PALAZZO MONDO A CAPODRISE, CASERTA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

A Capodrise, provincia di Caserta, sorge un palazzo di proprietà privata, il cosiddetto Palazzo Mondo, casa-museo privata del pittore Domenico Mondo. È uno di quegli angoli di Campania e di Meridione totalmente sconosciuti, ma che nulla ha da invidiare ad altre più conosciute realtà. Palazzo Mondo è gestito dalla Associazione GIA.D.A. (Giardini e Dimore dell'Armonia), un’organizzazione culturale senza scopo di lucro costituita nel 1999 per volontà dell’Architetto Nicola Tartaglione.

Palazzo Mondo e il suo proprietario

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Domenico Mondo, che a Capodrise nacque nel 1723, fu un pittore italiano allievo del Solimena e un prolifico disegnatore, attivo fino al 1800; fu direttore dell’Accademia Napoletana del Disegno su incarico di Fernando IV, ed uno dei migliori esponenti del Barocco napoletano, nonchè poeta dilettante ma molto apprezzato. Tra le altre cose, lavorò ad alcuni cicli di affreschi della Reggia di Caserta, ed affrescò questa dimora in uno stile particolarissimo, ove le suggestioni e le invenzioni del Barocco sono mitigate dal nascente gusto neoclassico.

Questa commistione di stili è evidente già dalla facciata, dove il rigore neoclassico si alterna all’esuberanza barocca della decorazione delle finestre e dei balconi. Particolare è l’interno, in quanto le stanza visitabili sono il frutto di un attento restauro conservativo affidato dagli attuali proprietari all’architetto Nicola Tartaglione. Gli ambienti restaurati sono la camera da pranzo, un salotto, uno studio con pareti dipinte con bordi “all’etrusca”, una sala della preghiera con una statua lignea della Madonna Pellegrina, il salotto d’angolo e una camera da letto rosso pompeiano, oggi arredata con letto a baldacchino.

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Il ciclo pittorico sulle pareti è frutto del lavoro congiunto di Domenico Mondo e dei fratelli Magri: i Magri erano “quadraturisti”, ovvero artisti specializzati nel comporre finte architetture e prospettive, in cui le figure dipinte dal Mondo si inserivano perfettamente. Tutto il piano visitabile è decorato da allegorie, rappresentazioni delle Virtù, trionfi di fiori e frutta.

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Particolare è il cortile interno che ospita un giardino “all’inglese”, ove elementi naturali (alberi, fiori etc) si alternano ad elementi artificiali (pozzi, fontane). Questo giardino ha un particolare curioso: al suo interno si coltiva una piccola camelia in vaso, fiore preferito di Lady Hamilton, moglie di Lord William Hamilton, ambasciatore inglese, che tradì diventando l’amante dell’ammiraglio Nelson; per suo volere, nel parco della Reggia di Caserta nel 1786 fu piantata una camelia, e da quel momento in tutte le dimore che sorgevano nei pressi della Reggia fu piantata una camelia, non escluso il piccolo giardino di Palazzo Mondo. Il restauro attuale, curato dall'architetto Tartaglione, ha trasformato questo cortile interno in una sorta di angolo pittoresco, a metà tra interno e esterno, dove le piante compongono una sorta di scenografia naturale tra gli elementi architettonici come le balconate.

Sitografia

 


L'ABBAZIA BENEDETTINA DI LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme, o abbazia di Santa Maria, costruita a Sant’Eufemia Vetere di Lamezia Terme, fu fondata nella seconda metà dell’anno 1000 da Roberto il Guiscardo sui resti di un monastero bizantino intitolato a Hagìa Euphémia di Nèokastronprima testimonianza di una fondazione religiosa degli Altavilla in Calabria.

La sua realizzazione rientrava nel programma di latinizzazione del territorio, un chiaro rimando al potere religioso della Santa Sede che, con il rito latino, esercitava un forte controllo economico e politico sulla zona. La costruzione fu affidata all’abate Robert de Grandmesnil, così come tramanda il diploma di fondazione che Roberto il Guiscardo concesse, acquisendone anche il controllo.

Colpita da un violento terremoto nel 1638, i ruderi attualmente visibili hanno comunque permesso di cogliere i dettagli architettonici che hanno segnato l’edificio. La chiesa è una costruzione che rispecchia i tipici schemi architettonici normanni in voga nell’Italia Meridionale; ad oggi sono ancora visibili il prospetto principale con i resti delle due torri campanarie, le tre navate, con la centrale di maggiori dimensioni separate da una serie di pilastri e quelle laterali illuminate da una serie di finestre ad arco. Inoltre, è visibile la zona presbiteriale accessibile grazie ad una scalinata ad est, definita dai transetti e dalle tre absidi, quella centrale di maggiori dimensioni rispetto le altre due.

https://lameziaterme.italiani.it/scopricitta/giornate-fai-riapre-l-abbazia-benedettina-di-sant-eufemia/

L'Abbazia benedettina di Lamezia Terme

Il presbiterio è stato scavato successivamente, riportando alla luce blocchi marmorei policromi che portavano all’altare posto, come di norma, nell’abside maggiore, dove ai lati erano presenti delle colonne di ripiego appoggiate su elementi architettonici di età romana. In questa zona è stata portata alla luce una pavimentazione realizzata in tessere marmoree policrome, opus sectile, ricavate da marmi antichi, il cui utilizzo è tipico della tradizione normanna e ha lo scopo di sottolineare l’imponenza del potere al pari dell’Impero Romano.

La chiesa era a pianta basilicale, quindi, a tre navate, triabsidata con coro gradonato e transetto sporgente. Nel versane ovest, la presenza di mura spesse 3.30 mt, fa presumere l’esistenza di matronei accessibili attraverso scale o intercapedini; le supposizioni sono dovute al fatto che i resti sono riconducibili solo alla parte superiore della chiesa, infine la facciata sud è scandita da una serie di contrafforti e monofore a tutto sesto.

Per quanto riguarda le torri, è possibile riscontrare i marcatori riconducibili all’architettura normanna, tra cui i cantonali in granito squadrati e le feritoie in pietra. Anche il monastero riprende il motivo delle finestre presenti nella chiesa, la cui muratura è composta da ciottoli di fiume di medie e grandi dimensioni legate da malta la cui composizione non è riconducibile al periodo bizantino, ma bensì al periodo di costruzione sotto il Guiscardo.

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme è un monumento a cielo aperto, immerso tra le terre colmi di ulivi e poco distante dal sito archeologico di Terina, una colonia greca insediatasi nel VI secolo e da cui provengono i materiali di riuso utilizzati nella costruzione dell’edificio. L’intera zona ospita nel periodo estivo spettacoli teatrali calati in una suggestiva cornice storica.

Bibliografia

  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • R. Spadea, Luoghi e materiali al Museo Archeologico Lametino – Guida al percorso, p. 21 - 27 - 31, Nuova Lito, Carpenendolo (BS), Edizione ET, 2011.
  • G. De Sensi Sestito, Lamezia Terme tra arte e storia – Guida ai monumenti, p. 8 - 20, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme, 2008.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381- 406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino, 2005.
  • E. Pontieri, L’Abbazia benedettina di Santa Eufemia in Calabria e l’Abate Roberto De Grantimesnil - i Normanni nell’Italia Meridionale, Archivio storico per la Sicilia Orientale, 1964.
  • S. Mancuso, G. De Sensi Sestito, I segni della storia - Lamezia terme, La Modernissima, 2008.
  • I. Ingrassia, F. Lombardo, L’abbazia di S. Maria di S. Vetere, pp. 66 – 67, Daidalos, 2002.

 


LA CHIESA DI SAN TOMMASO A CAVEDAGO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la chiesa di San Tommaso a Cavedago tra i monti del Gruppo Brenta e la valle di Non

Alle soglie del paese di Cavedago, sulla statale che sale dal bivio del ponte Rocchetta all'altipiano della Paganella, su un panoramico rilievo aperto verso la valle di Non e coronato dai monti del Gruppo Brenta si innalza la piccola chiesa cimiteriale di San Tommaso. Questa chiesa è stata oggetto di un importante campagna di restauro e di un inedito lavoro di ricerca storico - artistica condotto per una tesi di laurea specialistica.

Le recenti ricerche hanno confermato che questa piccola chiesa venne fondata su una strada di origine romana, tra il XIII e il XIV secolo, ad uso di viandanti e pellegrini che percorrevano questo antico percorso. La chiesa venne poi ampliata tra il 1546 e il 1547 in seguito all’accrescimento della popolazione del paese di Cavedago che si era sviluppato nei dintorni della chiesetta in età basso medioevale. La chiesa venne ampliata nelle forme in cui appare oggi, cioè in stile "gotico clesiano": stile di transizione dal gotico al rinascimento che si diffuse in Trentino durante l'episcopato del principe vescovo di Trento, Bernardo Clesio (1485-1539).La chiesa è infatti un piccolo edificio che presenta elementi architettonici derivati dallo stile gotico e dallo stile rinascimentale.

La chiesa di San Tommaso a Cavedago è caratterizzata da una struttura molto semplice, ma esemplificativa dello stile architettonico che si diffuse nelle chiesette alpine trentine tra il XV e il XVII secolo. La chiesa è caratterizzata da un ambiente ad unica navata scandita da campate coperte da volte costolonate in stile gotico, abside poligonale e presbiterio leggermente rialzato, campanile costituito da un tetto a piramide dalle forme slanciate tipicamente gotiche ed è circondata sul lato sud-est dal cimitero. La facciata della chiesa è articolata da una tettoia sorretta da pilastri in pietra e da un portale rinascimentale in pietra bianca finemente lavorato che porta incisa sull'architrave la data 1546.

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All’esterno, anticamente privo dell’attuale tettoia sopra l’ingresso, corrono lungo la facciata una serie di riquadri affrescati, che raffigurano, da sinistra a destra: San Michele arcangelo provvisto di bilancia per pesare le anime e di una lancia con la quale probabilmente trafigge la figura del diavolo ormai scomparsa. San Michele è raffigurato in coppia con un santo - vescovo benedicente, identificato con San Vigilio, santo patrono della chiesa trentina. Al centro sono invece affrescati una coppia di Santi, di cui sono rimaste solo parte della testa e del collo.

Infine a destra, spicca un grande riquadro contenente un gigantesco San Cristoforo, raffigurato con il piccolo Gesù sulla spalla e il bastone rifiorito in mano; secondo la tradizione devozionale, preservava da morte improvvisa chi si fosse fermato a guardarlo e a recitare una preghiera in un suo onore.

All’interno della chiesa, sulla parete meridionale, sono raffigurate le immagini di San Nicola da Bari e di San Vigilo, invece sulla parete settentrionale è dipinta una Crocifissione tra Maria, San Giovanni evangelista, e le figure di una santa, forse la Maddalena. Il Cristo è rappresentato con corpo piuttosto tozzo e con i piedi fissati alla croce con doppio chiodo, come nella tradizione romanica; invece le figure vicine sono ritratte nell’atteggiamento convenzionale per esprimere il dolore, con il volto lievemente reclinato sulla mano.

Nella fascia al di sotto della crocifissione sono presenti tre altri riquadri molto frammentari: quello centrale lascia appena intravedere una figura di orante; in quello di destra si scorge una mezza figura in posizione frontale danneggiata dall’antico collocamento dell’altare laterale; e in quello a sinistra, in migliori condizioni conservative, eseguito contemporaneamente alla crocifissione, è raffigurata una singolare figura di Fabbro con copricapo a punta, in procinto di modellare sull’incudine un ferro di cavallo che, ancora caldo, tiene in mano con una lunga pinza.

La campagna di restauro e le ricerche hanno stabilito che gli affreschi che oggi decorano la piccola chiesetta risalgono al XIV secolo e sono stati realizzati in tre fasi pittoriche differenti e da diverse botteghe, provenienti dal veronese e dal bergamasco. Il San Vigilio e il Santo vescovo Nicola, affrescati in coppia sulla parete interna della navata di San Tommaso sono stati attribuiti alla corrente pittorica veronese dei primi decenni del trecento che applica modi figurativi ritardatari; mentre i santi rappresentati sulla facciata della chiesa di San Tommaso sono stati attribuiti a personalità di impronta giottesca formatesi nell'ambiente veronese.

Quest'ultima inedita attribuzione è stata determinata dall'elevata esecuzione pittorica degli affreschi della facciata di San Tommaso, che ricordagli affreschi dipinti dai seguaci del Giotto padovano nelle chiese veronesi di San Fermo e di San Zeno. Infine il gigantesco San Cristoforo raffigurato sulla facciata della chiesa di Cavedago è opera del cosiddetto Maestro di Sommacampagna, pittore itinerante di origine lombarda, attivo negli anni centrali del Trecento in valle di Non, ma non solo.

Conclude la decorazione della piccola e suggestiva chiesetta alpina, una seicentesca pala d'altare in legno dorato e policromato opera dello scultore trentino Cristoforo Bezzi da Cusiano (val di Sole) che porta al centro il recente bassorilievo con l'Incredulità di San Tommaso, opera dello scultore Egidio Petri di Segonzano.

Dietro l'altare è infine collocata un'iscrizione con la data di ampliamento della chiesa e del maestro muratore che ha eseguito i lavori: "1547 ROCHO MURARO DE LAINO".I recenti studi hanno posto l'attenzione su questo maestro muratore, Rocco de Redis, originario di Laino nella valle d'Intelvi (Como), ma residente a Tassullo, in valle di Non. Secondo quanto emerso costui ha contribuito a diffondere negli anni centrali del Cinquecento il cosiddetto stile architettonico "gotico clesiano", attraverso l'ampliamento di molte chiese della val di Non e della valle di Sole.

La recente ricerca condotta per la piccola chiesetta di San Tommaso a Cavedago ha quindi posto l'attenzione su un edificio religioso modesto nelle sue forme, ma importante nella sua storia, poiché è esemplificativa delle vicende artistiche e architettoniche che hanno vissutole piccole chiesette delle valli trentine negli anni tra il XIV e il XVII secolo.

Bibliografia di riferimento:

  • GIRARDI Silvio, “In contrada Cavedagum…”. Dai masi alla comunità, Trento, Artigianelli, 2000
  • MICHELI Pietro, Sulle sponde dello Sporeggio, Trento, Argentarium, 1977
  • REICH Desiderio, I castelli di Sporo e Belforte, Trento, Scotoni e Vitti, 1901
  • VIOLA Enrico, La chiesetta di San Tomaso a Cavedago: un atto di rispetto, 2002
  • ZENI ALESSIA, Il magister Rocco de Redis da Laino d’Intelvi nei documenti dell’Archivio di Stato di Trento, in “Studi Trentini. Arte”, 94, 2015, 1, pp. 87-96
  • ZENI Alessia, La chiesa di San Tommaso a Cavedago tra Storia, Arte e Architettura, Trento, Nuove Arti Grafiche, 2015

 


PALAZZO ZEVALLOS STIGLIANO A NAPOLI

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Palazzo Zevallos, o Palazzo Zevallos Stigliano, ubicato sulla centralissima via Toledo a Napoli, è uno degli edifici più particolari della città, oggi sede di Banca Intesa, e dalle testimonianze seicentesche si evince che dovesse essere molto diverso, e quindi facilmente riconoscibile, dagli altri palazzi della zona in quanto più alto di tutti.

Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Palazzo Colonna di Stigliano, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16773353

La sua costruzione, ed anche il suo nome, si devono al ricco mercante portoghese Giovanni Zevallos, descritto come un perfetto "esempio di egoismo e rapina" che grazie alla sua abilità riuscì in breve tempo ad accumulare un patrimonio immenso per l'epoca: per fame di grandezza nel 1635 comprò questo palazzo, già esistente, e man mano, con un’opera di acquisizioni durata quattro anni, si assicurò la proprietà degli altri piccoli edifici della zona. La cosa straordinaria è che Giovanni volle competere niente di meno che con Palazzo Reale, affidando quindi l’accorpamento, la “ristrutturazione” e l’ammodernamento dei palazzi ai canoni barocchi a Cosimo Fanzago, anche se ricerche più recenti tendono a suggerire il nome di Bartolomeo Picchiatti, gran Ingegnere di Corte.

Palazzo Zevallos: descrizione

A marcare la proprietà del palazzo, all’ingresso viene posto lo stemma dei Zevallos, che però durante i tumulti del 1647, che danneggiano l’edificio, va perduto. Nel 1659 la proprietà, a causa della cattiva gestione della moglie e del figlio di Giovanni Zevallos, passa ai Vandeneynden, ed attraverso il matrimonio di una Vandeneynden con un Colonna di Stigliano, a questi ultimi, che ne arricchiscono ulteriormente il prestigio con l’acquisizione di numerose opere d’arte. È di questo periodo la costruzione del portale in marmo bianco e piperno scuro, unica caratteristica mantenutasi inalterata fino ai giorni nostri.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22119541

Una testimonianze dell’epoca così descrive il palazzo:

“ll pianterreno si apriva con un grande atrio voltato, con pilastri e archi in piperno, dal quale era possibile raggiungere vari punti dell’edificio: a destra vi era una scala secondaria che dava accesso alle cantine e al piano ammezzato; a sinistra la scala principale che permetteva di raggiungere sia l’ammezzato che i due piani nobili; al centro invece si apriva il grande cortile attorno al quale erano disposti vari ambienti di servizio, tra cui una grande scuderia. Il primo piano nobile era composto da varie stanze tra cui una Galleria che dava sul cortile grande e un’altra – più piccola - che affacciava invece sul cortile secondario.”

Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48743228

La proprietà viene mantenuta fino al 1831, anno in cui la principessa di Stigliano, per far fronte a dei debiti, smembra il palazzo, riservandosi il secondo piano e vendendo il primo al banchiere Forquet. Tra il 1898 e il 1920 la Banca Commerciale Italiana acquista tutto il palazzo sia da Forquet che dagli altri proprietari, dando il via all’ultima trasformazione del Palazzo, completamente adeguato al gusto Liberty.

Le modifiche apportate da Luigi Platania riguardano il cortile fanzaghiano, che viene trasformato e adibito a salone per il pubblico; le pareti, che vengono tutte rivestite in marmo; il piano ammezzato, aperto e trasformato in balconate di gusto Liberty, e il grande spazio vuoto coperto dal lucernario vetrato decorato secondo il gusto degli anni; due grandi vetrate policrome sono aggiunte a schermare le arcate tra salone e vestibolo. Viene infine aggiunto il nuovo scalone d'onore monumentale.

Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39976809

BIBLIOGRAFIA

A. Cilento, Bestiario napoletano, Laterza editore 2015


VILLA ZERBI A REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Reggio Calabria è il centro urbano più popoloso della Calabria, è situato all’estremità meridionale della penisola tra le pendici dell’Aspromonte e la sponda orientale dello Stretto di Messina, vantando una notevole varietà ambientale, ma famoso per il suo affaccio sulla Sicilia, tanto che il suo lungomare è stato definito il chilometro più bello d’Italia.

In queste terre, secondo la tradizione, i coloni calcidesi fondarono Rhegion verso la metà dell’VIII secolo a. C., iniziandola ad una lunga serie di invasioni e dominazioni da parte di diverse popolazioni. Oltre alle ricche testimonianze archeologiche che insistono sul territorio, Reggio Calabria è stato lo scenario di continue ricostruzioni dovute all’elevata sismicità della zona, culminante nel terremoto dei primi de ‘900 che ha portato alla riedificazione e alla rielaborazione di diversi edifici importanti, tra cui un imponente palazzotto nobiliare che si affaccia proprio sullo stretto conosciuto col nome di Villa Saverio Genoese Zerbi.

Villa Zerbi

Nota soprattutto col nome di Villa Zerbi, si tratta di un imponente edificio storico che sorge presso il lungomare Falcomatà, nell'area in cui, prima del 1860, era presente un’antica villa barocca appartenente alla famiglia nobile dei Genoese. Distrutta dal terremoto del 1908, la villa fu riedificata con un complesso progetto redatto dagli ingegneri Zerbi, Pertini e Marzats, nel 1915.

Villa Zerbi, prospetto anteriore

Costruito con caratteristiche completamente differenti rispetto al precedente, il nuovo edificio risponde a scelte architettoniche, stilistiche e strutturali diverse rispetto alle altre costruzioni presenti lungo il viale, in esso risaltano soprattutto i decori neobarocchi e le finestre bifore che adornano i prospetti, dal sapore arabeggiante; anche la scelta cromatica delle pareti esterne spezza con i colori dei palazzi adiacenti. Si tratta di un rosso mattone che primeggia e dei toni avana del travertino che per lo più vanno a costituire i dettagli decorativi, le spigolatura, le delimitazioni dei livelli e la recinzione che contiene il giardino dell’edificio.

Sviluppata su un corpo centrale di forma trapezoidale, la villa si articola su due livelli ed è adornata da un vasto giardino adiacente che culmina nelle dependance ricavate dalle estremità della recinzione esterna l’abitazione.

Gli ambienti interni seguono un asse ruotato di sette gradi, creando una eclettica planimetria dalla forma irregolare a cuneo, che si aggiunge ad un prospetto elaborato, dal quale, a causa della sua complessità, è stato necessario puntare sull’uso di elementi prefabbricati nella costruzione a decorazione della facciata.

I prospetti si presentano con un’articolazione che permette di riconoscere varie tipologie costruttive quali loggiati e elementi a torre, ecc.

Villa Zerbi, dettaglio decorativo con vista sulla loggetta

Lo stile architettonico si rifà ai modelli veneziani del secolo XIV; le decorazioni architettoniche si snodano tra archi in stile gotico, colonne che sorreggono gli archi dei loggiati, colonnine impiegate per le balaustre dei balconi e merli che dominano il terrazzo e risaltano per la tinta cromatica dell’intonaco, di un rosso bruno acceso. La villa è strutturalmente realizzata in cemento armato con murature collaboranti, mentre l’esterno si presenta in malta pigmentata con graniglie di varia pezzatura.

La posizione in cui è posto l’edificio lo espone allo smog cittadino e all’aerosol marino, con conseguente danneggiamento della struttura. In particolare sono soprattutto le decorazioni architettoniche ad essere maggiormente soggette all’azione delle polveri a causa della tipologia di superfici tendenti all’assorbimento e al deposito superficiale e ad una maggiore superficie specifica esposta al rischio.

La villa si presta bene ad essere la location ideale per mostre temporanee ed eventi culturali, tanto da essere stata già usata, nel corso degli anni, come la sede di un polo culturale che ha visto numerose esposizioni artistiche all’intero delle sue sale, come nel caso delle mostre della Biennale di Venezia nel Sud Italia.

Villa Zerbi, veduta dal lungo mare Falcomatà

Bibliografia e sitografia

  • GattusoC., GattusoP., VillellaF., Villa Zerbi. The application of a critical and diagnostic process for the identification of diseases, Atti di Convegno IV Conference Diagnosis, Conservation and Valorization of Cultural Heritage, Napoli, 12/13 Dicembre 2013.
  • Lo Curzio M., Nicolini R., Cali P., Ginex G., Tripodi D., Villa Genoese Zerbi 1915-1925 - Conoscenza, didattica e restauro nel progetto di architettura, Comune Reggio Calabria, Università Mediterranea RC, Villa Genoese Zerbi per l’arte, 2005.
  • Serafini P., Arte contemporanea nei contesti architettonici e urbanistici del Sud Italia, Economia della cultura, pp. 283-292, 2009.
  • Zevi L., Manuale del restauro architettonico, Mancoswed., Roma, 2001.
  • http://www.reggiocal.it
  • http://turismo.reggiocal.it/HomePage.aspx

IL CASTELLO NORMANNO-SVEVO DI NICASTRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

I resti del castello normanno – svevo si stagliano nel quartiere di Nicastro, sito in Lamezia Terme, provincia di Catanzaro, Calabria.
Considerando che con manufatto artistico si intende tutto ciò che di bello, nelle sue più svariate accezioni, può essere prodotto per mano dell’uomo, credo che la scelta di ricadere su una struttura architettonica, che in sé racchiude secoli di storia, sia calzante. Un edificio custodisce in sé l’armonia delle sue parti, lo studio matematico delle proporzioni, quello ingegneristico della quotidianità a cui un monumento può andare incontro e infine rispetta il gusto estetico di un epoca, di una famiglia che ne commissiona la realizzazione e il potere che quest’ultima vuole trasmettere attraverso di essa.

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Il castello normanno-svevo di Nicastro: descrizione

In un breve accenno di stampo geografico, possiamo dire che il quartiere di Nicastro – dal latino neo, nuovo e castrum, accampamento – è uno dei tre comuni che uniti nel 1968 ad oggi costituiscono la città di Lamezia Terme. Nel fulcro storico del rione San Teodoro di Nicastro, arroccato tra i fiumi Canna e Niola, sull’estremità di uno sperone roccioso di costituzione scistosa, si colloca il castello risalente all’XI-XII secolo dopo Cristo sui resti di quello che doveva essere un precedente edificato in materiale deperibile, opera del popolo normanno.

È sotto Roberto il Guiscardo che si dà il via alla costruzione dell’edificio in forma stabile e concreta, secondo un processo di latinizzazione che prevedeva la conversione delle terre calabre da lui dominate. In seguito, si assiste ad un susseguirsi di integrazioni e modifiche ad opera di dinastie postume che adattano la fortezza al gusto personale e alle esigenze strategiche del tempo.
Primi fra tutti gli Svevi; Federico II gli conferisce l’aspetto attuale, inserendolo nell’elenco dei castra exempta direttamente controllati dalla Corona. Compare il mastio esagonale, accompagnato dalla cinta muraria e da tre torri, una circolare e due sub-circolari sul prospetto anteriore; si aggiungono ampliamenti e zone sviluppate su più livelli a carattere residenziale.

La cappella, invece, è di probabile attribuzione Angioina, così come alcuni interventi di manutenzione e restauro delle mura e dell’ingresso, come dimostrano i laterizi presenti ed introdotti prevalentemente sotto Carlo I.

L’ultima evoluzione stilistica e strategica apportata al monumento si deve agli Aragonesi, che costruiscono i bastioni e introducono nel sistema difensivo al palazzo una serie di feritoie progettate secondo il sistema del fuoco incrociato.
Con il terremoto del 1638 e poi quello del 1783, l’edificio è vittima dell’abbandono e dell’uso del materiale costitutivo per la ricostruzione del borgo abitativo sottostante.

Ad oggi il complesso si sviluppa per una lunghezza di circa 100 mt e una larghezza di 60 mt, restano pressoché intatti il maschio e l’accesso principale che conduce alle quattro torri di realizzazione stilistica e architettonica differenti fra di loro: una delle due torri prossime all’entrata è caratterizzata da una struttura abilmente concepita composta da massi di notevoli dimensioni nella parte inferiore della muratura e di dimensioni ridotte in relazione all’altezza a cui sono soggette, permettendo la formazione di una struttura snella e alleggerita nella parte superiore del manufatto; la seconda torre, invece, è costituita da massi di dimensioni ridotte e laterizio. Delle restanti due torri poste anteriormente rispetto al prospetto principale risalta soprattutto la prima di forma circolare, ma che nasconde una pianta interna poligonale; mentre l’ultima presenta una base a scarpa lanceolata e resti di intonaco nella parte inferiore; entrambe risultano essere edificate con pillori e pietrame erratico di medio-piccole dimensioni e ritocchi postumi in laterizio.

Conclusione
Ridotto a poco più di un rudere, il castello di Nicastro, si trova sotto la tutela della Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria ed è stato oggetto di una serie di campagne di scavo che hanno portato alla luce diverse sezioni dell’edificio ancora non indagate, oltre a reperti di varia natura, quali ceramiche e vasellame di uso quotidiano.
Usato prevalentemente per la realizzazione di spettacoli all’aperto durante le festività, molti degli abitanti del posto ignorano l’importanza di un così imponente complesso a dominio della città.
Attualmente il castello poggia ancora sullo sperone roccioso su cui è stato edificato in passato, è possibile intravederlo dal centro della città a dimostrazione della sua resistenza e della sua volontà di essere testimonianza di un passato glorioso del territorio e di un sapere del costruire che sfida il tempo e le intemperie.

Bibliografia e sitografia

  • C. Gattuso, F. Villella, R. Marino Picciola, Il castello di Nicastro –il piano diagnostico. Esempio di articolazione, Atti del Convegno Diagnosis of Cultural Heritage, Napoli, 15-16 Dicembre 2011.
  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Bonacci, Scritti storici lametini, p. 41 – 60, La Modernissima, Lamezia Terme, 1993.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • M. Mafrici, Il Castello di Nicastro – in una Calabria sconosciuta, Anno I Aprile/Giugno, n°2, Reggio Calabria, p. 90 – 94, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme,1978.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381 -406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino,2005.
  • http://www.comune.lamezia-terme.cz.it
  • http://www.lameziastorica.it