SEGUENDO GIAMBOLOGNA AL BARGELLO

Tra i grandi artisti che popolano con le loro sculture gli spazi espositivi del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, il fiammingo Jean de Boulogne, detto Giambologna (1529-1608), spicca come uno dei principali capisaldi del maturo Cinquecento toscano.

Dopo un primo soggiorno a Roma, la svolta decisiva per la carriera di Giambolgna ebbe inizio con il suo trasferimento a Firenze nel 1552, quando entrò sotto la protezione del mercante e intellettuale, Bernardo Vecchietti, che divenne anche suo mecenate: l’amicizia con il nobile fiorentino fu decisiva per introdurre l’artista alla corte medicea che vide nello stile virtuosistico delle sue opere la chiave di rappresentazione ideale per la celebrazione della casata.

È proprio al Bargello che è confluita una collezione considerevole di sculture in marmo e bronzo realizzate da Giambologna e bottega per la committenza medicea.

Iniziando dal cortile di quello era anticamente il Palazzo del Podestà di Firenze, si trova il grandioso Oceano (1570 circa), signore delle acque, uno dei personaggi mitici più raffigurati del XVI secolo, solitamente al centro di magnifiche fontane da giardino.

Anche l’opera di Giambologna fu infatti realizzata per la fontana dell’Isolotto di Boboli, detta appunto dell’Oceano, dove oggi per motivi conservativi è stata trasferita al Bargello e sostituita da una copia.

Il corpo della divinità, segnato da una poderosa muscolatura, restituisce un’impressione di grandiosa forza in potenza, congiunta all’intensa espressione dello sguardo catturato altrove. È invece ancora conservato a Boboli il piedistallo originale della statua, dove sono rappresentate le allegorie dei fiumi Nilo, Gange ed Eufrate, metaforicamente interpretate come le tre età dell’uomo e ispirate agli ignudi michelangioleschi, a cui si intervallano alcuni rilievi a tema marino raffiguranti la Nascita di Venere, il Trionfo di Nettuno e il Ratto d’Europa.

Procedendo sulle tracce del Giambologna al Bargello, nella prima sala al piano terra dell’edificio, fra una selva di gambe e braccia articolate in equilibristiche pose, troviamo il gruppo marmoreo raffigurante Firenze trionfante su Pisa.

Commissionato allo scultore nel 1565 in occasione del matrimonio tra Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria, fu immaginato per fare da pendant alla statua michelangiolesca della Vittoria nel salone dei Cinquecento. Al tempo della realizzazione di quest’opera era già attivo insieme al maestro, uno dei suoi allievi più promettenti, Pierre de Francqueville o Pietro Francavilla (1548-1615 c.), qui in veste di assistente.

Si trova in questo’operala cifra stilistica di Giambologna nel tipico movimento “serpentinato” dell’allegoria femminile di Firenze, nuda e sinuosa, nell’atto di soggiogare Pisa, rappresentata invece come un uomo barbuto in catene, sotto cui giace a sua volta una volpe, simbolo di astuzia e inganno per eccellenza.

Nelle caratteristiche fisiche del corpo pingue della donna e nel movimento tortile del bacino si ritrovano i modelli celebri della Venere al bagno reinterpretati dalla classicità in chiave manieristica dallo stesso artista: un esempio su tutti si conserva nella fontana della Grotta Grande di Boboli detta anche del Buontalenti (1531-1608), dove nella terza stanza sopra la vasca si erge il nudo armonioso della dea.

Anche nell’impianto strutturale l’opera ripropone lo schema dinamico-spiraliforme che negli stessi anni sarà portato al massimo del virtuosismo tecnico nel Ratto della Sabina, gruppo scultoreo realizzato nel 1582 e scelto da Francesco I per dimorare nella Loggia della Signoria: qui le tre figure, tratte da un unico blocco in marmo, si alzano in maniera ascensionale ruotando su loro stesse come in un vortice, dove ogni punto di osservazione si presta a uno scorcio suggestivo della scena.

Oltre alla lavorazione del marmo Giambologna fu anche un bronzista, sia di grandiose sculture che di bronzetti, oggetti preziosissimi di piccolo formato e da collezione che si ispiravano alla tradizione classica: una raccolta di questi è conservata anche al Bargello, dove si riscontrano principalmente soggetti mitici “all’antica”, figure femminili e di genere bucolico.

Poco distante dalla Firenze trionfante su Pisa, si conserva il Bacco ebbro, uno dei primi bronzi monumentali realizzati dallo scultore fiammingo per il nobile Lattanzio Cortesi, in seguito utilizzato come fontana nella nicchia alla base della Torre dei Rossi Cerchi, vicino a Ponte Vecchio, in borgo San Iacopo, dove oggi si trova una copia.

Bacco, notoriamente famoso per essere la divinità dell’ebbrezza e dell’estasi, è raffigurato in un momento di festosità, mentre incede con passo tentennante provocato dagli effetti inebrianti del vino,di cui giocosamente si compiace mostrando la coppetta vuota.

La figura elastica e longilinea del dio deriva chiaramente dal Perseo di Benvenuto Cellini (1554), con cui Giambologna si confronta abilmente nella resa perfetta dei dettagli plastici-anatomici, così come nella lavorazione del bronzo minuziosamente cesellata.

A fianco del Baccosi libra quasi come sospeso il Mercurio volante.

E’ l’opera forse più famosa e rappresentativa del repertorio artistico giambolognesco. Il corpo snello e atletico del messaggero degli dei è colto in equilibro su uno sbuffo di vento soffiato da Zefiro, l’attimo prima di spiccare il volo: la scultura divenne un vero e proprio archetipo da cui trarre copie e reinterpretazioni, riscuotendo un enorme successo anche nelle epoche successive. La commissione avvenne per Villa Medici a Roma, la residenza del cardinale Ferdinando de Medici, come ornamento della fontana all’ingresso del giardino.

Leggera e lieve è la sensazione che permea quest’opera dove la divinità si eleva con graziosa destrezza rimanendo in equilibrio su una gamba mentre tutto il corpo è già proteso verso l’alto, indicato dal gesto della mano e lo sguardo alzato.

Caratterizza Mercurio,in qualità di messo dell’Olimpo, l’attributo delle ali come mezzo fondamentale per volare e spostarsi celermente: anche nel suo bronzo Giambologna ha voluto riconoscere le qualità distintive del dio secondo l’immaginario collettivo, con le ali ai piedi e sul petaso, il copricapo diffuso nella Grecia antica tipico dei viaggiatori: due ali spiegate si trovano anche alla sommità del caduceo, il bastone della pace con i due serpenti incrociati, che divenne attributo del dio come domatore di discordie.

Attraversando la loggia esterna al primo piano dell’edificio incontriamo l’Architettura.

Riferita alla produzione di Giambologna intorno al 1565 circa, l’opera fu realizzata presumibilmente per la villa Medicea di Pratolino e poi spostata a Boboliper volontà di Pietro Leopoldo nella seconda metà del XVIII secolo, quando vennero portati a termine numerosi interventi di riqualificazione intorno all’Isolotto e al Prato delle Colonne.

La tipologia di figura femminile seduta, che trae ispirazione dalle allegorie delle Arti realizzate per la Tomba di Michelangelo a Santa Croce, riporta i tratti distintivi della maniera giambolognesca nella modellazione soave del nudo accompagnata dalla squisita finitezza del marmo.

Dipendente da prototipi greci e reinterpretati modernamente, la donna coronata da un diadema, è identificata con la personificazione dell’Architettura o Geometria, ed è contraddistinta da una serie di attributi tipici del mestiere, come il regolo, il compasso a punte fisse, la tavoletta da disegno tenuta dietro la schiena e il piombo (impiegato per stabilire la direttrice di una linea perfettamente verticale), qui usato come ciondolo della collana.

A fianco si trova la statua di Giasone e il Vello d’oro

commissionata a Pietro Francavilla nel 1589 circa, da Giuseppe Zanchini, priore dei Cavalieri di Santo Stefano, braccio operativo della marineria granducale a Livorno, molto attivo sotto il regno di Ferdinando I contro le infiltrazioni nel Mediterraneo di Ottomani e pirati.

Giasone, condottiero mitologico noto per essere stato a capo della spedizione degli Argonauti,è qui assunto come archetipo e prefigurazione delle fortune nautiche intraprese dai Cavalieri di Santo Stefano: l’eroe si presenta in atteggiamento vittorioso mostrando fieramente il vello d’oro (il manto di ariete prodigioso obiettivo delle peripezie di Giasone e qui omaggio al segno astrale di Cosimo I, il capricorno),  mentre la mano sinistra, posata sul fianco, tiene le erbe soporifere procurategli dalla moglie Medea, servite per rubare il vello alla custodia del drago.

La vicinanza fra le opere di Giambologna e Francavilla porta a rintracciare l’influenza artistica esercitata dal maestro sull’allievo e dell’altro lato induce a una riflessione sull’evoluzione stilistica del più giovane scultore.

Rimangono dell’insegnamento giambolognesco le linee morbide e flessuose del corpo, così come la ponderatezza dei movimenti e la lavorazione minuziosa della superficie marmorea: nella posa c’è un recupero delle forme quattrocentesche di Donatello, evidenti nella posa del braccio appoggiato al fianco come nei due David, e la fisicità atletica e asciutta del Perseo di Cellini.

Nel Giasone lo scultore appare inoltre particolarmente virtuoso nella realizzazione della testa, con una attenzione particolare al dettaglio nei capelli e in certe sottigliezze come i sottilissimi baffi e il manto arricciato del vello.

Sebbene la ripresa di alcuni topoi figurativi passati, l’opera di Francavilla abbandona gli ideali eroici del rinascimento e diventa esempio di riflessione e consapevolezza in un’ottica più tipicamente moderna.

Nel 1587, al vertice del successo e quando ormai la sua maniera stava facendo scuola fra i più giovani artisti, Giambologna acquistò dall’Ospedale degli Innocenti un palazzo in Borgo Pinti (all’attuale n. 26), dove realizzò la sua personale bottega.

Il palazzo venne suddiviso in diversi spazi fra cui la “bottega”, coincidente con gli ambienti di lavoro veri e propri (come lo stanzone destinato alle grandi sculture e la fornace), e lo studio del maestro, adibito invece a luogo di riflessione, dove disegnare, creare bozzetti, e accogliere gli ospiti.

Prerogativa dell’atelier del Giamblogna fu la fornace personale, progettata appositamente per la fusione di grandi opere d’arte e finanziata dagli stessi Medici, che beneficiarono in questi anni di molte creazioni dell’artista. Sebbene la potenziale pericolosità di tali strutture fra le abitazioni (famoso è l’incendio del tetto della casa di Cellini durante la fusione del Perseo), l’esigenza di avere una fornace consentiva al maestro un controllo personale e diretto di tutte le fasi del lavoro.

Perché la bottega funzionasse al meglio e speditamente, Giambologna si affiancò di validi aiuti locali e stranieri, fra i quali scelse in base alla specializzazione del materiale lavorato, il già citato Pietro Francavilla, come primo assistente ai marmi, e Antonio Susini (1558-1624), primo assistente ai bronzi.

Alla morte del Giambologna, un altro valente allievo, Pietro Tacca (1577-1640) ne ereditò la bottega continuando a vivere e lavorare in Borgo Pinti, sotto l’autorità medicea: la grande richiesta di committenti internazionali sollecitò le nuove generazioni a riprodurre assiduamente le opere più note del maestro che nel frattempo avevano assunto il ruolo di modelli universali.

 

Bibliografia

  1. Pizzorusso, Il Ratto del secolo. Da Bandinelli a Giambologna, in La storia delle arti in toscana: il Cinquecento, a cura di Mina Gregori e Roberto Paolo Ciardi, Firenze 2000, pp. 211-230.
  2. Ferretti, La casa studio di Giambologna in Borgo Pinti, in Giambologna: gli dei, gli eroi, a cura di B. Paolozzi Strozzi e DimitriosZicos, Firenze2006, pp. 315-318.
  3. Francini-F Vassilla, Il Giambologna, pubblicato dal Comune di Firenze, 2015.


LA BIBLIOTECA NAZIONALE BRAIDENSE DI BRERA

La Biblioteca Nazionale Braidense e lo "stampatore" Aldo Manuzio

Nel quartiere milanese di Brera si è da sempre respirata aria d’ingegno e sperimentazione, favorita dal frequente via vai di artisti ed intellettuali che stimolarono il dialogo culturale. Il quartiere prende il nome dall'omonima via, il cui termine deriva da braida, ovvero “terreno incolto”. Da qui deriverà la denominazione di Biblioteca Nazionale Braidense.

Il Palazzo di Brera, nato come convento trecentesco dell’ordine degli Umiliati e successivamente dei Gesuiti, fu riorganizzato nel XVII secolo dall'architetto Francesco Maria Richini.

Successivamente divenne proprietà dello Stato austriaco, che ne dispose l'utilizzo per istituti culturali. Il palazzo ad oggi ospita: l’Accademia di Belle Arti, la Pinacoteca, l'osservatorio astronomico,l'orto botanico e la Biblioteca Nazionale Braidense.

Quest’ultima, terza biblioteca italiana per ricchezza del patrimonio librario,fu istituita nel 1770 dall'imperatrice Maria Teresa per supplire alla mancanza "di una biblioteca aperta ad uso comune di chi desidera maggiormente coltivare il proprio ingegno, e acquistare nuove cognizioni ed aprì i battenti solo nel 1786. Il suo vasto patrimonio librario deriva dalla somma di diversi fondi accumulati negli anni, a partire dal nucleo originario del Collegio gesuita fino ai fondi dei grandi studiosi tra cui figurano testi di carattere scientifico, storico e letterario. Di particolare rilievo sono però le 650 edizioni aldine, uscite dalla stamperia di Aldo Manuzio e degli eredi, collocate in un arco di tempo che si estende dal 1494 al 1598.

Ma chi fu lo stampatore Aldo Manuzio?

Il suo nome probabilmente non è noto quanto quello di Gutenberg, nonostante ciò è doveroso dare il giusto peso a questo personaggio rilevante per la storia della stampa e della cultura in Italia.

Aldo, vissuto tra il 1450 e il 1515 circa, fu un grande studioso e precettore nelle più importanti corti dell’Italia centrale. Egli si guadagnò perfino l’appellativo di “Steve Jobs del Rinascimento”da parte della critica moderna. Infatti, così come il grande magnate digitale ebbe il merito di mutare l’interfaccia attraverso cui noi ci rapportiamo ai contenuti digitali, Manuzio mutò l’interfaccia dei testi a stampa rendendola più gradevole e maneggevole. Nell’arco della sua attività tipografica pubblicò circa 130 edizioni di opere di contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, e soprattutto di grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Catullo, ma anche Virgilio, Ovidio, Omero e molti altri.

Dopo aver svolto per lungo tempo il lavoro di precettore decise di intraprendere una nuova via.

Diede così una svolta alla sua vita e si trasferì a Venezia, probabilmente attratto dalle numerose biblioteche fornite di codici greci e dalla presenza di esuli greci.

Dichiaratosi un grande amante della cultura ellenica si propose di coltivarla e diffonderla attraverso il libro a stampa. Egli era convinto che la conoscenza della lingua greca, da studiare parallelamente al latino, fosse imprescindibile per la completa formazione culturale dello studioso.

Fu così che, dopo aver fondato una società con il nipote del doge Barbarigo e lo stampatore veneziano Andrea Torresano, diede alle stampe testi di supporto all'apprendimento della lingua ed un corpus della letteratura greca, facendo realizzare dal suo collaboratore Francesco Griffo dei caratteri greci.

Nonostante questo suo grande amore egli non si dedicò solo alla stampa di tali testi, fu così che nel dicembre del 1499 la sua officina terminava la stampa di un romanzo allegorico di tema amoroso intitolato “Hypnerotomachia Poliphili"

Working Title/Artist: Hypnerotomachia Poliphili (Poliphilo's Dream about the Strife of Love)
Department: Drawings & Prints
Culture/Period/Location:
HB/TOA Date Code:
Working Date: 1499
Digital Photo #: DP102817
Alternate view 2

ovvero “La battaglia d’amore in sogno di Polifilo”, la cui paternità è attribuita al domenicano veneziano Francesco Colonna. Il racconto descrive un sogno erotico di Polifilo, ovvero "Colui che ama la Moltitudine”, che inizia a causa dell'allontanamento dell’amata Polia, letteralmente “Moltitudine”. Quello da lui compiuto è un viaggio iniziatico che ha per tema la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'amore platonico. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana, il che spiega come mai fu stampata anonima e perché si sia cercato di attribuirla ad altri umanisti rinascimentali.

Tale volume, di cui è fornita la Braidense, è considerato il più eccezionale esempio di libro rinascimentale grazie all’alta qualità grafica delle sue xilografie, di cui l’autore è ignoto, che completano l’elegante apparato testuale manuziano.

A seguito di tale capolavoro l’officina aldina diede alle stampe il suo primo libro in volgare, le lettere di santa Caterina da Siena.

Nella premessa a tale volume Manuzio dimostrò un impegno, non solo verbale, in favore di un rimedio contro quelli che egli chiamò “tempi maledecti”, rappresentato in quel caso particolare dalla lettura devota delle epistole della santa senese.

Pubblicò tali lettere poiché gli apparivano piene “di Spirito Sancto” e si augurava che potessero spargersi per il mondo a promuovere la riforma delle coscienze e della pratica di vita.

L'anno della stampa delle Epistole coincideva con l’anno del giubileo, quando nella Roma di Alessandro VI Borgia si rivolgeva tutta la cristianità e ovunque insorgeva la protesta per la corruzione della Chiesa condivisa anche da Manuzio.

Santa Caterina nella xilografia in figura è vestita col mantello domenicano ed è caratterizzata dagli attributi del cuore, del crocefisso accompagnato da gigli, ramo di palma e dal libro con la triplice corona portata dai due angeli nell’alto. All’interno del libro e del cuore Aldo inserì rispettivamente il motto “Jesu dolce Jesu amore” e il nome “Jesus” realizzati con i tipi in italico, quasi a voler affidare al nome di Gesù il suo nuovo proposito editoriale e dando un'anticipazione di quello che diventerà il carattere fondamentale per gli enchiridi.

A Manuzio è attribuita l’invenzione del tascabile. Dal 1501 si dedicò alla stampa di enchiridi, letteralmente libri che stanno in mano. Questi erano testi classici e umanistici dal carattere innovativo in quanto proposti in formato ottavo, diverso dall’usuale formato in quarto, e destinati non solo ad un pubblico di studiosi ma anche di uomini colti che si spostavano o che amavano leggere senza essere condizionati dall’uso del leggio.

Egli fece stampare testi della letteratura greca e latina ed anche di alcuni autori a lui contemporanei già pubblicati in precedenza, operazione che si potrebbe mettere in parallelo con quella di Umberto Eco che nei primi del Novecento fece ristampare delle edizioni economiche dei grandi classici.

A differenza di Eco però le enchiridi manuziane non erano più economiche delle precedenti, ma ciò non fu d’ostacolo al notevole successo di pubblico che conobbero.

La scelta editoriale, oltre a fondarsi sul formato tascabile e la scelta di testi classici, prevedeva l’uso di una nuova serie di caratteri che si rifacevano alla scrittura corsiva per cui egli chiese al governo di Venezia un privilegio per l’esclusivo utilizzo.

E’ importante dichiarare che Manuzio, nel corso della sua attività di tipografo, ebbe modo di collaborare con personaggi di rilevanza come l’umanista e cardinale Pietro Bembo.

Con il cardinale lavorò ad una pubblicazione delle opere volgari di Petrarca e Dante.

L’importanza di tale operazione editoriale risiedeva nell’aver elevato i testi dei due autori italiani, di cui si possono ammirare alcuni esemplari nella biblioteca, verso l’aura della classicità.

Inoltre la versione dell’opera che proposero fu priva di apparati esegetici e caratterizzata dall’uso rivoluzionario dei segni diacritici e dell’interpunzione,avvicinando i lettori in modo nuovo alla grande letteratura volgare.

Un’altra collaborazione degna di nota fu quella con l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam.

Egli lo raggiunse a Venezia proponendogli di pubblicare una nuova versione dei suoi Adagia, una raccolta commentata di proverbi e modi di dire greci e latini. In particolare nel commento all’adagioFestina lente, ovvero “affrettati con lentezza”, Erasmo riferisce di come un giorno Aldo gli mostrò un’antica moneta d’argento risalente al periodo dell’imperatore Tito. La moneta presentava da un lato l’effige dell’imperatore e dall’altra un’ancora con un delfino attorcigliato attorno.

In questo simbolo, raffigurazione del proverbio, l’elemento del delfino rappresentava lo slancio e la rapidità, qualità principali dell’elegante animale acquatico come anche degli spiriti indomiti. Mentre, l’àncora, che nelle tempeste rallenta la corsa troppo rapida e rovinosa delle navi, era il simbolo della ponderazione e della solidità degli animi virtuosi. Fu così che Aldo, in calce alle sue edizioni, fece del simbolo la sua marca tipografica e del proverbio il suo motto.

Non potremmo che concludere il sintetico ritratto di Aldo Manuzio, il principe degli editori del Rinascimento, riportando proprio la frase che campeggiava all’ingresso della sua stamperia e che ci lascia un messaggio, nonostante i secoli da allora trascorsi, sempre attuale:

Se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture, tanta insipida e tetra lussuria.

In questo modo egli ci invita a non dimenticare l’importanza dei libri come prima arma per debellare la superficialità e l’ignoranza che abita il nostro mondo, monito di cui la Biblioteca Nazionale Braidense è interprete perfetta.

 

 

Bibliografia:

  • “La braidense: la cultura del libro e delle biblioteche nella società dell’immagine”, 1991
  • “Le edizioni aldine della Biblioteca nazionale Braidense di Milano”, in Almanacco del bibliofilo, 5, anno 5., n. 5, 1995
  • “Festina lente: un percorso virtuale tra le edizioni aldine della Biblioteca Trivulziana di Milano”, edizioni CUSL, Milano, 2016
  • “Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo”, Lodovica Braida, Laterza, 2005

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PALAZZO BALBI SENAREGA DI GENOVA

Palazzo Balbi Senarega: una vera e propria strada di famiglia

La famiglia Balbi,proveniente dalla Val Polcevera, entroterra genovese, si trasferì in città nel corso del Quattrocento, dove impegnò le proprie risorse nel campo della concia e della seta:quest’ultima attività pose le basi della rapida ascesa sociale che, nei due secoli successivi, li vedrà diventare uno dei gruppi familiari più rappresentativi, autorevoli e prestigiosi della nobiltà genovese.

Ciò che permetterà a questa famiglia di compiere il vero e proprio salto di qualità entro la società genovese sarà la costruzione di un asse viario che, parallelo alla medievale via Prè, collegasse Genova – in particolare l’area del Vastato – con il Ponente ligure: l’attuale Via Balbi. Il progetto, per onor di cronaca, era già stato messo in opera dalla Repubblica nel 1601, ma aveva incontrato l’ostacolo dei proprietari terrieri della zona. Tale situazione di stallo perdurerà fino al 1605 anno in cui la famiglia Balbi acquisterà i terreni dai contadini e non solo porterà a termine la costruzione della nuova strada, ma la sceglierà come propria zona residenziale.

I lavori iniziarono proprio nel 1605 e proseguirono a più riprese fino alla completa lastricatura del manto stradale terminata nel 1656. L’architetto protagonista dell’impresa edilizia e non solo è il lombardo Bartolomeo Bianco, già al servizio della Repubblica per altre importanti opere pubbliche e residenze private.

In parallelo con la realizzazione di questo asse viario, furono aperti i cantieri dei vari palazzi che, ancora oggi, costituiscono il principale elemento architettonico della strada.

Palazzo Balbi Senarega: evoluzione architettonica e sviluppo decorativo

Le prime notizie circa la costruzione di questo risalgono al biennio 1618-1619, periodo in cui il già citato architetto Bartolomeo Bianco avrebbe progettato la dimora dei due fratelli, Giacomo e Pantaleo Balbi.

L’architetto, non potendo realizzare le due canoniche dimore adiacenti, consuetudine per le residenze di due fratelli,  adottò una soluzione innovativa e inusuale nel panorama urbano genovese: decise di edificare due differenti piani nobili sovrapposti,imprimendo nella struttura una forte tensione verticale. Ponendo l’uno sull’altro i due piani nobili, Bianco riuscì a sopperire alla mancanza di terreno edificabile, dovuta alla presenza di lotti adiacenti già occupati in strada Balbi, senza perdere in rappresentanza e prestigio.

Nel 1644 Francesco Maria Balbi, figlio di Giacomo e nipote di Pantaleo, unico erede, divenne proprietario esclusivo del palazzo e diede il via per un importante rinnovamento architettonico e decorativo, senza però snaturare il progetto originario: chiuse con un sistema di finestre il secondo piano nobile, dove concentrò le sue committenze decorative, e ampliò a sud il palazzo tramite un ninfeo e aranceto.

Il ninfeo

Palazzo Balbi Senarega, ereditato da Francesco Maria, si presentava decorativamente piuttosto spoglio e privo di un giardino tipico di molti palazzi nobiliari genovesi. Appare evidente che un vero e proprio giardino non si sarebbe potuto mai edificare a meno di non voler demolire alcuni edifici limitrofi al palazzo in questione. Si optò per una soluzione che ancora oggi possiamo interamente apprezzare nella visita di questo edificio: appena al di là del cortile interno, venne progettato un Hortus Conclusus, chiuso da un ninfeo dove si trovano figure mitologiche realizzate tra il 1659 e il 1661 dallo stuccatore Giovanni Battista Barberini.

Le dimensioni monumentali delle due statue più esterne contribuiscono ad attirare lo spettatore che, portato ad avvicinarsi al Ninfeo, viene accolto nella più intima area della struttura, caratterizzata dallo scrosciare dell’acqua e dalla presenza di statue di cui è ancora controversa l’interpretazione iconografica.

La nicchia centrale ospita un inequivocabile Nettuno che regge le briglie due cavalli marini sulla sommità di una scalinata dove scorreva copiosa l’acqua, un giovane uomo in abiti regali (nicchia orientale) e una giovane donna (nicchia occidentale). Indicati in primo tempo come Orfeo ed Euridice, attualmente sembra più corretto vederli come Plutone e Proserpina, nel momento in cui la dea abbandona gli inferi per tornare a donare alla terra fioritura e ricchezza di messi: questa deduzione verrebbe anche avvalorata dalla presenza sullo stesso lato di un monumentale barcaiolo Caronte. Sul lato orientale, quello dove è situato Plutone, campeggia Giove che dapprima approvato il “ratto” da parte del signore degli inferi, per poi stabilire che Proserpina avrebbe potuto tornare per metà dell’anno a vivere sulla terra:permettendo il naturale ciclo delle stagioni.

La Grande Sala e i Salotti del secondo piano nobile

Il merito della famiglia Balbi è quello di aver innovato lo stile della grande decorazione genovese di metà Seicento, grazie alla scelta di pittori Valerio Castello e Domenico Piola, impegnati accanto a quadraturisti d’area bolognese, maestri nel realizzare grandi scenari illusionistici. Entro architetture dipinte, si dispongono figure mitologiche e allegoriche che caratterizzano il gusto barocco locale.

Dalla seconda metà del 1654, Valerio Castello viene contattato da Francesco Maria per allestire emozionanti scenografie barocche. Il pittore è infatti impegnato nella decorazione di numerosi ambienti al secondo piano nobile, accanto ad Andrea Sighizzi, prospettico e quadraturista bolognese.

Nel 1656 divampa a Genova una terribile pestilenza, che impone l’interruzione di qualsiasi attività, lasciando un senso di sgomento e profondo turbamento in tutti i sopravvissuti. Tra la fine dell’epidemia e il 1659,si data il completamento dei decori del palazzo, portati avanti da Domenico Piola.

Secondo il Soprani, le fasi decorative che interessano il palazzo sono ipotizzabili in questa sequenza: la galleria del Ratto di Proserpina, la sala con Leda, la sala con la Pace con Allegrezza e Abbondanza e, infine, la sala centrale con il Carro del Tempo, anche se non sono tutte contigue.

Galleria del Ratto di Proserpina – Valerio Castello.

Questo vano, limitato nelle dimensioni, viene illusionisticamente ampliato dalla decorazione della volta e dagli sfondati sulle pareti di testa che fingono, su ciascun lato, altre prospettive architettoniche. Il mito entra con impeto nella decorazione della galleria con due scene affrescate proprio in corrispondenza di queste due pareti terminali: la Caduta di Fetonte e il Ratto di Proserpina. I due episodi sono in relazione con i personaggi e le vicende narrate nella volta, piena di figure che compongono il Mito di Cerere e Proserpina, Giove e gli dei dell’Olimpo.

L’architettura virtuale è in parte nascosta dalle figure e dalle nuvole, ma è fondamentale per raggruppare i vari personaggi. Le divinità sembrano intrecciare immaginari colloqui sugli eventi in corso. La dinamicità della decorazione della volta è ottenuta grazie a linee oblique presente sia nelle divinità sia nelle strutture architettoniche.

L’affresco del Ratto di Proserpina è collegato al tema della natura e della mutazione attraverso il susseguirsi delle stagioni e in accordo con il programma iconografico della decorazione delle sale del palazzo e con il giardino sottostante.

La narrazione inizia da levante con Apollo tra le Muse, si prosegue con Cerere che addita la vicenda di Proserpina mentre Plutone scatena i venti sotto la inarrestabile spinta della freccia che Cupido sta dirigendo verso di lui. Diana, Minerva e Venere partecipano al fatto, seguono giovinette che recano ghirlande di fiori.

La narrazione prosegue con  un gruppo di divinità maschili tra cui risaltano Giove, Nettuno e Saturno, i cui gesti rimandano tutti all’episodio della caduta di Fetonte dal carro del Sole, trainato al posto del padre Apollo.

La presenza di Apollo che presiede alla vicenda di Fetonte, sul lato di levante, introduce invece alla contigua, decorata con il successivo intervento di Domenico Piola.

Apollo e le Muse – Domenico Piola

La galleria è luogo di snodo nella disposizione degli ambienti di Palazzo Balbi Senarega e nel ciclo decorativo concepito come un unicum sin dal principio: la decorazione dell’intero secondo piano nobile presenta una perfetta unità tra l’intervento di Castello e quelli di Domenico Piola e Gregorio De Ferrari.

La sala con Apollo e le Muse vuole paragonare il committente con Apollo evidenziandone il ruolo di protettore delle arti. Il passaggio tra Domenico Piola e Valerio prenderebbe avvio proprio da questa stanza, in continuità con l’opera del predecessore. La sala aveva in principio due finestre:una sulla parete est e l’altra sulla sud, la quale collegava otticamente il lata su Strada Balbi con il tessuto urbano a mare.

Lo spazio della stanza è dilatato verso l’alto dalla finta architettura che decora la volta aperta su un cielo azzurrino. Alla base è situata una balaustra su cui si dispongono varie figure in un rapporto di tensione e di equilibrio.Spicca il ruolo di Apollo, posto al centro del lato sud.

Il lato Nord si apre e si chiude con le figure a grisaille di Mercurio e Minerva. La finta statua di Mercurio è seguita dalla musa Clio (Storia) e da una curiosa figura di scimmia intenta dipingere la propria effige: questa, in virtù della propria somiglianza con l’uomo, ne rappresenta una sorta di doppio. La scimmia è un’allegoria della Pittura: imita l’uomo e imita il fare del pittore, a sua volta seguace dell’arte “imitatrice”. Seguono Euterpe e Melpomene, muse della Musica e della Tragedia.

La parte a levante si apre con Calliope, la musa della Poesia, riconoscibile dalla corona di alloro che reca e dai pesanti libri di cui è circondata. L’ultima musa è Talia, la Commedia, identificabile tramite la maschera teatrale e il groviglio di aspidi che reca.

Il lato a sud si apre con la finta statua ad angolo di Giove, riconoscibile dall’attributo dell’aquila, seguito da Tersicore (Danza) e da Apollo che ostenta la propria bellezza olimpica e tiene la lira, simbolo dell’armonia dei Cieli. Segue Erato (Canto corale) mentre a chiudere la parete si trova Ercole a grisaille.

L’ultima parete, quella a ponente, vede Polimnia, musa della Retorica, riconoscibile dal libro,seguita da Urania (Astrologia).

Le pareti in principio erano scandite da nicchie dipinte, di cui si conserva solo quella di levante:raffigura a grisaille un Ercole ammantato da una leonté con un aspide stretto fra le mani. I bombardamenti del secondo conflitto mondiale causarono significativi danni nell’ala di levante e la sala di Apollo rimase per molto tempo priva degli infissi esponendola alle intemperie.

Il Carro del Tempo – Valerio Castello

La volta del salone centrale ospita l’allegoria del Carro del Tempo, capolavoro di Valerio Castello, sua ultima fatica in palazzo Balbi Senarega. Tra le finte architetture volteggiano le figure, secondo un ritmo ben modulato e coinvolgente. Il senso del colore di Valerio si esprime in questi affreschi attraverso una caleidoscopica gamma di note cromatiche.

Al centro della volta Saturno-Cronos, l’anziano canuto con la falce in mano, porta inesorabilmente a distruzione uomini, cose e ricchezze – come lascia intendere il motto VOLAT IRREPARABILE (TEMPUS) presente sul cartiglio tenuto da tre putti – ma da intendersi “in direzione tutta positiva”, dato l’incedere verso l’Eternità identificabile grazie al cerchio e alla corona tra le mani. Dunque, un tempo che corre verso l’eterno e non solo un disgregarsi e perdersi senza un fine se non l’oblio.

I personaggi sopra il cornicione, secondo questa visione, sarebbero le diverse fasi della vita dell’uomo: l’Infanzia evocata dalla presenza del centauro Chirone; la Giovinezza simboleggiata dalla fanciulla allo specchio assistita da due ancelle; la Virilità riconoscibile nell’uomo colto nell’atto di comando e la Vecchiaia rappresentata nei due uomini anziani pugnalati e uccisi.  Al di sotto si riconoscono sui lati brevi i segni singoli di Capricorno, Acquario, Cancro e Leone; mentre sui lunghi, a coppia, Pesci-Ariete, Toro-Gemelli, Vergine-Bilancia, Scorpione-Sagittario.

Infine, al centro dei lati brevi, trovano posto le allegorie della Fama, che con la tromba esaltala scena centrale, e della Fortuna, instabile per definizione e capace di distribuire ricchezze come testimonia la cornucopia accanto. Sulla valenza e il significato di questa decorazione è tornato Lauro Magnani, sottolineando come la realizzazione dell’affresco dovette coincidere con un momento drammatico:già nel settembre del 1656 si era diffusa un’epidemia di peste che lasciò la città in ginocchio e allentò ogni attività non indispensabile. Alla luce di queste considerazioni la positività con cui l’affresco veniva letto sembra lasciare il posto a una lettura ben più amara. Il Carro del Tempo, guidato dalle Ore che alzano le clessidre, sono un segno dello scorrere di ogni istante abbattendosi anche su quei corpi caduti, forse precisa evocazione dei morti di peste tra cui si contò anche Giovanni Battista Balbi, giovane cugino di Francesco Maria. E così, sempre secondo questa lettura, la Fortuna in precario equilibrio non riverserebbe i suoi beni, ma i simboli di una vanità terrena. Continuando con questa logica i gruppi al di sopra del cornicione mostrerebbero una diversa identità, andando a rappresentare tutte un episodio che si conclude con la morte del personaggio protagonista.

Pace tra Allegrezza e Abbondanza – Valerio Castello

La magnificenza della famiglia Balbi trova celebrazione nel formidabile e festoso salotto di Pace tra Allegrezza e Abbondanza.

Valerio Castello raffigura le tre leggiadre figure tra nuvole e puttini. Pace, al centro della scena, stringe nella mano un ramo di ulivo stretto nella mano destra,Allegrezza, alla sua destra dipinta come una magnifica fanciulla mentre sparge fiori, e dall’altro lato Abbondanza, riconoscibile dalla cornucopia al suo fianco. Intorno gli Amorini partecipano e celebrano questo clima di armonia e serenità, garantito dalla presenza delle tre Virtù.

Il resto della decorazione ricco e ben equilibrato alterna elementi di quadratura, ornati e figure:si possono notare le quattro finte statue dorate di Virtù ai quattro angoli mentre sorreggono il cornicione, connotato da una vivace struttura architettonica.

Apoteosi di Ercole – Gregorio de Ferrari

In questa stanza l’attenzione dell’osservate si concentra interamente sul soffitto dove nel riquadro centrale si trova Ercole e la clava. Un putto gli porge i pomi delle Esperidi segno del passaggio verso l’età adulta. Fama ed Eternità, in volo sopra l’eroe, gli porgono una corona aurea e una d’alloro.

Negli angoli alla base della volta si trovano affrescate la Virtù eroica, incarnata da Ercole che uccide il serpente Ladone, la Fortezza d’animo, personificata da una donna armata, la Virtù insuperabile, una giovane donna con corona d’alloro vicino ad una cornucopia e una lancia, e infine la Virilità, rappresentata da una figura femminile con scettro e seduta su un leone. Ogni allegoria si poggia poi su cartelle a monocromo dorato, su cui sono raffigurate piccole scene di noti episodi mitologici: Pan e Siringa, Arianna abbandonata, Diana e Atteone, e Amore sul carro. L’affresco si presenta come un emblema delle virtù di Francesco Maria ma più in generale della virtù maschile. Sullo stesso livello, entro piccole nicchie a conchiglia, trovano posto quattro finti busti marmorei maschili e femminili, che vivaci putti sono intenti a inghirlandare e decorare con fiori e veli.

Al di sotto del cornicione corrono per tutto il perimetro quattro lunghe tele il cui soggetto mitologico non si  riferisce ad un mito preciso.

Leda e il cigno – Valerio Castello

In questa stanza, l’ultima visitabile, l’architettura illusionistica trasforma lo spazio rettangolare in ovale grazie ad una volta dorata, sorretta da coppie di colonne intervallate a vasi pieni di fiori poggianti su un’alta balaustra marmorea. La calotta è dedicata a ospitare Leda, moglie di Tindaro amata da Giove, circondata da putti.

Lungo il sottostante cornicione coppie di putti reggono, come quadri, le cornici che ospitano le effigi di Venere, Diana, Minerva e Mercurio, riconoscibili dai loro attributi. Le virtù di queste quattro figure meglio delineano le qualità di Leda, al centro del quadro della volta.

Gli amorini, in pose di estrema naturalezza e gesti vivaci, conferiscono spazio fisico alla volta. Valerio tiene conto della posizione delle finestre e organizza di conseguenza i contrasti chiaroscurali.

 

Bibliografia

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SANTA MARIA DEL MONTE DI CESENA

UN'ABBAZIA DALLA STORIA MILLENARIA

L’antica abbazia benedettina di Santa Maria del Monte sovrasta, con la sua imponente mole, la città di Cesena.

Fu fondata sul colle Spaziano da S. Mauro eremita, poi vescovo di Cesena, che lì fu sepolto in un antico sarcofago romano, oggi trasformato nell'altare della cripta.

Le prime notizie relative al culto mariano ci vengono da S. Pier Damiano (1049) nella sua "Vita di S. Mauro". Fondamentale la data del 1318, allorquando fu trasferita, dalla pieve di Montereale, la statua della Madonna, ancora oggi venerata.

La più eloquente testimonianza del plurisecolare culto verso la Madonna del Monte, venerata sotto il titolo dell’Assunzione, è costituita dal corpus di circa 700 tavolette votive (ex voto), le più antiche delle quali risalgono al Quattrocento, che testimoniano il sollievo fisico e morale dalle miserie e dalle disgrazie umane ottenuto attraverso l’intercessione della Madonna.

La devozione era tale che, per antica consuetudine, contemplata pure negli Statuti comunali, la mattina del 15 agosto le massime autorità cittadine, unitamente ai membri delle corporazioni e dei mestieri, salivano in devoto pellegrinaggio al Monte e offrivano ceri alla Madonna.

Nel secolo XV la basilica medievale si rivelò insufficiente per raccogliere i pellegrini, e si procedette ad imponenti lavori. La basilica fu allungata ed allargata con la costruzione di una grande cappella, di una slanciata cupola e di varie cappelle lungo la navata. Tutta la nuova fabbrica venne affrescata, sia nella navata centrale come nella cupola e nel grande catino absidale.

L'ABBAZIA DI SANTA MARIA DEL MONTE: L'INTERNO

Lungo tutto il fregio della navata, terminato nel 1559, Girolamo Longhi illustrava la vita della Madonna in 14 scene, intercalate da figure di angeli, profeti e sibille. La cupola, innalzata dal bolognese Francesco Morandi, detto il Terribilia, a seguito del terremoto del 1768 fu ricostruita dal ticinese Pietro Carlo Borboni e affrescata da Giuseppe Milani, cesenate d’adozione ma originario di Parma. È del Milani anche l’affresco del catino dell’abside, raffigurante l’incoronazione della Vergine da parte della SS. ma Trinità.

Pregevole il coro ligneo cinquecentesco, notevoli la sacrestia monumentale e la sala capitolare con affreschi del XV secolo.

Nelle cappelle laterali sono collocati alcuni preziosi dipinti. L’opera più pregevole è la “Presentazione di Gesù al tempio” di Francesco Rabolini detto il Francia, al momento non visibile perché in corso di restauro. Ma abbiamo anche una Annunciazione di Bartolomeo Coda (sec. XV), S. Mauro che guarisce un malato di Francesco Mancini (sec XVII), la Gloria di S Benedetto e S. Scolastica attribuito a G.B. Barbieri (sec. XVII), S. Lorenzo di Scuola bolognese (sec XVII) e S. Sebastiano attribuito a V. Ansaloni (sec. XVII).

Del complesso monastico si apprezzano i due chiostri e la ricca biblioteca, il corridoio monumentale, i due scaloni settecenteschi, nonché altri ambienti soggetti però in parte alle restrizioni previste dalla clausura monastica.

Soppresso, come tutti i monasteri italiani, da Napoleone nel 1797, si deve alla devozione filiale di Pio VII, già monaco al Monte, se nel 1821 il monastero poté riaprire, per essere però nuovamente chiuso dallo Stato unitario nel 1866. Fu definitivamente riaperto nel 1888 dall’abate Bonifacio Krug, che recuperò le ormai fatiscenti strutture e diede un nuovo impulso alla vita monastica, facendone un centro di riferimento per la vita religiosa e culturale cesenate del tempo e non solo.

Nei giorni 8-10 maggio 1986 l’abbazia del Monte ha avuto l’onore di ospitare il Santo Padre Giovanni Paolo II, che qui ha soggiornato durante il suo viaggio apostolico in Romagna.

La visita al complesso monastico può iniziare dal chiostro quattrocentesco che presenta eleganti colonne di travertino con eleganti capitelli di stile classico l’uno diverso dall’altro. Al centro del chiostro cisterna adornata da un prezioso pozzale in ferro battuto del 600. Quindi si passa al chiostro grande, costruito nel 500 in stile dorico a doppio loggiato, ma ricostruito dopo un disastroso incendio del 1751 in pilastri di laterizio con la chiusura del loggiato superiore. La cisterna fu costruita nel 1551 su probabile disegno di Leonardo da Vinci ed è sormontata da un imponente pozzale marmoreo aggiunto nel 1558.

La biblioteca antica del monastero fu incamerata dallo Stato nell’800, poi ricostituita ma distrutta nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, oggi completamente rinnovata e ricca di 50.000 volumi di carattere soprattutto ecclesiastico. È formata da due ampi saloni aperti l’uno sull’altro messi in comunicazione da un elegante ballatoio.

Infine è presente un laboratorio di restauro del libro largamente affermatosi presso le biblioteche e archivi di Stato, che svolse una grande lavoro per la riparazione dei danni della Biblioteca Nazionale di Firenze a seguito della disastrosa alluvione del 1966.

Bibliografia essenziale:

  1. Novelli, Il coro intagliato della Basilica di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 1965.
  2. Dolcini, S. Maria del Monte di Cesena, in Monasteri Benedettini in Emilia Romagna, Silvana editoriale, Milano 1980, pp. 221-231.

La Madonna del MonteCesena, Pazzini editore, Verucchio 1993.

  1. Faranda, Fides tua te salvum fecit, i dipinti votivi nel Santuario di S. Maria del Monte a Cesena, Modena 1997.
  2. Novelli – L. D’Elia, Abbazia di S. Maria del Monte, Genova 1999
  3. Faranda, La cupola dell’abbazia di S. Maria del Monte di Cesena, Cesena 2009.

 

Sitografia:

www.abbaziadelmonte.it

https://www.facebook.com/AmicidelMonteCesena/

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L'IMMACOLATA CONCEZIONE: L'ICONOGRAFIA

L’Immacolata Concezione, intesa come tema pittorico, ebbe un notevole incremento a partire dal XV secolo, anche se il dogma cattolico ci sarà soltanto nel 1854, proclamato da papa Pio IX.  È un tema scottante che ha generato per secoli molte dispute teologiche - il pensiero di Maria, esente dal peccato originale fin dal suo concepimento, poteva essere in contrasto con le parole di Cristo che assunse che nessun uomo è nato senza macchia. E come poteva Maria essere immune dal peccato prima di Cristo? Nei secoli furono molti gli immacolisti (tra cui Francescani e Carmelitani) che provarono a giustificare questa figura. Nel corso dei secoli Maria è stata promossa quale  veicolo dell’incarnazione di suo figlio, quindi essa stessa  Immacolata e Purissima, perché solo lei nata senza Peccato Originale e concepita senza concupiscenza.

Anche l’evoluzione e lo stabilizzarsi di un’iconografia adeguata a rappresentare una dottrina cosi complessa fu un processo lungo. Un primo tentativo in chiave simbolica  fu quello di rappresentare il bacio concepente tra Gioacchino ed Anna, i genitori di Maria, alla Porta d’Oro di Gerusalemme o la Madonna con bambino e sant’Anna,  ad indicare il concepimento straordinario della Vergine cosi come quello di suo figlio.

Giotto, Particolare dell’Incontro alla Porta d’oro, 1303-1306, Cappella degli Scrovegni, Padova

Masaccio e Masolino, San’Anna Metterza, 1424-5, Galleria degli Uffizi, Firenze

L’apparizione tarda di questo tema nella storia dell’arte è dovuto alla difficoltà di fissare una convenzione iconografica per un concetto cosi astratto. Nel XVI secolo non è raro trovare alcuni quadri che mostrano Maria davanti a Dio e ai Dottori della Chiesa ad assistere alla Disputa, ad indicare il dibattito che si svolgeva intorno all’argomento. Spesso nelle  opere compare anche Duns Scoto, francescano sostenitore del dogma, vissuto nel XV secolo.

Il Pordenone, La disputa, 1530, Museo di Capodimonte, Napoli

Carlo Portelli, Disputa sull’Immacolata Concezione, 1555, Museo dell’Opera di Santa Croce, Firenze

Dal Quattrocento, con il pontificato di Sisto IV della Rovere, savonese,  e con i sovrani spagnoli, la devozione verso l’Immacolata sfociò in diverse iniziative volte alla promulgazione del dogma sia all’estero che in Italia nelle diverse realtà regionali. Maria appare da questo momento come la nuova Eva mentre calpesta un serpente o un drago e si attinge alla Genesi e a metafore dell’Antico Testamento per rimarcare la figura di colei che è stata costituita dall’eternità.

Ma è il Cantico dei Cantici che gli artisti utilizzano come riferimento e l’Immacolata Concezione inglobò molte immagini e simboli attribuiti alla fanciulla del poema. Fu un testo di riferimento molto adoperato dove le immagini del poema erano rese familiari dalle litanie medievali dedicate ala Madonna.

(6,10 )«Chi è costei che sorge come l’aurora,
bella come la luna, fulgida come il sole,
terribile come un vessillo di guerra?».

(2,2) Come un giglio fra i rovi,
così l’amica mia tra le ragazze.

(4,4) Il tuo collo è come la torre di Davide,
costruita a strati.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di eroi.

(2,1) Io sono un narciso della pianura di Saron,
un giglio delle valli.

(4,15) Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
che sgorgano dal Libano.

(4,12) Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, mia sposa,
sorgente chiusa, fontana sigillata.

(7,8) La tua statura è slanciata come una palma
e i tuoi seni sembrano grappoli.

Molte di queste simboli tra cui la palma, la fontana, la torre, il pozzo, il giglio e la luna divennero riferimenti della Madonna e più tardi si aggiungessero  anche lo specchio (preso da citazioni del Libro della Sapienza) ad indicare la purezza e la verginità di Maria.

 

 (7,26)È riflesso della luce perenne,
uno specchio senza macchia dell’attività di Dio
e immagine della sua bontà.

Nel Seicento, in piena controriforma, con l’impulso dato al culto della Vergine, si crea una nuova immagine dell’Immacolata Concezione. I caratteri essenziali sono quelli della donna dell’apocalisse, vestita di sole, incoronata con 12 stelle e sotto i suoi piedi una luna. La Madonna è rappresentata giovane, con le mani giunte al petto, il mantello azzurro e la luna crescente, simbolo di castità e il cordone francescano a tre nodi. Questa versione iconografica pur subendo delle varianti rimarrà la versione più nota sul tema.

(12,1) Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle.

(12,2) Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.

(12,3) Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi;

(12,4) la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. (12,5)Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono.

A Genova è innegabile il ruolo che svolse la committenza francescana per la diffusione del culto dell’Immacolata. Ne sono testimonianza il gran numero di opere pittoriche giunte fino a noi  e una confraternita dedicata al culto immacolista attestata nella chiesa di Castelletto intorno al 1300.

La devozione per tale culto trova riscontro nella tavola più antica giunta fino a noi e oggi conservata nel Santuario di Nostra Signora del Monte. La tavola, l’Albero di Jesse immacolista, del XVI secolo è uno dei primi modelli iconografici volto ad esaltare la figura di Maria. Il messaggio iconografico è ancora debole, tant’è che la tavola appare contornata di cartigli e scritte per rafforzare il messaggio non esplicito dell’immagine.

L’albero di Jesse è un’iconografia medievale che ritroviamo nelle cattedrali gotiche ed è un motivo frequente nell’arte cristiana. Fa riferimento alla profezia di Isaia e rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Jesse padre di Davide da cui discende Cristo cosi come riporta Isaia nella sua profezia.

Il tema dell’Immacolata da allora viene rappresentato come un albero genealogico dove le figure principali sono Davide, Maria e Cristo. Nel dipinto genovese sono raffigurati cartigli che indicano i nomi dei discendenti  di Jesse. La Vergine, con in braccio il bambino, occupa la composizione principale e l’albero di Jesse diventa in qualche modo una celebrazione mariana  e un’illustrazione della genealogia della Vergine che diventa protagonista della composizione. Nel Cinquecento il soggetto assunse caratteri immacolisti accostando il tema della Virginità e purezza di Maria espresse da Isaia al tema della sua discendenza.

Andrea Semino, Albero di Jesse, XVI secolo, Santuario di Nostra Signora del Monte, Genova.

Alla fine del Cinquecento, il pittore Bernardo Castello è volto ad evidenziare il ruolo di Maria corredentrice come sottolineato dal Concilio di Trento e realizza per la chiesa di Santa Maria delle Grazie una pala d’altare raffigurante l’Immacolata, oggi conservata nella chiesa di Santa Maria della Vittoria.

Sullo sfondo, dietro Maria e i profeti che l’accompagnano si apre un paesaggio in cui sono disseminati i simboli mariani: la palma, l’ortus coclusus, la torre, la fontana, il tempio, lo specchio e il giglio. Sotto la nuvola che sorregge la Vergine si scorge il dragone apocalittico sconfitto.

Bernardo Castello, Immacolata, XVI secolo, Chiesa di Santa Maria della Vittoria, Genova

Nella seconda metà del Cinquecento la peste che colpì Genova portò i fedeli a chiedere  l’intercessione dell’Immacolata per la fine della pestilenza. Dopo il voto fatto dai genovesi nel 1579, quasi dieci anni dopo Andrea Semino firmava il contratto per la realizzazione di una tela  immacolista per la chiesa di san Pietro in Banchi. La vergine, connotata con i simboli dell’apocalisse- la falce di luna e la corona di stelle- è rappresentata nell’atto di avanzare, circondata ai lati da angioletti che recano in mano i simboli lauretani. Sulla sfondo un paesaggio marino a cui il dragone apocalittico dalle sette teste, rivolge il suo fiato mortifero, allusione all’apocalisse di Giovanni e alla peste sconfitta grazie alla mediazione di Maria.

Andrea Semino, Immacolata, XVI secolo, chiesa di San Pietro in Banchi, Genova

Il tema dell’immacolata Concezione accompagna anche i pittori e scultori genovesi che in piena vocazione seicentesca, sviluppano una pittura illusionista e una scultura trionfale per gli apparati d’altare. Il francese Pierre Puget, già attivo a Genova in quegli anni, tra i vari soggetti a tema immacolista realizza La Vergine Immacolata per l’Oratorio di San Filippo Neri in Via Lomellini. Nel 1670 concluse l’opera che originariamente era stata pensata per la cappella privata di Stefano Lomellini e nella seconda metà del 1700 fu trasferita nell’Oratorio dei Filippini. Il soffio divino che sembra investire la Vergine fa presagire il soffio vitale  dell’inizio dei tempi. Sotto il peso dolce e l’andamento curvilineo del corpo fanno capolino da una nube, angeli che portano  alcuni simboli dele Litanie Lauretane.

L’aristocrazia locale, a seguito dei rapporti con Roma, cercò artisti aggiornati e capaci di espremere la magnificenza della famiglia attraverso la commissione di opere d’arte. Il Bernin de France, così veniva chiamato Pierre Puget durante il suo soggiorno a Genova, realizzò sculture significative che condizionarono gli sviluppi successivi dell’arte locale.

Pierre Puget, Immacolata, 1670, Oratorio di San Filippo Neri, Genova

Pierre Puget, La Vergine Immacolata, chiesa dell’Albergo dei Poveri, Genova

Alla fine del secolo, sempre in ambito scultoreo, sarà Filippo Parodi che apprenderà i segreti del marmo  dalla scultura romana più che attraverso Bernini, per tramite di scultori berniniani e successivamente da Pierre Puget una volta rientrato a Genova.

Tra i tanti contributi del Parodi, si ricorda l’Immacolata per l’altare della Chiesa di San Luca. La scultura si colloca in un ambiente totalmente dipinto, non solo nelle superfici ma anche in molti elementi architettonici grazie all’operato di Domenico Piola. Il pittore, successivamente, riprenderà dal Parodi e dal Puget  i modelli icononografici delle realizzazioni plastiche per i propri soggetti immacolisti.

Filippo Parodi, Immacolata, 1699, Chiesa di san Luca, Genova

Domenico Piola,Immacolata, 1680 circa, chiesa di San Francesco a Bolzaneto, Genova

È importante evidenziare anche il ruolo di Savona nella devozione per l’immacolata. Era stato papa Sisto IV, discepolo di Duns Scoto, grande teologo francescano della dottrina dell’Immacolata, a sostenere e diffondere tale culto mariano. La cappella Sistina di Savona, come quella di Roma furono volute da Sisto IV e sono testimonianza del mecenatismo suo e di suo nipote Giulio II.  Agli inizi del Quattrocento iniziò la trasformazione della sala capitolare del Convento francescano per adibirla in cappella funeraria per la sepoltura dei genitori.  In riferimento alla prima fase di decorazione sappiamo poco, ma probabilmente la cappella era segnata dal tema immacolista che venne ripreso a distanza di tre secoli dall’intervento pittorico di Paolo Gerolamo Brusco sulla volta della Sistina di Savona. Il pittore inserisce i progenitori alludendo alla redenzione dal peccato originale e la grazia ricevuta dall’umanità direttamente per mano della Vergine, colei che fin dall’inizio dei tempi veste il ruolo di nuova Eva da cui il genere umano riuscirà a riscattarsi.

Paolo Gerolamo Brusco, Immacolata Concezione, XVIII secolo, affresco, cappella Sistina di Savona

Bibliografia

 

www.gliscritti.it

www.treccani.it

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L’immacolata nei rapporti tra l’Italia e la Spagna, a cura di Alessandra Anselmi, Roma, De luca Editori d’Arte, 2008

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LE CASTELLA A ISOLA DI CAPO RIZZUTO

Le fortezze medievali calabresi: le Castella

Posizionato su un isolotto in provincia di Crotone, ad Isola Capo Rizzuto, il complesso de “le Castella” rappresenta una chicca del panorama di fortezze medievali calabresi.

Le origini di Castella sono antichissime, notizie che si confondono con il mito e che rimandano alla presenza di due o tre isolotti non lontane dalla terra ferma, una delle quali dimora, con molta probabilità, di Calipso, la quale avrebbe trattenuto Odisseo per molto tempo nella sua abitazione, così come ce lo tramandano gli scritti di Omero.

Per quanto riguarda l’origine del nome “Le Castella”, usato al plurale, si rimanda alla tradizione locale secondo cui fossero presenti più edifici militari sui suddetti isolotti, sprofondati col tempo negli abissi, così come dimostrano i resti ritrovati su due secche sottomarine. La definizione più importante è quella di Torre o Mura di Annibale, così come ci tramanda Plinio nella sua opera “Naturalis Historia”, secondo cui durante la prima guerra punica venne costruita la prima torre a difesa dei romani.

La posizione storica, geografia e strategica

Il trattato di amicizia tra Roma e Taranto del 304 a.C. prevedeva il divieto di navigazione ad oriente di Capo Lacinio, inducendo Taranto a creare una vedetta sull'isolotto per sorprendere le navi romane che giungevano da Tirreno e puntavano verso Taranto stessa; da qui si capiscee l'importanza di Punta Castella. Poco più tardi, circa un secolo dopo, le fonti vogliono che agli sgoccioli della seconda guerra punica, tra il 208 ed il 202 a.C., Annibale, inseguito dall’esercito romano, fece costruire nel luogo dove oggi sorge il castello aragonese un accampamento o una torre di vedetta. Quando Annibale lasciò il territorio, i Romani istituirono un Castra, da cui deriva l’attuale denominazione.

Con l’occupazione degli Arabi tra il IX e il secolo XI, che già controllavano la vicina Squillace, si impone la dominazione sull’intero golfo. Superata questa dominazione sorgono le prime chiese, una dedicata a Santa Maria e l’altra a San Nicola. Inoltre, diversi documenti testimoniano la presenza di pubblici ufficiali, da cui deriva una florida attività commerciale oltre che sociale.

La pace del borgo fu turbata da un feroce scontro tra Angioini e Aragonesi, che portò al saccheggio di Le Castella da parte dell'ammiraglio Ruggiero di Loria nel 1290; la resistenza degli abitanti del borgo fu di 8 giorni prima di cedere all'assalto.

Gli scontri non finirono qui: qualche tempo più tardi il capitano angioino Guglielmo Estendard volle riconquistare i territori persi appostandosi lì dove le navi nemiche facevano scalo nel golfo e tendendo loro una trappola, ma invece di prendere di sorpresa il nemico, ne fu sopraffatto. Ruggero vinse costringendo Guglielmo alla resa, che ferito cadde prigioniero.

Nel 1459 continuarono gli scontri, che videro contrapposti da una parte  il re Ferdinando d'Aragona, dall'altra il nobile feudatario Antonio Centelles. I conflitti porteranno al dominio sul territorio della famiglia napoletana Carafa, nella persona del nobile Andrea Carafa.

Nel 500 i territori rientrano così nel feudo di Santa Severina segnandone il lento declino, e soprattutto a causa della presenza ottomana si registra una diminuzione degli abitanti, con conseguente riduzione del commercio e dell’attività produttiva delle campagne circostanti.

È nel 1553 che iniziano gli attacchi al borgo, tre anni più tardi le navi turche bombardano la costa sotto il comando del temibile Ariadeno Barbarossa, il terrore dei mari. Tra i prigionieri dovuti alle loro spietate azioni abbiamo un giovane pescatore di nome Giovan Dionigi Galeni, destinato a diventare il famoso Kiligi Alì meglio noto come Uccjalì.

Una leggenda aleggia sulla sua vicenda, tanto da dedicargli un busto nella città e una serie di appellativi dovuti ad una patologia che lo accompagnava dalla nascita, la tigna. Da promesso prete a sostenitore dell’Islam, indosserà il copricapo tipico della pirateria e, sposata la figlia di Chiafer Rais, otterrà il grado di nostromo in una nave corsara.

Le Castella: l'interno

Da un punto di vista architettonico, l’impianto originale è databile alla seconda metà del XIII secolo, così come testimonia la torre merlata circolare al cui interno presenta una scala a chiocciola in pietra che si sviluppa su tre piani.

La struttura presenta un maschio con finestre dette ‘a bocca di lupo’, strette all’esterno e larghe all’interno utili per fare gli avvistamenti senza essere notati, sicuramente collegato alle altre torri di difesa dislocate sul territorio.

Quando Federico d’Aragona consegna la fortezza ad Andrea Carafa, esso la restaura dotandolo di ulteriori bastioni. Con i lavori di restauro terminati ormai venti anni fa, sono stati portati alla luce ulteriori fasi costruttive del castello, che hanno confermato l’ipotesi di una sua costruzione molto più antica rispetto a quella definita in precedenza; all’interno infatti si possono vedere i resti di mura greche, un porto dello stesso periodo, mura romane, una cappella e un antico borgo del XVI secolo.

Lo stabile rientra all’interno dell’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto, tanto è vero che una delle sale del castello ospita una mostra ad essa relativa oltre all’attrezzatura necessaria per la visita virtuale dei fondali. La fortezza diviene un Museo statale, come da DM 23 dicembre 2014 secondo la volontà del Ministro Franceschini, il quale indica l’attività dei musei statali diretta alla tutela del patrimonio culturale. Il passaggio sotto la direzione del Polo Museale di Cosenza viene, però, ufficialmente formalizzato solo nel 2019, vestendosi di una nuova identità, facendolo rientrare nel circuito museale di tutta la Calabria.

 

Sitografia e bibliografia

www.prolocolecastella.it

www.lecastella.info

www.beniculturale.it

  1. Valente, Le Castelle (Isola Capo Rizzuto): una storia millenaria, Catanzaro 1993.

R, Mango, Le Castella: arcaica, archeologica, medievale, Catanzaro 1999.

 

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IL CASTELLO DI FUMONE SULLA VIA LATINA

Storia ed importanza della rocca di Fumone

Il castello sorge nell'omonimo comune, in provincia di Frosinone: collocato ad un'altezza di 800 metri, si trova in una posizione di straordinaria importanza strategica, una posizione geografica a dominio sull'intera valle del Sacco e della strada maestra che collegava Roma e Napoli: la via Latina.

Il nome di Fumone nasce dall'antica forma di  comunicazione effettuata con i segnali di fumo, che annunciavano le invasioni di nemici provenienti da sud e diretti a Roma.

La città di Fumone ed il suo castello hanno avuto un ruolo chiave durante l'invasione di Annibale: i Romani se ne servirono infatti quando il generale cartaginese, stabilitosi a Capua (area visibile dal castello), decise improvvisamente di puntare su Roma marciando attraverso la via Latina.

L’ importanza militare di Fumone continuò anche durante il corso delle guerre civili tra Mario e Silla, e tra Cesare e Pompeo. Successivamente la Rocca di Fumone fu usata dai Papi per oltre 500 anni per sorvegliare il Mezzogiorno, e come prigione pontificia per prigionieri politici.

I tentativi di conquistare la fortezza di Fumone con la forza risultarono vani a chiunque, compresi gli imperatori Federico Barbarossa ed Enrico VI, che falliti gli assedi della Rocca, sfogarono la loro rabbia devastando città e campagne a sud di Roma.

Solo papa Gregorio IX nel tredicesimo secolo riuscì, dopo mesi di assedio, a farsi aprire le porte, ma pacificamente e sotto pagamento di un grande riscatto.

L’episodio sicuramente più importante che riguarda il castello di Fumone avvenne nel 1295 quando vi fu rinchiuso il santo Papa Celestino V, che vi morì dopo dieci mesi di dura prigionia. Nel corso del 1500 il castello di Fumone perse la sua importanza militare e senza più lavori di manutenzione andò decadendo. Fu così che nel 1584 papa Sisto V decise che, essendovi morto Celestino V, il castello andava conservato come memoria storica, e lo affidò ad una famiglia aristocratica romana: i marchesi Longhi.

 

Il castello di Fumone: il Santuario di Celestino V

Senza dubbio è  il luogo più importante del Castello. La prigione ove venne recluso Celestino V venne costruita in una intercapedine tra due torri collocate all'altezza del piano nobile del castello, affinché fosse assicurata continuativamente la sorveglianza da parte del custode.

L'attuale cappella, ricavata da una delle due torri adiacenti alla prigione, era anticamente il luogo ove i carcerieri di Celestino V e i monaci celestini gli furono vicini negli ultimi dieci mesi della sua vita. Sopra l'altare, all'interno della sua prigione, vi è un'immagine del santo in marmo con sopra il capo la tiara. Alla sinistra dell'altare una piccola finestrella murata dove, secondo la leggenda, riceveva la visita di un angelo che gli forniva cibo e conforto.

La cappella è ornata da 4 stemmi in stucco sotto i quali vi sono altrettante epigrafi che riassumono le storie connesse a Celestino V e alla famiglia Longhi.

Sopra l'altare della cappella vi è un' immagine del santo in bassorilievo in cotto del XVIII sec.

 

L'archivio del castello di Fumone e il mistero del Marchesino

Vicino al Santuario vi è un piccolo cortile medievale  che conduce nell’Archivio del castello di Fumone.

In questo luogo sono conservati importanti manoscritti che vanno dal XVI al XIX secolo (quelli più antichi andarono persi durante  un incendio del 1700), ma l’archivio conserva anche, da oltre duecento anni, il corpo imbalsamato di un bambino, Francesco Longhi- Caetani ( erede della famiglia ) morto all'età di 5 anni, in circostanze misteriose e oggetto di molte leggende.

Il corpo del Marchesino si trova all’interno di una teca di vetro, chiusa a sua volta dentro un armadio ligneo. Il bambino è vestito con gli abiti dell’epoca e con il volto completamente ricoperto di cera, è circondato dai suoi giocattoli preferiti e sembra dormire sereno e tranquillo.

 

Le sale degli Antenati, dei Cesari e degli Stemmi

La sala degli Antenati, un ambiente fortemente suggestivo: i ritratti dei membri della famiglia Longhi de Paolis sono collocati sulle pareti di damasco rosso.

Busti di epoca romana, e altre importanti opere d’arte completano la splendida cornice della sala. Proseguendo si incontra la sala dei Cesari, così denominata per gli originali grandi busti di epoca romana che vi sono esposti:  sculture in marmo rappresentanti gli Imperatori Augusto, Vitellio, Marco Aurelio, Diocleziano e quello del dittatore Lucio Cornelio Silla.

Nella stessa sala si ammirano una  gigantesca urna cineraria romana in marmo pavonazzetto di grande valore e importanza, e  altre pregevoli sculture di epoca romana oltre a una serie di pitture di importanti artisti del XVI secolo.

Nell’ala Est si trova l’antica Sala degli Stemmi, un grande ambiente dal soffitto con volte a botte, da secoli utilizzata come camera da pranzo.

Un enorme camino delimita la parete sud, sulle altre pareti trovano spazio gli stemmi dei Longhi e delle più importanti famiglie aristocratiche con questi imparentate.

Di notevole importanza è l’enorme  lavabo in pietra, usato nei secoli per scuoiare e lavare gli animali destinati ad essere cucinati sulla brace del grande camino.

 

Il pozzo delle Vergini

All’ingresso del Piano Nobile si trova il  “ Pozzo delle vergini “, il crudele strumento che a volte veniva utilizzato dai Feudatari di Fumone quando decidevano di esercitare il diritto dello "IUS PRIMAE NOCTIS" ( in uso in tutti i feudi europei).

Prima di autorizzare matrimoni tra gli abitanti del suo territorio il “Signore” di Fumone  aveva la facoltà di poter trascorrere una  notte con le future spose, ma se le sventurate non arrivavano vergini al suo cospetto questi le faceva inesorabilmente precipitare nel pozzo.

 

Giardini pensili

Uno spazio verde, i Giardini Pensili all’italiana, fatti realizzare dalla famiglia nel seicento, uno spazio unico ed incantevole dal quale è possibile ammirare tutto il paesaggio ciociaro.

Le terrazze a balzo che contengono i giardini sono ricavate dalle antiche torri, dai camminamenti di ronda e dai fossati  uniti tra loro da enormi volte ricoperte di terra di castagno.

I suoi  tremilacinquecento metri quadrati di perimetro, circondati da alberi secolari, ne fanno il giardino pensile più alto d’Europa, un'oasi verde sospesa a 800 metri nell’aria.

La vista spazia su di un territorio immenso, oltre quaranta paesi, valli, fiumi, montagne, castelli, strade,  un osservatorio che domina metà del territorio della Ciociaria.

Un'opera titanica, realizzata in pochi anni, che suscitata da sempre lo stupore e la meraviglia non solo per la sua vista, ma anche per la perfezione armonica della costruzione, tipica delle ville principesche del Rinascimento.

Tra le curiosità custodite nei giardini pensili, di notevole interesse un' importante colonna romana in marmo di Luni, istoriata da un bassorilievo rappresentante l'albero della vita; inoltre la vetta della montagna, situata nel centro del giardino superiore, con i suoi 783 mt rappresenta il punto più alto di monte Fumone, la leggenda tramanda che  toccare quel cucuzzolo sia portatore di buona fortuna; tra le altre particolarità vi è il pozzo dei desideri, una cavità ricoperta da un grosso blocco di pietra, si trova lì da centinaia di anni ed infine l'albero dell'amore, un gigantesco cipressus funebris, frutto dell'unificazione di due alberi.

 

Galleria d'arte contemporanea

La Galleria d'Arte Contemporanea del Castello è stata inaugurata nell'anno 2014 ed è dedicata al Conte Giovanni de Paolis, colui che per oltre quarant'anni si dedicò alla conservazione e valorizzazione del castello di Fumone, iniziando altresì a collezionare opere d'arte contemporanea.

Dalla pittura, alla scultura, dalla fotografia alla ceramica ad elementi di design sono presenti nella galleria del castello di Fumone, opere d'arte realizzate da numerosi autori tra cui: Ignazio Schifano, Marco Stefanucci, Luciano Ventrone, Mario Schifano, Bruno D'Arcevia, Tommaso Gismondi, Pino Musi, Carlo Cecchi, Piero Pizzi Cannella, Claudio Marini, Fausto Roma, Massimo Lippi, Ugo Attardi, Rocco Iannelli, Giovanni Tommasi Ferroni, Claudio Bogino, Vincenzo Pizzorusso, Carla Viparelli, Elena Braccialini, Luigi Frappi, Riccardo Tommasi Ferroni, Jack Finnerty.

Le opere d'arte esposte nella Galleria del Conte Giovanni sono in massima parte frutto di acquisti, ma anche di donazioni e di prestiti concessi per esposizioni temporanee.

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IL MUSEO DIDATTICO DELLA FOTOGRAFIA

Sito a Sarno (Sa), il Museo Didattico della Fotografia (MuDIF) è un museo molto particolare. È contemporaneamente uno spazio museale, un archivio fotografico, un laboratorio per il restauro conservativo, una camera oscura, un centro per la digitalizzazione di fotografie antiche e una biblioteca dedicata. Insomma, più che un museo in senso classico è un insieme di tante istituzioni, una più suggestiva dell’altra. Il museo nasce dall'opera dell’associazione “Il Didrammo”, che si pone come obiettivo sia quello di non far disperdere l’enorme patrimonio fotografico della Regione Campania, sia quello di salvaguardare la foto nella sua interezza, intesa come supporto.

L’associazione ha poi dato vita nel 2001 al Centro Provinciale per il Restauro e la Conservazione della Fotografia, che diventerà poi il MuDiF, Museo Didattico della Fotografia. Nel Museo, inteso come spazio museale, sono conservate le macchine fotografiche di un tempo, le cineprese, i contenitori per le lastre fotografiche, fino a giungere ai più moderni, ma contemporaneamente antichi vista l’era del digitale, rullini. C’è una camera oscura e ci sono anche oggetti legati al mondo della fotografia, come ad esempio i fondali, particolarmente suggestivi: un tempo, infatti, quando si immortalavano i momenti più importanti di una famiglia (comunioni, matrimoni etc.) si soleva andare allo studio fotografico. Lì il fotografo posizionava il soggetto davanti a un fondale, ossia la scena di un interno che poteva essere stampata o, nei casi più preziosi, dipinta. Lo “sfondo” era tematizzato: c’era quello per le comunioni, rappresentante solitamente un altare.

C’era quello dei matrimoni, più variegato, ma che comprendeva generalmente una terrazza e un effetto prospettico. C’era quello utilizzato dagli emigranti quando inviavano le fotografie a casa, molto semplice, arricchito da una sedia e qualche oggetto d’arredamento.

Insomma, guardarli adesso è davvero un tuffo nel tempo.

Figura 1: coppia in posa. Recto verso_DDR.095.jpg archivio fotografico MuDIF

Il patrimonio conservato nell'archivio fotografico, invece, è immenso: si va dall'opera di grandi fotografi che hanno documentato i cambiamenti politici del secolo alle foto private che raccontano di piccoli eventi quotidiani: la vendemmia, i compleanni, le ricorrenze.

Ogni foto porta con sé lo spaccato di un tempo lontano, la cristallizzazione di un attimo, una sorta di emozione sospesa. Vi sono immagini scattate dai fotoreporter alle star di un tempo, come Jackie Kennedy, o a campioni dello sport, uno su tutti Maradona.

Figura 2: Jackie Kennedy. Jovane 31.jpg archivio fotografico MuDIF

Figura 3: Francesco Jovane posa con il famoso calciatore Maradona.Album “Jovane”. Archivio fotografico MuDIF

Vi sono poi le fotografie che raccontano dei festival del cinema e dei vip che li frequentavano, oppure foto “rubate” a personaggi e attori famosi dell’epoca.

Un po’ come oggi, è solo il bianco e nero che ci riporta ad un’epoca lontana, così come i volti fin troppo noti di artisti che hanno fatto la storia.

Figura 4: sopra Alberto Sordi e Monica Vitti, Cinema e spettacolo_JOV.04A.02.jpg. Sotto Grace Kelly.Cinema e spettacolo_JOV.0061s.jpg, archivio fotografico MuDIF

Costituisce motivo di maggior pregio poter osservare il passaggio del tempo: la carta un po’ assottigliata, una sorta di rarefazione che permea la foto e che fa immediatamente capire di trovarsi al cospetto di un professionista.

Il Museo ha un patrimonio incredibile: nell'archivio fotografico sono conservati circa 85.000 fototipi, i cui nomi sono un vero e proprio tuffo nella storia della fotografia.

Dagherrotipi, ambrotipi, ferrotipi, aristotipi, stampe all'albumina, stampe al carbone, diapositive su lastra di vetro alla gelatina di bromuro d'argento, pellicole negative al nitrato di cellulosa, collotipi etc.

Oltre a ciò, il Museo è anche un laboratorio specializzato nel restauro conservativo, l’unico in Campania. È riconosciuto dall’ICCD come ente catalogatore, e può vantare una ricca biblioteca sull’argomento.

Insomma, è un Museo che contiene tante storie e tanti rami. Uno di quei luoghi della cultura che offre spunti incredibili solo a chi ha la curiosità di varcare le sue porte.

 

Si ringrazia il Museo Didattico della Fotografia per l’autorizzazione all’utilizzo delle immagini e per la consulenza tecnica.

http://www.ildidrammo.it/[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


IL SANTUARIO DI SAN ROMEDIO DELLA VAL DI NON

Un santuario verticale

Nel piccolo paese di Sanzeno è situato il santuario dedicato a San Romedio. Il santuario si innalza su uno sperone di roccia alla confluenza di due torrenti, all'interno di una suggestiva gola tra i meleti della bassa Valle di Non. Il santuario è un’imponente struttura architettonica caratterizzata da cinque chiese che si inerpicano sulla sommità della roccia. L’eccezionalità del santuario è legata alla leggenda dell’orso; leggenda che ha favorito la sistemazione di un’area recintata, come luogo di ricovero dei plantigradi destinati altrimenti alla soppressione.

Il Santuario di San Romedio è oggi meta di pellegrini provenienti non soltanto dal Trentino, ma da tutto il vicino Tirolo. È infatti a Thaur, nella valle dell’Inn, in Tirolo, che Romedio, esponente della nobiltà bavarese, avrebbe ricevuto i natali, per poi compiere, intorno all’anno Mille, un pellegrinaggio a Roma con i compagni Abramo e Davide. Un pellegrinaggio che avrebbe radicalmente modificato la sua vita, spingendolo a donare tutte le sue proprietà alla chiesa di Trento per ritirarsi in preghiera e meditazione su un’altissima rupe vicino a Sanzeno.

Tra l’XI secolo e il XII secolo, sul culmine della rupe di Sanzeno, Romedio realizzò lo spazio più antico del Santuario come abitazione oppure luogo di adorazione. Alla morte del Santo, i discepoli trasformarono questo spazio in una Chiesa dedicata, prima, a San Nicolò e, poi, a San Vigilio e la decorarono con un ciclo di affreschi che racconta la storia di Romedio. A fianco della Chiesa, i discepoli eressero un sacello di piccole dimensioni, la cosiddetta Cappella delle Reliquie per contenere i resti del santo eremita. La Cappella è suddivisa in tre navate con colonne e capitelli di scultura preromanica e affreschi duecenteschi che presentano legami stilistici con le opere della pittura altoatesina. L’ingresso ai due ambienti è dato da un pregevole portale duecentesco che fu fatto fare da una certa “Aricarda Munica”, nel 1200, secondo l’iscrizione apposta sul portale. La donna doveva essere vicina alla famiglia trentina dei Cles, probabilmente una vedova di lignaggio che decise di consacrare la sua vita a Dio e di vivere nell’eremo. A lato del portale, una serie di affreschi del XII-XIII secolo possono essere considerati tra i più antichi esempi di pitture murali del Trentino. Secondo alcune ipotesi questi affreschi sarebbero precedenti alla realizzazione del portale e originariamente avrebbero avuto la funzione di accogliere i pellegrini che affrontavano la salita verso l’eremo e sostavano nei pressi della tomba del santo eremita.

Nel 1487 fu la famiglia dei Cles a sistemare e ampliare l’antico eremo con la realizzazione della Cappella dedicata a San Giorgio (Cappella Clesiana), posta all’inizio del percorso di visita al santuario. Si tratta di una struttura caratterizzata da una volta a crociera e decorata con affreschi del XV-XVI secolo. Sono affreschi di autore ignoto che, sulle pareti, raffigurano le vicende della vita di San Giorgio, e sulla volta, i quattro simboli degli Evangelisti e le figure dei Dottori della chiesa.

Nel 1513 furono i conti Thun ad ottenere il giuspatronato sul santuario, facendo costruire la terza chiesa del santuario, la Chiesa di San Michele Arcangelo. La chiesa è una tipica cappella nobiliare, in stile gotico clesiano con volta a botte e una grande decorazione ad affresco che raffigura la scena dell’Orto degli ulivi e i conti Thun, committenti dell’opera.

Su incarico dei conti Cristoforo e Bernardino Thun, nel 1536 venne avviata la quarta chiesa del santuario con le pietre portate dai pellegrini, ovvero la Chiesa Maggiore dedicata a San Romedio, a fianco dell’antico Sacello delle Reliquie e della Chiesa di San Vigilio. È un ambiente ad aula unica con campanile e planimetria irregolare che ha sotto il pavimento un luogo di antichissima devozione, la “grotta” di San Romedio. La “grotta” poteva trattarsi della sua antica tomba o di un luogo dove si ritirava in preghiera.

Fu però a partire dal Settecento che il santuario acquisì un aspetto unitario dal punto di vista architettonico e artistico con il completamento dell’accesso che ha visto la costruzione del Loggiato rinascimentale (1729) e della lunga scalinata (1864) che porta al percorso di visita. La lunga e ripida scalinata è delimitata da una grande serliana (1770) con quattro colonne in pietra rossa che sostengono l’arco portante e l’immagine di San Romedio con i compagni Abramo e Davide. Una scritta fa da monito ai pellegrini “Il silenzio è di dovere varcando questa soglia”.

Il visitatore che sale la scalinata troverà il percorso scandito da alcune suggestive edicole votive che raffigurano gli episodi della Passione di Cristo. Sono opera dello scultore Vigilio Prati di Cles che realizzò sette complessi scultorei (1707), in legno scolpito e dipinto, che raccontano il calvario di Gesù Cristo, attraverso vere e proprie raffigurazioni a tutto tondo. Sono state qui sistemate per interpretare attraverso il racconto della Passione di Cristo, la fatica del devoto che sale la ripida scalinata del Santuario, qui emblema della “scala della vita”.

In ultimo, ma non meno importante, alla base della lunga scalinata di accesso al santuario è stata sistemata la quinta e ultima chiesa, la Cappella dell’Addolorata, eretta come ex-voto dei reduci della prima guerra mondiale.

IIl Santuario di San Romedio è ogni anno visitato da centinaia di turisti e pellegrini provenienti dal Tirolo e da tutta Italia; richiamati anche dal bellissimo sentiero che porta al santuario, ovvero una lunga galleria scavata nella roccia della gola di Sanzeno. Come spesso accade per i monumenti religiosi, i visitatori invocano l’aiuto del santo lasciando foto od oggetti di ex voto; oggi parte di questi si possono ammirare lungo le pareti della scalinata maggiore.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

Degasperi Fiorenzo, San Romedio. Una via sacra attraverso il Tirolo storico, Trento, Curcu&Genovese, 2015

Massari Giovanna, San Romedio. Uno sguardo inedito. Storia devozione arte architettura. Guida alla lettura dell'ipertesto, Edizioni scientifiche e artistiche, 2012

Faustini Gianni, Rogger Iginio, Il più bel santuario delle Alpi. Guida a San Romedio,

Trento, Valentina Trentini, 2009

Svaldi Pierluigi, San Romedio. Un santuario sulla rupe, Genova, 2008

Micheli Pietro, S. Romedio nobile di Taur, Trento, 1981.

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LA GROTTA DEL ROMITO A PAPASIDERO

Arte preistorica a Papasidero

La grotta del Romito è un sito risalente al Paleolitico superiore, contenente una delle più antiche testimonianze dell'arte preistorica in Italia e una delle più importanti a livello europeo, situata in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella valle del fiume Lao, in Calabria, provincia di Cosenza.

Il sito consta di due parti: la Grotta vera e propria è lunga circa 20 metri, e il Riparo che si estende è circa 34 metri. I depositi della grotta e del riparo costituiscono una sola grande formazione in cui si possono ammirare suggestive stalagmiti e stalattiti; all’interno si trova anche una galleria ancora inesplorata.
Sito di fondamentale importanza per la preistoria calabrese, esso costituisce uno dei più importanti giacimenti italiani del Paleolitico superiore (30.000-10.000 anni fa) e attesta frequentazioni più recenti risalenti al Neolitico europeo (7.000 – 4.000 anni fa). Ed è proprio in questa cavità che visse “l’uomo del Romito”, probabilmente un uomo di Cro-Magnon, il quale non sapeva allevare gli animali, non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica. In seguito fu l’Homo Sapiens ad abitare intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio con i suoi strumenti litici e ossei, con lo stupendo graffito e con i resti dei propri scheletri.

La Grotta viene scoperta nella proprietà di Agostino Cersosimo, nella primavera del 1961, su segnalazione di due Papasideresi, durante un censimento agrario. In realtà, già nel 1954, un appassionato di archeologia di Laino Borgo aveva segnalato l’esistenza del Riparo precisando la presenza della figura di un toro. La grande scoperta fu quindi affidata ad un archeologo di fama internazionale, Paolo Graziosi, dell’Università di Firenze, che diresse i lavori fino al 1968. Nell'ultimo decennio, a partire dagli anni 2000, la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, Fabio Martini, che insegna nella stessa Università.

Le numerose scoperte archeologiche restituite dal sito offrono agli studiosi parecchi elementi utili alla ricostruzione storica delle attività delle comunità di cacciatori-raccoglitori che abitarono il sito, le condizioni di vita dei gruppi umani preistorici, la loro interazione con l’ambiente e il paesaggio circostanti. Indicazioni sulla fauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dalle dinamiche climatiche avvenute dalla fine del Paleolitico al Neolitico: la presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa e avente fasi di ingrossamento alterne nei secoli, ha consentito la frequentazione umana in seguito ai prosciugamenti ed interventi di bonifica.
Riferibile al periodo Neolitico è ad esempio il ritrovamento di ossidiana che lascia ipotizzare “l’area del Romito” come centro di scambio e transito, tra l’area tirrenica e quella jonica, del vetro vulcanico proveniente dalle isole Eolie, confermando l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e il controllo di questo materiale.  Nel cunicolo della grotta è stato rinvenuto un punteruolo di osso con inciso un motivo geometrico costituito da un rettangolo inscritto in un altro, da fasci di linee parallele, rette e zig-zag e da segni a dente di lupo ai margini dello strumento. Essi ricordano analoghi motivi geometrici dell’“arte mobiliare”, forme artistiche relative agli oggetti “Mobili” cioè di oggetti di uso sia rituale sia quotidiano risalenti al periodo preistorico, della grotta Polesini presso Tivoli e di quella spagnola del Parpallò presso Valencia.

Nei livelli più alti del terreno sono state rinvenute tre sepolture datate a 9.200 anni fa, contenenti ciascuna una coppia di scheletri disposti secondo un procedimento ben definito e giacenti in strati epipaleolitici. Una di queste sepolture si trova nella Grotta e due nel Riparo, poco distanti dal masso con la figura taurina. Gli scheletri sepolti all'interno della Grotta del Romito, sono differenti dagli altri resti trovati in Europa perché i ricercatori precedentemente avevano trovato resti scheletrici sepolti individualmente, mentre in questo insediamento hanno trovato per lo più coppie di scheletri. Le sepolture hanno suggerito agli studiosi che probabilmente la Grotta era un posto “sacro” dove veniva effettuato il cosiddetto “Matrimonio-Sati” (la sepoltura di una coppia), conferma della supremazia delle associazioni filiali fra gli uomini e le donne dagli inizi stessi della storia umana. I primi scheletri rinvenuti alla luce nel Riparo sono: un uomo e una donna sdraiati in una piccola fossa ovale l’uno sull’altro.  La donna copriva in parte la spalla sinistra dell’uomo e la sua nuca poggiava sulla guancia del compagno. L’uomo le copriva le spalle col braccio sinistro, mentre il destro era disteso lungo il corpo. Il corredo funebre era costituito da un grosso frammento di corno di bos primigenius appoggiato sul femore sinistro dell’uomo, mentre un altro corno era appoggiato sulla spalla destra. Intorno agli scheletri erano deposte delle selci lavorate. I due individui, di 15/20 anni di età, sono ambedue di statura molto piccola: 1,40 metri il maschio, 85 centimetri la femmina, che presenta il femore e l’omero affetti da un forte dismorfismo e da osteoporosi.

Altri due scheletri umani ritrovati nel Riparo sono disposti l’uno sull’altro e di sesso diverso. Si tratta di individui che avevano circa 30 anni, alti 1,46 e 1,55 metri, entrambi sepolti con le gambe flesse. Alcune ossa del secondo individuo non erano al loro giusto posto (l’uomo a destra figurava, infatti senza femore e con l’epifisi nella fossa del bacino), probabilmente perché dopo la morte del primo individuo, alla riapertura della fossa per seppellirvi il secondo, sarebbero state involontariamente mosse le ossa è asportato il femore del primo.

La terza sepoltura si trovava nel deposito della grotta circa allo stesso livello di quelle del riparo. Erano due individui sdraiati sul dorso e affiancati, con le braccia distese, la destra appoggiata sul bacino e la sinistra entro il bacino. Si tratta di due individui maschili, di età al di sotto dei venti anni, di statura di 1,59\1,60 metri circa. Dello scheletro di sinistra rimanevano solo il bacino, gli arti inferiore e le ossa di un braccio. Parte della scatola cranica e metà della faccia furono ritrovate in seguito, in quanto il deposito era stato sconvolto da lavori di scavi forse per rendere pianeggiante il terreno. L’individuo di destra era, invece, completo.  Di questi scheletri una coppia è esposta al Museo di Preistoria di Firenze, insieme alle schegge litiche ritrovate (circa 280); un’altra è esposta al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria e una terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze nei loro laboratori. Durante gli scavi sono state rinvenute anche un paio di sepolture singole. Un anziano di 35 anni (corrispondenti agli odierni 100) che, dagli accertamenti del caso, è risultato essere stato reso disabile da molte malattie, ferimenti da caccia e cadute. L’altro ritrovamento umano di grande interesse, si è rivelato essere quello di un giovane cacciatore che, nonostante la giovane età, fu sepolto con un corredo di oggetti degni di un capo. Altra caratteristica interessante di quest’uomo paleolitico, è l’altezza notevole per l’epoca e per la zona meridionale infatti, lo scheletro ritrovato appartenevano ad un individuo alto 1,74 metri.

Oltre agli importanti resti umani, sono state ritrovate incisioni rupestri. La prima è quella dei cosiddetti “Segni Lineari (fig.3), un masso di circa 3.50 metri, con semplici tratti rettilinei o leggermente curvilinei, più o meno profondamente incisi, disposti in tutte le direzioni, senza alcun significato apparente.

La seconda è quella del “Masso dei Tori” che si trova presso l’imboccatura della grotta sono incisi su diversi livelli tre profili di Bos Primigenius, un bovino selvatico antenato dei bovini domestici. Rappresenta una delle più importanti raffigurazioni dell’arte rupestre del Paleolitico Superiore: è così perfetto nel disegno e nella prospettiva, quanto nella scelta della superficie rupestre che gli dona un senso tridimensionale, da far affermare al professor Graziosi di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un “Michelangelo dell’epoca”. La figura di toro (fig. 4), lunga circa 1,20 metri è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45°. Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguito con tratto sicuro così come è caratteristico dell’arte paleolitica. Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti ed hanno il profilo chiuso. Sono rappresentati con cura alcuni particolari, come le narici, la bocca, l’occhio e, appena accennato, l’orecchio. In grande evidenza sono le pieghe cutanee del collo e i piedi fessurati. Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza dei reni.

Secondo Graziosi:” Si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero alla esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”. Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche esso presenta le corna proiettate in avanti, ma a profilo aperto e solo nella seconda metà divise in due, mentre nella prima parte appare un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sull'estremità inferiore dello stesso masso è incisa una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si trova una stalagmite a forma di equide senza testa. Graziosi sostiene che:” Il rinvenimento delle sepolture nell'area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”. Infatti la ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull'universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche. Lo studioso Martini assegna a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce all'ambiente un indiscutibile legame con il sacro. L’importanza del sito di Papasidero, è legata all'abbondanza di reperti, che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 e 10.000 anni fa, che hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens”.

Bibliografia

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