IL PALAZZO DELLA ZISA A PALERMO

La Splendida

Il Palazzo della Zisa, dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”, venne edificato nel 1165 come residenza di villeggiatura per volere del re normanno Guglielmo I d’Altavilla, detto “Il Malo”. Il “Sollatium” fu costruito all'interno del parco reale che si trovava al di fuori delle mura che delimitavano l’antica città di Palermo, il cosiddetto Genoardo (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”). Questo parco si estendeva dall'odierna città di Altofonte fino alle mura del palazzo reale ed era ornato da splendidi padiglioni e bacini d’acqua. Nel 1166, anno in cui morì Guglielmo I, il palazzo era stato già edificato come riporta Ugo Falcando nel <<Liber de Regno Siciliae>>:“con estrema velocità, non senza ingenti spese”. Tale celerità forse era da attribuire a maestranze musulmane molto esperte e preparate, a tal punto da consentire una rapida esecuzione dei lavori. L’opera fu ultimata nel 1175 dal figlio e successore al trono Guglielmo II definito “Il Buono”. Un’epigrafe in caratteri naskhī, che si trova, tutt'oggi, nell'intradosso dell’arcata d’accesso alla Sala della Fontana, definisce il palazzo “il tesoro più bello e il più splendido tra i reami del mondo […] una casa di letizia e di splendore, il paradiso terrestre che si apre agli sguardi”.

La dominazione sveva di Federico II portò la Sicilia a distaccarsi definitivamente dall'Oriente e dal continente africano per legarsi all’Europa, con conseguente  decadenza del palazzo. Con l’avvento degli Angioini e le lotte contro gli Aragonesi la Zisa fu abbandonata. Fu l’epoca chiaramontana di Manfredi ad imprimere una svolta sull'aspetto dell’edificio che nel XIV secolo assunse le connotazioni di un castello fortificato, mediante il taglio ad intervalli regolari del muretto d’attico per ricavarne una merlettatura. Per tale motivo fu mutata la sua denominazione in castello. Numerosi furono i detentori del palazzo; nel 1440 Alfonso il Magnanimo “Re delle due Sicilie”, concesse il palazzo al vescovo e grande umanista Antonio Beccadelli di Bologna. Con l’imperatore Carlo V d’Asburgo il palazzo passò nelle mani del nobile Pietro de Faraone per remunerare la fedeltà nei suoi confronti. Fino al XVII secolo l’edificio non venne sostanzialmente modificato. In seguito all'epidemia di peste che investì Palermo nel 1624, la Zisa fu adibita come deposito per la merce sospetta da sottoporre a quarantena. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval cavaliere dell’Alcantara acquistò l’edificio e lo adattò alle proprie esigenze abitative. Fu aggiunto un altro piano con la chiusura del terrazzo e fu costruito nell'ala destra del palazzo un grande scalone che sostituì le originarie scale d’accesso. Dal 1800 fino al 1950 i Principi Notarbartolo, eredi della Casa Ducale dei Sandoval de Leon, ne fecero la propria residenza apportando diverse opere di consolidamento. Venne modificata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nei prospetti vennero modificate le bifore, inserendo dei finestroni. Nel 1955 il palazzo fu espropriato ed acquisito dalla Regione Sicilia. I lavori di restauro appena intrapresi vennero subito sospesi. Nel 1971, dopo anni d’incuria e di abbandono, l’ala destra dell’edificio crollò. Il restauro definitivo venne affidato al dottore G. Caronia, il quale, dopo anni di lavori, restituì alla storia uno dei monumenti più rappresentativi della Sicilia normanna. Dal 1991 il Palazzo della Zisa ospita il Museo d’arte islamica e dal 3 luglio 2015 fa parte del Patrimonio dell’Umanità (Unesco) nell'ambito dell’Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale.

Il Palazzo della Zisa: esterni

La Zisa ha la forma di un parallelepipedo che misura  25 metri di altezza x 36.36 m di lunghezza e 19.60 m di larghezza, sui lati corti aggettano due corpi turriformi larghi 4 m x 2.35 m. Realizzata con muri a sacco di tufo morbido e poroso, le pareti sono formate da blocchi di pietra rettangolari con superficie piana. Nel  prospetto principale troviamo tre fornici, quello centrale è il più grande ed è formato da una doppia ghiera leggermente degradante, ed accoglie su entrambi i lati una coppia di colonne. Gli altri due fornici sono di uguale grandezza, ma più piccoli rispetto a quello centrale. Le numerose aperture si presentano perfettamente allineate conferendo orizzontalità alla composizione di tutte le facciate. Originariamente queste erano delle bifore, ma nessuna finestra si presenta come allora.

Attorno alle quattro aperture del primo piano troviamo un marcapiano che delinea le finestre a differenza del secondo piano dove le aperture sono avvolte da arcate cieche. La composizione muraria del secondo piano presenta delle eccezioni: le finestre ripetono per forma, dimensione e disposizione quelle del primo piano, ma sono in totale cinque, ai lati di quella centrale vi sono due aperture più piccole rispetto al resto. Nella facciata occidentale sono visibili otto feritoie basamentali sopra sei monofore e solo le due laterali sono circoscritte da un’arcata cieca a ghiera unica. Tutta la struttura è coronata da merlature e da un parapetto racchiuso fra due cornici con fregio a palmette. Sul prospetto principale rimangono i resti di una iscrizione in caratteri cufici. Poco distante dal palazzo alla Zisa collegato da un corridoio di arcate,non più esistente, la vicina cappella, detta chiesa della SS. Trinità, ad un’unica navata e con volta a crociera.

Il Palazzo della Zisa: interni

Il Palazzo della Zisa presenta una struttura architettonica molto complessa, dominata da una rigorosa simmetria. Un asse parallelo divide l’edificio in due identiche e speculari metà che trovano riscontro nel sistema d’acqua della Sala della Fontana posta al piano terra. La sala di rappresentanza, a pianta cruciforme e sormontata da una volta a crociera, si apre ad oriente in un continuum con la natura, attraverso il corso d’acqua che dalla fontana conduce alla peschiera. La fontana ha il carattere di un trono e al suo vertice presenta un mosaico che raffigura un’aquila a volo basso, simbolo della maestà regia. L’acqua originariamente usciva al di sotto del mosaico, scivolava rifrangendosi nella lastra obliqua decorata a chevrons (zig-zag) scorreva sul pavimento entro una canaletta, inframmezzata da due piccole vasche quadrangolari, per poi confluire nel bacino esterno.

La parte superiore della fontana è decorata da una cornice intarsiata a motivi geometrici al cui interno è inserito un pannello musivo raffigurante un doppio nastro intrecciato a formare tre dischi al cui interno sono riprodotti degli arcieri affrontati che scoccano le loro frecce verso dei volatili accovacciati su un albero, mentre ai lati due pavoni con al centro una palma stilizzata. Questa fascia musiva è databile alla seconda metà del XII secolo.

Ai lati della nicchia mosaicata, nelle pareti della sala e nel sott’arco sono presenti degli affreschi molto lacunosi con figure mitologiche testimonianza delle varie trasformazioni apportate durante il Seicento.Lo spazio è ornato da colonnine poste agli angoli con capitelli decorati con fogliati e uccelli, confrontabili con alcuni capitelli del chiostro di Monreale. Peculiari sono le nicchie ai lati della sala, decorate da volte alveolate in stucco, chiamate muqarnas soluzione tipica dell’architettura musulmana. I muqarnas sono delle strutture autoportanti formate da numerosi elementi lapidei scolpiti e aggregati in modo da plasmare forme compiute.  Su entrambi i lati della fontana vi sono dei corridoi da cui diramano dei vani.

Inoltre, al pianterreno troviamo il vestibolo, posto lungo l’intera facciata principale, da cui si accede all'edificio. Questo elemento fungeva da separazione e mediazione fra l’esterno e l’interno.

Il primo piano si presenta di dimensioni inferiori, in quanto buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d’ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Le ali del piano si compongono, come quelle del pianterreno, di vani di passaggio, di servizio e di soggiorno, probabilmente questo luogo era riservato esclusivamente alle donne. Il secondo piano si configura come un entità autonoma rispetto al resto della struttura edilizia. Considerato l’appartamento reale, la distribuzione degli spazi deriva dalla casa tradizionale islamica. Originariamente al centro di questo piano vi era la sala belvedere, che era priva di soffitto e serviva a raccogliere l’acqua piovana. Infine, il terrazzo costituito da una superficie uniforme è cinto da un muretto merlato. Lungo il suo asse si innalzano cinque padiglioni, che rivestivano un carattere funzionale ma anche estetico; quelli mediani infatti erano strutture poste a copertura degli originali cortili pensili.

Il Giardino

Secondo alcune fonti letterarie il Palazzo della Zisa, sorgeva e ornava il parco reale, il cosiddetto Genoard (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “paradiso della terra”) che si estendeva ad ovest fino ai territori di Monreale e Altofonte e a sud fino alla zona di Brancaccio. Il Palazzo era circondato da un giardino-paradiso, ricco di frutteti, piante ornamentali, animali esotici, bacini d’acqua e di un sistema di canalizzazioni che portavano l’acqua dalla vicina fonte Gabriele a numerose peschiere. Antistante il palazzo rimangono i resti di un piccolo bacino d’acqua a forma regolare che doveva forse ospitare un padiglione aperto sui quattro lati, accessibile da un piccolo ponte di pietra, non più esistente. Il giardino e il palazzo erano in continua simbiosi grazie al grande iwan della Sala della Fontana, dalla quale sgorgava l’acqua e attraverso dei canali finiva nella profonda peschiera svolgendo anche una funzione climatizzante. Come il palazzo, il giardino subì dei cambiamenti, i giochi d’acqua e le statue del giardino furono utilizzate nel 1402 dal re Martino I, dopo aver conquistato la Sicilia, per ristrutturare la reggia di Barcellona. Successivamente a causa di una crisi demografica, il giardino venne adibito alla coltivazione di orzo. Con Giovanni de Sandoval il giardino conservò gran parte del suo carattere lussureggiante. In seguito verrà distrutto dall'espansione della città.

La Leggenda

Due misteriose leggende si intrecciano sul Palazzo della Zisa. La tradizione popolare narra che quando sulla città di Palermo soffia un vento molto forte,ciò sia dovuto all’uscita dal palazzo dei cosiddetti “diavoletti”, che portano con sé l’aria fresca che si trova dentro il palazzo.Tale leggenda nasce, probabilmente, dalle correnti d’aria fresca generate all’interno dell’edificio, nato come residenza estiva del sovrano, da un efficace sistema di areazione. Grazie alla sua esposizione a nord-est, la brezza che si genera dal mare riesce a ventilare i diversi ambienti mediante dei fori presenti sul pavimento di ogni piano, geniali accorgimenti di architettura araba. Il palazzo, infatti, rappresenta uno degli esempi più preziosi e interessanti di architettura bio-climatica, dove tutto è refrigerato in modo naturale.Tornando ai diavoletti, tutto ha origine da un affresco dipinto sulla volta della Sala della Fontana in cui sono raffigurati alcune figure mitologiche da sempre considerate dei diavoli. Essi sono, inoltre, custodi di un inestimabile tesoro, contenente monete d’oro, nascosto nei sotterranei del palazzo.Il tesoro sarebbe arrivato a Palermo per mano di due giovani amanti, Azel Comel e El-Aziz, figlia del sultano, costretti a scappare perché il padre della ragazza, si era opposto alle loro nozze. Arrivati nel capoluogo siciliano, Azel avrebbe chiamato i migliori costruttori per erigere il palazzo con i soldi sottratti al sultano, ma quando arrivò la notizia del suicidio della madre di El-Aziz a causa della loro fuga, la ragazza si suicidò. Azel, pieno di dolore, viaggiò per il mondo con una barca, finché il mare, impietosito dalla sua sofferenza, pose fine alla sua vita.

I due amanti prima di morire fecero un incantesimo sul loro immenso tesoro, affidandone la protezione a questi temibili diavoletti. Se il tesoro verrà trovato dai cristiani porrà fine alla povertà della città di Palermo. L’unico modo per riuscire nell’impresa sarebbe quello di contare i diavoli il 25 marzo, giorno dell’Annunziata, ma è praticamente impossibile decretarne il numero esatto, sembra quasi che, di volta in volta, se ne aggiunga o scompaia qualcuno, per ostacolarne il conto e salvaguardare il tesoro.

Queste leggende hanno dato luogo a due modi di dire, in passato molto usati. Con l’espressione “E chi su, li diavoli di la Zisa?” (E chi sono, i diavoli della Zisa?) si indica una situazione in cui i conti non tornano, oppure “Oggi si sono liberati i diavoli della Zisa” è un commento al fatto che il vento è piuttosto violento.

Come afferma Giuseppe Pitrè la difficoltà di contare esattamente i diavoli della Zisa è data dal fatto che alcune delle figure sono molto piccole e altre non intere, così c’è chi li conta e chi no.

Museo d’Arte Islamica

Il gioiello della Zisa ospita al suo interno un Museo d’Arte Islamica che consta di oggetti di fattura musulmana proveniente sia dalla Sicilia ma anche da diversi paesi del bacino del Mediterraneo.  Nelle sale sono esposti manufatti realizzati durante il periodo della dominazione araba in Sicilia (dal IX al XI secolo), e oggetti di matrice islamica realizzati  durante la dominazione normanna (dal XI al XII secolo). Tra questi pezzi si annoverano anfore, diversi utensili di uso comune e di arredo come candelieri, ciotole, bacini, mortai realizzati in ottone, oro e argento, decorati con incisioni e impreziositi da agemine (cioè fili e lamine sottili) e un’ampia collezione di “mashrabiyya” cioè paraventi lignei a grata (composti da tanti rocchetti incastrati fra di loro a formare raffinati disegni e motivi ornamentali). Questi paraventi provenienti dall’Egitto ottomano, facevano parte della collezione Jacovelli. Di degna nota è l’iscrizione lapidea cristiana datata 1149 in quattro lingue: ebraico, latino, greco-bizantino e arabo, testimonianza della multietnicità in epoca medievale della città di Palermo.

Bibliografia:

  •  Bellafiore G., “La Zisa di Palermo”, Flaccovio Editore 2008
  • Caronia G., “La Zisa di Palermo” Storia e restauro”, Editori Laterza 1987
  • Filippi L., I diavoli della Zisa, Leone Editore 2009
  • Spatrisano G., “La Zisa e lo Scibene di Palermo”, Palumbo Editore 1982
  • Staacke U., “Un Palazzo Normanno a Palermo “La Zisa”: La cultura musulmana negli edifici dei Re ”, Comune di Palermo 1991

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SACRO E PROFANO A MONTEFOSCOLI

Un borgo ai margini: Montefoscoli

Gigi Salvagnini nel ripercorrerne le cronache dal Mille al Duemila introduce Montefoscoli come un “lungo agglomerato di case fuori d’ogni logico itinerario”, un territorio immerso nel cuore toscano, poco lontano da Palaia (di cui è infatti una frazione del comune), sebbene già nella giurisdizione diocesana di Volterra, da cui dista circa una trentina di chilometri.

Effettivamente fuori dai percorsi turistici più frequentati e dalle vie di comunicazione che portano verso i grandi centri storici della regione, questo delizioso borgo rischia di rimanere ai margini degli interessi culturali anche dei più curiosi, pur nascondendo invece tra i suoi boschi uno dei monumenti maggiormente insoliti della zona.

Procedendo con ordine, la fondazione del paese si fa risalire convenzionalmente al 1102 quando, secondo le fonti storiche, alcuni feudi vicino Peccioli, fra cui il castello di Montefoscolo, passarono nelle proprietà di un certo Foscolo Scarpetta di Pisa. La chiesa duecentesca di Santa Maria Assunta (fig.1), che si trova nella parte più alta del paese, costituisce una fra le poche superstiti testimonianze del passato medievale di Montefoscoli, in quanto centro di aggregazione sociale e cristiano della comunità contadina-agreste che ha animato e sostenuto la vita del borgo fin dagli albori.

Fig. 1 - Chiesa di Santa Maria Assunta.

La chiesa di Santa Maria Assunta

L’aspetto odierno della facciata è stato in gran parte rimaneggiato nel 1947, quando avvenne un radicale restauro “in stile” a cura del genio civile, che mise in opera elementi ornamentali “romanici”, come le decorazioni della ghiera attorno l’oculo e i finti bacini policromi a ornamento della lunetta: il campanile, coronato con un terrazzino balaustrato che andò a sostituire una precedente guglia distrutta durante il terremoto del 1846, è unito al corpo della chiesa e unificato in facciata da un paramento murario continuo in mattoni. Anche l’interno ad aula unica presenta un assetto sette-ottocentesco, concluso nella zona presbiteriale da un ampio catino absidale che venne affrescato nei primi decenni del Settecento da Anton Domenico Bamberini (1666-1741) con una scena ritraente l’Assunzione di Maria, in linea con l’intitolazione della chiesa. L’opera, di cui oggi rimangono solo le carte d’archivio che attestano il pagamento al Bamberini, col passare dei secoli andò perduta, e lo stesso spazio venne nuovamente decorato nel 1991 dal pittore Stefano Ghezzani (allievo del maestro Pietro Annigoni) che vi rappresentò le Nozze di Caanan, nel momento in cui Gesù dispone di portare al banchetto le giare contenenti l’acqua tramutata in vino (fig.2). L’episodio, dai caldi colori e dalla immediatezza comunicativa dei personaggi, si apre sullo sfondo a un paesaggio collinare che sembra dialogare con gli scenari naturali intorno a Montefoscoli.

Fig. 2 - Stefano Ghezzani, Nozze di Cana.

Ai lati dell’arco trionfale trovano posto due statue lignee raffiguranti Maria annunciata e l’Angelo, attribuite dai primi studi alla mano di Nino Pisano (1315-1370) e oggi assegnate all'anonimo Maestro di Montefoscoli (fig.3). Secondo la critica l’autore del gruppo scultoreo sarebbe da collocare nel contesto pisano, fortemente influenzato dai modelli del sopracitato Nino ma anche dalla maniera più addolcita sviluppata dal giovane senese Francesco Valdambrino (1363-1435), che fra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento è documentato proprio nei territori di Lucca e Pisa. L’Annunciazione di Montefoscoli si presenta infatti conforme ai topoi nineschi, nell'organicità della struttura, pur esibendo nelle capigliature e nei panneggi un aggiornamento verso i modi naturali e cortesi di Valdambrino.

Fig. 3 - Maestro di Montefoscoli, Annunciazione.

Nella stessa chiesa è conservato inoltre un Crocifisso ligneo policromo, simbolo dell’ardente religiosità dei montefoscolesi che secondo la leggenda contesero il simulacro con gli abitanti di Legoli: la croce trovata in aperta campagna nella zona di confine fra le due parrocchie sarebbe stata di nuovo innalzata nel punto del ritrovo per poi cadere spontaneamente dalla parte di Montefoscoli.

L'obelisco ai caduti

Usciti dalla chiesa nella piazza antistante si trova l’obelisco dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, in seguito arricchito dai bassorilievi bronzei dello scultore genovese Silvio Oreste Minaglia (1886-1971), a cui i Donati di Montefoscoli avevano già commissionato la monumentale Pietà bronzea posta trent'anni prima sul sepolcreto della famiglia del locale cimitero. Minaglia fu attivo in area genovese e in diverse regioni d’Italia per cui realizzò una serie di numerose lapidi e monumenti nella riconoscenza che la patria offriva ai suoi caduti. Proprio per Montefoscoli nel 1964, grazie al contributo della famiglia Donati e della popolazione, lo scultore forgiò il rilievo bronzeo raffigurante l’Angelo della morte che sostiene il fante caduto, una raffigurazione in linea con la koinè nazionale di quegli anni che univa realismo e allegoria (fig.4); il soldato semplice è infatti rappresentato con i pantaloni dell’uniforme ma a torso nudo, riferendosi al modello del guerriero classico, sebbene qui la magrezza scavata del costato voglia alludere concretamente alle tragiche e dolorose conseguenze della guerra piuttosto che al vano eroismo a cui la propaganda aveva istigato. Alle spalle un angelo dalle grandi ali a sciabola sorregge e accompagna il fante verso la serenità della morte, a cui la stessa figura sottintende, combinando nella medesima scena “contingenza storica e dimensione immaginaria ultraterrena”.

Fig. 4 - Silvio Oreste Minaglia, Angelo della morte che sostiene il fante caduto.

Le edicole votive

Lasciando questa parte del paese e girando per le strade di Montefoscoli e nelle località vicine, potrà capitare di osservare sulle mura delle case e negli angoli delle vie un gran numero di tabernacoli, nicchie, marginette, contenenti figure e immagini sacre prevalentemente mariane, a riprova della spiccata religiosità cristiana che animava gli abitanti della zona, che vedevano in queste piccole raffigurazioni dei simboli protettivi. Il testo di Pietro Calloni dal titolo La pietà popolare nel territorio di Montefoscoli raccoglie con fotografie e commenti tutte le edicole votive del luogo, ponendo a confronto le diverse tipologie, alcune classiche ancora oggi in uso ed altre più insolite o architettonicamente complesse. Questa ampia varietà di croci, nicchie, tempietti e talvolta cappelle, emblema della devozione e delle tradizioni popolari-locali, si riscontra principalmente nelle comunità rurali, dove il culto si legava intrinsecamente alla natura e alla terra, nei luoghi di lavoro della campagna. Gli spazi dove tali segni di fede venivano posti erano solitamente crocevia stradali, impiegati per definire le zone di confine e i limiti, a protezione della casa o del podere: talvolta le marginette più spaziose servivano per offrire riparo al viandante e ricovero temporaneo degli attrezzi contadini. La costruzione di edicole sacre poteva nascere anche in seguito a un ex voto, in omaggio alla grazia ricevuta o per uno scampato pericolo, diventando così strumento di aggregazione della comunità cristiana che presso di esse si riuniva in preghiera. Fra gli esempi più curiosi ricordiamo il caratteristico segnacolo chiamato “La figuretta”, posto al centro di una ramificazione stradale (trivio),  lungo il tragitto che conduce da Palaia a Montefoscoli: già documentato nel 1656, la copertura triangolare (sulla cui sommità è rappresentato il monte Golgota con le tre croci) che costituisce una sorta di tempietto intorno al tabernacolo centrale, nacque probabilmente come zona di riparo, sebbene una leggenda popolare riferisca invece che un tempo questo luogo fosse abitato da un eremita preposto a guidare i viandanti smarriti. Nelle strade del borgo di Montefoscoli, fra il Vicolo Meoli e Via A. Vaccà, incorniciata da un’edicola rosata, è collocata una deliziosa immagine della Madonna col Bambino e un devoto in adorazione, a cui fa da sfondo un cielo azzurro stellato, mentre in aperta campagna nella località di Vignale, esattamente in Via della Rimessa, si trova un raffinato tabernacolo di gusto neogotico, dalle forme sottili e slanciate, costruito nel 1935 in occasione delle Missioni Giubilari (fig.5-6-7).

Fra il 1821 e il 1823 l’animo della collettività di Montefoscoli venne per così dire “scosso”, dalle bizzarre idee illuminate del medico pisano Andra Vaccà (1772-1826), che nella località di Torricchio, alle porte del castello, volle edificare una costruzione nelle forme di un tempio pagano in memoria del padre. La storia dei Vaccà, ben nota e ripercorsa da diverse pubblicazioni che ne restituiscono un quadro completo e a cui si rimanda per maggiori approfondimenti, si intreccia alle vicende di Montefoscoli quando nel 1730 avvenne il matrimonio fra il dottore Giovanni Andrea Vaccà e Costanza Berlinghieri, la cui famiglia era proprietaria di diversi possedimenti nel territorio montefoscolese. La dinastia Vaccà Berlinghieri portò avanti con successo la professione medica, tanto che Francesco (figlio di Andrea e Costanza) e il suo secondogenito Andrea divennero famosi dottori a livello internazionale, entrambi docenti dell’Ateneo pisano.

La casa-museo Vaccà-Berlinghieri

Nella casa-museo Vaccà Berlinghieri a Montefoscoli, in alcuni eleganti ambienti del palazzo appartenuto alla famiglia ed oggi agli eredi, si conservano diversi oggetti che furono di proprietà di Francesco e Andrea, fra cui una biblioteca molto amplia di volumi sulla medicina e una serie di strumenti operatori: soprattutto Andrea appassionato di studi anatomici, divenne noto proprio per la sperimentazione di nuove tecniche operatorie e di moderni strumenti chirurgici. Nella prima sala del palazzo sono esposti i busti ritratto della famiglia Vaccà Berlighieri, opere di importanti artisti come il classicissimo fiammingo Michele Van Lint che scolpì il ritratto di Francesco, e Paolo Folini (1805-1890), autore del ritratto di Andrea:  se il primo fu fortemente influenzato dal rigore neoclassico che determinò la scelta di rappresentare Francesco come un dotto “all'antica”, Paolo Folini, a contatto con le idee puriste di Lorenzo Bartolini, improntò il ritratto di Andrea secondo un’idealizzazione della forma più naturale, convogliando maggiore interesse sull'espressione decisa e fiera (fig.8).

Fig. 8 -Paolo Folini, busto ritratto di Andrea Vaccà Berlinghieri.

Fu proprio Andrea che nel 1820 incaricò il giovane architetto Ridolfo Castinelli (1791-1859) di progettare un tempio dedicato a Minerva Medica, dea protettrice della medicina e della sapienza, per onorare la memoria del compianto padre. La struttura realizzata in stile neoclassico, che Castinelli aveva avuto modo di approfondire durante i suoi studi in Francia, è costernata da un universo di simboli, che oltre alludere al mondo classico si riferirebbero anche al linguaggio segreto massonico, con cui Andrea probabilmente entrò in contatto durante i suoi viaggi di formazione a Parigi e Londra.

Il tempio dedicato a Minerva medica

Immerso in un boschetto all'inglese evocativo di una natura libera e selvaggia, il tempio si presenta esternamente rivestito in cotto, con un pronao octastilo di ordine ionico, mentre la parte posteriore è conclusa da una copertura semicircolare (fig.9): sopra il portone d’ingresso una lapide dedicatoria in marmo affiancata da due civette su rami d’ulivo ricorda la memoria di Francesco Vaccà. Le decorazioni esterne del tempio furono realizzate in terracotta, presso la vicina fornace di Montefoscoli, mentre i pezzi più pregevoli vennero prodotti a Firenze dai fratelli Zini, scultori statuari e ornatisti. All'interno del tempio due colonne con capitello corinzio introducono nella camera semicircolare chiusa da una semi-cupola e affrescata con un cielo stellato: il pavimento è realizzato alla veneziana, con frammenti di marmo e pietre policrome, mentre sulle pareti spiccano decorazioni floreali e pannelli color verde lorenese (fig.10). Il decoratore che si è occupato degli ornati pittorici (forse un artista locale), ha restituito un’immagine graziosa e delicata di quella cultura figurativa settecentesca che interessava le grandi dimore patrizie a Pisa, dove anche i Vaccà possedevano in Palazzo Lanfranchi la loro residenza cittadina. A tal proposito sono noti i rapporti di discepolato fra Antonio Niccolini (1772-1850) e il Castinelli, architetto del tempio, che aveva trascorso al seguito del maestro un periodo di apprendistato durante gli anni del suo grand tour a Roma e a Napoli. Il Niccolini fu "frescante" e scenografo, molto attivo come decoratore a Pisa, dove fu il più alto esponente della pittura ornamentale a lambris, una moda che dalla fine del Settecento si estese fino agli inizi del nuovo secolo, contraddistinta dalla riproduzione in pittura di eleganti velari e tendaggi. Anche nell'orchestra, al piano superiore del tempio, si trova un drappeggio bianco vicino allo stile di Niccolini, rappresentato illusionisticamente in modo da coprire una finta galleria a cassettoni: sebbene l’affinità con i velari decorativi delle dimore pisane, a Montefoscoli lo scopo di questa soluzione sarebbe da ricercare piuttosto nella simbologia massonica, per cui il Maestro durante gli incontri si sarebbe celato alla vista degli adepti proclamando i suoi insegnamenti dall'alto dell’orchestra.

Quello che a una prima impressione potrebbe sembrare un capriccio architettonico, frutto delle disquisizioni intellettuali dei salotti mondani che i Vaccà ospitavano frequentemente a Pisa, è stato più volte messo in discussione dagli studi recenti a favore di altre ipotesi più complesse. Come abbiamo visto, oltre la probabilità che nel tempio si tenessero effettivamente incontri massonici, la passione che animava Andrea Vaccà per l’anatomia ha portato a leggere nella conformazione della cella semicircolare la stessa tipologia architettonica propria dei teatri anatomici, un’occasione di studio più volte bramata dal medico per poter condurre autopsie sui cadaveri, secondo un modus operandi che invece in ambiente universitario veniva spesso ostacolato.

Fra la serie veramente ampia di immagini e segni metaforici allusivi alla massoneria, vogliamo qui soffermarci su due simboli di origine classica che ricorrono nel repertorio iconografico del tempio e che riguardano il tema della morte e della ciclicità della vita: la farfalla e l’uroboro, entrambi metafore frequenti nel linguaggio neoclassico. Come la farfalla nel mondo antico è sinonimo dell’anima che si libra leggera una volta abbandonato il corpo, assumendo il significato di morte e rinascita dopo lo stadio della crisalide, ugualmente l’uroboro, che rappresenta un serpente nell'atto di mordersi la coda, esprime il ripetersi ciclico della vita in un continuo vortice di rinascita. Nel tempio di Montefoscoli entrambi questi simboli sono più volte evocati, come nei battiporta del portone principale a forma di uroboro, o negli anelli per i tendaggi sui quali sono posate delle farfalle (fig.11-12).

Spostandoci al Camposanto monumentale di Pisa, fra le numerose sepolture di uomini illustri, si trova custodito anche il sepolcro di Andrea Vaccà, scolpito da Berthel Thorvaldsen (1770-1844) nel 1830 e raffigurante Tobia miracolosamente guarito dal figlio Tobiolo (fig.13).

Fig. 13 - Berthel Thorvaldsen, Sepolcro di Andrea Vaccà Berlinghieri,Camposanto monumentale di Pisa.

L’episodio, tratto dall'Antico Testamento, descrive la scena conclusiva del racconto, quando Tobiolo dopo un lungo peregrinare torna a casa e guarisce la cecità del padre grazie alle proprietà terapeutiche contenute nel fiele del pesce catturato con l’aiuto dell’arcangelo Raffaele, presenza protettrice e salvifica. Questo omaggio alla medicina, espresso grazie alle cure di un figlio premuroso nei confronti del padre, rimanda metaforicamente alle straordinarie capacità mediche quasi miracolose di Andrea, apprese grazie alla guida attenta di Francesco, oltre che alludere in chiave cristiana alla volontà divina, qui rivelata tramite l’intervento dell’angelo. La lastra in rilievo scolpita da Thorvaldsen, che vede al centro della scena Tobiolo intensamente concentrato nell'atto esatto della cura medica, è concepita secondo gli stilemi neoclassici di perfezione e armonia che l’artista aveva avuto modo di apprendere e raffinare grazie alla conoscenza di Antonio Canova (1757-1822). Nella parte alta del sepolcro il simbolo dell’uroboro, già incontrato nel tempio a Montefoscoli, fa da cornice al clipeo che racchiude il profilo di Andrea, di buon auspicio per la vita eterna e molto frequente nella cultura figurativa neoclassica; un altro uroboro si trova scolpito infatti da Lorenzo Bartolini (1777-1850) nello stesso Camposanto pisano per il monumento al funzionario napoleonico Giovan Francesco Mastiani (1758-1839),  in un rilievo finissimo su un lato dello scanno dove siede l’Inconsolabile (fig.14), allegoria della vedova Elena Amati.

Fig. 14 - Lorenzo Bartolini, L'Inconsolabile, Camposanto Pisa.

Una fortuna iconografica ancor maggiore aveva riscontrato l’immagine della farfalla, spesso rappresentata sotto forma umana nel bellissimo corpo di Psiche, portata al massimo del successo artistico dal mito reinterpretato da Antonio Canova nel gruppo del Louvre, Amore e Psiche (1787-1793). Il doppio significato in greco della parola “psiche”, che indicava sia la farfalla che il concetto di anima, portò a assimilare quest’ultima con le forme delicate dell’insetto, secondo un leitmotiv che si ritrova fin dall'antichità e che nello stile neoclassico si esplicò principalmente nella figurazione del racconto mitico. Lo stesso Canova regalò diverse letture della favola, come nel gruppo di Amore e Psiche stanti conservato all’Ermitage (fig.15), in cui i giovani amanti colti in un tenero avvicinamento osservano la farfalla che Psiche posa sulla mano di Amore come simbolo dell’anima che la fanciulla dona al suo amato, ma anche rappresentazione fragile dell’esistenza.

Fig. 15 - Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, Ermitage.

Anche Thorvaldsen fu molto legato all'immagine di Psiche che raffigurò in molteplici sfaccettature, affascinato dalla serie di combinazioni formali e introspettive che il mito permetteva di analizzare, come nella scultura dal titolo Psiche e l’urna (fig.16), eseguita in più copie: nel corpo della fanciulla dalle minute ali di farfalla si manifesta tutta la curiosità dell’anima umana, volubile e desiderosa di scoprire il contenuto dell’urna che le è intenzionalmente celato, qui resa dallo scultore attraverso la pacata espressione ignara di Psiche, nell'attimo in cui sta per compiere il gesto.

Fig. 16 - Bertel Thorvaldsen, Psiche e l'urna, Museo Thorvaldsen, Copenaghen.

 

Bibliografia

Burresi, Una folla pensosa e cortese: Sculture note e inedite di Francesco di Valdambrino, Maestro di Montefoscoli e di altri, in Sacre passioni: scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, Catalogo della mostra a cura di Mariagiulia Burresi, Pisa, Museo Nazionale e Civico di San Matteo (08-11-2000-11/ 08-04-2001), Milano 2000, pp. 196-227.

Salvagnini, Montefoscoli dal Mille al Duemila, Bagno a Ripoli 2000.

Lazzereschi, Il tempio di Minerva Medica: Montefoscoli, Pisa 2005.

Panattoni, Il Tempio e Minerva Medica: un tempio alla scienza, in “Antologia Vieusseux”, NS 14.2008, 40, pp. 5-32.

Del Vivo, Andrea Vaccà e Ridolfi Castinelli: La costruzione del tempio di Minerva Medica a Montefoscoli, Pisa 2009.

Burresi, “Venti giorni…bastevoli mi furono per divenire uno scenografo”. La vita a Pisa di Antonio Niccolini, in Il Settecento. Affreschi nel territorio sanminiatese e pisano, serie La musica degli occhi, Ospedaletto 2011, Vol. I, pp. 63-73.

Blanco, L’anima-farfalla: studio sul tempio di Minerva Medica a Montefoscoli e analisi della simbologia, Pisa 2012.

Calloni, La pietà popolare nel territorio di Montefoscoli, San Gimignano 2016.Olcese Spingardi, Memorie nel marmo e nel bronzo: i monumenti ai caduti della Grande guerra in Liguria, in Memorie di pietra: testimonianze della Grande Guerra in Liguria, 2018, pp. 77-124.

 

Sitografia

www.ghezzanistefanopittore.it

www.tempiodiminerva.com

www.casavaccaberlinghieri.it

 


GIOVANNI FRANCESCO BARBIERI DETTO IL GUERCINO

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino nacque a Cento il 2 Febbraio 1591 e verrà considerato uno degli artisti più rappresentativi della fase matura del Barocco. Venne nominato il Guercino a causa di uno strabismo congenito. Verso i 6 anni mostrò una particolare inclinazione al disegno quindi il padre lo fece studiare presso vari maestri minori emiliani come Bartolomeo Bozzi (1600), Benedetto Gennari (1607) e Giovan Battisti Cremonini (1610). Lo stile del Guercino andò piano piano definendosi rimanendo colpito dallo stile di Ludovico Carracci (ebbe modo di ammirare le sue opere durante il soggiorno bolognese), dello Scarsellino, di Carlo Bononi e dopo il soggiorno veneziano (1618) anche di Tiziano. Gli esordi del Guercino avvengono nei primi anni dopo il soggiorno bolognese, con la realizzazione di 3 tele per la chiesa di San Sebastiano a Renazzo; la Madonna col Bambino in trono tra i Santi Francesco, Antonio Abate e Bovo1 (1611-12) stilisticamente ispirato a Carlo Bononi, Il miracolo di San Carlo Borromeo2 (1612-13) ispirato in particolare per i giochi di luce allo Scarsellino e La Madonna col Bambino in gloria tra San Pancrazio e una monaca3 (1615-16) influenzato dal Carracci.

Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3

Nel 1616 il pittore centese inaugurò a Cento l’Accademia del Nudo, portando 23 alunni provenienti da tutta Italia a studiare sotto il Guercino.

Due anni più tardi per le chiese di Cento realizzò quattro pale d’altare come la Madonna della Ghiara con i Santi Pietro, Carlo Borromeo e il committente4 (riproduzione della Vergine di Reggio tratto da un disegno cinquecentesco di Lelio Orsi) dove si nota come il committente assomigli a Ludovico Carracci e il paesaggio crepuscolare circondato da rovine e alberi si rifaccia allo stile di Dosso Dossi; Sant’Alberto che riceve lo scapolare dalla Madonna del Carmine5 per la chiesa della Santissima Annunziata, San Bernardino da Siena che prega la Madonna di Loreto6 e San Pietro che riceve le chiavi da Cristo7 per la Basilica della Collegiata di San Biagio.

Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7

Queste ultime due pale d’altare sono state compiute dopo il soggiorno a Venezia, infatti nella pala di San Bernardino si nota come il Guercino si sia rifatto ai suggestivi effetti di luce di Tiziano e Veronese, mentre in quella di San Pietro l’influenza è dovuta allo studio della Pala Pesaro di Tiziano. Altri dipinti del Guercino legati alla pittura veneta sono La vestizione di San Guglielmo8 per la chiesa di San Gregorio e Siro e San Francesco in estasi con San Benedetto e un angelo9 per la chiesa di San Pietro a Cento dipinti entrambi nel 1620.

Fig. 8
Fig. 9

L’anno successivo Alessandro Ludovisi, divenuto papa Gregorio XV chiamò il Guercino a Roma, ricevendo come primo incarico la decorazione del Casino Ludovisi appena comprato dal nipote del papa. Assieme ad Agostino Tassi realizzò gli affreschi della villa, quali L’aurora10 e La Fama11 (1621). Successivamente realizzò il Ritratto di Gregorio XV12 (1622) e l’enorme pala commissionata per un altare della Basilica di San Pietro raffigurante la Sepoltura e gloria di Santa Petronilla13 (1623), rimossa poi nel 1730 per essere sostituita da una copia a mosaico di Pietro Paolo Cristofari. Il Guercino durante il soggiorno romano esegui pochi altri dipinti commissionati da personaggi come il cardinale Scipione Borghese, ma dopo la morte di Gregorio XV nel  1623 il pittore centese decise di tornare nella sua città natale. Da questo soggiorno lo stile del Guercino muta in parte assimilando uno stile classico di Guido Reni attenuando l’uso del chiaroscuro.

Fig. 10
Fig. 11
Fig. 12

 

Fig. 13

Tornato a Cento nel 1624, gli venne commissionato una Semiramide14 per Daniele Ricci poi donato a Carlo I d’Inghilterra. Questo dipinto impressionò moltissimo il sovrano inglese portandolo ad offrirgli un posto presso la corte inglese, rifiutata dal pittore. Questo non fu l’unico invito che ricevette: venne invitato dagli Estensi a Modena nel 1633 per dipingere i ritratti della famiglia, nel 1639 ricevette un simile incarico da Luigi XIII re di Francia e prima ancora per la regina di Francia. Tutti questi inviti furono declinati dal pittore preferendo una vita più tranquilla. Verso la fine degli anni 20 del 1600 il processo di transizione dell’artista alla fase matura delle sue produzioni è evidente nelle opere de La Madonna col Bambino benedicente15 (1629) e il Cristo risorto che appare alla Madonna16 (1628-30). Negli anni 40 del 1600 acquistò una cappella nella chiesa del Rosario di Cento, dove nel decennio successivo collocò alcuni dipinti in cui è chiaro il raggiungimento della fase matura del suo stile come San Giovanni Battista nel deserto17 (1650) e La Madonna col Bambino che appare al San Girolamo18 (1650-55), portata in Francia con le requisizioni napoleoniche (lo stile maturo del Guercino lo si riconduce alla composizione lineare, all’espressione emotiva dei soggetti e nell’uso di colori chiari e brillanti).

Fig. 14
Fig. 15
Fig. 16
Fig. 17
Fig. 18

Con la morte di Guido Reni avvenuta a Bologna l’8 Agosto del 1642 il Guercino vi si trasferì con la famiglia, ricevendo ben presto la richiesta da parte dei monaci della Certosa di Bologna di completare l’opera di San Bruno lasciata incompiuta dal pittore felsineo. Il Guercino la rifiutò proponendo un’opera fatta di sua mano raffigurante il santo, dipingendo così nel 1647 La Visione di San Bruno19. Due anni più tardi il fratello Paolo Antonio Barbieri morì portando il pittore in un profondo stato di malinconia. Il duca di Modena, Francesco I d’Este lo invitò nella sua tenuta estiva di Sassuolo facendogli superare questo momento di depressione. Dal suo rientro a Bologna subentrò la figura del cognato, Ercole Gennari che collaborò con il Guercino occupandosi dei suoi affari. Prima che giunga la morte il pittore porterà a compimento altre opere, una tra le tante il San Giovanni Battista20 del 1654. Morì l’11 Dicembre 1666 per un grave malore e verrà sepolto nella chiesa di San Salvatore.

Fig. 19
Fig. 20

 

Bibliografia

Il Guercino a Cento. Emozione barocca. Silvana Editoriale, 2019

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-francesco-detto-il-guercino-barbieri_%28Dizionario-Biografico%29/


LA CHIESA DEL GESÙ NUOVO A NAPOLI

La città dalle cinquecento cupole

Così è stata definita Napoli, perché il numero delle chiese presenti in città si avvicina proprio a 500. Sono quasi ovunque: nei vicoli, nelle piazze, lungo le strade; in un percorso che, nel raggio di meno di 2 chilometri, consente a chiunque lo voglia di visitare luoghi sacri che fanno da prezioso scrigno a indefinite quantità di opere d’arte, che non solo incantano turisti e napoletani, ma soprattutto raccontano la storia della città in tutti i suoi aspetti. In meno di 10 minuti, infatti, il visitatore che si trova in Piazza del Gesù  - che dopo Piazza del Plebiscito è tra le maggiori piazze partenopee visitate – raggiunge Piazza san Gaetano, che è ubicata in maniera diametralmente opposta ad essa, incontrando almeno una quindicina tra chiese, palazzi, luoghi di interesse storico – artistico e culturale.

Siamo nelle viscere della città di Napoli, nel centro storico, che dal 1995, è Patrimonio Unesco. A ricordarcelo è una targa posta proprio in Piazza del Gesù, in particolare sulla facciata della chiesa del Gesù Nuovo, da cui la piazza prende il nome, su cui è riportata la motivazione:

Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa”.

Piazza del Gesù Nuovo è situata lungo il Decumano Inferiore, sulla via chiamata “Spaccanapoli” (poiché, guardandola dall'alto, divide la città perfettamente in due parti, come se “spaccasse Napoli” ) in un’area completamente pedonale e su di essa si affacciano maestosamente la Chiesa del Gesù Nuovo, palazzi nobiliari, l’obelisco dell’Immacolata.

La piazza nasce per volere di Carlo II d’Angiò in un’area che inizialmente era solo uno spiazzale ricavato dall'eliminazione di qualche orto ed iniziò a prendere una conformazione urbanistica solo dopo il 1470, anno in cui venne costruito palazzo Sanseverino. Successivamente furono eretti altri due palazzi nobiliari, tutt’oggi presenti : il palazzo Pignatelli di Monteleone eretto nel XVI secolo e Palazzo Pandola, eretto in epoca tardo barocca, edificato da un’ala del vicino Palazzo Pignatelli.

E’ sicuramente una della piazze più importanti della città, punto focale della Napoli greco  - romana per la sua collocazione all'inizio del Decumano inferiore, ed è tutt'oggi luogo privilegiato per l’ incontro dei giovani, che la vivono sia di giorno che di notte, soprattutto studenti e universitari, complice non solo la presenza in piazza di importanti istituti di studi superiori ma anche la presenza nell'intera area e dintorni delle più importanti facoltà universitarie e della sede centrale dell’Università di Napoli stessa.

Al centro della Piazza si erge uno dei tre grandi obelischi della città: l’obelisco dell’Immacolata (gli altri due sono quello di San Domenico  e quello di San Gennaro).

L’Obelisco dell’Immacolata si alza maestoso al centro della piazza. E’ alto circa 30 metri ed è,dei tre precedentemente citati, in ordine cronologico l’ultimo ad essere stato realizzato. Fu eretto nel 1750 per ordine dei Gesuiti a seguito di una raccolta pubblica, organizzata dal Padre gesuita Francesco Pepe nonostante le opposizioni del Principe di Pignatelli, che avendo il suo palazzo in piazza, temeva che un eventuale crollo della struttura dovuta a qualsivoglia motivo avrebbe potuto lesionare il suo palazzo. L’obelisco fu innalzato al centro di quella che era considerata l’isola gesuitica della città; ciononostante essa appartiene alla città e non al clero, come indicato dallo stemma apposto sulla cancellata che circonda l’opera. Tale decisione è frutto di un accordo avvenuto nel 1818 tra Papa Pio VII e Ferdinando di Borbone.

L’opera si presenta come una sorta di macchina da festa barocca, innalzata verso il cielo. Si presenta in quattro ordini i cui  elementi scultorei sono di Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano: i laterali del primo ordine sono adornati da fiori come vortici, mentre al second’ordine sono presenti sui laterali coppie angeliche. Al terzo ordine, ai quattro angoli della balaustra che l’adorna, sono presenti le statue marmoree di Sant'Ignazio, San Francesco Borgia, San Francesco Saverio e San Francesco in Regis. Alle statue si alternano altorilievi raffiguranti quattro momenti della vita della Vergine : l’Annunciazione, la Natività, la Purificazione e l’Incoronazione, e, al quart’ordine,prima della sommità,sono presenti sui due lati medaglioni raffiguranti San Luigi Gonzaga da un lato e San Stanislao Kostka dall'altro.

Sulla sommità dell’obelisco, coronata di stelle, è posta la statua di rame dell’Immacolata, un rame ossidatosi col tempo tanto da perdere il suo colore originario e diventare azzurro – verde. All'obelisco dell’Immacolata l’amministrazione cittadina è da sempre particolarmente legata. Infatti è ormai diventata una tradizione – da diversi decenni  – che nel giorno dell’8 dicembre il Sindaco della città, dopo la Messa delle 12 nell'antistante Chiesa del Gesù Nuovo, renda omaggio alla Vergine con un mazzo di rose che i Vigili del Fuoco, con la scala telescopica, le depongono tra le mani.

La Napoli dei misteri

Si racconta che all'alba, o comunque prima che si svegli completamente quanto vi è intorno alla Piazza, un uomo solitario passi e gridi, in dialetto napoletano “Chest è ‘a voce ra Maronn” ( "Questa è la voce della Madonna"); in talune ore del giorno invece, in particolare all'alba e al tramonto, volgendo lo sguardo al retro della Statua della Madonna, si ha l’impressione di vedere un’immagine gobba e con uno scettro in mano: raffigurerebbe la Morte che, quasi minacciosamente, osserva i passanti.

La chiesa del Gesù Nuovo

Alle spalle della guglia, si erge l’imponente facciata della chiesa del Gesù Nuovo. La chiesa è in realtà nata dalla struttura architettonica di un precedente palazzo nobiliare: palazzo Sanseverino, del quale conserva la facciata.

Il palazzo fu edificato nel 1470 ad opera di Novello da San Lucano per espresso volere del principe di Salerno, Roberto Sanseverino, come riporta una targa posta sulla facciata stessa.

L’edificio rimase ai Sanseverino fino al 1552, anno in cui Pedro di Toledo tentò di instaurare in città l’inquisizione spagnola e Ferrante Sanseverino, messosi a capo di un’insurrezione popolare, sebbene riuscisse ad evitare il volere dei monachi, non poté evitare le conseguenze della loro ira: beni della famiglia furono confiscati e messi in vendita, mentre  lui fu condannato all'esilio.

Nel 1584, i Gesuiti acquistarono il palazzo (ma alcune fonti sostengono che in realtà il palazzo non sia stato venduto, bensì donato alla Compagnia di Gesù) e, tra il 1584 stesso ed il 1601, lo riadattarono a chiesa.

I responsabili del progetto furono gli architetti gesuiti Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi, che sventrarono completamente la struttura originaria del palazzo, lasciando in piedi solo la facciata ed il portale di marmo.

I lavori furono finanziata dalla principessa Isabella Della Rovere, moglie dell’ultimo esponente di un ramo dei Sanseverino, principi di Bisignano ed il suo nome, insieme a quello di Roberto I di Sanseverino (che aveva fato erigere il palazzo) è ricordato nell'iscrizione racchiusa in un cartiglio marmoreo posto sull'architrave del portone principale. Sullo stello è posta la data del 1570, anno in cui la chiesa fu aperta al pubblico, anche se fu consacrata al culto solo nel 1601 ed è dedicata alla Madonna Immacolata (ma intitolata dai francescani nel 1767 alla Trinità Maggiore, fino a quando tornò ai Gesuiti nel 1804 e, ad essi in via definitiva solo nel 1900); ciononostante prese subito la denominazione popolare – che tutt’oggi mantiene – di Chiesa del Gesù Nuovo, quasi immediatamente a distinguerla dalla prima chiesa gesuita presente in città – tra l’altro a poche centinaia di metri da essa – dalla Basilica dell’Immacolata di Don Placido, che divenne da subito la chiesa del “Gesù Vecchio”.

La facciata della chiesa è di certo una delle più affascinanti facciate presenti sull'intero territorio cittadino, tanto che un dettaglio della stessa è stato riportato sul retro della banconota da 10.000 Lire emessa dal 1977 al 1984 (la cosiddetta “Machiavelli).

La facciata si presenta in bugnato rustico a punta di diamante con tre grandi portali,ognuno relativo alle tre navate interne.

Sta di fatto che tale bugnato è avvolto in un alone di mistero: infatti su di esso,  sono incisi una serie di caratteri che potevano nascondere simboli esoterici e dell’occulto, probabilmente un linguaggio segreto tra i maestri tagliapietre, o addirittura un linguaggio col potere di attirare energie positive all'interno dello stesso; sta di fatto che l’alone di mistero che ruota intorno alla facciata si esplica ulteriormente in un’altra leggenda, in ragione della quale i maestri pipernai, esperti di segreti esoterici, incaricati da Roberto Sanseverino, avrebbero erroneamente piazzato le pietre segnate in maniera opposta a quella corretta, sicché, anziché far confluire all'interno dell’edificio forze benevole, le avrebbero tirate fuori, attirando forze malevoli che sarebbero poi state all'origine di tutte le sventure abbattutesi sulla chiesa, compresi incendi, crolli, fino al miracoloso ritrovamento di una bomba inesplosa, durante il Secondo Conflitto Mondiale, conservata nelle Sale Moscati, nei locali adiacenti la chiesa.

In realtà, tali caratteri sono stati decifrati dallo storico dell’arte Vincenzo de Pasquale, che ha scoperto che in realtà si tratta dei 7 simboli dell’alfabeto aramaico, usati per rappresentare le 7 note musicali; le lettere, lette da destra verso sinistra e guardando la facciata dal basso verso l’alto, se musicate, danno vita ad una melodia della durata di circa quarantacinque minuti: la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, pertanto, si è rivelata essere, suo malgrado, una sorta di pentagramma.

Al centro della facciata si erige maestoso il portale dell’ingresso principale. Quello centrale è in marmo ed è quello dei Sanseverino, sebbene presenti alcune modifiche; infatti i gesuiti apportarono alcune cambiamenti come l’inserimento del frontone spezzato e sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù con il loro emblema e la scritta IHS al centro e, al di sotto di essa, la riproduzione marmorea dei chiodi della Crocifissione, l’inserimento degli angeli, ma anche un ricordo ai Sanseverino e ai Della Rovere con i loro stemmi che, in dimensioni maggiori, sono riprodotti sulla sommità dei margini estremi dei due lati.

Anche le due porte laterali sono marmoree e risalenti al XVI  sec.e sono anch’esse inserimenti voluti dai gesuiti, così come la scritta sotto il grande finistrone centrale sulla facciata “NON EST IN ALIO ALIQUO SALUS” ovvero “NON C’E’ SALVEZZA IN NESSUN ALTRO”. La chiesa all'interno è un vero e è proprio scrigno dell’arte barocca napoletana, una sorta di vero e proprio museo che conserva opere realizzate da Cosimo Fanzago e Francesco Solimena, quest’ultimo autore del grande affresco sulla contro-facciata raffigurante l’episodio biblico della “Cacciata di Eliodoro dal Tempio”.

La pianta è a croce greca, con  braccio longitudinale leggermente allungato e la cupola in corrispondenza del centro del transetto,le cappelle laterali sono dieci di cui cinque per ciascun lato e due di esse, collocate ai lati dell’abside. La cupola che oggi vediamo non è quella originale, poiché è stata più volte ricostruita a seguito di diversi incendi e terremoti cui la basilica è stata soggetta.

In origine presentava affreschi di Giovanni Lanfranco, dei quali restano solo i Quattro Evangelisti sui pennacchi laterali. Attualmente si presenta con decorazioni in stucco che riprendono i motivi del cassettonato, consolidati da un intervento in calcestruzzo armato nel 1975.

L'altare maggiore fu ultimato solo nel 1857 e presenta numerose sculture e decorazioni che, sebbene seguano il tema dell’Eucarestia, mettono al centro la Vergine Immacolata, in marmo bianchissimo, opera di Antonio Busciolano; è posta in una nicchia caratterizzata dalla presenza di marmi policromi e sei colonne corinzie in alabastro.

La statua poggia su un globo blu in lapislazzuli, attraversato in diagonale da una fascia dorata e contornata da cherubini anch'essi di marmo. Il ciclo di affreschi sulle pareti absidali sono di Massimo Stanzione e raffigurano scene di vita della Vergine realizzati in circa un anno, tra il 1639 e il 1640.

Una particolarità che caratterizza la zona antistante l’abside, ma soprattutto la chiesa stessa, è la presenza ai laterali, in sopraelevata, di due organi, di cui quello di destra è ancora funzionante. La loro presenza in chiesa è legata ad una richiesta esplicita fatta dalla principessa Della Rovere, poiché la Compagnia di Gesù non prevedeva musica liturgica nelle loro chiese.

Oltre la navata centrale, la chiesa presenta altre due navate laterali: da sinistra, procedendo verso l’interno della chiesa, la prima cappella è quella dei Santi Martiri con  decorazioni in stucco risalenti al XVII sec. ed una Pala d’altare con la Madonna con Bambino e i Santi Martiri ed infine affreschi di Belisario Corenzio.

La seconda cappella è invece dedicata alla Natività, ma è nota anche come Cappella Fornari, dal nome di Ferrante Fornari, che ne fu il committente. Anche qui sono presenti decorazioni pittoriche realizzate della mano del Corenzio, ma il fulcro centrale è sicuramente il gruppo di undici statue tra le quali si ricorda in particolare il San Matteo e l’Angelo di Pietro Bernini.

Al centro della parete principale della navata di sinistra si erige la Cappella dedicata a Sant'Ignazio da Loyola, fondatore dell’Ordine.

Qui troviamo un vero e proprio trionfo di quanto meglio offriva l’ambiente artistico del ‘600 napoletano: le due tele sull'altare sono della mano di Jusepe de Ribera, gli affreschi sul finestrone sono del Corenzio.  Dalla  porta posta al lato destro dell’altare della cappella, inoltre si accede alla Sagrestia, che conserva mobili seicenteschi ed un affresco raffigurante “San Michele che scaccia gli angeli ribelli” di Aniello Falcone.

La penultima cappella della navata di sinistra è la cappella del Crocifisso e di San Ciro, dove, proprio sotto l’altare si trova l’antichissima tomba di San Ciro e dove si segnala il gruppo scultoreo ligneo della Crocifissione di Francesco Mollica.

La quinta, ed ultima cappella, è dedicata a San Francesco de Geronimo, ed è anche nota come Cappella Ravaschieri, dal nome della famiglia committente. Essa presenta, oltre a marmi di pregevole fattura, resti di affreschi di Francesco Solimena. Sulle pareti laterali, si trovano due grandi lipsanoteche lignee.

La navata di destra, presenta, come precedentemente segnalato, lo stesso numero di cappelle.

La prima, dedicata a San Carlo Borromeo, va segnalata in particolare per la pala d’altare raffigurante il santo, ad opera di Giovanni Azzolino. La seconda cappella, detta “della Visitazione” , presenta sull'altare un dipinto raffigurante proprio la Visitazione ad opera di Massimo Stanzione e resti di affreschi del Giordano. Tale cappella oggi è nota soprattutto per la sua dedicazione a San Giuseppe Moscati, medico napoletano, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987. La presenza del Santo medico  - figura particolarmente cara al popolo napoletano – è fortemente sentita nella chiesa: qui non solo è presente una sua statua bronzea all’interno della cappella stessa, quasi a grandezza naturale, ma è vivo il suo culto,

infatti dal Cappellone di San Francesco Saverio, che affianca la cappella della Visitazione, una porta lascia accedere alle cosiddette “Sale Moscati” che sono la ricostruzione fedelissima della sala in cui il medico esercitava la sua professione e della sua stessa camera da letto  e nelle quali sono mostrati e conservati i suoi scritti. Tale ricostruzione – con la mobilia originale – è stata possibile grazie alla donazione che ne fece la sorella Nina ai Gesuiti ed in particolare alla chiesa stessa, chiesa alla quale lo stesso Moscati era molto legato, tanto da recarsi a pregare tutte le mattine. Non mancano all'interno delle sale Moscati pareti piene di ex-voto, che testimoniano la devozione verso la figura del “Santo medico”, di cui si conservano, nella chiesa, anche le spoglie.

Il cappellone di San Francesco Saverio, però, non immette solo nel mondo di San Giuseppe Moscati. E’ anch'esso uno scrigno d’arte e presenta tele di Luca Giordano, del Corenzio e di De Matteis .

L’ultima cappella è invece dedicata al Sacro Cuore. Essa conserva affreschi di Belisario Corenzio sulla volta e sulle pareti, risalenti ai primissimi anni del XVII sec.

In entrambe le navate l’ordine delle cappelle non solo è uguale, ma le ultime due di ogni lato partecipano alla struttura architettonica della chiesa, poiché – su entrambi i lati – la penultima funge da parte terminale del transetto e l’ultima da “abside laterale” all'abside stessa della chiesa. E’ un tutt'uno. Trionfo di architettura e di quanto di meglio la piazza artistica napoletana del momento poteva offrire.

 

Sitografia:

Wikipedia.it

Napolitoday.it

Napolituristica.com

Guidanapoli.com

Treccani.it

Dizionariobiograficodegliitaliani.it

 

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MILANO TRA LEONARDO E LUCIO FONTANA

Milano: la metropoli degli estremi

La metropolitana Milano, città di frontiera e del futuro, fu da sempre patria di possibilità e polo d’attrazione per giovani menti in cerca d’affermazione. La città svolse questo ruolo culturale fin dal Quattrocento, per poi continuare ad avere un ruolo preponderante per le nuove frontiere della contestazione, ricerca e sperimentazione artistica nel Novecento.

Leonardo

Giunse a Milano nel 1482 all'età di trent'anni, dopo essersi lasciato Firenze alle spalle, stabilendosi presso la corte di Ludovico Sforza, detto Il Moro, con l’idea di realizzare progetti ambiziosi. Prima della partenza sondò il terreno inviando una lettera di presentazione in cui elencò tutte le sue abilità in dieci punti, nove dei quali riguardanti le armi e le macchine da guerra al fine di farsi ben volere dal Moro, ed il decimo destinato all'illustrazione delle sue qualità in quanto artista. Nella lettera, rinvenuta nel Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, Leonardo si propose per la realizzazione del monumento a Francesco Sforza, di cui qui tratteremo in seguito, e si presentò artisticamente dichiarando:

In tempo di pace, sono in grado di soddisfare ogni richiesta nel campo dell'architettura, nell'edilizia pubblica e privata e nel progettare opere di canalizzazione delle acque. So realizzare opere scultoree in marmo, bronzo e terracotta, e opere pittoriche di qualsiasi tipo.

Potrò eseguire il monumento equestre in bronzo che in eterno celebrerà la memoria di Vostro padre e della nobile casata degli Sforza.Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando.

Quasi cinquecento anni dopo di lui, in una Milano più industrializzata e moderna, arrivò il giovane Lucio Fontana, fondatore del movimento spazialista che si propose di andare oltre la bidimensionalità della tela.

L’artista, nato in Argentina a Santa Fé nel 1899, giunse per la prima volta a Milano negli anni Venti per poi tornarvi e stabilirvisi nel 1927. In quell'anno si iscrisse all'Accademia di Brera dove si diplomò nel 1930, qui subì l’influsso del suo maestro Adolfo Wildt che vide in lui il continuatore della sua arte, ma che ne restò deluso non appena l’allievo decise di percorrere una nuova strada lontana dalla tradizione. A Milano ebbe un proprio atelier, attualmente lo studio Casoli, che prevedeva al piano terra uno spazio per la pittura e riservava i piani superiori al disegno e all'archivio.

Entrambi gli artisti furono collegati al grande cantiere del Duomo

Secondo Leonardo infatti il “malato duomo” aveva bisogno di un “medico architetto” che potesse curarlo, per questa ragione egli decise di farsi avanti per proporre un’idea più innovativa. Consegnò il modellino del tiburio

per poi ritirarlo subito dopo, in quanto non parve convinto di aver trovato una soluzione ottimale ed anche i committenti non ne furono entusiasti.

Anche Fontana prese parte al grande cantiere entrando nell'elenco degli scultori nel 1935 e realizzando dei bozzetti per il concorso della V Porta

ora conservati al Museo del Duomo nella diciassettesima sala. Qui è possibile ammirare i due bozzetti della porta intera del concorso di primo grado del 1951 e uno del concorso di secondo grado del 1952. L’artista vinse a pari merito con un altro concorrente a cui cedette il progetto.

Proseguendo nella trattazione è opportuno ricordare come Leonardo fu ampiamente studiato nel Novecento proprio per la sua utilità nei confronti del tempo presente, infatti il culto dei grandi del passato costituì un punto di partenza per migliorarsi, stando a quanto dichiarò il noto artista Carlo Carrà. Fu così che diversi studi evidenziarono la possibilità di tracciare dei parallelismi tra i due artisti incentrati sui concetti di semplicità e forza, ma anche su intuizione e azione mentale. In entrambi il concetto della semplicità, data da necessità e rigore, è inteso come la via più breve e necessaria, ovvero trovare il modo più efficace per quel singolo problema stilistico o tematico. Fontana richiama dunque all'intuizione leonardesca per cui ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve. Altro valore aggiunto da parte di entrambi è l’idea di un esercizio continuo di ricercare e incuriosirsi, muoversi e riequilibrarsi, sperimentare e verificare ogni problema e soluzione.

Inoltre per Leonardo e Fontana il disegno ha un ruolo fondamentale di palestra parallela d’esercizio quotidiano.

Tutti e due nel loro operato artistico si occuparono del tema della battaglia con cavalli,cavalieri e guerrieri, tema che comparì per Fontana nei disegni tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta. In particolare “Battaglia” del 1936 di Fontana

sembra essere una chiara rivisitazione moderna degli studi leonardeschi per la “Battaglia di Anghiari”, rispettivamente dei fogli 215 A

(“Due mischie tra cavalieri e pedoni”) da cui riprende l’espediente dei fanti o cavalieri accoppiati in lotta tra di loro nell'atto di colpire con la lancia, 215

(“Mischia tra combattenti a cavallo e studi di pedoni”) con una scena di lotta per lo stendardo e 216

(“Mischia tra cavalieri e pedoni, un ponte, due figure isolate”)custoditi presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. La differenza risiede nella scelta di Leonardo di non rappresentare lotte tra cavalli nella sua battaglia, nel suo disegno gli animali assumono forme saettanti a spire mentre in Fontana i cavalli si limitano a mantenere una presenza maestosa e monumentale. Quest’ultimo nel suo disegno conserva l’impostazione compatta ma dinamica leonardesca. In Leonardo l’effetto è quello di masse aggrovigliate in un movimento vorticoso, mentre Lucio concepisce una composizione in senso panoramico come in Anghiari ma che resta priva di dinamismo complessivo e movimento rotatorio che aggrega i gruppi. Per di più le linee grafiche di ambedue vogliono suggerire l’immediatezza dell’idea,la semplicità,e la dinamicità.

Entrambi si dedicarono con dedizione al tema del cavallo, solo o montato da un cavaliere, in posizione di quiete o preso da un vortice di battaglia che costituisce uno dei soggetti più diffusi e affrontati dagli artisti dall'antichità classica al Novecento.

Il cavallo fu affrontato da Fontana nelle varianti di accovacciato o in piedi, rampante o volante, e della coppia cavallo-cavaliere pensata per concorsi per monumenti equestri.

Negli anni Trenta del Novecento il cavallo nell'impeto dell’azione divenne simbolo dell’energia del movimento e del progresso, proprio secondo lo spirito futurista. Nei cavalli di Lucio si sovrapposero più suggestioni: dalle personali da gaucho della pampa, a quelle boccioniane e espressioniste fino ai modelli del passato come Leonardo che si pensava avesse scritto un trattato sull'anatomia del cavallo andato perduto.

Come ricordato precedentemente, Leonardo si propose a Ludovico il Moro per la realizzazione del monumento equestre per il padre Francesco Sforza

Tale progetto di dimensioni colossali vide un susseguirsi di diverse versioni, fino ad arrivare nel 1491 alla fase finale della messa in opera del modello definitivo, in cera e poi in terracotta, che attendeva la successiva fusione a cera persa del bronzo. L’impresa risultò estremamente difficile per la grande necessità di bronzo fuso da versare, per questo l’artista si dedicò a calcoli minuziosi in fase progettuale.Verso la fine del 1493, quando ormai il modello in creta era pronto e si doveva procedere alla fusione, l’opera fu ancora bloccata a causa della mancanza di metallo richiesto per la fabbricazione di armi dovuta all'imminente invasione di Carlo VIII di Francia in Italia, per la guerra contro il Regno di Napoli degli Aragonesi.

Egli svolse un lavoro meticoloso, si preparò infatti studiando le parti anatomiche più belle di ciascun cavallo col fine di assemblarle per pervenire alla costruzione di un cavallo ideale. Di quest’opera mai realizzata si possono osservare gli studi preparatori conservati al castello di Windsor. Secoli dopo il collezionista d’arte Charles Dent volle portare a termine il progetto leonardesco finanziandone una ricostruzione colossale

ma morì prima di vedere ultimato il progetto che fu portato a termine da Nina Akamu per poi essere collocato all’ Ippodromo di Milano.

Fu proprio a Milano che il giorno 22 ottobre 1939 si tenne presso il Palazzo dell’Arte, edificio sede della Triennale, la grande Mostra Leonardesca inaugurata il giorno del terzo anniversario della proclamazione dell’Impero fascista, suggerendo un’equivalenza tra quest’ultimo e l’impero del genio leonardesco. Qui fu posto all'ingresso della mostra il “Cavallo rampante dorato” di Lucio Fontana

per cui prese spunto da due disegni leonardeschi di cavalli impennati realizzati per la “Battaglia di Anghiari”, appartenenti alla Collezione Windsor. In questa scultura l’artista usa il colore oro per riprodurre l’indeterminatezza visiva tipica dello schizzo leonardesco, in generale il colore è da lui utilizzato in modo funzionale e complementare alla plastica lontano da ogni possibilità di naturalismo e volgendo l’immagine in una condizione di artificialità.

L’opera di Fontana è stata completamente dimenticata perché raramente divulgata già allora, ne rimane traccia in una didascalia e fotografia nella guida della mostra e in un articolo di Guido Piovene sul Corriere della Sera intitolato “Uomo che disegna” dove fornisce una descrizione in anteprima della mostra, scrivendo:

Nellatrio Bramante Buffoni, sovrapponendo figure fotografate in quadri di grandi maestri a uno sfondo dipinto, ha rappresentato uno spirito universale e conciliatore del nostro Rinascimento; e Lucio Fontana ha tratto da un disegno leonardesco un cavallo doro impennato, di eccellente fattura,  con le diverse prove e pentimenti della matita leonardesca, le gambe cresciute di numero nella foga del moto. Sulla parete laterale delle quattro sale seguenti un fregio di architetture e paesaggi dipinti con figure fotografate e sovrapposte, eseguito con gusto dal pittore Segota.

Fu dunque grazie a questa mostra che i due artisti entrano in contatto tra di loro, dando prova del già forte interesse per il genio di Leonardo e dimostrando, al tempo stesso, come l’arte non sia nient’altro che una somma del passato abitante nella memoria e del presente edificabile nel quotidiano per protendersi ad un orientamento verso il futuro.

Come scrisse lo stesso Leonardo: A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s'accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.

 

 

Bibliografia:

  • “Itinerari di Lucio Fontana a Milano e dintorni”, Paolo Campiglio
  • “Lucio Fontana e Leonardo da Vinci”, Davide Colombo

 

Sitografia:

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VAN EYCK E IL 2020: UN ANNO DI RINASCITA

Finalmente il 2020.

Finalmente l’anno di JAN VAN EYCK.

Quanto ho atteso questo momento!

Sabato, 1 febbraio 2020, all’ MSK – Museum of Fine Arts Gent  è stata la giornata inaugurale dell’ attesissima mostra “Van Eyck. An Optical Revolution”,  in essere sino al 30 aprile 2020.

Se ben ricordate, già a ottobre del 2019 vi ho accompagnato alla scoperta delle Fiandre, dandovi un assaggio di ciò che sarebbe successo quest’anno per l’arte fiamminga: infatti “Van Eyck. An Optical Revolution”  è la più grande mostra mai realizzata sul grande artista fiammingo, volta a celebrare la sua vita e il suo operato e a mettere in risalto la vasta campagna di restauro svolta per riportare alla luce lo splendore del POLITTICO DELL’ AGNELLO MISTICO. Non solo! Sono state richiamate da varie collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, almeno la metà delle opere d’arte prodotte dal grande VAN EYCK.

Questa è una grandissima occasione per vedere più da vicino un mondo e un’epoca ormai lontani, ma vicini nell’immaginario dei più affezionati all’arte e alla cultura. La mostra fa parte del festival “Oh My God. Van Eyck was here” che la città di Gent ha organizzato per celebrare il suo Maestro.

ph:Visit Flanders

ph: Visit Flanders

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Vi voglio dire due parole sulla fase di restauro che, come saprete, ho avuto modo di vedere da vicino nel mio ultimo viaggio nelle Fiandre: posso dire, da spettatrice diretta, che è una grandissima emozione trovarsi dinnanzi a uno dei capolavori più maestosi e importanti di tutti i tempi. Infatti, la grande maestria di VAN EYCK sta proprio nel far brillare i colori utilizzati, così da rendere prezioso il dipinto.

copyright by lukasweb.be – Art in Flanders

Infine, vi lascio con questa supernews di due opere che in precedenza non erano state conteggiate nel novero di quelle selezionate, ma che invece faranno parte dell’esposizione: il RITRATTO DI MARGARETHA e i due famosi pannelli del polittico raffiguranti ADAMO ed EVA.

ph: Visit Flanders

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Anche l’Italia ha partecipato a questa fantastica mostra, prestando opere di grande spessore per la storia dell’arte, come quella di Benozzo Gozzoli, proveniente dall’Accademia di Carrara di Bergamo, due tavole di Beato Angelico provenienti entrambe dai Musei Vaticani, che si vanno ad unire al novero di grandi prestatori come la Galleria Sabauda di Torino e i Musei Civici di Padova. E ancora Pisa, Roma, Firenze, Verona e Venezia. Tra questi, anche nominativi internazionali di spicco, come il Rijksmuseum di Amsterdam, la National Gallery e il Victoria and Albert Museum di Londra, il Prado di Madrid, il MET di New York, il Louvre di Parigi… potrei andare avanti all’infinito! Immaginate di effettuare una visita con questi presupposti: io non ci penserei due volte. Anzi sono già lì!

Quindi ecco che dovete fare: prendere nota che dal dal 01/02/2020 al 30/04/2020 inizi ” Van Eyck. An Optical Revolution”, prenotare un soggiorno a GENT e immergervi nella storia.

BUON VIAGGIO!

P.S.: se siete dei social addicted ricordatevi di usare queste mention nei vostri IG post e IG stories.

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IL REAL TEATRO DI SAN CARLO

Storia di un simbolo: il Real Teatro di San Carlo a Napoli

Un tempio lirico nato 41 anni prima della Scala di Milano e 55 anni prima della Fenice di Venezia, ossia il Real Teatro di San Carlo.

Ogni città ha il suo simbolo che la rappresenta nel mondo… un monumento, una piazza, un pezzo di storia che la rende unica come, ad esempio, l’Arena di Verona nella città scaligera, il Colosseo a Roma, Ponte Vecchio a Firenze o il ponte di Rialto a Venezia. Napoli, generalmente, è immortalata come in una fotografia nella quale troneggiano il golfo, il lungomare di Mergellina e soprattutto il Vesuvio.

Sta di fatto che, da diversi anni a questa parte, e grazie ad una serie di interventi per la riqualificazione urbanistica da parte delle amministrazioni comunali che si sono susseguite, anche la città della sirena Partenope ha la sua “piazza simbolo”: Piazza del Plebiscito. Accanto a Piazza del Plebiscito sorge il Real Teatro, voluto da Carlo III di Borbone nel 1737 come un teatro che non solo desse lustro alla città, ma che rappresentasse il potere Regio.

Sono questi gli anni del Neoclassicismo, anni durante i quali in città ferve l’attività urbanistica ed architettonica e si operano imponenti lavori, intervenendo nella sistemazione di piazze e strade come Via Toledo (l’attuale e centralissima Via Roma) la Riviera di Chiaia, Posillipo etc. In questo contesto nasce il Real Teatro di San Carlo, il cui progetto è affidato all'architetto Giovanni Medrano, colonnello spagnolo di stanza a Napoli ed a Angelo Carasale, architetto e impresario teatrale italiano, che completa la Real Fabbrica del teatro in circa 8 mesi, con una spesa di circa 75.000 ducati.

Il Real Teatro

Il teatro prende il nome dallo stesso sovrano Carlo di Borbone. La prima opera in scena fu l’ “Achille in Sciro” di Pietro Metastasio che debuttò  il 4 novembre del 1737, nel giorno di San Carlo, onomastico del Re; la struttura architettonica, attaccata al Palazzo Reale, consentiva al Sovrano di raggiungere il palco reale direttamente attraverso una porta ed un corridoio senza dover scendere in strada.

Nel 1799, e durante i mesi della Repubblica napoletana, il San Carlo assunse il nome di Teatro Nazionale di San Carlo, denominazione che durò fino alla caduta della Repubblica stessa, tornando alla denominazione originale.

Nel 1808 ascese al trono di Napoli Gioacchino Murat per nomina di Napoleone Bonaparte, e nel 1812 nacque la Scuola di Danza più antica d’Italia: in quel momento il teatro divenne anche Teatro del Popolo, e si avviò un’importante ristrutturazione affidata, nel 1810, ad Antonio Niccolini. I lavori, avviati già nel dicembre 1809, si conclusero due anni dopo.

Il teatro: descrizione

Il portico carrozzabile è sostenuto da pilastri e si ispira al modello della Scala di Milano, ma modificato dall'inserimento, al secondo registro della facciata, della loggia ionica, che conferisce al teatro le connotazione di un Tempio. Sulla sua sommità, al centro del frontone della facciata principale, si erge tutt'oggi il gruppo scultoreo “La Triade di Partenope”, che secondo il mito era la sirena che incoronava musicisti e poeti; il 27 marzo 1969 l’opera si sgretolò a seguito delle infiltrazioni di acqua piovana e, inoltre, perché colpita da un fulmine. E' stata totalmente restaurata e ricollocata dove era in origine.

Passati gli anni della Repubblica partenopea e quelli del dominio francese, a seguito della Restaurazione operata dal Congresso di Vienna, torna sul trono di Napoli, la Casa Reale di Borbone con Ferdinando che, salito al trono, dopo soli 6 anni è costretto ad un ulteriore rifacimento del teatro, poiché nella notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1816 un incendio lo distrusse completamente.

I lavori furono eseguiti nuovamente dall'architetto toscano Antonio Niccolini, che diede al teatro l’aspetto che attualmente detiene poiché rivide gli interni, creò ambienti di ristoro e rifece la facciata in pieno stile neoclassico, come il gusto del tempo imponeva.

…Appena parlate di Ferdinando vi dicono:  “ha ricostruito il San Carlo!”

 Stendhal,1817.

I lavori di ristrutturazione

Il rifacimento si concretizza in soli nove mesi. Il Niccolini mantiene l’impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena, che viene ornato dal bassorilievo “Il Tempo e le Ore” tutt'oggi esistente; l’acustica è perfetta, non si altera in base alla posizione degli spettatori siano essi in platea, sui pachi o nel loggioni; al centro del soffitto troneggia la tela di circa 500 metri quadrati raffiguranti “Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo” dipinto da Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano.

Quest’ultimo si occupò anche della ridipintura del sipario, sostituito poi dall'attuale nel 1854.

La nuova inaugurazione avvenne il 12 gennaio 1817 con la rappresentazione de “Il sogno di Partenope” di Giovanni Simone Mayr, che fu un trionfo. Con l’avvento del Regno d’Italia,ed in seguito all'Unità d'Italia, lo stemma borbonico fu sostituito con quello sabaudo, ma nel 1980 fu ripristinato lo stemma del Regno delle Due Sicilie, sostituendo quello sabaudo che era stato semplicemente sovrapposto allo stemma originale, dal quale si era staccato a seguito di alcune operazioni di pulitura.

Il XX secolo è sicuramente un secolo molto importante per l’attività del teatro, sebbene segnato e danneggiato dagli eventi bellici che hanno segnato il ‘900. Nel 1937 fu creato un foyer, noto anche come “Sala degli Specchi”, sul lato che da sui giardini del Palazzo Reale; si trattava di un locale adiacente alle sale del teatro, dove gli spettatori potevano intrattenersi durante le pause dello spettacolo. Fu rifatto dopo la Seconda Guerra Mondiale, poiché fu distrutto dai bombardamenti. Il San Carlo fu il primo teatro a riaprire in Italia.

Dai primi anni del XXI sec. un nuovo foyer  ospita “l’Opera Café” , elegante salotto cittadino, divenuto uno dei simboli della città, ideale per una pausa o per un aperitivo, con accesso da Piazza Trieste e Trento, adiacente la più nota Piazza del Plebiscito.

Nel 2007 la “Triade di Partenope” è stata ulteriormente ristrutturata e restituita alla sommità dell’edificio dalla quale, fieramente, troneggia; anche la sala principale del teatro è stata ristrutturata, migliorando la visuale e l’acustica, sebbene quest’ultima sia sempre stata considerata perfetta; le poltrone della platea sono state sostituite ed è stato aggiunto un impianto di climatizzazione.

Il 1 Ottobre 2011, inoltre, è stato inaugurato il MEMUS, ovvero il Museo e Archivio Storico del San Carlo, ospitato nei locali di Palazzo Reale, che non è e non è stato pensato come un museo nell'accezione più tradizionale del termine, ma è un vero e proprio centro polifunzionale altamente tecnologico, contenente aree espositive, sale eventi, una galleria virtuale in 3D, un bookshop, ed un centro di documentazione sulla storia del San Carlo.

L’amore che lega il teatro alla città e la città al teatro è indissolubile, non c’è napoletano che non lo senta ‘suo’ e non lo ami con lo stesso amore con cui si ama un figlio o una parte della propria storia. Il San Carlo, nelle sue vicissitudini, è sempre stato accanto al suo popolo, d'altronde l’immagine stessa di Partenope sulla  sommità sembra un atto dovuto da parte della città alla Sirena che diede il nome alla città e della quale molti napoletani, ancora oggi, si sentono figli, tanto da definirsi “partenopei” piuttosto che “napoletani”.

 

“non c’è niente in Europa, non direi di simile, ma che possa anche lontanamente dare un’idea di ciò. Vedo nei palchi delle dame alle quali posso essere presentato; preferisco la mia sensazione…e resto in platea…”

Stendhal 13 Gennaio 1817.

 

SITOGRAFIA:      guidanapoli.com;

Wikipedia – enciclopedia libera;

Teatrosancarlo.it;

BIBLIOGRAFIA:   F. Negri Arnoldi – Storia dell’arte Vol. III – Fabbri Editori;

Monumenti e Miti della Campania Felix –

Volume 20 “Il San Carlo e i teatri della Campania”

in Allegato a “il Mattino” Pierro Editore.[/vc_column_text][/vc_column]

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LA CHIESA DI SOTTERRA A PAOLA

Una chiesa sotto un'altra chiesa

La chiesa ipogea di Sotterra si trova in località Gaudimare, a pochi passi dal centro storico di Paola, in prossimità della chiesa del Carmine che la sovrasta. La chiesetta è infatti una delle più antiche della Calabria è stata dimenticata per secoli non solo “sotto” la terra, ma anche “sotto” il luogo scelto per la chiesa del Carmine. La sua datazione è incerta, ma secondo alcuni studiosi potrebbe risalire all’ VIII secolo. Subì diversi rimaneggiamenti nel corso del tempo, fino a scomparire, forse in epoca cinquecentesca, a causa di eventi franosi o per una grande alluvione del torrente Palumbo. Dopo la riscoperta nel 1876, in modo fortuito, si sono moltiplicati gli studi e le teorie sulla chiesetta.

La chiesa si incrocia con la sovrastante chiesa del Carmine, dalla quale si accede per mezzo di una scala del portico. Per scendere più agevolmente nella cripta fu praticata un’apertura nel pavimento della chiesa superiore. Di questo accesso è rimasta l’apertura in fondo alla attuale scala, ora trasformata in un finestrone con inferriata. Secondo alcuni, l’edificio era una cripta, secondo altri era l’oratorio di eremiti. Due importanti monografie presentano differenze fondamentali: secondo le osservazioni di Francesco Ruffo la chiesa di Sotterra è bizantina, mentre per Rubino essa ha solo tracce bizantine. Nel catalogo degli edifici monumentali del Francipane, si trovano osservazioni che fanno capo dell’attività della Soprintendenza ai monumenti del successore di Paolo Orsi, Edoardo Galli, in base ai rilievi e grafici dell’assistente Ricca. Queste osservazioni sono di grande pregio. Nel primo elenco del 1929-1933, viene descritta: “chiesa del Comune di Sotterra in contrada Gaudimare, di origine basiliana (VII-VIII) ma ricostruita, con cripta medievale affrescata”.

Nel secondo elenco, molto più curato, è del 1938 viene riportato: “Santuario Ipogeo di origine bizantina, ricostruito nel XIV. Interno della cripta a tipo basilicale, con presbiterio e abside decorati da un ciclo di affreschi in parte di età bizantina e in parte iconografia benedettina del XIV secolo”. L’edificio si presenta come una semplice aula rettangolare monoabsidata, orientata lungo l’asse nord-sud e preceduta da un endonartece. È sormontata da volte a botte, suddivisa da tre archi in quattro campate, e un’abside semicircolare.

Fig. 1- Chiesa di Sotterra, la Vergine e gli Apostoli nel semicilindro, il Cristo in gloria, nel catino.

Nonostante secoli di oblio, sono arrivati fino a noi bellissimi affreschi. Le più antiche pitture secondo Pace risalgono all'età normanna ed in particolare alla fine del XI-XII secolo. La stessa datazione è stata proposta anche da Falla Castelfranchi.

La chiesa di Sotterra a Paola: descrizione

Gli affreschi sono distribuiti all'interno dell’abside dove, al di sopra di una zoccolatura dipinta a motivi geometrici romboidali, trovano un’ascensione suddivisa in due registri: la Vergine e gli Apostoli, nel semi-cilindro; il Cristo in gloria, nel catino. Quest’ultimo soggetto parrebbe contaminato dal tema occidentale della Majestas Domini. Una fascia orizzontale divide e nello stesso tempo fa convergere le due parti, superiore e inferiore, dell’icona. Gli Apostoli nonostante debbano essere undici, perché l’Ascensione avviene prima dell’elezione di Mattia al posto di Giuda, sono sempre dodici per esprimere la totalità della chiesa, con la Vergine al centro spesso affiancata da due candidi angeli. Alcuni Apostoli indicano con il dito alzato il trono di Cristo e le palme proiettate verso l’alto contribuiscono a rendere l’idea del congiungimento fra terra e cielo. I dodici Apostoli anziché raggruppati sono allineati in maniera semplice ma pieni di pensiero e carattere. Non si capisce perché qualcuno scriva che sono un uomo e una donna in maniera alternata quando è evidente come donna solo la Vergine. Forse perché nei moduli bizantini due Apostoli sono sempre raffigurati senza barba come si può notare anche nell'icona di Recklinghausen. Le due zone sono divise dalle fasce orizzontali e dalla mandorla entro la quale è il Cristo eppure hanno un punto di convergenza. Accanto alla zona delimitata della mandorla si osservano i resti dei panneggi dei due angeli. Ai lati dell’abside si svolge il tema dell’Annunciazione, con l’angelo (fig.2) a sinistra che annuncia il divino concepimento e la Madonna (fig.3) sul lato opposto.

 Fig. 2- Chiesa di Sotterra, affresco, angelo dell’Annunciazione.

Fig. 3- Chiesa di Sotterra, Madonna.

L’angelo, che, volando è già prossimo alla terra, ma non la tocca, ha le braccia incrociate sul petto e larghe ali a ventaglio che sconfinano dalla cornice. In posizione aerea, con una lunga stola tramezzata da numerose crocette di forma latina, con leggera torsione si protende verso la Madonna. Tutte e due le figure sono in una parete liscia con sfondo a tappeto di stile cosmatesco. Il movimento del panneggio, con un dinamico rigonfiamento che lo solleva dal fondo, ed una stola come agitata dal vento, contrastano con il pacato incrociare delle braccia sul petto. La Madonna è in piedi, con veste sobria e manto orlato. Una mano è sul petto e l’altra sorregge un libro, la testa leggermente piegata verso l’angelo. Queste due figure dipinte da un artista ignoto sono datate XIV-XIV secolo. Sulla parete di sinistra ci sono altri due affreschi più recenti, risalenti al Quattrocento: una Madonna con Bambino e la figura di un santo (fig4).

Fig. 4- Chiesa di Sotterra, Madonna con il Bambino e Santo.

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Falla Castelfranchi, M., Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIV), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territorio. VIII Incontro di studi bizantini (Reggio Calabria- Vibo Valentia-Tropea, maggio 1985), Soveria Mannelli 1991, pp. 21-61.

Musolino, G., Calabria Bizantina, Venezia 1966, pp.341-342.

Russo, F., La chiesa bizantina di Sotterra (storia e arte), Roma 1949, p.14.

Venditti, A., Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Campania, Calabria e Lucania, Napoli 1967, p.221

Verduci, R., La chiesa di Sotterra di Paola, Reggio Calabria, 2001, pp. 9-64.

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CASA-MUSEO BOSCHI-DI STEFANO A MILANO

Una molteplice realtà novecentesca: la casa-museo Boschi-Di Stefano

Di Milano, città associata agli aggettivi di caos e frenesia, ci lascia un'accurata testimonianza Umberto Saba nell'omonima poesia, che recita:

 

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

villeggiatura. Mi riposo in Piazza

del Duomo. Invece di stelle

ogni sera si accendono parole.

 

Nulla riposa della vita come

la vita.

 

In questo sintetico ed essenziale ritratto della città, in cui le miriadi di stelle nel cielo vengono portate in secondo piano dalle luminose insegne dei negozi, il poeta invita a trovare la pace dell’anima nell'ordinaria vita cittadina. Per assaporare quanto egli predica è sufficiente recarsi presso uno dei fiori all'occhiello della moderna città, la casa dei coniugi Boschi e Di Stefano. Quest’ultima, trasformata in museo per loro volontà testamentaria, è collocata in via Giorgio Jan 15 ed ospita al suo interno una rosa di trecento opere, tra le oltre duemila attualmente di proprietà del Comune di Milano.

Ma chi erano i due coniugi collezionisti d’arte? Marieda Di Stefano, il cui padre fu collezionista di opere del Novecento italiano, rimase colpita dalle potenzialità dell’arte fin dalla tenera età e ciò la spinse a prendere lezioni dallo scultore Luigi Amigoni. Conclusa la sua formazione espose in svariate mostre sotto lo pseudonimo, così come molti suoi contemporanei, di Andrea Robbio.

Durante una vacanza in Val Sesia incontrò Antonio Boschi, ingegnere di Novara con una grande passione per il violino, con cui si sposerà poco tempo dopo nel 1927. Una volta incontratisi i due avviarono la loro attività di collezionisti ed investitori nel mondo dell’arte, che li portò a creare un’esaustiva collezione del Novecento comprendente opere cronologicamente collocate tra il 1910 e il 1960.

La Casa-Museo, risalente ai primi anni Trenta,fu progettata da Piero Portaluppi, già noto nel panorama milanese per la realizzazione di Villa Necchi Campiglio. Dal punto di vista architettonico il palazzo presenta all'esterno una struttura ad angolo, mentre l’interno è definito da ringhiere Art Déco e grandi vetrate. La casa è dotata di ben undici spazi espositivi, all’interno dei quali si segue un percorso cronologico, e l’ingresso accoglie il pubblico con i ritratti dei coniugi e le ceramiche di Marieda.

Casa-museo Boschi-Di Stefano. L'anticamera e il bagno

Dall'ingresso, svoltando a sinistra, si giunge all'anticamera contenente le opere che precedettero il Novecento italiano col prevalere di Marussig; 

Nei pressi dell’anticamera si trova quello che fu il bagno dell’abitazione, ora ospitante opere di Rumney.

La camera degli ospiti

Proseguendo nel percorso espositivo ci si addentra in una delle sale, un tempo camera degli ospiti, che testimonia l’esperienza dei pittori che aderirono alla poetica di Novecento italiano”.

L’anima del movimento fu Margherita Sarfatti che riunì i sette pittori del Novecento (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi) presentandoli alla galleria milanese di Lino Pesaro. Tali artisti furono legati da un senso di “ritorno all'ordine” nell'arte dopo le sperimentazioni delle Avanguardie, si tornò così a prendere come riferimento l’antichità classica, la purezza delle forme e l’armonia della composizione. Nella sala sono presenti gli artisti sopracitati, ma anche altri che con loro trovarono un dialogo pur mantenendosi autonomi dal movimento. Nello spazio espositivo le opere vengono raggruppate per temi, ossia figure e ritratti, paesaggi e nature morte.

Dei grandi nomi elencati si distingue Achille Funi, il quale aderì al ritorno alla tradizione italiana del Tre e Quattrocento, e di cui qui ammiriamo “Il pescatore”, “Nudo femminile” e “Bagnante” che attestano il gusto per volumi dilatati e monumentali della sua fase Novecentista. Oltre a lui nella sala regna l’atmosfera sospesa delle opere di Felice Casorati, ulteriori testimonianze di Marussig, ed infine due paesaggi ed una natura morta di Carrà, che affiancò de Chirico nell'esperienza metafisica.

Lo studiolo

Continuando si incontra la prima sala monografica della casa, ex studiolo dedicata a Mario Sironi e contente ben 40 quadri dell’artista che attestano i momenti salienti della sua esperienza, tra cui: il periodo del cubo-futurismo, l’adesione a Novecento e la pittura murale.

Due opere significative sono le seguenti: la “Venere dei porti”, testimoniante il passaggio dalle esperienze tardo-futuriste e l’avvicinamento alla pittura metafisica, e “Gasometro”, una delle prime periferie da lui realizzate dove la città è indagata negli aspetti della solitudine nelle fabbriche e dell’abbandono delle periferie. Importante aggiungere come, in generale, l’architettura costituisse per lui una presenza monumentale e incombente. Per quanto concerne le opere più tarde, permeate dal culto per l’antico e la mediterraneità dell’arte italiana, ne sono un chiaro esempio il “Figliol prodigo” e “Grande composizione”.

La sala da pranzo

Entrando nella vecchia sala da pranzo ci si imbatte nel gruppo Corrente, nome dell’esperienza e rivista nata a Milano nel 1938, diretta da Treccani e conclusasi con l’entrata in guerra dell’Italia. La rivista si dichiarò apertamente contro l’autarchia imposta dal regime fascista, facendosi portatrice di un’esigenza di rinnovamento e rifiuto delle sue imposizioni.

Un chiaro esempio è fornito dai due principali esponenti del movimento: Guttuso con “Figliol prodigo” e “Piccola nuda sdraiata” e  Migneco, a cui si aggiungono poi gli altri artisti in esposizione.

Nella sala, oltre a Corrente, il vero protagonista è Giorgio Morandi che coi suoi temi prediletti di paesaggio e natura morta continua ad essere influenzato dalla lezione di Cézanne nella divisione degli spazi e nel misterioso silenzio. Tra i suoi capolavori qui esposti: “Natura morta scura “ del 1924, tre paesaggi del 1940-41, “Fiori” del 1941 e del 1952 e “Rose secche” del 1940.

Altro artista protagonista è Filippo De Pisis, di cui si possono ammirare sei dipinti provenienti dalla Galleria del Milione e Milano, ma di cui mancano le fasi metafisiche e futuriste.

Il soggiorno

Nel soggiorno sono collocate una serie di opere della scuola di Parigi, con nomi noti come Campigli, Paresce, Savinio e de Chirico.

Quest’ultimo fu l’elaboratore della pittura metafisica nel 1917, diffusa poi attraverso la rivista “Valori Plastici”, insieme a Carrà, De Pisis e il fratello Savinio presso l’Ospedale militare di Ferrara.

In ordine cronologico, tra le sue più importanti qui esposte, si trovano: la “Peruginesca” (1921) che affronta il tema della rilettura dell’arte rinascimentale, “Les Brioches" (1925) dipinte negli anni parigini di contatto col surrealismo e memore del mondo metafisico, ed infine “La scuola dei gladiatori: il combattimento” (1928) che si riallaccia all’arte classica col recupero degli schemi compositivi dei bassorilievi romani. Altro capolavoro esposto è “L’Annunciazione” (1932) di Savinio, in essa alla finestra vi è una gigantesca testa di angelo che porta la notizia ad una Madonna dalla testa di pellicano, già dal Medioevo simbolo di bontà e amore materno.

Attraversando il corridoio si incontrano i chiaristi, legati alle voci dissonanti di contestazione dell’arte ufficiale, che contrapposero al cromatismo cupo il dipingere chiaro della tradizione lombarda e la luminosità della campagna contro le angosce della periferia industriale. Tra i massimi esempi Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni, De Amicis e Adriano di Spilimbergo.

Nello studio di Antonio si giunge nella seconda sala monografica della casa dedicata al grande Lucio Fontana.

 

Nato in Argentina e poi giunto in Italia, si propose di indagare un nuovo concetto di spazio che si tradusse sia nel superamento della bidimensionalità della tela, attraverso tagli e buchi, sia nella creazione di ambienti spaziali che dovevano coinvolgere lo spettatore e usavano una luce nera in modo da creare “forme,colore,suono attraverso lo spazio”.

Tra le opere in collezione vi sono ventitré “Concetti spaziali”, ricoprenti l’arco dal 1954 al 1960, e la successiva fase di impiego di pietre colorate che ribaltano il vuoto spaziale dei buchi.

Un chiaro esempio è “Concetto spaziale” del 1956, una superficie bianca costernata di pietre di vari colori. Molto significativo e di impatto è il “Golgotha” (1954), animato da lampadine che, posizionate sul retro della tela, fanno filtrare luce attraverso i fori. Da non tralasciare è “La bara del marinaio”, costituente una summa di tutte le sue esperienze.

Entrando in quello che un tempo era lo studio di Marieda si colloca uno spazio dedicato agli spazialisti e pittori che, negli anni della guerra, volsero lo sguardo alla cultura europea e furono impressionati dagli esiti drammatici dell’arte di Picasso.

L’ultima sala, in origine camera da letto, presenta il movimento di crisi della forma che si verifica a partire dagli anni Cinquanta, quando i modi tradizionali di espressione vennero rifiutati poiché ritenuti privi di significato, ovvero l’Informale le cui parole chiave furono segno, gesto e materia. I coniugi furono affascinati da Piero Manzoni, di cui qui si conservano i bianchi “Achrome” realizzati tra 1958 e 60 con materiali diversi. In contrapposizione al bianco di Manzoni sulla parete opposta si trovano dipinti dove il colore diventa l’elemento espressivo dominante.

 

 

Bibliografia

- “Le opere” Maria Teresa Fiorio

- “Gli arredi” Ornella Selvafolta

- “I luoghi dell'arte. Storia opere percorsi”, voll. V-VI di G. Bora, G. Fiaccadori, A. Negri, A. Nova,,Electa-Bruno Mondadori, Milano, 2003

 

Sitografia:

- www.fondazioneboschidistefano.it[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


SANTA CROCE SULL'ARNO E LE SUE CHIESE

L'ORIGINE DI UN NOME

Santa Croce sull’Arno è una cittadina del pisano che si trova nella zona del Valdarno inferiore, in età contemporanea particolarmente nota per far parte del distretto industriale conciario denominato “comprensorio del cuoio”, un centro economico-lavorativo di grande rilievo per la Toscana. Sebbene il fiorente sviluppo possa far pensare a Santa Croce come un paese nato in seguito all'industrializzazione, si rimarrà sorpresi nello scoprire che invece le sue origini sono antichissime e anche il suo toponimo, non a caso,nasconde delle ragioni storiche e religiose.

Il territorio dove nacquero i primi insediamenti sulle rive dell’Arno (già testimoniati a partire dal VIII secolo), apparteneva al tempo alla diocesi di Lucca, in cui era diffusa la venerazione del Volto Santo, il celeberrimo crocifisso ligneo raffigurante il corpo di Cristo vivo sulla croce, vestito con una lunga tunica. Sono molteplici le leggende riguardanti questa immagine divina, secondo alcuni scolpita da Nicodemo dopo la resurrezione per ricordare ai fedeli la fisionomia umana del figlio di Dio.

La leggenda racconta il ritrovamento della croce in Palestina da parte del vescovo Gualfredo, che spedì il simulacro su un’imbarcazione via mare con la speranza che potesse raggiungere una terra cristiana, scongiurando così la sua distruzione.Nel 782 la nave si avvicinò a Luni, approdando spontaneamente solo quando il vescovo Giovanni I giunse nella zona dopo essere stato avvisato in sogno da un angelo. Da qui la croce venne trasferita a Lucca (ancora oggi conservata nella Cattedrale di San Martino) e la devozione all'immagine sacra fu inarrestabile, crescendo a dismisura in Europa come meta di pellegrinaggio di potenti e semplici fedeli, e arrecando alla città legittimazione divina, prestigio, ricchezza.

È proprio grazie al modello votivo lucchese che nasce Santa Croce nel Valdarno, quando nella seconda metà del XIII secolo è attestato per la prima volta il toponimo di questo luogo, fiorito intorno ad un medesimo Volto Santo custodito nell'antico oratorio di Santa Croce sul Poggetto, e dove confluirono le piccole realtà territoriali che popolavano queste rive dell’Arno. Il culto della croce,esteso nell'intera circoscrizione vescovile, fu uno dei più venerati in età medievale e moderna, ed è quindi legittimo presupporre che fu proprio la progressiva importanza acquisita da tale fede popolare che portò anche nelle zone limitrofe l’emulazione di una croce analoga, servendo inoltre come legittimazione dell’autorità lucchese sul territorio.

L’oggetto di culto legato alle vicende di fondazione del paese oggi si trova nella collegiata di San Lorenzo, costruita nel XVI secolo sulla preesistente chiesa intitolata proprio alla santa croce.

L’imponente statua policroma, che secondo la critica è da datare al XIII secolo per mano di un anonimo artista lucchese, è costituita da più parti assemblate con gesso e colla, dipinte con pittura a tempera, e ritrae l’immagine viva di Cristo,caratterizzato da una fisionomia del volto severa e solenne,con la testa leggermente sporgente per la propensione del collo in avanti: i connotati somatici s’ispirano al Volto Santo di Lucca ma non sono completamente identici, in quanto appaiono più sintetici, così come anche la resa plastica della tunica orientale  è ridotta ai minimi termini, appena accennata in fondo alla veste e nelle maniche, mentre è del tutto assente nella parte alta del torace. Il fascino arcaico che sprigionano le croci ispirate al modello lucchese, in Toscana presenti in vari esemplari, deriva dalla tradizione del Christus Triumphans, che unisce nella rappresentazione la morte di Gesù e il momento della resurrezione, oltre alla particolarità della tunica sacerdotale che li copre.

Nella collegiata è esposta un’altra notevole opera statuaria, raffigurante un Angelo annunziante in terracotta parzialmente invetriata, datato ai primi decenni del XVI secolo. Secondo le ricostruzioni storiche recenti, l’opera non faceva parte dell’arredo originario della chiesa ma vi giunse in seguito da un luogo di culto imprecisato, dove forse era collocata a lato di un altare, accompagnata da un suo ignoto pendant raffigurante la Vergine annunciata. Per l’inclinazione sentimentale con cui è modellato questo giovane angelo, la critica ha assegnato la statua a Andrea della Robbia (1435-1525), nome sostenuto anche dall'utilizzo dalla lavorazione della terracotta solo in parte invetriata: la tecnica di cui l’artista si servì spesso nella sua produzione tarda, fu ideata per rifinire alcune zone con colore a secco, conferendo all'opera un’impronta più naturale, come avviene per la statua santacrocese, policroma nell'incarnato del viso e delle mani, oltre che nella stola in origine di colore rosso (colorazione non era realizzabile con tale metodo). Oggi la pittura stesa a secco si è quasi del tutto persa, mentre permangono intatti i colori della tunica fissati dall’invetriatura, a riprova della straordinaria resistenza della tecnica robbiana.

Guardando nella zona presbiteriale, la parete di fondo dietro l’altare maggiore è occupata da un’edicola pensile di gusto settecentesco (1709-1716) in marmi misti, attribuita a Bartolomeo di Moisé, la cui attività è ancora tutta da ripercorrere.

Il dossale si compone dell’unione di diversi elementi architettonici e decorativi, quali volute, ghirlande di frutta, cornucopie e angeli, che ne fanno un monumento complesso ma nell'insieme armonioso: al centro una nicchia contiene la statua del santo titolare della chiesa, San Lorenzo, affiancata ai lati da alcune raffinate lesene disposte gradualmente e che determinano il focus dell’altare.

Spostandoci nella navata destra della collegiata, incorniciato da una monumentale edicola, si trova un quadro raffigurante la Pietà, dipinto dal pittore fiorentino Anton Domenico Bamberini (1666-1741), molto attivo nella diocesi di San Miniato. Oltre la fama di buon frescante, Bamberini da qui prova di sé in un’opera su tela dove colloca al centro della scena il fulgido corpo di Cristo sostenuto da Maria, sotto un cono di luce etera e celestiale che rischiara entrambi, lasciando il resto dei partecipanti in penombra. Il dipinto proveniente dal monastero di Santa Cristiana e realizzato probabilmente tra il secondo e terzo decennio del XVIII secolo, ci offre il pretesto per raccontare un’altra storia religiosa e attuale al tempo stesso,appartenuta a Santa Croce sull'Arno e che si lega al nome di Oringa Menabuoi.

Oringa nacque a Santa Croce(1237/1240-1310) da un’umile famiglia, coltivando fin da piccola la fede e i valori cristiani: poiché fu obbligata dai fratelli a sposarsi contro la sua volontà, decise di allontanarsi da casa rifugiandosi a Lucca, dove ebbe inizio il suo percorso spirituale che la condusse in molti viaggi fra cui a Roma e Assisi. Nel 1277 tornata nuovamente a Santa Croce, insieme ad altre giovani donne fondò nel suo paese natale il monastero intitolato ai Santi Maria Novella e Michele,affermando così la sua volontà consacrata alla fede e alla generosità, e vestendo gli abiti dell’ordine agostiniano. Tanto fu il suo impegno sociale e il suo intenso credo, per cui si ricordano anche fatti miracolosi e divini, che gli abitanti del posto la denominarono “Cristiana”, oggi patrona di Santa Croce, festeggiata dalla comunità ogni 4 gennaio,nella ricorrenza della sua morte.

La chiesa di Santa Cristiana nelle forme in cui la vediamo oggi, adiacente al monastero ancora attivo, venne ricostruita su un originario impianto duecentesco andato distrutto in un incendio nel 1515, dove andò perduto anche il corpo incorrotto della Santa. L’assetto odierno è frutto di un ennesimo restauro settecentesco, insieme all'affresco dipinto dal già citato Bamberini fra il 1716 e il 1717,che nella volta presbiteriale vi raffigurò Santa Cristiana in gloria accolta in cielo da un tripudio di angeli e putti in festa, che ritroviamo anche nei pennacchi come allegorie delle virtù di Cristiana.

L’interno ad aula unica, voltato con una copertura a botte con decori ottocenteschi, è arricchito dalle vetrate realizzate dalla ditta Polloni di Firenze nel 1945, che illustrano con vivaci colori gli episodi più significativi della vita della Santa.

Sull'altare maggiore è esposta una pala cinquecentesca raffigurante la Resurrezione di Cristo e Santi (fra cui Cristiana),attribuita alla scuola pittorica di Fra’ Bartolomeo, tra i cui seguaci la critica ha riconosciuto nell'opera la mano di Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561), ipotesi avvalorata anche da una tarda memoria scritta. Dietro la zona presbiteriale si trova la cappella consacrata alla Santa, dove in una sfarzosa urna dorata è rappresentato il simulacro del corpo di Cristiana insieme ad alcune reliquie.

Fra i luoghi di culto storici di Santa Croce sull'Arno ricordiamo anche la chiesa di San Rocco, che spicca subito nell'abitato cittadino per il curioso color arancio che ricopre esternamente l’edificio. Già nota nel Cinquecento come piccolo oratorio nei pressi del quale si trovava un ricovero per gli appestati, l’importanza di San Rocco aumentò considerevolmente dopo che vi fu trasferita un’immagine miracolosa della Madonna, tanto che fra il 1792 e il 1796 furono necessari dei lavori di ampliamento che portarono all'aspetto odierno della struttura: il portico che copre l’entrata principale della chiesa è invece una ricostruzione fedele e recente dell’originale settecentesco che crollò negli anni ‘30 del Novecento.

L’interno si presenta ad aula unica ampliato sui lati da due cappelle laterali che conservano rispettivamente una Crocifissione e l’Adorazione del simulacro della Vergine di Loreto da parte dei Santi Bartolomeo, Caterina, Apollonia e Rocco, entrambi dipinti collocabili alla metà del XVII secolo e attribuiti al pittore ancora poco noto Giovanni Gargiolli, appartenente al clima artistico del seicento fiorentino.

L’altare maggiore è coronato da un’edicola a forma di grande nuvola che allude al Sacro Cuore, e che custodisce al centro la santa immagine della Madonna col Bambino.

In conclusione si ricorda un’opera ottocentesca che si trova nella parete destra appena precedente alla zona presbiteriale della chiesa, realizzata dal santacrocese Cristiano Banti(1824-1904), pittore celebre per aver aderito al movimento artistico dei macchiaioli, in stretta amicizia con i grandi esponenti del gruppo, come Telemaco Signorini e Vincenzo Cabianca. Il dipinto devozionale che raffigura San Rocco pellegrino, realizzato per l’omonima chiesa, si colloca a metà fra i lavori giovanili eseguiti da Banti, dopo la frequentazione dell’Accademia artistica di Siena, quando ancora lo stile del pittore era fortemente influenzato dall'insegnamento neoclassico dei suoi maestri, e appena prima del suo trasferimento a Firenze nel 1854 che lo convertì definitivamente alla macchia. L’opera rappresenta San Rocco al centro di una nicchia lunata, vestito in abiti da pellegrino, mentre con lo sguardo rivolto in alto indica la piaga sulla coscia (simbolo della peste che lo afflisse), accompagnato dal cane, che secondo la leggenda sfamò San Rocco durante la malattia,portandogli quotidianamente un pezzo di pane rubato alla mensa del padrone.

Dietro l’immagine del Santo si apre un vasto paesaggio agreste e uno scorcio molto ampio di cielo azzurro limpidissimo, che occupa più di metà dello sfondo. Stilisticamente l’opera è in linea con i principi neoclassici di simmetria e ricerca armonica della composizione, dove i contorni nitidi delle forme si accompagnano ad una stesura del colore in campiture uniformi e omogenee.

 

 

Bibliografia

  1. Matteucci,Cristiano Banti, Firenze 1982.
  2. Marchetti, Settecento anni di vita del Monastero di Santa Maria Novella e San Michele Arcangelo in Santa Croce sull'Arno comunemente detto Monastero di Santa Cristiana, Ospedaletto 1994.
  3. Bitossi, Scheda n.108 (Andrea della Robbia-Angelo annunziante), Scheda n.116 (Bartolomeo di Moisé (?)-Dossale di San Lorenzo), Scheda n.117 (Antonio Domenico Bamberini-Pietà), Scheden.122-123 (Giovanni Gargiolli (?)-Crocifissione-Santi in adorazione del simulacro della Vergine di Loreto), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp. 228-229,233-234, 241-242, 243-244, 250-253.
  4. Parri, Scheda n. 105 (Ignoto scultore toscano, Volto Santo), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di R.P. Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol I, pp.228-229.

M.G. Burresi, Il simulacro ligneo del Volto Santo nella Collegiata di Santa Croce sull’Arno, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp. 7-12.

  1. Gagliardi, La Santa Croce. La continuità del culto nella differenziazione delle forme, in La Santa croce-il culto del Volto Santo, a cura di G. Parrini, San Miniato 2006, pp.14-39.
  2. Giannoni, Una storia da riscoprire-Il monastero di Santa Cristiana, San Miniato 2007.
  3. Gagliardi, OringaMenabuoi - santa Cristiana da Santa Croce nella tradizione agiografica (sec. XIV-XVIII), in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 31-46.
  4. Marcori, Con la croce e il giglio, luoghi di preghiera e devozione di una comunità, in Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di A. Malvolti, Ospedaletto 2009, pp. 101-116.

 

Sitografia

Il monastero di Santa Cristiana: www.agostiniani.it

 

 

*Le foto n.6-7-8 sono tratte dal libro Santa Cristiana e il castello di Santa Croce tra Medioevo e prima Età moderna (Ospedaletto 2009).[/vc_column_text][/vc_column]

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