilizzate, sono circa 30.000.

https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

Alcuni sedili collegano i pilastri maiolicati tra di loro: la particolarità consiste nell'aver raccordato cromaticamente tutto il chiostro, adattando la decorazione agli affreschi del '700 che ricoprono le pareti e che rappresentano allegorie, scene dell’Antico Testamento e santi.

Fig. 9: https://lartediguardarelarte.altervista.org/la-poetica-bellezza-napoletana-il-chiostro-maiolicato-del-monastero-di-santa-chiara/museo-santa-chiara-napoli/

A differenza della chiesa, il chiostro è scampato quasi miracolosamente ai bombardamenti del 1943.

https://www.touringclub.it/evento/napoli-monastero-di-santa-chiara

https://www.10cose.it/napoli/chiesa-chiostro-monastero-santa-chiara-napoli

http://www.napolike.it/complesso-di-santa-chiara-napoli

www.museosantachiaranapoli.it

 


LA CHIESA DELLA PANAGHIA A ROSSANO CALABRO

A cura di Antonio Marchianò

La chiesa della Panaghia è un edificio religioso di epoca bizantina situato nel centro storico di Rossano Calabro. Il nome “Panaghia” significa “la santissima” ed è dedicato alla Madonna. La chiesa, di dimensioni davvero piccole, fu edificata nel XI secolo. Si tratta di un impianto a navata unica rettangolare coperta da capriate lignee, è coronata da un'abside semicircolare con semicatino superiore.

Fig. 1 - Chiesa della Panaghia a Rossano.

La costruzione, in muratura ordinaria, è rivolta ad est, seguendo l’andamento tipico delle chiese bizantine. All'esterno, semplice e scarna è la facciata, più volte rifatta; solo sei finestre e nessuna decorazione sui fianchi. Le finestre, monofore, terminanti ad archetti in mattoni, sono leggermente incassate rispetto ai pilastrini in calcare locale. Un’altra finestra, bifora questa volta, in cui archi in mattoni sono sostenuti da una colonnina centrale con pulvino, è inserita nell'abside semicircolare.

All'esterno della chiesa si nota la decorazione in cotto dell’abside (fig.2), composta da una duplice fascia di mattoni. La parte superiore è disposta a spina di pesce, mentre nella parte inferiore i mattoni sono disposti a forma di triangolo isoscele. Proprio questo tipo di decorazione, tipica della seconda età aurea bizantina, ci consente di datare l’edificio al X XI secolo. Sul lato sinistro dell'aula vi è una piccola cappella anch'essa absidata pavimentata in cotto e con un solaio in legno. La copertura è a capanna in corrispondenza dell'aula, mentre ad una falda in corrispondenza della cappella.

Fig. 2 - Chiesa della Panaghia.

All'estremità destra della parte inferiore dell’abside, delimitata da un rettangolo di colore bruno, si conserva gran parte di un affresco raffigurante l’immagine di S. Giovanni Crisostomo(fig.3). Il volto del santo presenta una barba corta a punta che spicca contro la grande aureola dorata circondata da una corona di perle. L’iscrizione a sinistra e a destra dice, in caratteri greci: Ο АГ[ΙΟС] ΙΩ [АΝΝΗС] Ο Х [Р] УСΟСΤОМОС (O AGHIOS IOANNES CRISOSTOMO, San Giovanni Crisostomo). Gli occhi spalancati, e rivolti verso chi guarda, invitano a leggere il testo del rotolo che entrambe le mani del santo stanno svolgendo. Si tratta di alcune parole della preghiera che ricorre nella liturgia a lui dedicata, più precisamente all'inizio dell’invocazione che il sacerdote preannuncia: ΟУ [Д] ДΙС ДΞΙОС ΤΩΝ С[АРΚ] Ι [ ΔΕ] ΔΕМΕΝΩΝ ΤАΙС СА [Р] ΚΙΚАΙС ΕПΙѲУМΙАΙС ΚАΙ [ΗΔ] ΩΝАΙС “nessuno di coloro che sono ancora schiavi dei desideri e delle voglie della carne, è degno di accostarsi a me”.

Fig. 3 - Chiesa della Panaghia, San Giovanni Crisostomo.

Un altro affresco presente nella chiesa della Panaghia è il volto di un santo con aureola che rappresenta con molta sicurezza S. Basilio di Cesarea (fig4).

In considerazione del fatto che nel 1363 nella diocesi di Rossano fu introdotto il rito latino, gli affreschi della Panaghia non possono essere in nessun caso posteriori a questa data. Falla Castelfranchi ha datato questi affreschi fine XIII-XIV secolo, mentre Di Dario Guida li considera appartenenti al XIV secolo.

Nel 1933-34 si ebbe un radicale restauro della chiesa. Nel corso del restauro vennero alla luce alcuni frammenti di parti architettoniche e decorative, sezioni di pilastri, di capitelli e di un arco ornato, usate in epoca imprecisata per colmare una lesione del muro, e che ora si trovano nel museo Nazionale di Reggio Calabria. Lo studioso Lipisky ha esaminato questi frammenti, li ha descritti singolarmente e ha cercato di spiegare la loro collocazione originaria. Lepisky sostiene due possibilità: o si tratta di resti di una iconostasi, o un tramezzo del coro aperto, oppure di un baldacchino che si levava sull’altare. Egli considera quest’ultima ipotesi come la più vicina al vero.

Fig. 4 - Chiesa della Panaghia, San Basilio.

 

Bibliografia

Willemsen, C. A., Odenthal, D., CalabriaDestino di una terra di transito, Bari 1967, p.59.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in “Calabria bizantina”. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61

Di Dario Guida, M. P., Cultura artistica della Calabria medievale. Contributi e i primi orientamenti, Cava dei Tirreni 1978,p.89.

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/scheda_chiesa.php?IDc=15


VILLA PIGNATELLI A NAPOLI

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Il figlio del primo ministro di Ferdinando I che litiga con l’architetto al quale ha commissionato una villa imponente da costruire abbattendo un’altra villa, costringendolo prima a presentare ventidue progetti e poi licenziandolo. Non è l’inizio di un libro ma la reale vicenda che ha portato alla nascita della villa Pignatelli a Napoli, situata sulla Riviera di Chiaia. Ma andiamo con ordine.

La nascita di un progetto: villa Pignatelli a Napoli

Il figlio del primo ministro di Ferdinando I era sir Ferdinand Richard Acton, nobile britannico: i suoi genitori erano sir John Acton, ministro del regno di Napoli, e la figlia del fratello; in pratica la madre di sir Ferdinand era anche sua cugina diretta. Nel 1826 sir Ferdinand commissionò i lavori della villa all'architetto Pietro Valente, che per adeguarsi alle precise richieste del committente inglese fu costretto ad elaborare e a sottoporgli ventidue progetti, fino a quando riuscì a trovare un accordo. Immaginò la casa, costruita abbattendo prima una dimora dei principi Carafa e poi edificandovi sopra i nuovi corpi di fabbrica, come una classica domus pompeiana a pianta quadrata formata dall'unione di due rettangoli. Il primo rettangolo, a due piani, forma il corpo di fabbrica anteriore arricchito da un porticato con colonne doriche, mentre il secondo, quello posteriore, concepito come l’ingresso principale, si sviluppa su un solo piano. La scelta di collocare l’ingresso nella parte posteriore fu dettata dalla volontà dell’architetto di consentire ai proprietari della villa di arrivare direttamente in carrozza davanti l’ingresso.

Fig. 1: Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Villa Pignatelli, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16361259

Lo stesso Valente disegnò anche l’appartamento del maggiordomo sul lato ovest, i due padiglioni sulla Riviera di Chiaia e gli alloggi della servitù. Gli interni e il giardino furono invece opera del toscano Guglielmo Bechi, che curò la decorazione interna dell’appartamento e la scalinata d’ingresso in marmo sul lato posteriore, con sculture che riproducono statue romane.

Fig. 2: https://www.visitnaples.eu/napoletanita/percorri-napoli/villa-pignatelli-storia-e-cultura-in-un-antica-dimora-dell-ottocento

Alla morte dei proprietari inglesi la villa fu acquistata dal banchiere Rotschild, che grazie ai prestiti alla dinastia dei Borbone era riuscito ad avere un posto di primo piano sulla scena politica partenopea. Il banchiere tedesco, volendo abbellire la dimora, chiamò Gaetano Genovese, l’architetto ufficiale della casa reale napoletana, e abitò nella villa fino al 1860. Di lui resta il monogramma CR al primo piano. Dopo le vicende dell’Unità d’Italia i banchieri vendono la villa nel 1867 al principe Diego Aragona Pignatelli Cortes e sua moglie, che continuano i lavori di trasformazione già avviati dai precedenti proprietari.  Al nipote Diego, che vi si trasferì con la moglie Rosa Fici di Amalfi nel 1897, risalgono la copertura del portico, le trasformazioni interne e i mobili, fatti eseguire appositamente per gli ambienti dell’appartamento. Nel 1952 la principessa Rosina, con il desiderio di perpetuare il ricordo della sua famiglia e del marito, lasciò la Villa allo Stato, purché “nessun oggetto potesse essere distratto a far parte di altre collezioni”. La Villa diventò quindi l’attuale Museo.

Di tutti questi cambi di proprietari e relativi lavori rimane un patrimonio incredibile, una stratificazione di epoche e di opere d’arte che hanno contribuito ad accrescere il fascino di questa dimora. Ogni proprietario vi ha infatti riversato il proprio gusto e le proprie inclinazioni artistiche, dalle collezioni d’arte a quelle di fotografia, dalla posateria da tavola ai quadri agli arredi e alle sculture passando per i libri (circa 2000), gli spartiti antichi, i dischi di musica classica (circa 4000) e le carrozze. Il museo comprende la Villa con l’Appartamento Storico al piano terra di cui possono essere visitati i tre salottini (azzurro, rosso e verde), la Sala da ballo, la veranda neoclassica, la Biblioteca e la Sala da pranzo con la tavola con piatti e posate della famiglia Pignatelli

Ci sono inoltre gli ambienti del primo piano destinati alla Casa della Fotografia, il Museo delle Carrozze e dei finimenti al pianterreno della Palazzina Rothschild e il giardino.

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/il-museo-pignatelli

http://www.napolike.it/villa-pignatelli-napoli

http://www.rocaille.it/villa-pignatelli-napoli/

 


EUGENIO CERCHIARO: UNA DINASTIA FAMILIARE

A cura di Antonio Marchianò

Per cercare di capire meglio le origini e il contesto in cui Eugenio Cerchiaro si è formato bisogna far riferimento ad altre personalità della Calabria settentrionale. Infatti, con Cerchiaro, siamo difronte a un caso raro in Calabria, ad una vera e propria “dinastia famigliare” di intagliatori. Abbiamo diversi esponenti che portano il cognome Cerchiaro e che hanno lavorato in Calabria e in Basilicata. Il capostipite di questa famiglia, che ha operato tra il XVII e il XVIII sec. è Giovan Pietro Cerchiaro. Attraverso le sue uniche due opere certe possiamo collocarlo tra il 1667 e il 1684. Queste due opere sono: il fastigio ligneo che inquadrava il polittico del Vivarini, nella chiesa di San Bernardino a Castrovillari datato e firmato nel 1667, e la statua di S. Giuliano sempre a Castrovillari, nella chiesa di S. Giuliano, scolpita nel 1684. L’altra figura è Carlo Cerchiaro, documentato tra il 1733 e il 1746: nel 1733 è indicato nella Cappella dell’Angelo nella chiesa di Santa Maria del Gamio di Saracena come colui che indora la vetrata della cappella stessa, mentre nel 1746 nel catasto onciario di Castrovillari figura come pittore e architetto.

L’attività di Eugenio si pone, almeno cronologicamente, tra l’attività di Giovan Pietro e Carlo Cerchiaro. Secondo gli studiosi Eugenio è figlio, più che nipote, di Giovan Pietro e fratello, molto probabilmente, di Carlo. Ci troviamo dinanzi ad una formazione di bottega che ha attraversato due secoli e che ha avuto la sua origine a Morano, tanto che quando si parla dei Cerchiaro si parla di bottega moranese. Questa bottega si è poi trasferita a Castrovillari in un secondo momento. L’origine moranese della bottega dei Cerchiaro è sostenuta dalla presenza di altri esponenti della famiglia, dei quali sappiamo, non tramite le opere a loro attribuite bensì tramite documenti, che lavorarono nella Chiesa della Maddalena. Il fatto che Eugenio, come gli altri esponenti, lavorò a Morano, Castrovillari e a Saracena, non è del tutto casuale. Infatti ci troviamo nell'area della catena montuosa del Pollino e pertanto era facile reperire la materia prima, il legno. Per quanto riguarda la categoria degli intagliatori in Calabria abbiamo i Moranesi, i quali sfruttano le risorse dei boschi del Pollino, e i Roglianesi, che invece sfruttano le risorse della Sila. Eugenio Cerchiaro è uno scultore e intagliatore che pone nelle sue opere alcune caratteristiche desunte dal barocco, probabilmente prese in prestito dalla cultura napoletana. Tuttavia le sue opere sono mitigate da una cultura provinciale, autoctona.

La figura di Eugenio Cerchiaro è stata studiata soprattutto negli ultimi decenni. Il primo che lo menziona è Emilio Barillaro, nel suo libro del 1972 lo segnala come “colui che ha intagliato” il coro ligneo della chiesa di S. Giuliano e ne riporta l’iscrizione M.E.C. 1715. Gianluigi Trombetti invece, storico di Castrovillari, in un suo libro del 1989 parla di Castrovillari e riporta anche una piccola biografia su Eugenio citando le uniche due opere fino ad allora attribuite al suo corpus: il coro e la statua dell’angelo custode, e qui ricaviamo la notizia che Eugenio è o figlio o nipote di Giovan Pietro, mentre la critica successiva eliminerà questo dubbio sostenendo che sia il figlio. Giorgio Leone, in un suo testo degli anni ’91 - ’92, sostiene che le sculture realizzate da Eugenio hanno come modello la statua del S. Giuliano presente nella chiesa di S. Giuliano a Castrovillari realizzata da Giovan Pietro Cerchiaro, con la differenza che le sue sono più schematiche ed alleggerite.

Le sculture di Cerchiaro vengono suddivise per caratteristiche: nelle statue che rappresentano figure femminili troviamo statue sovente rappresentate con manti svolazzanti crespati con panneggi molto fitti. Invece nelle statue maschili le vesti e le tuniche dei santi sono quasi schiacciate e aderiscono al corpo. Analizzando le vesti delle sculture femminili, queste risultano spesso particolarmente simili. Presentano sempre una tunica e un’altra veste che copre la tunica dove l’unica variante sono i lembi i quali, alcune volte, sono liberi e svolazzanti, come nel caso  della Santa Margherita, mentre in altre sculture sono chiusi. Sono sempre presenti nell'opera di Eugenio alcune cinture che cingono i vestiti. I volti sono molto simili tra loro, hanno tratti somatici identici. Essi hanno una caratterizzazione quasi popolana, caratteristiche che si riscontrano in alcune tipologie di scultura settecentesca. La caratteristica più importante è che queste sculture hanno i veli che terminano a punta ma che si aprono ai lati formando un rombo quasi irregolare. I capelli seguono la conformazione dei veli per cui si aprono ai lati. I visi sono molto iconici e spesso tendono a spezzare la caratterizzazione barocca della scultura. Nella parte inferiore troviamo movimenti e panneggi che rimandano al barocco mentre nella parte superiore abbiamo dei visi iconici. Un’ulteriore caratteristica delle opere di Eugenio è la presenza di un ginocchio che è sempre flesso e avanzato rispetto all'altro. Eugenio, come già detto, è conosciuto non solo nella Calabria settentrionale ma anche in Basilicata. La presenza di opere sia in Calabria che in Basilicata è dato dal fatto che fino al 1973 molti paesi che facevano parte della diocesi di Cassano anticamente appartenevano alla diocesi di Tursi-Anglona e viceversa. Per questo motivo c’era questa osmosi culturale tra le due diocesi.

Opere attribuite ad Eugenio Cerchiaro:

  • Madonna della Purificazione o Madonna della Candelora, chiesa di S. Nicola di Bari a Morano Calabro (fig.1)
  • S. Giuseppe, chiesa di S. Teodoro Laino Borgo
  • Santa Lucia, chiesa di S. Pietro Cerchiara di Calabria
  • S. Nicola di Bari, Morano Calabro
  • Madonna del Rosario e Angeli, chiesa di Santa Maria dei Colli a Mormanno
  • Madonna delle Grazie, chiesa di S. Francesco di Paola Terranova del Pollino
  • Santa Margherita di Antiochia, chiesa di Santa Margherita di Antiochia Amendolara (fig. 2)
  • S. Leonardo, chiesa di S. Nicola di Mira Trebisacce
  • Madonna del Carmine, Trebisacce
  • S. Vito Martire, chiesa Santa Maria del Gamio a Saracena
  • Coro ligneo, chiesa di S. Giuliano Castrovillari 1715
  • Angelo Custode, chiesa di Santa Maria del Gamio a Saracena (fig.3)

 

Bibliografia

Barillaro E., Calabria: guida artistica e archeologica. Cosenza 1972, p. 188.

Leone G., Scultura in legno in Calabria. L’apporto locale nel Seicento e nel Settecento in Sculture in legno in Calabria. Dal Medioevo al Settecento,[Catalogo della mostra (Altomonte: 2008-2009)] , a cura di Pierluigi Leone de Castris, Napoli, Paparo, 2009, pp.90-92.

Leone G., Scultori di confine, alcuni esempi di scultura in legno nell’area del Pollino(..e di altre zone della Calabria settentrionale e della Basilicata meridionale tra il cinquecento e il settecento), in Tomei A.- Curzi G. (a cura di ), Abruzzo: un laboratorio di ricerca, Atti 2009, [ “studi medievale e moderni: arte, letteratura e storia” a. XV, 2011], Napoli 2011, pp. 328-336.

L’intaglio ligneo nella provincia di Cosenza: Schedatura del patrimonio storico artistico in Il Legno, Mostra sulla lavorazione del legno in provincia di Cosenza… a cura di Anna Cipparrone, Cosenza 2013 (Scheda Madonna della Purificazione, pp. 166-167; scheda San Nicola di Bari, pp. 170-171.

Ludovico Noia, Studi sul patrimonio artistico(Secoli XV- XVIII), Ferrari Editore, Trebisacce 2015.

Trombetti G., in Filice R.A. (a cura di), Memorie riscoperte: la collegiata di San Nicola, Catalogo mostra 1999, (coord. Bosco S.), Roma 1996, p. 55.


LA CAPPELLA DEI BIANCHI DELLA GIUSTIZIA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Napoli, cortile dell’Ospedale degli Incurabili, una scala a tenaglia. Ed ecco che improvvisamente ci si ritrova in uno scrigno d’arte appartenuto a chi faceva del conforto ai condannati a morte la propria missione di vita. Stiamo parlando della Confraternita dei Bianchi della Giustizia e della loro Cappella, tradizionalmente aperta solo due volte all'anno, ossia a Pasqua e all'Assunta.

Fig. 1: Di Baku - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7158704

La cappella dei Bianchi della Giustizia: la storia

Recentemente riaperta grazie all'Associazione “Il faro di Ippocrate” e alla Curia, la cappella dei Bianchi della Giustizia deve il suo nome all'abito indossato dagli uomini dell’omonima confraternita, una sorta di saio bianco con cappuccio; presenti in molte raffigurazioni, soprattutto del periodo risorgimentale, costoro avevano il compito di assistere spiritualmente tutti i condannati a morte nel loro ultimo viaggio, accompagnandoli fisicamente al patibolo e facendosi carico delle spese dei funerali e delle messe a suffragio, nonché del conforto dei parenti del condannato. Si deve a San Giacomo della Marca nel 400 l’istituzione di questo “pio ufficio” e anche il nome latino della confraternita, Succurre Miseris, che sarà attivo per circa quattro secoli. I Bianchi della Giustizia, costituiti da una miscellanea di uomini appartenenti a varie classi sociali e spesso tacciati di tramare alle spalle del potere, nel corso della loro esistenza, oltre all'assistenza spirituale, formarono un vero e proprio archivio in cui raccolsero nomi, cognomi e testimonianze di circa quattromila condannati a morte in circa quattro secoli. Uomini e donne uccisi per i motivi più disparati, a volte senza un motivo, solo perché ritenuti “pericolosi” o perché sfortunati. È il caso dei soldati uccisi per rappresaglia con il “metodo della decima”, ossia il decimo soldato della fila veniva fucilato, per non parlare dei tanti patrioti napoletani uccisi solo perché portatori di idee nuove. Oltre a questo, raccoglievano anche gli oggetti appartenuti al defunto e, soprattutto, le corde utilizzate per impiccarli, affinché non venissero vendute dai boia come portafortuna contro il malocchio. Erano una confraternita potentissima, temuta da Filippo II che ne ordinò lo scioglimento, ma che sopravvisse fondando anche, tra le altre cose, il Pio Monte della Misericordia.

Descrizione della Cappella

La Cappella dei Bianchi della Giustizia, situata sul lato nord dell’Ospedale degli Incurabili, si compone di vari ambienti riccamente adornati: dallo scalone a tenaglia realizzato in piperno si accede alla barocca Cappella di Santa Maria Succurre Miseris, con pavimento a scacchi in cui è inserita una lapide. La volta, a botte, presenta affreschi di Giovanni Balducci, Giovan Battista Benaschi e Giacomo Sansi, mentre sull'altare, opera di Dioniso Lazzari in marmo policromo e decorato con stucchi dorati, vi è una statua della Vergine di Giovanni di Nola.

Sui tre lati intorno all’altare corrono stalli lignei, opera di Giuseppe Lubrano, culminanti in uno stallo difronte all'altare sormontato da una cimasa lignea e un baldacchino in tessuto rosso.  Da questo ambiente si passa alla “Cappella dei Giustiziati”, un piccolo ambiente barocco caratterizzato da un pavimento a scacchi con un motivo che ricorre in molti ambienti monastici campani, un intarsio marmoreo quasi tridimensionale che suggerisce l’idea di una scala, simbolo dell’ascesa al Signore propria delle comunità religiose. Il soffitto è decorato con stucchi dorati, mentre il piccolo altare marmoreo presenta un medaglione con una raffigurazione della Madonna con Bambino.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

Il terzo ambiente è la Sacrestia, che custodisce affreschi di Paolo De Matteis con i ritratti di importanti membri della confraternita.

Oltre a questi vi è anche una selezione di oggetti appartenuti ai condannati a morte nel corso dei secoli, nonché la cosiddetta “Scandalosa”: un mezzobusto agghiacciante che mostra gli effetti provocati dalla sifilide sul corpo di una giovane e bella donna, un terribile monito per le tante ragazze che, spinte dalla fame e dalla miseria, si dedicavano alla prostituzione e rischiavano di finire vittime dalla terribile malattia che fece strage per diversi secoli.

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

https://www.ilmattino.it/napoli/cultura/napoli_riapre_dopo_anni_la_cappella_dei_bianchi_della_giustizia-2554511.html

http://www.napoligrafia.it/monumenti/chiese/congreghe/mariaBianchi/mariaBianchi01.htm

https://napolipiu.com/napoli-la-cappella-dei-giustiziati-o-compagnia-dei-bianchi-della-giustizia/

https://www.napoli-turistica.com/cappella-dei-bianchi-della-giustizia-napoli/

http://www.ecampania.it/napoli/cultura/visita-guidata-alla-cappella-bianchi-della-giustizia

 


LA STAUROTECA DI COSENZA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Secondo la tradizione, Federico II di Svevia giunto a Cosenza per la consacrazione della Cattedrale, ricostruita dopo il terremoto del 1184, donò al Capitolo “una reliquia della Croce custodita in una croce aurea gemmata”, probabilmente la stauroteca giunta fino ai giorni nostri. A supporto di questa teoria Luca Campano ne attesta l’uso per la liturgia del Venerdì Santo nel “Liber usuum Ecclesiae Cusentinae” del 1213, anche se non è da escludere la possibilità che fosse un altro reliquiario presente tra i suppellettili della Cattedrale.

La documentazione sulla stauroteca di Cosenza

I primi documenti attendibili custoditi presso l’archivio diocesano e quello di Stato della città risalgono alla prima metà del 1500, in essi si parla di una “cruce d’oro con lo pede d’avorio, nella quale ci è lo lignu Crucis, in la quale ci sono vintunu buttuncini d’oro”. Gli studiosi, inoltre, identificano la stauroteca con la croce d’oro che Carlo V baciò quando, nel 1535, entrò nella città. Da un punto di vista crono-stilistico, è importante soffermarsi sul piedistallo in argento dorato in stile tardo barocco. Lo stesso è stato sicuramente realizzato contemporaneamente al reliquiario, come dimostra la presenza di un incastro che sporge dalla base del fusto che si accorda perfettamente al piedistallo: dunque non si tratta di un supporto realizzato per un altro oggetto, come per esempio un ostensorio, ma appositamente realizzato per sorreggere la stauroteca.

Diverse sono le ipotesi riguardo la committenza, seppure si faccia risalire con certezza al periodo aragonese ad opera di un argentiere iberico; da un lato si rimanda al Cardinal Niccolò o Taddeo Gaddi, facendo riferimento allo stemma contenente la croce gigliata, o più realisticamente primitivo emblema dell’ordine dei Predicatori diffuso in Spagna; dall'altra si ritrovano rimandi al Cardinale Torquemada giunto a Cosenza al seguito di Carlo V in  base al blasone cardinalizio in cui è presente una torre che brucia, anche se potrebbe trattarsi di otto torri intorno ad una luna crescente e al cui centro è posto uno scudo incorniciato da un clipeo irradiato dalle fiamme, simboli che potrebbero indicare la famiglia dei De Luna o De Luny. Le informazioni attendibili sono, quindi, molto scarse. Certo è che la stauroteca venne scoperta in occasione della mostra di Orvieto nel 1896, e posta all'attenzione della critica come importante testimonianza di arte bizantina nel meridione. Datata al XII secolo, è il risultato magistrale delle officine del Tiraz reale, alcuni la fanno risalire al regno di Ruggero II (1130-1154), un’altra corrente di pensiero la rimanda al regno di Guglielmo II (1166-1189) a causa del realismo dei volti tipici delle miniature siciliane.

Per una dettagliata descrizione tecnico-stilistica è necessario parlare di un recto e di un verso del reliquiario. Da un punto di vista orafo, la lavorazione è sicuramente occidentale, come dimostra la filigrana a vermicelli e l’incastonatura a castello delle gemme, tipica dell’oreficeria medio bizantina; un tempo, inoltre, l’intero perimetro del manufatto e le placche interne erano contornate da un filo di perle scaramazze. La struttura in legno è rivestita in lamine d’oro e placche assemblate secondo un sistema di incastri, privo di perni e saldature. La morfologia è quella tipica della croce latina con bracci potenziati, avvallando la teoria della manifattura siciliana.

Recto della stauroteca di Cosenza

L’iconografia dei medaglioni smaltati e il ricco decoro dell’intera opera è riconducibile al concetto cristiano di albero della vita, mentre i granati incastonati rappresentano la valenza salvifica del sangue di Cristo. Gli ovali presentano i quattro evangelisti, Giovanni e Marco, in alto e a destra, Luca e Matteo in basso e a sinistra. Al centro è raffigurato Cristo sul trono.

Tra i quattro evangelisti, solo Luca sembra essere colto in un’azione più complessa rispetto agli altri. Nello specifico è ritratto con un rotolo di pergamena sulle ginocchia e uno sul leggio mentre intinge lo stiletto non nel calamaio, ma in una vaschetta divisa in più sezioni, probabilmente perché ripreso nell'atto di miniare immagini, proprio perché patrono dei miniatori e pittore di santi.

Verso della stauroteca di Cosenza

Sulla croce poggia il corpo del Cristo nella tradizionale rappresentazione bizantina col corpo ricurvo. Le estremità del reliquiario riportano un Arcangelo discoforo, forse San Michele, in alto e in successione le allegoria della Passione, della Resurrezione e dell’Eucarestia, e a destra San Giovanni Battista. Questo lato della Stauroteca racchiude in sé una duplice interpretazione. Se da un lato presenta Cristo nel suo aspetto umano, tesi determinata dal concilio di Costantinopoli del 692, sintetizzando simbolicamente il concetto di Crocifissione, dall'altro lato l’interpretazione rimanda al concetto Eucaristico da un punto di vista liturgico, in cui l’altare riunisce il sacrificio di Cristo Re.

 

Riferimenti bibliografici

Appunti e immagini del corso di Storia dell’arte calabrese aa 2008-09 Università della Calabria – Scienze e tecniche per il restauro e la conservazione dei BB CC.

 


VILLA SAN MICHELE: TRA CIELO E MARE

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Situata ad Anacapri, comune dell’isola di Capri, Villa San Michele potrebbe essere definita la realizzazione fisica ed architettonica di un sogno. La sua costruzione fu voluta infatti da un giovane medico svedese, Alex Munthe, che visitando Capri si innamorò talmente del clima, del sole e del mare dell’isola che decise di trasferirsi lì.

La villa: genesi di un capolavoro

"Una casa aperta al sole, al vento e alle voci del mare - come un tempio greco - e luci, luci ovunque"; con queste parole il medico venuto dal freddo descrisse la sua idea di villa. Era nato nel 1857 ad Oscarshamn, figlio di un farmacista svedese. Divenne medico personale della regina Vittoria di Svezia, e morì nel Palazzo Reale di Stoccolma nel 1949. Quando arrivò sull'isola, nel 1885, lì dove avrebbe edificato la sua villa c’era soltanto una piccola cappella dedicata a San Michele, da cui la villa prese il nome. Tutto intorno niente, solo una ripidissima scala collegava quel pianoro battuto dal vento al resto dell'isola. Le vicissitudini dovute alla sua costruzione furono quindi molteplici, e dovute a vari fattori: la posizione della villa,situata su uno sperone roccioso, la difficoltà di far arrivare i materiali via mare etc.

https://www.capri.it/it/s/villa-san-michele-axel-munthe, la villa alla sommità della scala fenicia

Nonostante le difficoltà, il giovane medico non desistette dal suo obiettivo, da lui talmente sentito da parergli quasi di aver sottoscritto un patto con l'anima del luogo, una sorta di genius loci <<avvolto da un ricco manto>>. La salubrità del clima caprese, la tranquillità di una vita così diversa da quella che lui conosceva, il rapporto a tratti quasi mistico tra gli isolani e la natura lo spinsero a lavorare, principalmente in Francia, avendo come unici obiettivi mettere da parte i soldi per la costruzione della villa e indagare sempre più a fondo l'animo umano. Forte di ciò, intorno alla fine dell'Ottocento cominciò i lavori.

La costruzione dell'edificio

La villa in origine era situata in un appezzamento di terreno ove sorgeva l'antica cappella di San Michele, ormai diroccata, e la casa del proprietario del terreno. Alex Munthe la acquistò e la trasformò completamente: è concepita in uno stile molto aperto ed arioso, circondata da pergolati da cui si ammira il golfo di Napoli e che cingono come in un abbraccio il corpo centrale della casa, articolato su più livelli, mentre la parte centrale, lo studio personale del medico, è al primo piano. «Nessun architetto fu mai consultato, nessun disegno preciso o pianta venne mai fatto, nessuna esatta misura fu mai presa. Fu tutto fatto ad occhi chiusi come diceva mastro Nicola», o seguendo schizzi abbozzati sulle pareti. Nel corso della costruzione, in un piccolo appezzamento di terreno vicino, il medico scoprì un’antica villa romana, da cui prese anche dei reperti archeologici per abbellire la sua casa; altri reperti gli furono regalati dagli abitanti del luogo, che non capendo il valore inestimabile degli oggetti preferirono darli al medico svedese, che li custodì amorevolmente all'interno della villa trasformandola in un vero e proprio museo.

http://villasanmichele.eu/index.php?page=collection

Un gusto a metà fra l'eclettismo e il collezionismo pervade tutta l'abitazione: il rivestimento bianco, la predominanza del bianco e del nero nei vari ambienti della casa sono mutuati dalla precedente struttura, la casa di Vincenzo Alberino, un isolano proprietario del terreno, a cui fanno da contraltare il colore del mare, dei fiori, delle opere d'arte ivi posizionate.

Particolare, ed esemplificativa della sua personalità, è la camera da letto: anche qui una miscellanea di oggetti inseriti in un ambiente bianco quasi spartano, con volta a crociera retta da un doppio arco all'ingresso e una trifora in corrispondenza del corridoio.

Seguendo la tradizione meridionale secondo cui gli oggetti posti in corrispondenza del capo condizioneranno il sonno, il medico pose una testa di Hypnos, il dio greco del Sonno fratello della Morte. Se si pensa al fatto che la morte è la nemica di qualsiasi medico, e che Munthe nel corso della sua vita fu afflitto dall'insonnia, ecco che questa testa assume un significato doppio, a metà tra il propiziatorio e l'apotropaico.

http://villasanmichele.eu/collection

La passione per l’arte non si limitava soltanto ai reperti archeologici: Munthe infatti fece arrivare da altre parti d’Italia oggetti di pregio per la sua casa, tra cui mobili toscani e tavoli decorati in stile cosmatesco, con cui abbellì quella che sarebbe stata la sua dimora, salvo brevi intervalli, per 56 anni.

La parte più caratteristica della villa è il colonnato, in cui è posta una sfinge di granito rivolta verso il mare.

https://it.wikipedia.org/wiki/File:Villa_San_Michele_Sphinx.jpg

Questa Sfinge ha 3200 anni, proviene direttamente dall'Egitto e come questa creatura mitologica in granito rosso sia arrivata a villa San Michele resta un mistero, uno dei tanti di questo luogo. Si racconta che il medico l'abbia vista in sogno, sia andato in barca a recuperarla e l'abbia posta lì, sotto il colonnato, rivolta verso il mare.

La fine del sogno

L’edificazione della villa assorbì gran parte della vita di Alex Munthe, che per uno strano scherzo del destino fu colpito da una malattia agli occhi che lo costrinse ad affittare villa San Michele alla marchesa Luisa Casati Stampa, che ne rese una dimora famosa per lo sfarzo e la vita piena di eccessi che vi si conduceva. Alex Munthe si trasferì a Torre Materita, una parte di Anacapri più in ombra e migliore per la sua malattia agli occhi, non prima di aver acquistato il terreno e il monte che si erge alle spalle della villa per farne una riserva per gli uccelli. Lì, su quella montagna, si erge un castello, il castello Barbarossa, diventato oggi stazione ornitologica. Quando la marchesa Casati Stampa lasciò villa San Michele il medico, stanco degli eccessi della nobildonna, tolse via ogni cosa lasciata da lei, tranne il suo motto, che ancora oggi campeggia in una delle stanze della villa: Oser Vouloir Savoir Se Taire (Osare Volere Sapere Tacere). Alex Munthe morì in Svezia otto anni prima della marchesa, lasciando in eredità la sua dimora allo stato svedese.

Oggi è un museo, presieduto dalla Fondazione Munthe, ove è possibile ammirare la straordinaria varietà di oggetti preziosi custodita al suo interno. Le storie relative alla costruzione della villa diventarono un best-seller intitolato “La storia di san Michele”, uno dei libri più letti del Novecento dopo la Bibbia e il Corano.

http://www.comunedianacapri.it/it/s/villa-san-michele-2

http://www.capri.net/it/s/villa-san-michele-axel-munthe

http://www.ilparcopiubello.it/index.php/park/dettaglio/76

http://villasanmichele.eu/