IL CODEX PURPUREUS, O CODICE PURPUREO

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il Codex Purpureus è un manoscritto onciale greco, conservato nel Museo Diocesano di Rossano (Cs). Comprende un evangelario con i testi di Matteo e di Marco e una serie di miniature che lo rendono uno dei più antichi esemplari di manoscritti miniati del Nuovo Testamento conservatisi. Il Codice riporta testi vergati in oro ed argento ed è impreziosito da 14 miniature, accompagnate in calce da cartigli descrittivi, che illustrano i momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. Il Codex Purpureus Rossanensis riveste uno straordinario interesse, sia dal punto di vista biblico e religioso, che da quello artistico, paleografico e storico-documentario. L’evangelario appartiene al tipo di produzione libraria color porpora, a cui appartengono anche i Vangeli cosiddetti Beratinus, Sinopensis ed il Petropolitanus. Deve il nome “Purpureus” alla peculiare colorazione rossastra delle pagine (in latino purpureus).

Fig. 1 - Codice Purpureo, Frontespizio.

Il Codex

Con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine in pergamena sottilissima di agnello, è l’esempio più cospicuo e più rappresentativo del genere. Il formato attuale del manoscritto misura mm. 300x250 mentre lo specchio scrittorio è di mm 215x215 ca. I fogli sono in pergamena accuratamente lavorata, tinta di colore purpureo, con discromie che talvolta si possono ritenere originarie, ma in più casi dovute a fattori diversi, soprattutto umidità. Il manoscritto è formato di regola da quinioni, cioè 40 fascicoli di 10 fogli, iniziati con lato carne, disposti secondo la legge di Gregory (carne contro carne e pelo contro pelo) e segnati nell'angolo inferiore interno sul recto del primo foglio. Restano escluse da questa struttura le pp. 1-18, che sono parti introduttive, e le pp. 239-242, contenenti, a p. 241, il ritratto di Marco. Il Codex Purpureus Rossanensis, nella lista internazionale dei manoscritti rari ecclesiastici, porta il suffisso alfabetico Ф e il numero 043. Contiene l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, mutilo quest’ultimo dei vv. 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo. La scrittura in cui è vergato il testo dei Vangeli è la maiuscola biblica, si tratta di forme grafiche che si caratterizzano a partire dal tardo II secolo d.C. Nel Codice di Rossano la maiuscola biblica mostra caratteri artificiosi, modulo monumentale, forte chiaroscuro e orpelli decorativi che ne indicano, da una parte, la collocazione cronologica tarda, dall’altra la funzione ideologico-sacrale ad essa sottesa. In funzione di vera e propria scrittura distintiva è adoperata, invece, la maiuscola ogivale diritta, nella quale sono state redatte le scritte relative al repertorio iconografico, gli indici dei capitula, il colofone del Vangelo di Matteo, i riferimenti ai canoni eusebiani, le indicazioni di contenuto nei margini superiori, alcune integrazioni, le lettere/cifre di segnatura dei fascicoli. Si tratta, ancora una volta, di una scrittura di ascendenza antica, ma definitasi più di recente, grosso modo nel V secolo e testimoniata nel mondo bizantino più a lungo della maiuscola biblica, fino al secolo XI. Tali scritture si devono ritenere opera di una stessa mano. L’inchiostro adoperato è aureo per il titolo e le tre righe iniziali della prima pagina di ciascun vangelo, argenteo per tutto il resto. Le miniature conservate nel Codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo, una funge da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, mentre l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina. Tutte le miniature vennero dipinte su una pergamena meno fine di quella usata per il testo dei Vangeli. Ad essa fu applicata una tinta purpurea diversa da quella adoperata per le pagine destinate al testo. La pergamena più spessa forniva una base più solida ai colori, mentre la tinta più opaca impediva alla miniatura dipinta sulla facciata di un foglio di essere vista rovesciata sull'altra facciata. Il Codex Purpureus è strutturato in modo che miniature e testo risultino raggruppati in fogli distinti.

Purtroppo non ci sono elementi per poter stabilire con sicurezza la datazione del Codice Purpureo, il luogo in cui fu realizzato e l’identità di chi lo portò a Rossano. La maggior parte degli studiosi, basandosi sullo stile del manoscritto, per quanto concerne la datazione, concordano un periodo compreso tra il il IV e il VI-VII secolo. Il secolo più accreditato è il VI. Dal confronto con altri manoscritti coevi si evince che, molto probabilmente, il codice è stato realizzato in Siria, forse ad Antiochia, oppure in un centro dell’Asia Minore, come Efeso, Cappadocia, Costantinopoli o forse ad Alessandria d’Egitto. Si ipotizza che il codice sia arrivato a Rossano nel VII secolo, a causa del primo iconoclasmo, e che sia stato condotto a Rossano da un gruppo di monaci greco-orientali che custodivano il prezioso testo Sacro. Il testo fu ritrovato nel 1864 all'interno della sacrestia della Cattedrale di Maria Santissima Achiropita di Rossano. Fu segnalato per la prima volta dal Giornalista Cesare Malpica. Nel 1879 il codice fu studiato per la prima volta, dal punto di vista scientifico, dai tedeschi Von Gebhardt e Adolf Harnack, i quali lo sottoposero all'attenzione della cultura internazionale. Nel 1907 il Codice venne esaminato dallo storico dell’arte e architetto Antonio Munoz. Il primo restauro fino ad ora documentato fu condotto nel 1919 da Nestore Leoni che provvide a consolidare e stirare la pergamena servendosi di gelatina stesa a caldo, rendendola trasparente in maniera irreversibile. Tra i più rilevanti studiosi italiani si segnalano quelli di Dei Maffei (1978), e Cavallo (1987); quest’ultimo viene ricordato per la realizzazione del facsimile e del commento analitico del Codice.

Il Codex Purpureus di Rossano è un documento d’inestimabile valore storico archeologico. Grazie alle sue tavole policrome perfettamente conservate, è considerato il più antico libro illustrato del mondo. Nell'ottobre del 2015 è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità ed inserito dall’Unesco tra i 47 nuovi documenti del registro della memoria mondiale.

Fig.2 - Codice Purpureo, l’ingresso di Gesù a Gerusalemme.

Bibliografia e Sitografia

Dè Maffei F., Il Codice Purpureo di Rossano Calabro, in Atti del Congresso Internazionale su S. Nilo di Rossano, 28 settembre-1 ottobre 1986, Rossano-Grottaferrata, 1989, pp. 365-376.

Filareto F., Renzo L., Il codice Purpureo di Rossano, perla Bizantina della Calabria, Museo Diocesano d’Arte Sacra Editore, Rossano 2001.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 4-6.

Malpica C., La Toscana, l'Umbria e la Magna Grecia, Napoli 1846, pp. 313.

Muñoz A., Il Codice Purpureo di Rossano e il frammento Sinopense, con XVI tavole in cromofototipia, VII in fototipia e 10 illustrazioni nel testo, Roma, Danesi Editore, 1907.

Rotili M., Il Codice Purpureo di Rossano, Cava dei Tirreni 1980.

 

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/codex.php


SANTA MARIA IN VAL PORCLANETA

Introduzione

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta è uno dei più interessanti esempi di arte romanica abruzzese, in cui confluiscono influenze arabo-ispaniche, bizantine e longobarde. E' situata alle pendici del Monte Velino a m. 1022 di altezza, raggiungibile percorrendo una caratteristica mulattiera che la collega al vicino paese di Rosciolo, frazione di Magliano de' Marsi.

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta fu eretta nella prima metà dell'XI secolo. Accanto alla dedicazione alla Vergine il tempio conserva il nome antico della valle, "Porclaneta", la cui origine è variamente interpretata: termine in uso nella lingua ebraica, con significato di "baratro"; dal greco "poru clanidos" (manto di tufo); culto locale della divinità pagana di "Porcifer" (o "Purcefer"). La chiesa, inclusa in un più ampio complesso conventuale, era posta sopra il castello di Rosciolo, feudo dei Conti dei Marsi. Nel 1080 il conte Berardo figlio di Berardo, conte dei Marsi, donò al monastero di Montecassino il monastero di Santa Maria in Valle Porclaneta. Alterne vicende interessarono la chiesa nel corso dei secoli: la distruzione avvenuta nel 1268 in concomitanza con la battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò; un periodo di abbandono da parte dei monaci nel 1362; le dispute fra i Conti dei Marsi e l'abbazia di Farfa per la proprietà del cenobio; l'acquisizione del complesso da parte della famiglia Colonna e la rivendicazione regia nel 1765; la distruzione del monastero fino ai restauri piuttosto invasivi del 1931.

L'acquisizione di Santa Maria in Val Porclaneta

Ma facciamo un passo indietro: torniamo all'acquisizione della chiesa da parte di Montecassino. Subito dopo i Benedettini avviarono la ricostruzione del complesso abbaziale nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare; a differenza della chiesa, del monastero non rimane più alcuna traccia. Nonostante l'appartenenza cassinese, la chiesa non riflette lo stile caratteristico che contraddistingue le fondazioni legate più o meno direttamente alla committenza dell'abate Desiderio di Montecassino.
La facciata a due spioventi è preceduta da un atrio coperto con unica arcata a tutto sesto e con tetto a due falde; nei pilastri laterali due iscrizioni attestano le identità del "benefattore e donatore ... Berardo figlio di Berardo" e "dell'illustre Nicolò" che dovette curare la costruzione dell'edificio. Attraverso il portico si raggiunge l'ingresso principale: un portale dalle linee piuttosto semplici in cui spicca la presenza di una graziosa lunetta ogivale, affrescata nel XV secolo con una raffigurazione della Madonna col Bambino tra due Angeli adoranti. Degna di nota è poi la decorazione esterna dell'abside, riedificata in forma poligonale nel Duecento ed ornata da semicolonne disposte in tre ordini; delimitano i registri due cornici, lavorate a foglie di acanto e palmette dritte nel primo registro, con semplici modanature nel secondo. Chiude la composizione una teoria di archetti ciechi, alternativamente a pieno centro e trilobi. I capitelli delle semicolonne sono decorati da raffinati motivi vegetali di tipo borgognone; nel secondo ordine fungono da base alle semicolonne dei leoni stilofori.

Descrizione

La chiesa presenta una pianta di tipo basilicale, suddivisa in tre navate da massicci pilastri quadrati e terminante con un'abside semicircolare; tre scalette immettono nel presbiterio, rialzato per via della cripta rettangolare che si sviluppa nello spazio sottostante. A destra dell'ingresso è posto il sepolcro del maestro Nicolò, con la lapide scolpita dallo stesso artista. Di grande valore artistico sono poi l'ambone, il ciborio e l'iconostasi. L'ambone di Rosciolo è uno dei più begli esempi di scultura medievale abruzzese, scolpito con influenze orientali e bizantine, dai maestri Nicodemo e Roberto di Ruggero nel 1150. L'ambone è scolpito in pietra rivestita di stucco, con cassa quadrata che poggia su piedritti ottagonali. La decorazione presenta dei bassorilievi che ritraggono scene del vecchio testamento. Il ciborio, con intarsi di derivazione moresca e una rara iconostasi in legno sorretta da quattro colonnine con capitelli decorati e fusti tortili, è attribuibile sempre a Roberto ed esser datato, in riferimento all'ambone, in prossimità del 1150. Molti dei motivi decorativi presenti nell'ambone sono riproposti nel ciborio. L'elemento di arredo liturgico più antico tra quelli presenti nella chiesa è la bellissima iconostasi, realizzata con buona probabilità alcuni anni prima dell'arrivo di Roberto e Nicodemo per l'ambone ed il ciborio. All'interno della chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta si conservano interessanti affreschi, opera di artisti locali, che raffigurano diversi soggetti sacri, spesso ripetuti. Il gruppo più numeroso di essi si data al XV secolo e comprende, tra le altre, ben sette rappresentazioni della Madonna con Bambino in trono, dislocate sui pilastri delle navate, nonché sulle pareti del transetto e del presbiterio: di queste, due conservano iscrizioni che permettono di assegnar loro una data di esecuzione più precisa (1444 e 1461). Allo stesso lasso di tempo si possono datare anche un Cristo crocifisso con S. Giovanni Evangelista e la Madonna sorretta delle pie donne posto nella parete sinistra della navata centrale. Due immagini di S. Antonio Abate si trovano nella navata centrale (secondo pilastro) e nel transetto: la prima presenta in alto un'iscrizione che permette di identificare correttamente il santo raffigurato, il quale, in questo caso, ancora non presenta la tipica iconografia che troviamo invece nel secondo dipinto, forse di poco posteriore. Infine, ascrivibile allo stesso secolo è una rappresentazione di S. Sebastiano presente nel presbiterio. Al secolo precedente si può far risalire un altro affresco, raffigurato sul quarto pilastro della navata centrale, che raffigura S. Lucia, resa identificabile dall'iscrizione posta nella parte superiore del dipinto stesso. Al XIII secolo è databile una Crocifissione di Cristo conservata nel presbiterio.


VILLA PANDOLA SANFELICE A LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Di Mocogia - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47546851

Lauro (in verde più scuro sulla cartina), piccolo paese della provincia di Avellino che dista circa 40 km dal capoluogo, è situato al centro del cosiddetto Vallo di Lauro, una valle incassata al di sotto delle cime dei monti Cresta e Pizzo D'Alvano (entrambi sui mille metri) che per la sua posizione strategica ha costituito da sempre un luogo di conquista per le varie dinastie che si sono susseguite nei secoli, dai Normanni fino ad arrivare agli Orsini, ai Del Balzo e ai Pandola. In tempi recenti Lauro viene ricordata per essere la città natale di Umberto Nobile, generale dell'Aeronautica famoso per la sfortunata esplorazione nel 1928 del polo Nord sul dirigibile "Italia", da cui venne tratto il film "La tenda rossa" del 1969 diretto da Mikheil Kalatozishvili.

Fig. 2: il dirigibile Italia https://www.osservatorioartico.it/la-storia-del-dirigibile-italia/

Villa Pandola Sanfelice

Villa Pandola Sanfelice si trova appunto nel comune di di Lauro, ed è situata sulle antiche mura a ridosso del Castello Lancellotti. Originariamente era di proprietà dell'Ordine del Beneficio di S. Maddalena, e fu acquistata dalla famiglia Pandola nel 1753, favorevole all'unificazione d'Italia e al Risorgimento; la dimora rimase della famiglia fino al matrimonio nel 1966 dell'ultima discendente di casa Pandola, Emilia, quando essa passò ai Sanfelice,di tradizione filoborbonica. La casa rispecchia questa pluralità di visioni, in quanto in essa sono contenuti sia cimeli militari che rimandano ai moti risorgimentali, sia arredi che rispecchiano un gusto più tradizionale e filomonarchico. Tutta la storia della famiglia è contenuta in un libro, "Emilia e i suoi: una famiglia del sud dentro il Risorgimento", scritto dall'ultima discendente di casa Pandola, l'irlandese Emilia appunto, nata Higgins e trasferitasi a Napoli nei primi dell'Ottocento.

Fig. 1: villa Pandola Sanfelice, l'esterno https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Villa Pandola Sanfelice: la casa

L’ingresso è preceduto da un viale dall'andamento sinuoso, fiancheggiato da aranci, limoni, numerosi arbusti floreali quali rose e gelsomini, palme di diversi tipi e alberi centenari, immerso in uno splendido scenario naturalistico digradante in una piccola altura boscosa. L’ingresso è costituito da una grande stanza che fa da collegamento e contemporaneamente divisione a due saloni, l’uno detto “degli Specchi”, l’altro “delle Battaglie”, dal soggetto dei quadri presenti, a cui segue una piccola cappella. Sia la hall che i saloni sono impreziositi dagli arredi originali d’epoca, ma soprattutto dai pavimenti di maioliche napoletane originali del XIX secolo.

Dal piano terra, attraverso uno scalone di marmo, si giunge al primo piano o piano nobile, dove sulla sinistra si può ammirare la cosiddetta “Sala della musica”, il cui pavimento è tutto di maioliche sui toni del terra bruciata a disegni geometrici: domina la stanza, immersa in una calda luce beige grazie alla tappezzeria di seta a colori neutri, un pianoforte della prima metà dell’ ‘800 cosiddetto "Gran Concerto", su cui sono esposti dei violini.

Fig. 2: la sala della musica https://www.turismo.it/cultura/articolo/art/campania-alla-scoperta-di-villa-pandola-sanfelice-id-19030/

Successivamente, in una disposizione ad infilata, si trova il “salotto verde”, dal colore predominante degli arredi, impreziosito da un camino di marmo bianco scolpito di foggia semplice ma elegante. Alle pareti, quadri a carattere naturalistico raffiguranti uno la foce del Garigliano (fiume che segna il confine fra Campania e Lazio), l’altro Torre Astura (torretta fortificata laziale). Il pavimento è di cotto, che contrasta piacevolmente con la tappezzeria bianca.

Fig. 3: sala verde
https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Degna di nota è la camera da letto principale, detta “dell’Ammiraglio” in quanto sul letto campeggia un quadro raffigurante una battaglia: arredi originali dell’epoca e un letto sormontato da un baldacchino completano l’insieme; tutti i mobili sono originali, in stile Impero.

Fig. 4: camera da letto https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

La Villa contiene, ed occasionalmente espone, cimeli, antiche uniformi militari, documenti e corrispondenze, abiti di corte e testimonianze delle simpatie filoborboniche della famiglia Sanfelice, che contrastano piacevolmente con gli arredi di gusto risorgimentale, come ad esempio i quadri di noti liberali dell'Ottocento, come Carlo Poerio, appesi alle pareti.

Tutta la struttura è insomma pervasa dal fascino multiforme della Storia, che un attento restauro a cura delle attuali proprietarie ha saputo conservare pressoché intatto.

 

SITOGRAFIA

www.osservatorioartico.it

http://dimorestoricheitaliane.it/vacanze-location/villa-pandola-sanfelice/

http://www.irpinia.info/sito/towns/lauro/villapandolasfelice.htm

http://www.nobili-napoletani.it/sanfelice.htm

http://www.ottopagine.it/av/agenda/74047/lauro-tutto-pronto-per-la-pubblicazione-di-agora.shtml


CHIESA DI SANT'ADRIANO A SAN DEMETRIO CORONE

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

La fondazione della chiesa di Sant'Adriano è legata alla figura di S. Nilo di Rossano, uno dei maggiori protagonisti del monachesimo greco dell’Italia meridionale del X secolo. Nel 955 S. Nilo dopo un periodo di duro ascetismo nella valle del Mercurion si trasferì a San Demetrio e su un terreno di proprietà della famiglia fondò il suo ascetario, divenuto poi un cenobio, accanto a un piccolo oratorio già esistente dedicato ai santi martiri Adriano e Natalia. S. Nilo rimase qui fino al 980.

Fig. 1- Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone.

Dopo la sua partenza la chiesa fu distrutta durante un’invasione saracena. Successivamente fu ricostruita da S. Vitale da Castronuovo anche se molti sostengono che questa è un’ipotesi sbagliata. Nel 1088 il duca normanno Ruggero Borsa figlio di Roberto il Guiscardo donò il monastero, con tutti i suoi edifici, alla abbazia benedettina di Cava dei Tirreni. Questa dipendenza fu importante per la storia edilizia della chiesa, durò per diciotto anni. Nel 1106 lo stesso Ruggero Borsa sottrasse il monastero alla Badia di Cava dei Tirreni e lo restituì ai basiliani.  In epoca normanna, tra la metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, il monastero raggiunse uno stato patrimoniale di floridezza economica e fu ricostruito ex novo. In questo periodo venne costruito il pavimento in opus sectile. Si presume che l’intera pavimentazione fosse decorata in origine con disegni geometrici, di cui oggi solo la metà è giunta a noi, mentre il rimanente è rivestita con mattonelle, frutto dei restauri del XX secolo. Oltre al pavimento in opus sectile troviamo quattro lastre figurative medievali: un leone e un serpente che si contendono una preda irriconoscibile(fig.3), un serpente che si avvolge in tre spire, un felino(fig.2) non si sa se una pantera o un gatto), un serpente avvolto nelle spire. Paolo Orsi sostiene che i materiali utilizzati nel pavimento forse sono provenienti dall'antica città di Copia non lontano da San Demetrio Corone.

All'interno della chiesa di Sant'Adriano non solo il pavimento presenta delle decorazioni, ma anche le pareti. In origine gli affreschi decoravano tutte le pareti della chiesa, ma solo una parte è giunta fino a noi; furono scoperti fortuitamente nel 1939, durante gli interventi di restauro di Dillon. Lo studioso li rinvenne al di sotto di uno strato di calce apposto probabilmente dagli stessi monaci del monastero alla fine del Settecento, forse per cancellare ogni traccia dell’antica presenza bizantina. Gli affreschi sono stati datati fine dell’XI secolo inizi del XII secolo. Il ciclo si svolge lungo la navata centrale, nei sottarchi e nei muri circostanti agli archi delle navate minori. Il programma figurativo è prevalentemente iconico e attinge al repertorio agiografico dell’Italia meridionale. Negli intradossi degli archi vi sono raffigurati santi stanti e isolati. Purtroppo le figure non hanno iscrizioni e questo rende assai difficile la loro esatta identificazione.

La chiesa di Sant'Adriano presenta quattro archi per ogni lato. Al di sotto di ogni arco sono inserite due figure di santi separate da un clipeo con motivo floreale (fig.4), per un totale di sedici santi, di cui solo dodici esistenti per intero, due frammentari e due totalmente scomparsi. Altri affreschi si trovano nel muro interno della navata nord dove troviamo una serie di santi, tutti di sesso maschile, mentre nella navata sud troviamo figure di sante, le uniche identificate: S. Giuditta, S. Anastasia e S. Irene

Fig. 4- Chiesa di Sant’Adriano, santi separati da un clipeo con motivo floreale.

In questa navata troviamo anche una scena narrativa: la presentazione della Vergine al tempio (fig. 5). La scena è composta da numerose figure, la Vergine condotta al tempio dai Gioachino e S. Anna affidata al sacerdote Zaccaria vicino ad un ciborio, una processione composta da sette fanciulle con lampade accese. L’altare maggiore della chiesa è datata 1731, attribuito a Domenico Costa. Sopra campeggia una tela del martirio di Sant'Adriano probabilmente opera del pittore Francesco Saverio Ricci. Nelle due nicchie ai fianchi della tela, sono collocati due busti lignei del 1600 raffiguranti Sant'Adriano e Santa Natalia. Nell'altare a sinistra è raffigurata la Madonna con San Nilo e San Vito, mentre in quello di destra è raffigurato San Basilio.

Fig. 5- Chiesa di Sant’Adriano, presentazione della Vergine al tempio.

Nella chiesa di Sant'Adriano sono presenti anche delle sculture: un capitello bizantino del X secolo adattato ad acquasantiera, una conca ottagonale presumibilmente d’epoca normanna e un coperchio del X secolo. Si tratta di opere di botteghe locali, facente parti di quell'arte che l’Orsi definisce basiliano calabrese, in quanto influenzata dalla cultura bizantina al tempo dei normanni. La chiesa ha subito nei secoli varie perdite e rifacimenti, ma nel complesso non ha perso del tutto la sua bellezza al suo interno di elementi bizantini e normanni.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Dillon, A., La Badia greca di S. Adriano. Nuove indagini sul monumento e notizie della scoperta di un ciclo di pitture bizantine, Reggio Calabria 1948, pp. 7-27.

Garzya Romano, C., La Basilicata, La Calabria, in Italia romanica, IX, Milano1988, pp. 101-108.

Lavermicocca, N., San Demetrio Corone (Rossano): la chiesa di S. Adriano e i suoi affreschi, in “Rivista di studi bizantini e slavi”, III, (1983), p. 262.

Orsi, P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, pp. 155-158.

Pace V., Pittura bizantina in Italia meridionale (sec. XI-XIV), in “I bizantini in Italia”, 1982, pp.427-494.

Pensabene, P., Il riuso in Calabria, in i normanni in finibus Calabriae, a cura di Cuteri, F. A.,  Soveria Mannelli 2003, pp. 77-94.

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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IL CASTELLO DI SAN MAURO DI CORIGLIANO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Il castello-masseria di S. Mauro di Corigliano Calabro è un imponente complesso che rappresenta uno dei più interessanti modelli di architettura rinascimentale dell’intera Calabria. Il fabbricato odierno, risalente al XVI secolo, dovrebbe insistere sui resti di un edificio medievale, probabilmente un monastero. Secondo le fonti questo edificio fu costruito presso la distrutta Copia-Turio, probabilmente edificata intorno al 190 a. C. dal Senato Romano, i cui ruderi fornirono le pietre usate per la costruzione delle sue mura.

La trasformazione in palazzo fortificato avvenne nel XVI secolo ad opera dei Principi Sanseverino. I lavori di recupero e riammodernamento della struttura furono eseguiti sotto il Ducato di Giacomo Saluzzo, per tutto il Seicento ed il secolo successivo. Gli interventi cercarono di mantenere inalterati gli ornamenti originali, come lo stemma dei Sanseverino rimasto intatto presso l’ingresso.

Castello San Mauro

Vengono ripristinate tutte le coperture, sostituite le travi ormai logore con nuove e ampliata la sacrestia della Chiesa di S. Antero.

Nel 1828 con il passaggio di proprietà sotto Giuseppe Campagna, ha inizio il lento abbandono della masseria. Solo il vecchio frantoio viene convertito in concio nel 1829 per la lavorazione della liquirizia, attivo solo fino al 1836.

Alla fine dell’Ottocento furono installate alcune macchine per la lavorazione dei cereali, sostituendo il mulino-frantoio con quello proveniente dal convento dei carmelitani, all’ingresso del centro abitato.

Ne seguono pochi interventi di manutenzione, così come riportato da un’iscrizione datata 1875 posizionata nel muro attiguo alla facciata principale.

Ad aggravare ulteriormente la situazione di declino a cui il monumento è stato sottoposto, sono da aggiungere gli inadeguati lavori di sbancamento risalenti agli anni 90 che non hanno rispettato il paesaggio che da più di 500 anni costituiva un tutt’uno con la masseria.

Da un punto di vista strutturale il fabbricato è composto da due corpi di fabbrica contigui a doppia corte, circondati da muri di cinta chiusi dal torrione merlato a forma quadrata, in cui sono visibili frammenti di pitture. In particolare nel primo frammento è visibile lo stemma dei Sanseverino, in parte ricoperto dall’intonaco, in un secondo frammento, invece, è visibile il capo di una Madonna con bambino, il resto dell’opera è stato modificato a causa dell’ampliamento del portone.

Nel corpo occidentale, in cui è situato un ingresso, spicca un torrione adornato da beccatelli e merlature che dà su un ampio cortile addossato al palazzo residenziale. Ad est della corte si sviluppa il corpo orientale in cui ritroviamo un ampio spazio quadrangolare ad uso frutteto.

Nel complesso si tratta di una struttura quadrangolare che poggia su un ampio tratto pianeggiante, posto ad occupare circa un ettaro di terreno, circondato da un cospicuo aranceto.

Al primo piano del palazzo residenziale è collocato l’alloggio padronale al quale è possibile accedere per mezzo di una scala a doppie braccia realizzata in pietra di Genova. Gli ambienti sono tutti voltati, vanno sicuramente menzionate la sala del trono, la camera degli specchi finemente decorata e una sala con camino.

L’esterno ha una ripartizione ritmica costituita da marcapiani, cornici e finestre, oltre ad una sola loggia coperta alla quale si accedeva attraverso due rampe di scale, di cui oggi ne esiste solo una.

Probabilmente la parte sinistra dell’ingresso è stata danneggiata da un incendio come ne testimoniano i segni impressi sulla facciata. Il piano inferiore, invece, era occupato da locali di servizio come la cucina, i magazzini e la cantina. Il cotto della pavimentazione, o meglio i sui resti, lasciano intravedere una serie di archi detti gattaiolati, che isolavano il pavimento da terra con una sorta di camera d’aria.

Il fabbricato nella sua completezza si affaccia, in ultimo, su un’ampia corte quadrangolare il cui ingresso è caratterizzato da una torre quadrata munita di piombatoi per la difesa. La corte era delimitata sui restanti tre lati da ventidue sottani, occupati dagli alloggi dei salariati e dal massaro. Il materiale usato per la costruzione delle arcate è quello più facilmente reperibile nel territorio, si tratta di mattoni d’argilla e ciottoli di fiume ben incastonati, oggi a vista a causa dell’inevitabile degrado dell’intonaco. Anche se la composizione degli archi rimanda ai classici chiostri, la tipologia è differente, infatti a sud sono presenti pilastri a base quadrata con archi a tutto sesto, a nord, invece, una prima serie di pilastri a base ottagonale così da formare quattro archi a tutto sesto, una seconda serie di pilastri a base cruciforme che vanno a formare nove archi su cui insiste una cuspide triangolare che lascia immaginare quello che doveva essere l’enorme copertura del magazzino.

Ad incorniciare il tutto è presente un muro perimetrale merlato costituito da una serie di inferriate e due porte d’accesso al giardino collegate alla corte del palazzo da un grande portale con contrafforti, corrispondenti ai magazzini a destra del palazzo.

Biografia e sitografia

  1. Grillo, Antichità storiche e monumentali de Corigliano Calabro, Cosenza, 1965
  2. Perogalli, M. P. Ichino, S. Bazzi, Castelli italiani: con un repertorio di oltre 4000 architetture fortificate, Bibliografica, 1979
  3. Barillaro, Calabria, Guida artistica e archeologica, L. Pellegrini, 1972

https://www.bisignanoinrete.com/il-castello-di-san-mauro-dei-principi-sanseverino-a-corigliano-calabro/

https://iluoghidelcuore.it

http://icleonetti.it/sito-storico/ipertesti/schiavonea/sanmauro.html

Appunti personali lezioni di restauro A.A. 2008-09


CAPOLAVORI SIBILLINI, L'ARTE DEI LUOGHI FERITI DAL SISMA

Introduzione

"Nobil natura è quella che a sollevar s'ardisce"; questi due versetti leopardiani sono il motto scelto per accogliere i visitatori della mostra "CAPOLAVORI SIBILLINI" svoltasi a Osimo presso Palazzo Campana dal 19 febbraio al 1 ottobre 2017. Le opere esposte provenivano da alcuni musei lesionati dal sisma del 24 e 30 agosto 2016.

La mostra "Capolavori sibillini"

Questo, che vuole essere un breve excursus delle opere d'arte ospitate nella residenza seicentesca osimana, inizia con i dipinti provenienti dalla Pinacoteca Duranti di Montefortino eseguiti da Corrado Giaquinto (Molfetta 1703-Napoli 1766).

L'Immacolata e il profeta Elia https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/7/75/Corrado_giaquinto%2C_immacolata_concezione_e_il_profeta_elia_%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg/434px-Corrado_giaquinto%2C_immacolata_concezione_e_il_profeta_elia_%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg
La maga
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9c/Corrado_giaquinto%2C_la_maga%2C_1730-60_ca._%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg/589px-Corrado_giaquinto%2C_la_maga%2C_1730-60_ca._%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg
Agar e Ismaele nel deserto
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/e/e9/Corrado_giaquinto%2C_agar_e_ismaele_nel_deserto_%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg/642px-Corrado_giaquinto%2C_agar_e_ismaele_nel_deserto_%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29.jpg

Nella sala successiva alcune opere del pittore Cristoforo Unterperger (Cavalese 1732-Roma1798); appartenente alla famiglia di pittori trentini si formò a Vienna  fu collaboratore del Mengs. Improntato al neoclassicismo, realizzò elegantissimi motivi improntati all'antico con i quali decorò, ad esempio, tutte le sale del Palazzo del Governo di Cavalese e l'atrio del Museo Clementino in Vaticano nel 1772.

Combattimento tra tritoni e grifi
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/46/Cristoforo_unterperger%2C_combattimento_tra_tritoni_e_grifi%2C_1750-90_ca._%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29_02.jpg/1024px-Cristoforo_unterperger%2C_combattimento_tra_tritoni_e_grifi%2C_1750-90_ca._%28montefortino%2C_pinacoteca_civica%29_02.jpg

Segue un piccolo gruppo di nature morte.

La Pinacoteca Civica di San Ginesio fu tra le prime ad essere istituita e raccolse, nel 1866 i beni artistici provenienti dalle chiese locali in seguito alla soppressione delle congregazioni religiose. L'esposizione delle opere provenienti da essa, inizia con un artista al quale San Ginesio diede i natali: Domenico Malpiedi (San Ginesio 1570/75 ca-1651), del quale sono esposte le tele Santa Lucia, San Biagio e Santa Apollonia, e San Bartolomeo

Ma l'opera che cattura immediatamente l'attenzione è  senza dubbio la magnifica pala opera di Stefano Folchetti, documentato a San Ginesio dal 1492 al 1523; la sua Madonna in trono con Bambino e Santi Benedetto, Rocco, Sebastiano e Bernardo, si rivela in tutto il suo splendore, arricchita di profili dorati e di gemme incastonate nella tavola; l'ispirazione proviene da modelli crivelleschi come ci svelano l'eleganza delle preziose stoffe e la dolcezza delle fisionomie.

Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=88456091

Si prosegue con un'opera della bottega del Ghirlandaio: il Matrimonio mistico di Santa Caterina. E, nella stessa sala, il dipinto che mi ha attratto per la sua notevole capacità narrativa, ideato dal senese Nicola di Ulisse e datato circa al 1463. L'episodio rappresentato si riferisce ad un fatto d'arme avvenuto nel 1377.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/25/Nicola_di_ulisse_da_siena%2C_s._andrea_e_la_battaglia_tra_ginesini_e_fermani%2C_1463_ca._%28san_ginesio%2C_pinacoteca_gentili%29_01.jpg/524px-Nicola_di_ulisse_da_siena%2C_s._andrea_e_la_battaglia_tra_ginesini_e_fermani%2C_1463_ca._%28san_ginesio%2C_pinacoteca_gentili%29_01.jpg

Nella sala successiva trovano collocazione opere provenienti da Loro Piceno, Montelparo, Montalto:.Grandi artisti marchigiani come Ercole Ramazzani  con la sua Assunzione; Vincenzo Pagani con la pala della Madonna in trono con Bambino e Santi corredata di cimasa nella quale ha rappresentato il compianto sul Cristo deposto.

Le ultime tre opere che vorrei riportare sono il Ritratto di Sisto V che nacque a Montalto come Felice Peretti; di questo pittore che ha avuto l'onore di effigiare il pontefice marchigiano ignoriamo il nome; una bellissima Madonna del Rosario di ignoto autore; per concludere questa visita ai Capolavori Sibillini ancora con l'artista marchigiano Vincenzo Pagani e la sua Madonna in trono con Bambino e Santi.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/1/13/Vincenzo_pagani%2C_madonna_in_trono_col_bambino_e_santi%2C_1550_ca._%28san_ginesio%2C_pinacoteca_gentili%29_01.jpg/491px-Vincenzo_pagani%2C_madonna_in_trono_col_bambino_e_santi%2C_1550_ca._%28san_ginesio%2C_pinacoteca_gentili%29_01.jpg

 

 


santa Maria del colle

La chiesa di Santa Maria del Colle, altrimenti detta collegiata, è situata a Pescocostanzo, in provincia dell'Aquila, ed è uno degli esempi più significativi e completi di Barocco abruzzese. Sorta in epoca rinascimentale oggi essa è il risultato di numerosi interventi di ricostruzione ed ampliamento succedutisi nel corso del XVI e XVII secolo. La denominazione di collegiata è legata alla localizzazione di un primo nucleo religioso sorto su di un colle all'esterno dell'originario centro urbano. All'esterno delle mura cittadine, su un colle poco distante, nella seconda metà dell'anno mille venne edificata una chiesa piuttosto grande, la cui fondazione e posizione si spiegano con l'influenza della tradizione benedettina e in particolare dell'abbazia di Montecassino. La prima testimonianza documentaria ci viene fornita da un atto di donazione del 1108 in cui un certo Odone cedeva al monastero di Montecassino "la chiesa di S. Maria di Pescocostanzo...".
Nessuna indicazione ci è stata tramandata circa la sua struttura originaria. Il 5 dicembre 1456 un terribile terremoto distrusse sia il paese sia la chiesa. La ricostruzione dell'edificio religioso fu immediata e tempestiva. 
La collocazione sul colle ha fortemente condizionato la configurazione dell'organismo religioso. Costruita sulla linea del crinale, la chiesa presenta la facciata principale, orientata ad est, in corrispondenza della parte terminale del colle. Il forte dislivello rispetto alla strada sottostante ha reso impossibile la costruzione di una gradinata che collegasse la chiesa alla strada. Così l'accesso venne realizzato sulla facciata laterale dove minore era il dislivello. Questa soluzione ha reso necessaria la costruzione di una seconda facciata frontalmente alla strada che immette nel borgo antico e che vista dall'esterno ha tutta l'aria di una facciata principale. La collocazione sul colle ha fortemente condizionato la configurazione dell'organismo religioso. Costruita sulla linea del crinale, la chiesa presenta la facciata principale, orientata ad est, in corrispondenza della parte terminale del colle. Il forte dislivello rispetto alla strada sottostante ha reso impossibile la costruzione di una gradinata che collegasse la chiesa alla strada. Così l'accesso venne realizzato sulla facciata laterale dove minore era il dislivello. Questa soluzione ha reso necessaria la costruzione di una seconda facciata frontalmente alla strada che immette nel borgo antico e che vista dall'esterno ha tutta l'aria di una facciata principale. 
Nel 1466, all'epoca della ricostruzione, la chiesa era a tre navate, ciascuna suddivisa in tre campate, costituite da archi a tutto sesto poggianti su pilastri a croce. Alcuni studiosi ritengono che le navate laterali fossero previste già dal progetto del 1466, altri spostano la datazione al Cinquecento. Di data certa, invece, è la costruzione della facciata principale sulla quale sono presenti due iscrizioni: una sul fregio del portale indica l'anno 1558, l'altra su una lapide indica l'anno 1561. Nel 1606, data incisa su una trave del soffitto, venne realizzato l'innalzamento del tetto allo scopo di aprire due finestre come fonti di illuminazione per la navata centrale e fu realizzata la copertura in legno intagliato della navata centrale. Nel corso del Cinquecento fu realizzata anche la facciata laterale, sul lato settentrionale dell'edificio, sulla quale venne trasposto il portale tardomedievale che in origine doveva trovarsi sulla facciata principale, sulla quale ne venne realizzato uno nuovo.
Nel corso del Seicento furono realizzate anche le coperture in legno delle navate laterali, poi decorate nel corso del secolo successivo, e delle navatelle, lasciate in nudo legno intagliato senza aggiunte decorative. 
La facciata laterale, a nord, presenta uno schema a due ordini di aperture ricorrente in molte chiese pescolane, che vede al centro un portale tardomedievale sormontato da una finestra ad ovale e sui lati due ampie finestre rettangolari, di semplice fattura. Il portale deriva dai modelli delle principali chiesa aquilane della fine del Duecento. Esso è costituito da tre ordini di cornici semicircolari. A concludere la composizione è una cornice più grande, aggettante e decorata con rosette e girali di acanto. La facciata principale è più complessa. Essa ripete lo schema tripartito con portale e rosone al centro e finestroni rettangolari laterali, a carattere spiccatamente rinascimentale, ma in aggiunta presenta due finestre ovali di piccole dimensioni poste poco più in alto del rosone e simmetricamente ad esso. Il portale, datato 1558, è diviso in due ordini; quello in basso è costituito da due lesene scanalate con capitelli corinzi, quello in alto, di minore altezza, presenta due lesene che chiudono una lunetta con arco. Un'alta trabeazione in alto chiude e definisce il portale. 
La collegiata, in linea con la maggior parte delle chiese pescolane, ha una struttura a pianta longitudinale a cinque navate di matrice rinascimentale, su cui si innestano gli interventi barocchi dei secoli XVII e XVIII. Si tratta di operazioni a carattere prevalentemente decorativo più che costruttivo. Unica eccezione è l'aggiunta della cappella del SS. Sacramento. E' l'unica struttura barocca di grande originalità e si trova in corrispondenza della terza campata in prossimità del presbiterio. Realizzata nell'ultimo decennio del Seicento presenta una pianta rettangolare con angoli smussati e copertura a cupola ovale che poggia su quattro archi in cui si aprono altrettanti finestroni. La cappella contiene tre altari, di cui uno in legno e due in marmo. A chiudere la cappella è lo splendido cancello in ferro battuto progettato da Norberto Cicco, architetto e scultore pescolano, realizzato dal fabbro Santo di Rocco tra il 1699 e il 1705 e completato nel 1717 dal nipote Ilario di Rocco. 
Come detto la maggior parte degli interventi barocchi nella chiesa pescolana sono di tipo decorativo. Partendo dall'ingresso la prima opera settecentesca che incontriamo è il battistero. A sinistra della gradinata interna si apre un piccolo vano rettangolare coperto da una cupola ovale e chiuso da un cancello in ferro battuto. Questo fu realizzato probabilmente da Ilario di Rocco nel 1753 e si ispira ai caratteri rococò che gli conferiscono un tono elegante e raffinato. Al centro dello spazio interno spicca il fonte battesimale, un tempietto circolare in marmo, realizzato da Filippo Mannella intorno al 1753 con marmi di provenienza napoletana. Ai lati della gradinata interna sono due acquasantiere di grande originalità e creatività realizzate nel 1621-22. Dall'ingresso è immediatamente visibile il pulpito addossato ad uno dei pilastri della navata centrale. Fu realizzato probabilmente nei primi del '600 ad opera di Bartolomeo Balcone, romano di nascita ma vissuto a Sulmona, dove ha realizzato il coro della SS. Annunziata. In legno di noce, è composto da pannelli intagliati e decorati a motivi vegetali ed antropomorfi, delimitati da lesene a carattere ionico. In basso, quasi a sostegno dell'intera struttura, è un putto alato che sostiene varie cornici lavorate. A copertura del pulpito è un baldacchino posto più in alto, che ne ricalca la forma. L'effetto dorato con cui si presenta oggi il pulpito è il risultato di interventi successivi. Affini al pulpito sono due altre opere barocche, il badalone e la cantoria. Il badalone, posto al centro del coro, è un leggio di grande importanza. La cantoria, di notevole dimensione, occupa tutta la parete di controfacciata della navata centrale. Una struttura lignea intagliata, dorata e colorata contiene un organo costituito da dodici registri articolati in tre torri, di cui quelle laterali più basse, quella centrale più alta si eleva fino al soffitto.
I soffitti sono una delle caratteristiche principali della chiesa, distinti in tre tipologie. Il più ricco e scenografico è certamente quello della navata centrale realizzato tra il 1670 e il 1682; il progetto e la direzione dei lavori appartiene a Carlo Sabatini; le dorature sono attribuite ai fratelli Gioacchino e Giuseppe Petti da Oratino; gli oli appartengono a Giovannangelo Bucci. Si tratta di una complessa struttura in legno intagliato, laccato e dorato suddivisa in lacunari, scomparti rientranti. Questi, nel numero di ottantacinque, hanno forme diverse, tonda, rettangolare o mistilinea, e sono stati concepiti come contenitori di tele dipinte ad opera di Bucci. I cassettoni sono molto profondi e questo crea l'impressione che i dipinti sprofondino al loro interno. Non è casuale la scelta del colore di fondo, il celeste, che allude all'apertura del soffitto verso il cielo. Unico precedente è dato dal soffitto della cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a Penne, realizzato circa trent'anni prima. Se il soffitto pescolano non rappresenta una novità, è certo che mette a punto una tipologia che troverà ampia applicazione nel Settecento, come nel caso della chiesa di San Bernardino a L'Aquila. I soffitti delle navate laterali adiacenti a quello centrale furono iniziati negli stessi anni ma portati a termine solo nel 1742. L'attribuzione del progetto spetta allo stesso Carlo Sabatini con qualche riserva per quanto riguarda quello di destra. Presentano la stessa impostazione architettonica e compositiva di quello centrale.

In conclusione si può affermare che la ricchezza della chiesa di Santa Maria del Colle, vero scrigno di tesori artistici, è insolita in un piccolo centro montano ed è per questo che genera meraviglia e stupore nel visitatore.

 
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cattedrale di Lamezia Terme

Localizzata nel quartiere di Nicastro, la Cattedrale di Lamezia Terme è stata il sipario di continui crolli e devastazioni a causa di numerosi eventi sismici che hanno colpito la zona, tra cui il terremoto del 1638 che ha raso al suolo l’intero edificio di natura normanna, evento che ha portato alla costruzione ex novo dell’attuale struttura architettonica in una postazione differente rispetto a quella della prima Chiesa madre, che doveva trovarsi nei pressi del rione San Teodoro, ai piedi del castello normanni. Il monumento si affaccia sul corso principale di stampo vittoriano della cittadina, al quale si accede attraverso una doppia scalinata modificata più volte durante gli anni. I lavori di riedificazioni della Cattedrale, voluti dal Mons. Giovan Tommaso Perrone, conseguenti al terremoto del 1638 che rase al suolo l’antica cattedrale del 1100 voluta dalla contessa Emburga, nipote di Roberto il Guiscardo, terminarono nel 1644 con la consacrazione del nuovo Duomo di Nicastro. Successive ed ulteriori modifiche interessarono anche il prospetto frontale. La facciata perde il rosone barocco inglobato all’interno di un’apertura ottagonale per lasciare spazio ad una più lineare facciata a saliente, la cui parte superiore viene circondata da una balaustra oggi rimossa, e quattro busti monumentali, due dedicati ai santi Pietro e Paolo e due dedicati ai papi Marcello II e Innocenzo IX, entrambi vescovi di Nicastro. Solo i portali dei prospetti laterali mantengono i loro motivi originali, senza subire intervento alcuno. Nella prima metà dell’ottocento la struttura è oggetto di un notevole ampliamento in risposta ai canoni neoclassici in voga in quegli anni; innalzate le volte a sostituzione del soffitto ormai danneggiato, si prosegue con l’estensione del transetto concluso da due absidi semicircolari e con l’edificazione di due cappelle aggiuntive nelle navate laterali. L’edificio si sviluppa su una pianta a croce latina, all’incrocio dei bracci quattro robusti pilastri sostengono ampi archi sui quali poggia il tamburo della cupola maiolicata di forma ottagonale, realizzata nel 1935. La maggior parte del materiale per costruire la nuova chiesa fu prelevato dalle rovine della cattedrale terremotata: furono riadattati i pilastri e gli archi in tufo della navata centrale, ora visibili solo in piccola parte. L'altare del crocifisso in porfido grigio fu costruito interamente, con la nicchia dello stesso crocifisso ligneo rinvenuto sotto le macerie. L’interno conserva la parte ornamentale sulla cantoria del vecchio organo monumentale del 1700 distrutto durante la guerra. Titolari del nuovo edificio continuarono ad essere gli Apostoli Pietro e Paolo, ma non fu abbandonato l'antico titolo dell'Assunta dedicato alla piccola cattedrale distrutta dai saraceni intorno all’anno 1000, come dimostra un antica tela che ritrae i santi Pietro e Paolo ai piedi dell'Assunta. Nel museo diocesano della città è conservata una pala di altare che testimonia ancora oggi la congiunzione esistente tra il vecchio titoli di Assunta e l’attuale nominazione agli apostoli.

Bibliografia e sitografia

 

  1. F. Mazza, Lamezia Terme – storia, cultura, economia, Rubbettino Editore, 2001, p.119.
  2. A. Paolucci, E. Sampietro, Cattedrali e Basiliche in Italia, G. Mondadori, 1998.
  3. R. La Scala, Il terremoto del 1638 a Nicastro, in Soricittà, aprile1994, pp. 132-135.
  4. A. Di Somma, Historico racconto de i terremoti della Calabria dall’anno 1638 fin’anno 41, Napoli, 1641, pp. 26-27, 59.
  5. N. Proto, Relazione del Restauro dell’Interno della Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, 1996.
  6. P. Francesco Russo La Diocesi di Nicastro, C.A.M. Napoli 1958.
  7. C. Gattuso, F. Villella, R. Marino Picciola, Il castello di Nicastro - il Piano Diagnostico, esempio di articolazione - IIth Convegno Internazionale AIES - Diagnosi per la Conservazione e valorizzazione del Patrimonio Culturale, Napoli, 15-16 Dicembre 2011.
  8. http://www.diocesidilameziaterme.it/CATTEDRALE-DEI-SS.-PIETRO-E-PAOLO.html
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LA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

È risaputo: la devozione del popolo napoletano per San Gennaro è talmente grande da eclissare qualsiasi altro “rapporto” che si possa avere con gli altri 51 patroni della città; San Gennaro è amato, insultato, invocato, “vissuto” quasi nel quotidiano come se fosse una persona reale sempre al proprio fianco. Ed ovviamente le vicende che riguardano i monumenti e le testimonianze artistiche legate al santo sono le più strane ed avvincenti, al confine fra realtà e leggenda. Esempio perfetto sono le vicende della costruzione della Cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo di Napoli.

La Cappella del Tesoro di San Gennaro

A seguito di guerre e pestilenze i napoletani fecero infatti un voto a San Gennaro, promettendo che se il santo avesse allontanato dalla città le eruzioni del Vesuvio, le pestilenze, i terremoti e le guerre la città lo avrebbe “ricompensato” costruendo una nuova e più bella Cappella del Tesoro all’interno del Duomo; per solennizzare questa promessa, essa fu redatta davanti ad un notaio il 13 gennaio 1527 dalla “deputazione”, una sorta di commissione creata ad hoc. Nel 1608 la costruzione della Cappella fu affidata all’architetto Francesco Grimaldi, già attivo a Napoli per altri incarichi; i problemi più grandi si ebbero però al momento della decorazione, in quanto il ciclo pittorico fu voluto affidare a pittori non napoletani, in un tentativo di accaparrarsi le migliori maestranze europee. Tale idea suscitò però le ire dei pittori napoletani ed un insieme di sabotaggi ai danni degli artisti chiamati: il cavalier d'Arpino rinunciò, Guido Reni lasciò Napoli dopo l'accoltellamento di un suo aiutante, Francesco Gessi scappò. Arrivò il Domenichino, cominciò a lavorare ma, dopo una lettera di minacce, fuggì anche lui. Tornò più tardi e completò alcune opere, ma il 6 aprile 1641 improvvisamente morì, avvelenato secondo alcuni. Altri artisti chiamati furono Giovanni Lanfranco, minacciato, e i napoletani Luca Giordano, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera, detto "Spagnoletto". Tra varie vicende, la Cappella fu completata ed inaugurata nel 1646.

Descrizione

Essa è a croce greca, in stile barocco, separata dal resto del Duomo dal cancello in bronzo dorato di Cosimo Fanzago, costruito in circa 40 anni, particolarissimo in quanto è un vero e proprio strumento musicale (se si batte con una moneta il cancello si sentono le note musicali) e da una fascia marmorea sul pavimento, che ribadisce un’altra particolarità della Cappella, ossia la sua appartenenza alla città di Napoli e non alla Curia.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21878993

Vi sono sette altari: uno maggiore (opera del Solimena) situato al centro e che racchiude al proprio interno le ampolle con il sangue del Santo, due laterali e quattro minori, posti alla base degli archi che reggono la cupola.

Di © José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39192953

Tutt’intorno vi sono diciotto sculture bronzee di Santi posti intorno alla scultura di San Gennaro sull’altare maggiore, mentre in totale, compresa sacrestia e cappella della Concezione, vi sono 54 busti reliquari in argento, raffiguranti i santi patroni della città e sempre di scuola napoletana, tra i quali spiccano le attribuzioni a Lorenzo Vaccaro, Giuseppe Sanmartino e Andrea Falcone. Il ciclo di affreschi, come detto, è opera prevalentemente del Domenichino (i pennacchi della cupola e tutta la fascia superiore della cupola), esclusa la parte centrale della cupola, opera di Giovanni Lanfranco, e la pala d'altare di destra (il San Gennaro esce illeso dalla fornace) opera del Ribera.

Di ErwinMeier - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74706408

Dall’altare di destra parte un corridoio, affrescato a trompe-l'œil, che conduce alla sacrestia della Cappella e alla cappella della Conciliazione: la sacrestia, arredata con armadi seicenteschi lignei contenenti i paramenti sacri e sormontati da dipinti su rame, presenta una decorazione candida in stucco con putti e figure che culminano in un affresco ovale di Luca Giordano.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064266

La cappella della Concezione invece presenta una decorazione a marmi e stucchi, con un altro dipinto ovale sulla volta opera del Farelli. Sull’altare maggiore vi è un’opera di Stanzione, che sostituì quella che avrebbe dovuto fare il Domenichino ma che non riuscì a portare a termine a causa della sua morte.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064267

http://www.museosangennaro.it/it/35/gli-affreschi

http://www.museosangennaro.it/it/34/la-cappella

http://www.cappellasangennaro.it/

 


Santa Maria ad Cryptas

La chiesa di Santa Maria ad Cryptas si trova a circa un chilometro dal paese di Fossa, in provincia dell'Aquila, e a qualche chilometro dall'abbazia di Santo Spirito ad Ocre, di cui fu dipendenza per un certo periodo. Essa rappresenta uno dei più begli esempi di architettura duecentesca. Le sue origini però sono più antiche e alcuni studiosi hanno sostenuto che essa nacque come un tempio romano-bizantino nel IX o nel X secolo d.C. che trova il suo elemento caratteristico nella presenza dell'ipogeo o cripta. Su questa struttura, circa quattro secoli dopo, venne eretto l'edificio religioso secondo lo stile gotico-cistercense, ad opera di maestranze benedettine.
La chiesa è dotata di due facciate: quella principale sul lato ovest e quella posteriore sul lato opposto. La facciata, sul lato ovest, è molto semplice con struttura a capanna; il prolungamento sul lato sinistro è l'effetto dell'aggiunta di rinforzo. Nel complesso molto lineare, il prospetto si caratterizza e si arricchisce grazie al portale a sesto acuto al di sopra del quale è una grande finestra rettangolare. Il portale è costituito da due pilastri a fascio rivestiti sui lati da colonnine alte e sottili a forma cilindrica poggianti su basi e culminanti in capitelli decorati a piccolo rilievo con rosoncini, fiori e palme. Due leoni sono adagiati sui capitelli (quello di destra manca) ed un terzo è sul culmine dell'archivolto. Nella lunetta doveva essere in origine un affresco ormai corroso dal tempo. La finestra che sormonta il portale risulta sproporzionata e stonata rispetto alla facciata. Certamente non si tratta dell'apertura originale che è stata sostituita in secoli più recenti.
La facciata posteriore ha un frontone triangolare e due aperture, una lunga e stretta a doppia strombatura in basso, ed una piccola quadrata in alto. I lati della chiesa presentano ciascuno due finestre a doppia strombatura, lunghe e strette, che mantengono l'originario stile borgognone. 
La chiesa è ad una sola navata di forma rettangolare con il presbiterio quadrato. La navata termina con un grande arco a sesto acuto sorretto da pilastri che immette nel presbiterio. Rialzata su tre gradini, di forma quadrata, la zona absidale è coperta da una volta a crociera divisa da quattro costoloni poggianti su altrettante colonnine cilindriche poste agli angoli dell'abside.
Le pareti laterali sono divise da lesene in tre campate; in quella di sinistra una delle lesene è sostituita da una semicolonna classica poggiante su base attica.
La copertura è in capriate in legno ma in origine è probabile che fosse in muratura. A testimoniarlo stanno gli accenni di archi e i pilastri di sostegno per gli archi che fanno supporre l'avvio di una volta a botte sestacuta simile a quella di San Pellegrino a Bominaco.
Al termine della navata, proprio sotto l'arco trionfale, si apre una gradinata di grossi mattoni che porta alla cripta sottostante; di piccole dimensioni (3x3,60 m) essa contiene un altare costituito da una mensa di pietra poggiata su un troncone di colonna ed un frammento di affresco raffigurante la Crocifissione. Questo spazio è tipico dell'architettura romanico-bizantina a cui la chiesa si ricollega per le sue origini. 
L'interno è completamente affrescato e queste pitture costituiscono il massimo pregio della costruzione.
Il grande ciclo di affreschi della chiesa di Santa Maria ad Cryptas presso Fossa appartiene al grande filone di cicli pittorici del Duecento abruzzese che comprende quello dell'oratorio di San Pellegrino a Bominaco, quello di San Tommaso a Caramanico e parte dei dipinti di Santa Maria di Ronzano. Esso è datato agli ultimi anni del Duecento e probabilmente tra il 1264 e il 1283. Gli affreschi ricoprono gran parte della chiesa dall'arco trionfale, al presbiterio, all'abside, alle pareti laterali ed infine alla controfacciata. L'intero ciclo presenta una varietà di temi più ampia rispetto a quello di Bominaco e si basa sull'accostamento delle scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. La vastità dell'affresco e la presenza di diverse mani nelle pitture fanno pensare ad un cantiere di lavori sotto un univo direttore. Il carattere unitario del ciclo scaturisce dalla direzione unica del direttore ma anche dalle affinità, sul piano della formazione e delle scelte, che legano i diversi pittori che vi lavorarono. L'intero ciclo risente della cultura bizantina soprattutto nelle scelte iconografiche. Un elemento innovativo nella resa iconografica è il carattere realistico con cui vengono ritratte le figure, in rottura con l'atmosfera drammatica e favolistica di altre narrazioni. Il realismo del ciclo di Fossa diventa un elemento di caratterizzazione e distinzione rispetto a quello di Bominaco.
La chiesa al momento non è visitabile per lavori in corso post sisma 2009.

Sitografia:

Regione Abruzzo/cultura

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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