TENUTA FILANGIERI DE CLARIO

Definita come una delle più belle dimore storiche della Campania, la tenuta Filangieri De Clario si trova a San Paolo Belsito, in provincia di Napoli.

Situata in un contesto ameno e circondata da quasi trenta ettari di boschi, la villa è stata immaginata come una sorta di fattoria che ruota intorno ad un grande cortile. Sono due infatti le aree esterne: una è un parco all'italiana di quasi sei ettari, mentre l’altra è un boschetto, che si somma ai campi coltivati ad aranceti e noccioleti.

Come in quasi tutte le costruzioni del genere, al piano terra sono situati i locali destinati alla produzione di prodotti come l’olio e le stalle degli animali. Tra questi locali degne di nota sono le cantine, ove spicca il monumentale torchio, ricavato da un unico tronco di cipresso.

Al primo piano, invece, trova posto la residenza vera e propria.

Dopo una sontuosa doppia rampa di scale si apre una serie di sale ad infilata, l’una dentro l’altra, caratterizzate da una pavimentazione simile che le unifica. Un salottino, splendidamente arredato con mobili d’epoca e una elegantissima carta da parati floreale, continua a sua volta in una sala da biliardo, ove spicca un monumentale lampadario. Tutti gli arredi sono ottocenteschi, e impreziosiscono ulteriormente la dimora.

Dalla sala del biliardo si passa ad un’altra sala, caratterizzata da una decorazione a boiserie sulle pareti e preziose porcellane sui mobili.

Alla villa appartiene anche la piccola chiesa dell’Epifania, di proprietà della famiglia marchesale dei Mastrilli, proprietari della villa.

Al suo interno è presente sull’altare maggiore un dipinto su tavola del XVI secolo attribuito a Francesco da Tolentino, mentre negli altari laterali sono dislocate altre tele raffiguranti la “Vergine del Rosario”(Giovanni De Vivo) e “L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo”(Angelo Mozzillo).

La villa fu acquistata in un primo tempo dalla famiglia Mastrilli, che la abbellì intorno alla metà del XVII secolo.

All'inizio dell’Ottocento poi, grazie al matrimonio di Vincenza Mastrilli con il barone Francesco de Clario, la villa passò alla famiglia de Clario.

Da questa in seguito passò ai Filangieri dopo il matrimonio di Elenora de Clario e Riccardo Filangieri, avvenuto nel 1920.

www.dimorestorichecampane.it


RECENSIONE MOSTRA "DAVID E CARAVAGGIO: LA CRUDELTA' DELLA NATURA, IL PROFUMO DELL'IDEALE"

Palazzo Zevallos Stigliano

Gallerie d’Italia

Napoli –  Via Toledo

5 dicembre 2019  –  19 aprile 2020

 

 

Palazzo Zevallos Stigliano in via Toledo (nota anche come Via Roma) a Napoli, è stata per anni sede storica della Banca Commerciale Italiana, oggi è la sede napoletana delle Gallerie d’Italia e la sede museale del Gruppo Intesa San Paolo  e, fino al 19 aprile 2020, ospita la mostra “David e Caravaggio – La crudeltà della natura, il profumo dell’ideale”.

La mostra, che prende il titolo da un commento di Baudelaire che, riferendosi alla tela “La Morte di Marat”  di David, la definì per l’appunto:” crudele come la natura, questo dipinto ha il profumo tutto dell’ideale”, si esplica su tre livelli, dal pian terreno al secondo piano dell’edificio, passando per il piano nobile.

All’occhio del visitatore, si presenta come una sorta di confronto tra l’opera pittorica di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio e uno dei maggiori esponenti del neo classicismo francese, quale fu  Jacques-Louis David, ma pare che la realizzazione della mostra, realizzata in collaborazione con l’Institut Français di Napoli ed il Museo di Capodimonte, ma anche il Petit Palais di Parigi e il Fine Arts Museum di San Francisco, curata da Fernando Mazzocca, abbia preso spunto dalla presenza nella Basilica Pontificia di San Francesco di Paola in Piazza del Plebiscito a Napoli dalla fedelissima copia a firma Tommaso De Vivo della Deposizione di Caravaggio, di cui l’originale è inamovibile ed attualmente presente presso i  Musei  Vaticani, infatti proprio al pian terreno, alla prima sala allestita per la mostra, il visitatore si imbatte in una delle quattro copie esistenti della Morte di Marat  del David, proveniente dal Musée des Beaux – Arts de Reims, poiché l’originale della stessa, è considerata anch’essa tra le opere inamovibili ed è conservata al Museo Reale delle Belle Arti del Belgio di Bruxelles, eseguite magistralmente dai suoi allievi e sotto la sua direzione.

L’illuminazione pressoché perfetta delle opere presenti in sala, con luci che mettono in risalto i punti salienti delle opere, sebbene si tratti di un confronto tra copie, monopolizzano l’attenzione del visitatore poiché le stesse, poste l’una accanto all’altra, quasi costringono l’occhio dell’osservatore ad una veduta  “di coppia”, come a voler rievocare quel momento storico durante il quale esponenti della pittura del neoclassicismo d’oltralpe soggiornavano a Roma per formarsi e studiare le opere presenti, soprattutto quelle del Caravaggio.

Il percorso è arricchito non solo dalle oltre 120 opere presenti stabilmente nella Galleria e facenti parte delle collezioni permanenti, ma anche dalla fedele ricostruzione della stanza in cui avviene l’omicidio di Marat e dalla presenza di opere di Luca Giordano ed esponenti della sua “scuola”.

Il percorso espositivo, si esplica anche al piano nobile ed al secondo piano, dove, stabilmente è esposta la tela del Merisi  raffigurante “Il Martirio di Sant’Orsola” nella Sala degli Stucchi.

La sua collocazione è fissa, ma, se inserita all’interno del percorso della mostra, sembra quasi rappresentare un punto d’arrivo: un’opera suprema che, grazie anche al gioco di luci che illuminano le mani della Santa Martire ripiegate verso il petto nel momento in cui è trafitto dalla freccia del martirio, fa lasciare tutto alle spalle, come se si fosse giunti alla fine di un percorso che, lungo la sua strada, ha preparato il visitatore alla visione di un’opera magna…

Il palazzo con la sua sala, lo scalone monumentale, gli stucchi delle sale del piano nobile ed in particolare del secondo piano, le tele, l’illuminazione ma soprattutto l’ambiente in cui il tutto è  esposto, senza particolari forzature o modifiche, dal  mio punto di vista rendono il tutto particolarmente suggestivo… per qualche strano motivo che non saprei spiegare, per almeno un’ora, nell’osservare le tele e tutti i quadri esposti, mi sono sentita proiettata in una dimensione diversa, superiore, di quelle che ti avvolgono, quasi ti rapiscono e ti fanno sentire  parte di quel mondo che fu di  Caravaggio e i suoi seguaci, dell’atelier di David e di quanti vi lavorarono…ma soprattutto dei committenti e tutta quella nobiltà che, in un modo  od in un altro,  hanno contribuito a quanto oggi possediamo, ammiriamo e soprattutto studiamo.

Già le vetrine della sede del palazzo che  precedono l’ingresso, fanno assaporare quanto troveremo all’interno: infatti nelle prime due vi sono gigantografie di opere di Artemisia Gentileschi e Luca Giordano, ma ovviamente non manca la gigantografia dell’opera di Caravaggio, la “ Sant’Orsola” che vi “dimora” stabilmente.

La sala degli stucchi che la ospita, col suo grande camino, specie poi in questo freddo inverno, ti fa sentire quasi in un ambiente delicato…non ho potuto fare a meno di guardarmi intorno, gli stucchi bianchi sullo sfondo azzurro sono delicatissimi, ma voltandomi verso Caravaggio, la sua tela, il “martirio di Sant’Orsola” , l’illuminazione delle mani, la freccia scagliata dal carnefice, le espressioni dei loro volti, hanno monopolizzato il mio sguado e la mia mente, riportandomi non solo a ricordi di studi e anni universitari, ma soprattutto quanto dolore mi fu insegnato a leggere su quella tela….

Sì…tra le opere presenti, molte sono copie. Ma che importa? Non per forza un’opera deve essere un originale per trasmettere e dar voce e vita ad un’emozione…

A me… durante la visita alla mostra è successo…

A me… la mostra è piaciuta e la consiglio….

 

 

Il costo del biglietto è di €5, e €3 per il ridotto.

Il costo del Catalogo è pari a €28.n

Fino al 19 aprile 2020, è visitabile :

dal Martedì al Venerdì dalle 10 alle 19

E il Sabato e la Domenica dalle 10 alle 19.

(ultimo ingresso mezz’ora prima).


IL RINASCIMENTO ROMAGNOLO

Il Rinascimento romagnolo

Con l’articolo di oggi si conclude il ciclo di uscite che tratta il Rinascimento romagnolo nelle Signorie emiliano-romagnole tra il XV e XVI secolo.

Oggi tratterò l’arte rinascimentale nella Signoria dei Malatesta, signori di Rimini e Cesena e quella della città di Forlì che sebbene fu governata da diverse personalità diede vita ad un’importante scuola pittorica. Nel 1500 finì la reggenza dei Malatesta con la presa dei territori di Romagna da parte di Cesare Borgia, per poi passare sotto lo stato pontificio con la morte di Alessandro VI e la fine del dominio borgiano.

Cesena

La città conobbe sotto i Malatesta una fioritura in molti campi tra i quali quello architettonico e urbanistico, in particolare sotto Domenico Malatesta Novello, che dal 1447 portó un rinnovamento urbano con l’allargamento della cinta muraria, il rafforzamento della Rocca Malatestiana e in particolare di gran rilievo la fondazione della Biblioteca Malatestiana1 progettata dall’architetto Matteo Nuti, costruita nel 1447 e ultimata nel 1454.

Dal 1500 Cesena passò sotto Cesare Borgia, facendo diventare la città capitale del Ducato di Romagna.

Opera

Fig. 1 - Biblioteca Malatestiana (sala del Nuti), 1447-1454, Cesena.

Rimini

La città fu il centro del potere dinastico Malatestiano fino al 1500. Il Rinascimento riminese concise con la durata della reggenza di Sigismondo Pandolfo Malatesta che regnò dal 1432 al 1468. Il signore di Rimini attirò alla sua corte pittori come Piero della Francesca e architetti come Ercole de Roberti. Sebbene Rimini diventò un importante centro artistico non si riuscì a formare nessuna scuola pittorica.

Tra le opere architettoniche erette durate la signoria di Sigismondo vi è Castel Sismondo2 ideata e progettata dallo stesso signore nel 1437, supervisionata poi da Filippo Brunelleschi che nel 1438 fu a Rimini per  un paio di mesi. Altra 0pera molto importante e simbolo della città è il Tempio Malatestiano3. I lavori iniziarono nel 1450 quando venne deciso di trasformare l’antica chiesa romano-gotica di San Francesco in un monumento in linea con la nuova cultura rinascimentale. L’esterno dell’opera venne affidata a Leon Battista Alberti, ma per mancanza di fondi non riuscì a completare la costruzione lasciandola priva della copertura, che nel progetto dell’architetto era una cupola. All’interno del Tempio vi è l’affresco di Piero della Francesca che ritrae Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo4.

Con la fine della signoria di Sigismondo Malatesta non ci furono ulteriori sviluppi artistici.

 

Opere

Fig. 2 - Castel Sismondo, 1437-1446, Rimini.
Fig. 3 - Tempio Malatestiano, 1447 (rifacimento)-1503, Rimini.
Fig. 4 - Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo, 1451, Tempio Malatestiano, Rimini.

Forlì      

Come detto nell'introduzione Forlì subì la reggenza di molteplici personalità. I primi furono gli Ordelaffi che entrarono in guerra contro la chiesa ma nonostante ciò riuscirono a governare la città per quasi due secoli. Con la morte di Sinibaldo degli Ordelaffi nel 1480, Papa Sisto IV diede il governo della città a suo nipote Girolamo Riario e Caterina Sforza che durò fino al 1500, quando la vedova di Riario venne sconfitta da Cesare Borgia nell’assedio di Forlì. Diventato Duca di Romagna il Valentino controllò i territori di Rimini, Cesena e Forlì fino al 1503, quando dopo la morte del padre Papa Alessandro VI, venne messo agli arresti da Papa Giulio II facendo ripristinare per un breve periodo gli Ordelaffi (1503-04). Con la fine della famiglia forlivese i territori di Romagna passarono definitivamente sotto il controllo dello Stato Pontificio.

Nonostante questi cambiamenti di governo a Forlì nacque la scuola forlivese, importante scuola pittorica rinascimentale. Tra i più importanti artisti di questa scuola vi erano Melozzo da Forlì e il suo discepolo Marco Palmezzano.

Il Rinascimento romagnolo: Melozzo da Forlì

Nome d’arte di Melozzo di Giuliano degli Ambrosi nacque a Forlì nel 1438.

Avendo poca documentazione riguardo al pittore forlivese si suppone che la formazione artistica di Melozzo dovesse porsi tra Mantegna e Piero della Francesca. Fece molti viaggi tra Roma e le Marche, ma è nella città pontificia che mise in risalto maggiormente le sue doti di pittore, nominato nel 1475 da Sisto IV Pictor papalis, ovvero pittore ufficiale del Papa. A Forlì sappiamo che verso gli ultimi anni della sua vita iniziò nel 1493 con il suo allievo Marco Palmezzano le decorazioni5 della Cappella Feo nella chiesa di San Biagio a Forlì (distrutte dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale), poi ultimate dall’allievo a causa della morte del Melozzo l’anno seguente.

 

Opere Melozzo da Forlì

Fig. 5a - San Giacomo Maggiore e il miracolo degli uccelli selvatici, 1493-1494, Cappella Feo, Chiesa di San Biagio, Forlì (Lunetta e Cupola).
Fig. 5b - San Giacomo Maggiore e il miracolo degli uccelli selvatici, 1493-1494, Cappella Feo, Chiesa di San Biagio, Forlì (Lunetta e Cupola).

Marco Palmezzano

L’artista nasce a Forlì tra il 1456-59, allievo di Melozzo da Forlì con il quale costituisce il nucleo della scuola forlivese. La sua formazione artistica deriva da quella del maestro infatti nelle sue prime opere si firma come Marchus de Melotius cioè Marco di Melozzo. Il Palmezzano seguì il maestro a Loreto e a Roma per poi tornare a Forlì dove realizzò Madonna con Bambino in trono con San Giovanni Battista, San Pietro, San Domenico e Santa Maria Maddalena6 (1493) e ultimò i lavori della Cappella Feo. Nel 1495 il Melozzo aprì bottega a Venezia per un breve periodo e tornato in Romagna realizzò l’Annunciazione7 per la chiesa del Carmine affermandosi nel territorio per il suo modello di Pala prospettica e per la pittura compatta e lucente. Negli ultimi anni della sua vita realizzò molte opere nella sua città natale.Per l’Abbazia di San Mercuriale a Forlì realizzòImmacolata con il padre eterno in gloria e i Santi Anselmo, Agostino e Stefano8 (1500) e San Giovanni Gualberto in adorazione del crocifisso in presenza di Santa Maria Maddalena9(1502); per il Duomo di Forlì la Comunione degli Apostoli10(1506) e per la chiesa di San Marco a San Varano tra il 1506-1513 viene realizzata la Madonna con Bambino11. Il pittore morì a Forlì nel 1539.

 

Opere Marco Palmezzano

Fig. 6 -Madonna con Bambino in trono con San Giovanni Battista, San Pietro, San Domenico e Santa Maria Maddalena, 1493, Pinacoteca di Brera, Milano.
Fig. 7 - Annunciazione, 1497, Musei Domenicani, Forlì.
Fig. 8 - Immacolata con il padre eterno in gloria e i Santi Anselmo, Agostino e Stefano, 1500, Cappella Ferri, Abbazia San Mercuriale, Forlì.
Fig. 9 - San Giovanni Gualberto in adorazione del crocifisso in presenza di Santa Maria Maddalena, Abbazia San Mercuriale, Forlì.
Fig. 10 - Comunione degli Apostoli, 1506, Duomo, Forlì.
Fig. 11 - Madonna con Bambino, 1506-1513, chiesa di San Marco, San Varano, Forlì.

 

Sitografia

https://www.rimini.com/storia/i-malatesti

https://www.riminiturismo.it/visitatori/scopri-il-territorio/arte-e-cultura/castelli-e-torri/castel-sismondo

https://www.riminiturismo.it/visitatori/scopri-il-territorio/arte-e-cultura/chiese/tempio-malatestiano

http://www.roth37.it/COINS/Malatesta/storia.html

http://www.comune.cesena.fc.it/malatestiana/storia


IL SANTUARIO DEL SACRO SPECO DI SUBIACO

IL "NIDO DI RONDINI"

Incastonato nella roccia del Monte Taleo e a strapiombo sulla valle, nel comune di Subiaco, si trova il Santuario del Sacro Speco, luogo di culto della spiritualità benedettina. In questo luogo San Benedetto trascorse un periodo della sua vita, precisamente in una grotta. Il santuario è composto da due chiese sovrapposte, da cappelle, da volte, tutte incastonate nelle pareti irregolari della roccia.

LA CHIESA SUPERIORE

La Chiesa Superiore è stata costruita per ultima, ed è formata da campate irregolari: la prima che si incontra è più alta della seconda e sono separate l'una dall'altra da un arco, al di sopra del quale vi è l'affresco della "Crocifissione". Opera imponente, quest'ultima, il corpo del Cristo è delineato con grande accuratezza e accompagnato da dettagli, il volto di Gesù appare sereno e lo spettatore ne resta coinvolto.

Vi sono altri elementi che raccontano altri episodi: il gruppo delle Pie Donne, i ladroni, la Maddalena. La parete di destra è divisa in tre registri: nel primo sono rappresentati "Il tradimento di Giuda", la "Fuga degli Apostoli" e "La Flagellazione". Nel secondo registro sono rappresentati "Il giudizio di Pilato" e il "Viaggio al Calvario". Sono affreschi ricchi di dettagli, ad esempio ne "Il Giudizio" vediamo rappresentata una città trecentesca con mura merlate alla guelfa, terrazze e loggette. Nel terzo registro è raccontata "La Pentecoste". Allo stesso modo la parete di sinistra è divisa in tre zone, nella parte inferiore è raffigurata "L'entrata in Gerusalemme di Gesù" e le "Marie al Sepolcro", nel secondo registro si trovano "L'incontro di Cristo con la Maddalena" e "L'incredulità di Tommaso". Infine nell'ultimo spazio vi è rappresentata "L'Ascensione, tra Angeli in festa, Maria, i Discepoli e le Pie Donne".

La seconda campata è, probabilmente, il nucleo originario della costruzione, qui gli affreschi avvolgono completamente lo spettatore e sono attribuiti ai pittori della Scuola Umbro-Marchigiana. Nella parete di fondo troviamo un affresco, ormai deteriorato, che rappresenta "San Benedetto in cattedra". Nella parete a sinistra, tre affreschi: “San Benedetto tentato dal diavolo”, “San Benedetto che rotola fra le spine” e “San Benedetto che prega nella grotta”. Nella lunetta, vicino all'ingresso, si vede, a destra, “Il miracolo del veleno” e a sinistra “La guarigione del monaco indemoniato”. Attraverso dei gradini, dalla seconda campata, si accede al transetto, e quindi all'abside, che è interamente scavata nella roccia.

LA CHIESA INFERIORE

L’accesso alla Chiesa Inferiore avviene oggi dal transetto della Chiesa Superiore tramite una scala, a sinistra della quale si trova un affresco di origine bizantina, che raffigura il testo della bolla del 4 Luglio 1202, con cui il papa Innocenzo III concedeva speciali favori ai monaci residenti nello Speco. La prima campata della Chiesa Inferiore è situata vicino alla Scala Santa, posta sulla sinistra di chi si mette di fronte alla Chiesa. Nella parete di fondo sono rappresentati gli episodi de “L’offerta del pane”, “Il pane avvelenato sottratto dal corvo” e “Cristo benedicente tra angeli, con San Benedetto e Santa Scolastica”. Il primo è ambientato in una grotta, dove San Benedetto, seduto, riceve il pane avvelenato, dono del prete Fiorenzo, con grande sconcerto di Mauro e di Placido. Nella lunetta della parete dove si apre la porta del Coro è raccontato il “Miracolo del salvataggio di San Placido”. Viene descritto San Mauro, che inconsapevolmente corre sull'acqua del lago, appena San Benedetto gli fa cenno di salvare San Placido. Ne “Il Miracolo del falcetto” il lago è rappresentato come una bianca macchia rettangolare, dai bordi ondulati: a sinistra vi è il Goto che porge al santo il bastone senza falcetto, a destra San Benedetto immerge nell'acqua il bastone, al quale il falcetto miracolosamente si unisce. La seconda campata della Chiesa Inferiore si trova allo stesso livello della prima campata, all'interno di essa si trova l'accesso alla Grotta della Preghiera. Nella terza campata della Chiesa Inferiore, a sinistra, si trova una grotta nella quale è allestito permanentemente un presepio. Nella parete a destra sono dipinte le storie di San Benedetto: “Il miracolo del vaglio”, “Il viaggio verso la chiesa di Affile” “La vestizione”, “Il ritiro in orazione dentro la grotta”. Nell'ultimo episodio San Benedetto è descritto in preghiera, dentro la grotta immersa in un paesaggio realisticamente rappresentato, del quale sono con accuratezza descritti gli alberi e la campagna circostante.

LA GROTTA DELLA PREGHIERA

La Grotta di San Benedetto, chiamata anche “Grotta della Preghiera”, è il principale  punto di riferimento di tutto il sacro complesso. E’ un anfratto del monte Taleo, dove, come dice san Gregorio Magno nel II libro dei “Dialoghi”, San Benedetto si ritirò a vita eremitica per tre anni, ignoto a tutti, fuorché a Dio e al monaco Romano, che dall'orlo della roccia sovrastante, mediante una lunga corda, mandava al Santo il cibo essenziale per la sopravvivenza. In seguito al tentativo di avvelenamento da parte di Fiorenzo, parroco della chiesa di San Lorenzo, situata sulla riva sinistra dell’Aniene, San Benedetto abbandonò la grotta ed essa rimase per circa seicento anni solo luogo di preghiera. Dopo il 1193 al Sacro Speco si insediò una comunità di dodici monaci, con una propria amministrazione, guidati da un priore dipendente dall'abate di Santa Scolastica, e la roccia in cui la grotta è inserita subì adattamenti e modifiche strutturali, per agevolarne l’accesso e consentire il normale svolgimento della vita monastica. Il papa che, in quel periodo, maggiormente ebbe a cuore l’esperienza benedettina, fino a riformarla, fu Innocenzo III, che andò spesso a Subiaco e valorizzò lo Speco.

LA CAPPELLA DI SAN GREGORIO

La Cappella di San Gregorio è un piccolo ambiente absidato costolonato, e vi si accede dalla Chiesa Inferiore attraverso una scala a chiocciola. A destra della finestra si trova, in un pannello rettangolare, l’affresco che rappresenta San Francesco d’Assisi, che ha in mano una carta, nella quale si legge: PAX HUIC DOMUI. Ai suoi piedi è raffigurato un piccolo monaco, con tonaca rosso cupo, che è, forse, il committente dell’opera. L’opera è anteriore al 1224, anno in cui San Francesco ebbe le stimmate, che qua non appaiono, come non figura l’aureola, ad indicare che il santo, in quel tempo, era ancora vivo.  Un altro affresco,che è posto a sinistra della finestra, rappresenta il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, divenuto poi papa col nome di Gregorio IX, dipinto nell'atto di consacrare la cappella a San Gregorio Magno. Molti riconoscono nella figura che si trova accanto ad Ugolino lo stesso San Francesco, che avrebbe assistito a tale consacrazione. Ugolino è dipinto secondo una formula compositiva, cara al Maestro di frate Francesco, desunta da una matrice culturale bizantina: la curvatura della figura nel rispetto della cornice d’arco.

Il monastero merita di essere visitato,è un gioiello dell'architettura, uno scrigno di tesori artistici ed un luogo suggestivo.

Papa Pio II lo definì il "nido di rondini".

 

sitografia:

https://benedettini-subiaco.org/index.php/monastero-san-benedetto[/vc_column_text][/vc_column]

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IL CONVENTO DOMENICANO DI SORIANO CALABRO

La nascita di un paese: Soriano Calabro e il suo convento

Soriano Calabro è un piccolo paese montano del vibonese che deve la sua fondazione prevalentemente alla realizzazione del Convento domenicano nel 1510. Il Santuario raggiunse il suo massimo splendore tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del secolo XVII, soprattutto grazie alla miracolosa apparizione del Quadro di San Domenico, ritenuta un’opera di origine divina consegnata dalla Madonna ad un frate il 14 settembre 1530. Uno dei maggiori centri di culto domenicano, non solo nel Meridione ma a livello europeo, rimase distrutto nel 1659 durante uno dei terremoti che nei secoli hanno segnato la Calabria. Sui resti dell’antico santuario ne fu edificato un nuovo per volere del Re di Spagna Filippo IV. Lo studio fu affidato al certosino e architetto Padre Bonaventura Presti che basò il progetto sul modello dell’Escorial di Madrid.

Il convento domenicano di Soriano Calabro: descrizione

L’imponente convento si estendeva per una superficie di oltre ventimila metri quadrati, distribuiti in quattro edifici claustrali. La basilica, immensa, culminava in una cupola ottagonale che si innalzava sul transetto raggiungendo un’altezza di oltre cento metri. La navata centrale era a croce latina e ai sui suoi lati si sviluppavano quattro cappelle a destra e quattro a sinistra, comunicanti, ed intervallate da pilastri cruciformi con basi in granito dalla chiusura ad archi e, infine, un'ampia abside. Al presbiterio si accedeva attraverso dei gradini, qui si trovava l’altare maggiore e subito dopo la cappella del santo Gusmano dove era stato collocato il Quadro di San Domenico.

L’interno e la facciata rispecchiavano la maestosità della complessa struttura; le pareti erano finemente decorate da stucchi e rivestite con marmi pregiati sormontate da capitelli, medaglioni con Santi e Beati dell’Ordine, bassorilievi, puttini, statue, pale d’altare,cherubini e da motivi ornamentali tipici del Seicento barocco. Nel 1783 un altro terremoto rase al suolo l’edificio riducendolo al rudere che è oggi.

Una parte è stata recuperata per riedificare la chiesa che custodisce il quadro del santo, inoltre ivi si trova il MuMar, un museo in cui sono custoditi i marmi provenienti dagli scavi effettuati nel rudere, tra cui è presente una testina femminile attribuita al Bernini.

    

 

Bibliografia

https://turismosorianocalabro.org/2014/06/16/i-ruderi-dellantico-convento-di-san-domenico-in-soriano-calabro-tra-storia-e-innovazione/

DOPPIA CORSIA n. 25 (lug-ago 2013) TESTO DI Giovanna Tenuta[/vc_column_text][/vc_column]

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IL CIMITERO MONUMENTALE DI STAGLIENO

I linguaggi stilistici del cimitero monumentale di Staglieno

Tra i cimiteri più importanti d’Europa figura il Cimitero Monumentale di Staglieno per estensione ed opere d’arte, che ne fanno un museo a cielo aperto. Il camposanto, luogo di addio e di incontri, nel caso di Genova, diviene anche manifestazione dello stato sociale e di esaltazione delle virtù delle famiglie borghesi; in un ambiente spesso boschivo, dove prendono corpo figure allegoriche e simboli che richiamano alla vita. L’esigenza di realizzare un cimitero pubblico nasce, come per altre città, tra Sette-Ottocento, con l’esigenza di ovviare alle gravi conseguenze igieniche che comportava la sepoltura nelle chiese e nei luoghi non adeguatamente regolamentati. Sotto la spinta illuminista si cerca di eguagliare tutti di fronte alla morte.

Nel Cimitero Monumentale di Genova, sono molti i monumenti che ricordano personaggi importanti o rappresentativi come Giuseppe Mazzini, Aldo Gastaldi, Fabrizio de Andrè, Mary C. Wilde e recentemente è diventato un laboratorio didattico permanente. In collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova, si è dato avvio ad un progetto che prevede che gli studenti delle scuole di diagnosi, conservazione e restauro di opere lapidee-bronzee possano svolgere corsi teorici e pratici sulle opere presenti nel cimitero monumentale.

Aperto ufficialmente al pubblico il primo gennaio del 1851, il progetto di realizzazione segue in parte il progetto di Carlo Barabino, architetto che da il volto Neoclassico alla Genova ottocentesca e Giovanni Battista Resasco. Considerato un museo a cielo aperto, pur mantenendo un impianto Neoclassico, vede il susseguirsi di stili artistici che coprono due secoli, dal Neoclassicismo al Realismo, fino al Simbolismo, Liberty e Decò. Ciò che caratterizza il complesso monumentale è senza dubbio la scultura che fa da protagonista e diventa testimone delle trasformazioni artistiche.

Di seguito una breve selezione delle sculture-simbolo che caratterizzano alcuni dei linguaggi artistici presenti nel Cimitero Monumentale.

Realismo Borghese

Negli anni 70-80 dell’Ottocento si afferma nel cantiere di Staglieno uno stile realista poi rinominato Realismo Borghese che si esprime con una tecnica che riporta i più minimi dettagli in uno spazio concreto dove con cura e minuzia vengono rappresentati abiti, acconciature ed espressioni di dolore.

Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

Ancora adesso, un monumento dove sono sempre presenti fiori, esemplifica il tema della morte che eguaglia tutti gli uomini di ogni ceto sociale. Caterina, venditrice ambulante di noccioline, come ricorda l’epigrafe di G.B.Vigo, posta sulla base della scultura, impiegò tutto il denaro guadagnato per farsi erigere ancora in vita il proprio  monumento funebre dallo scultore più richiesto dalla borghesia: Lorenzo Orengo. Descritti minuziosamente, senza alcuna idealizzazione, i merletti e frange della veste, le rughe e lo sguardo duro e fiero di una donna che mostra con orgoglio la propria merce: noccioline e ciambelle.

Simbolismo

Negli anni 80-90 dell’Ottocento lentamente il Realismo e la sicurezza positivista lasciano il posto ad una scultura che raccoglie in se tutte le insicurezze e le incertezze di fine secolo in clima simbolista.

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Giulio Monteverde, in anticipo sui tempi, nel 1882, realizza la tomba Oneto. La fortuna iconografica del suo angelo si diffonde non solo in Europa ma giunge addirittura in America. Quello che rappresenta lo scultore è un angelo androgino, dove traspare nello sguardo e nella compostezza scultorea tutto il dramma del crollo della visione positivista della morte. Non c’è nell’angelo nessun aspetto consolatorio nella visione dell’aldilà, ma solo dubbi e incertezze verso il mistero di quello che ci attende. Un’immagine che perde la connotazione cristiana di guida verso il paradiso per una visione decadente della morte.

Liberty

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Tra gli artisti presenti nel panorama Liberty, sicuramente merita di essere menzionato lo scultore Leonardo Bistolfi, famoso per un linguaggio morbido ed elegante, si dedicò prevalentemente alla scultura funeraria creando opere di netto gusto floreale. La scultura, di cui gli fa sfondo il verde naturale, rappresenta figure femminili pervase di malinconia e sensualità. Prevale il ritmo pacato dei gesti e le linee ondulate dei corpi e delle vesti tipiche del linguaggio liberty. Una scultura che è stata definita come l’immagine della Bella Morte, in cui si intrecciano sensualismo e mistero. L’opera che fu presentata da Bistolfi alla Biennale di Venezia nel 1905, fu accolta con molto favore tanto da dare allo scultore il soprannome di poeta della morte.

 

Nel 2013 molte opere del Cimitero Monumentale sono state restaurate  grazie al contributo dello scultore americano Walter Arnold e alla sua associazione American Friends of Italian Monumental Sculpture (AFIMS) organizzazione no profit. Tale organizzazione, in collaborazione con il Comune di Genova e la Soprintendenza Ligure, ha permesso di portare all’antico splendore 15 monumenti. Tra le opere restaurate ci sono anche quella di Lorenzo Orengo e Leonardo Bistolfi sopra citate.

 

 

 

 

Franco Cambi, Formarsi nel luoghi dell’anima. Itinerari e riflessioni in studi sulla formazione, Firenze, 2016, pag. 155-169

Il Cimitero Monumentale di Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Barcelona, Electa, 2003

Percorsi d’arte a Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova, Sagep, 2004

 

www.staglieno.comune.genova.it

www.staglieno.com[/vc_column_text][/vc_column]

Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

 

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Prima e dopo il restauro sulla Tomba Bauer

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L'EX CHIESA DI SANTA MARGHERITA A SCIACCA

Una delle chiese più ricche di Sciacca

L’originaria chiesa di Santa Margherita fu fondata nel 1342 per volere dei Cavalieri Teutonici, che ne mantennero il possesso fino al 1492, anno in cui l’ordine abbandonò la Sicilia; da questo momento in poi la chiesa fu aggregata alla chiesa della Magione di Palermo, al cui Regio Abate era soggetta. Erroneamente si faceva risalire la sua costruzione ad Eleonora d’Aragona, nipote del re di Sicilia Federico III d’Aragona e moglie di Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta. Nel 1594, grazie a un ingente lascito da parte di un ricco mercante catalano, Antonio Pardo, iniziarono le opere d'ampliamento e di ristrutturazione, ed infatti, la struttura pervenutaci risale a quest'intervento espresso dalla volontà del Pardo in punto di morte. Alcune tracce della struttura originaria ,che si presenta come unico blocco, sono ancora visibili sulle mura perimetrali sul lato meridionale del complesso monumentale.

L'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca: descrizione

Il prospetto principale ricade su Piazza Carmine, dove si trova uno dei due portali in chiaro stile gotico-catalano, costituito da due pilastri ottagonali supportati da una triplice ghiera. In alto due finestre, un rosone e un poderoso cornicione lapideo dal quale sporgono grondaie in pietra simili a bocche di cannoni. Sul lato sinistro della Chiesa, che prospetta su via Incisa, vi è un secondo portale in marmo bianco, impreziosito dalla presenza di alcune sculture a basso rilievo, realizzato nel 1468 da Pietro de Bonitade su disegno del famosissimo scultore, di origine dalmata, Francesco Laurana. Questo portale, quasi certamente, apparteneva alla prima chiesa e fu poi adattato alla seconda. Salta agli occhi la discordanza stilistica tra l'arco inflesso del fastigio, che è gotico, e l'arco della lunetta che è rinascimentale. L'arco rinascimentale è un'aggiunta posteriore (in origine circoscriveva la lunetta l'arco inflesso) e il suo inserimento tra l'arco inflesso e l'architrave ha determinato lo spostamento dei due pilastrini e l'aggiunta di lastre di marmo tra pilastrini e stipiti del portale. Entrando all'interno della chiesa si è subito colpiti dalla sua magnificenza. Essa è a navata unica e mostra una ricca decorazione in stucco in stile barocco (angeli, putti, arabeschi, figure esoteriche, volute e medaglioni), policromata ed affrescata da Orazio Ferraro nel XVII secolo. Appartengono allo stesso autore gli affreschi con la Crocifissione e la Madonna dell’Itria in prossimità dell’altare. Sull'altare principale è posta una statua lignea di Santa Margherita datata 1544 opera del maestro Alberto Frixa (o Frigia). Una serie di medaglioni, raffiguranti episodi della Via Crucis opera di Giovanni Portaluni, ornano l'intradosso dell'Arco Trionfale. Nel transetto vi sono inoltre due quadroni con l’Adorazione dei Magi e la Nascita di Gesù dell’artista Gaspare Testone e un sarcofago con un’iscrizione latina, recante la data 1602, nel quale sono conservate le ceneri di Antonio Pardo che prima erano nella vicina chiesa di S. Gerlando.

Passando dal transetto alla navata, la decorazione in stucco si attenua, la plastica si appiattisce, le statue a tutto tondo cedono il posto a figure di minore rilievo. Qui, sulle pareti spaziose della navata, vi sono sei grandi quadri dipinti a olio del celebre pittore licatese Giovanni Portaluni con varie scene: il martirio di S. Oliva, l'Adorazione della Croce con tutto il popolo, S. Elena e Costantino, la liberazione della peste con l'intercessione della Maddalena, S. Calogero e S. Rosalia, scene della vita di S. Gerlando e il martirio di S. Barbara. Nel quadro raffigurante S. Gerlando, alla destra del Santo che distribuisce il pane ai poveri, è ritratto Antonio Pardo, il munifico benefattore della chiesa. I restanti medaglioni sono stati realizzati dal pittore saccense Michele Blasco. Alla titolare della chiesa, invece, è dedicato un altare sul lato destro in marmo scolpito a bassorilievo databile tra il 1504 e il 1512, che descrive la vita e il martirio di Santa Margherita, opera attribuita al carrarese Bartolomeo Birrittaio e al suo collaboratore Giuliano Mancino. La parte posteriore della chiesa è dominata da un maestoso organo di legno a canne decorato con sculture di santi e angeli, opera di La Grassa del 1641, posto dentro un tabernacolo ligneo. Il soffitto è ligneo a cassettoni ed è stato realizzato nel 1630 dal maestro saccense Antonio Mordino. Al centro del soffitto a cassettoni trova posto una tela di buona mano e in buono stato di conservazione, raffigurante l'Immacolata, di cui si ignora l'autore. La pavimentazione attuale è composta da maioliche smaltate bianche e nere che riprendono il modello originario trovato durante gli scavi condotti dalla Soprintendenza.Dopo anni di incuria e di totale abbandono (dal 1907 fino alla fine degli anni '80) è stata restaurata e riaperta al pubblico, anche se non più adibita alle funzioni religiose, e per un breve periodo ha ospitato mostre ed eventi vari. Dal 2017 a causa di infiltrazioni d’acqua l'ex chiesa di Santa Margherita a Sciacca è nuovamente e tristemente chiusa al pubblico.

Cappella dedicata a S. Margherita

Organo e tabernacolo ligneo con sculture di santi e angeli.

Navata e altare principale

Dettaglio altare con statua lignea di Santa Margherita dello scultore A. Frixa

Soffitto a cassettoni con tela dell’Immacolata di autore ignoto

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LA CHIESA DI SANTA MARIA VETERANA A TRIGGIANO

“Nel cuore della vecchia Triggiano, nei vasti meandri tufacei del sottosuolo, ove oggi ergesi la bella mole architettonica della chiesa dedicata a Santa Maria Veterana, disimpegnossi nel più fosco Medioevo, il culto cattolico”.

La Chiesa di Santa Maria Veterana, grazie alla sua evoluzione artistica, nel corso dei secoli ha segnato la storia di Triggiano, paese a pochi chilometri da Bari, che a cavallo tra il 1600 e il 1700 divenne un centro artistico molto attivo e molto apprezzato, anche per il nutrito numero di artisti locali che vi operavano (i due fratelli De Filippis, discenti della scuola napoletana, il fiammino Hovic e un non meglio identificato “pittore di Triggiano”).

L’attuale costruzione è stata innalzata nel 1580 su una chiesa medievale preesistente: questa, fondata probabilmente intorno al 1080, per volere di un sacerdote barese, abbracciava il castrum Triviani e presentava la facciata rivolta verso Ovest – esattamente opposta a quella moderna -.

La chiesa infatti, nei vari secoli, ha subìto trasformazioni e ampliamenti conseguenti all’incremento demografico e urbanistico che il paese man mano attraversava, e che la rendevano incapiente alle esigenze liturgiche dettate all’indomani del Concilio di Trento; tra queste trasformazioni possiamo ricordare quella avvenuta tra il 1908 e il 1913 durante la quale, per l’appunto, venne rimossa la facciata dal lato Ovest e trasportata sul lato Est. Qui fu dotata di maggiore decoro artistico, del tutto differente da quello iniziale. Un’altra trasformazione è quella del 1982, grazie alla quale venne recuperato l’ipogeo della chiesa medievale sottostante ed originaria, i suoi affreschi, le tombe e i sepolcreti.

Santa Maria Veterana a Triggiano: descrizione

La descrizione architettonica ed estetica della fabbrica comincia dalla facciata, che si innalza maestosa e tripartita – esattamente come le navate interne – in pietra bianca, chiusa, secondo una lettura verticale, da due paraste ioniche che scaricano il loro peso su due piedistalli.

La parte centrale, ospitante il portale maggiore e corrispondente internamente alla navata centrale, presenta due colonne corinzie che sorreggono un ampio arco a tutto sesto, nel quale trova spazio anche una piccola finestra ogivale ornata a losanghe e poggiata – lieve – sulla cornice dell’architrave del portale. Le due porzioni laterali della facciata ospitano due portali più piccoli; sormontate da ogive dentellate  di piccole dimensioni, presentano due rosoni di dimensioni inferiori rispetto al principale.

Se si volesse seguire una lettura orizzontale della facciata, si noterebbe come essa sia divisa su due livelli: quello inferiore, più quadrato e compatto, in cui sono presenti gli elementi appena descritti, e quello superiore, cuspidato, che accoglie il prezioso rosone ricamato nella pietra con motivi curvilinei.

Risalente nel 1500, con un diametro di ben 3.80 mt, ha “seguito” lo spostamento della facciata. Inscritto in uno spazio quadrato è sormontato, a sua volta, da uno spiovente a timpano riccamente decorato con festoni di alloro che scandiscono perfettamente lo spazio della cornice. Ai lati del corpo quadrato troviamo due lunette a forma di conchiglia che poggiano su una fuga di archetti, tutti a sesto acuto, stretti da pinnacoli che chiudono l’intera struttura.

E’ interessante soffermare l’attenzione e notare come la forma a conchiglia di queste due lunette rimanda, visivamente, alle decorazioni presenti ai lati della finestrella ogivale, di cui prima. Possiamo tracciare, quindi, delle linee diagonali che regolano lo spazio, organizzandolo in maniera geometrica: il rosone centrale è collegato da rette, immaginarie, ai due piccoli laterali, formando insieme un triangolo volto verso l’alto. Di conseguenza le due lunette a conchiglia del registro superiore legano con quelle della finestrella, formando un triangolo volto verso il basso.

Attraversando il portale centrale, l’interno si apre e si mostra con un tipico impianto basilicale, a tre navate e catino absidale sopraelevato.

I pilastri presenti nella navata centrale intervallano le quattro campate e presentano scanalature frontali terminanti con ricchi capitelli che, a coppie simmetriche, rappresentano (dall’ingresso verso il fondo): due allegorie musicali – ad delimitare l’organo e il coro -, la cacciata dal Paradiso e l’Arcangelo a guardia, la vita e la morte, le quattro stagioni e il cielo  e la terra – ai lati dell’arco absidale -. Questi pilastri sorreggono archi a tutto sesto risalenti al 1500.

L’altare maggiore, monumentale, dell’inizio del XX secolo, consacrato al culto della Vergine, è in marmi pregiati in stile bizantino-pugliese, disegnato da Corradini.

Dominato dalla tela raffigurante l’ “Esaltazione della Vergine” di Vitantonio De Filippis (XVII secolo), risente nel modulo compositivo della Controriforma.E’ ripartita in due piani: in alto domina la figura della Vergine, sorretta da un coro di putti e totalmente immersa nella luce, mentre in basso presenziano alla scena (da sinistra a destra) San Sabino, San Vito, San Nicola (in abito episcopale), Sant’Antonio da Padova e San Filippo Neri.

Lungo tutto l’asse longitudinale dell’altare, corrono, una serie di bassorilievi in bronzo simboleggianti la vita della Vergine, dalla nascita all’Assunzione, per mano del Sabatelli.

Lungo le navate laterali, più piccole, si aprono una serie di cappelle volute sul finire del 1500 da associazioni di fedeli per l’esercizio di opere di carità e di pietà. Particolarmente degno di nota è il cosiddetto Cappellone dedicato a Maria SS di Costantinopoli (seconda cappella nella navata di sinistra): articolata su un piano terra e un piano superiore, a cui si accede tramite due scalinate laterali.

Al piano terra, l’altare di inizio 1900 è devoto al Santissimo Sacramento, è in marmo bianco con due angeli ai lati, anch’essi in marmo. Il piano superiore presenta un secondo altare, del 1832 per mano di Pollenza di Napoli, sovrastato da un affresco del 1500 raffigurante la Madonna Odegitria di Costantinopoli ridipinto, purtroppo, per rispondere ai diversi gusti delle epoche attraversate: la Vergine in trono con abito rosso e mantello blu, ha il capo inclinato e sostiene con entrambe le mani il Bambino che, avvolto in un drappo, porta tra le mani un uccellino (probabilmente un cardellino, simbolo della Passione, futuro destino del fanciullo).

In qualsiasi direzione il nostro occhio si posi, l’interno è ricco di tele databili tra il XVI e il XIX secolo, anche se ha perso molto della sua atmosfera rinascimentale, per via delle sovrapposizioni con decori liberty, portate dal restauro del 1908-1913. Come ad esempio quelle del soffitto.

Il soffitto è a tavolato con tele mistilinee, un tempo raccordate tra loro da decorazioni a racemi rocaille, rimosse e perdute durante i restauri. Le tele raffigurano il ciclo pittorico della vita della Vergine Maria: la Presentazione al tempio, Natività, Incoronazione, Sposalizio e I Santi Evangelisti.

La prima tela Presentazione al tempio, Maria in ginocchio sulla gradinata viene ritratta nel momento in cui viene presentata al Sommo Sacerdote da parte dei genitori Sant’Anna e san Gioacchino, mentre all’estrema destra due donne sembrano commentare quello che sta avvenendo. Il tutto inserito in una composizione di angeli e putti.

La Natività invece è una tela tripartita in registri orizzontali e paralleli: dal basso c’è il momento della nascita, al centro San Gioacchino e Sant’Anna, distesa su dei cuscini assistita da ancelle, in alto gli angeli festeggiano l’avvenimento.

Nell’Incoronazione, la tela più grande del ciclo pittorico la Vergine occupa la scena centrale in attesa dell’incoronazione da parte del Padre Eterno e del Figlio, poco al di sopra di lei.

La scena dello Sposalizio è occupata da Maria e San Giuseppe che, uniti in matrimonio, sono benedetti dal sacerdote alle loro spalle. Sul primo gradino si legge R.D Nicolò De Filippis P(inxit) A.D 1746.

I Santi Evangelisti sono racchiusi singolarmente e in maniera plastica, seppur immersi nella luce, in piccole tele triangolari e lobate, accompagnati dai loro simboli: aquila per San Giovanni, leone per San Marco, bue per San Luca, uomo per San Matteo.

L’ultimo apparato, separato dal perimetro chiesastico e collocato dietro l’abside, è la torre campanaria del 1580, che danneggiata dal nubifragio del 1681 è arrivata a noi senza la cuspide piramidale di cui era dotata.

Come detto all’inizio, l’attuale chiesa sorge sulla prima chiesa medievale, riportata alla luce nel 1982 durante i lavori di restauro sul pavimento attuale, dando una forte conferma a quello che sino ad allora si era solo ipotizzato; dedicata alla Madonna della Grazia, fu parzialmente abbattuta cinque secoli dopo la sua costruzione per fare spazio al nuovo tempio più ampio. L’ipotesi di datazione alla metà dell’XI secolo della chiesa è confermata anche da un’iscrizione lapidea ritrovata durante i lavori che ha permesso di risalire a colui che ne volle l’edificazione.

[ MAGISTER ] LEO DIALECTIEUS ATQUE SACERDOS

[ HANC] AD LAUDEM XPI GENETRICIS AMANDE

[D] EDI MAGNI PRECURSORIQUE IOHANNIS

[ BA] SII SACRI SIMUL ET CUM MATREQUE NATIS

[ S.S.] LEONUM CONFESSORUMQUE DUORUM

 

Dettata quindi da Leone, dialettico e sacerdote, molto probabilmente barese.

Oggi, scendendo al piano inferiore della Chiesa Madre, ci si trova immersi in un percorso sotterraneo i cui resti di epoche differenti si mescolano e convivono perfettamente: a sinistra le mura perimetrali cedono il passo alle fondamenta dell’edificio superiore sul lato destro. Dagli elementi architettonici presenti e rimasti fino a noi si capisce come, anche il corpo medievale, era concepito su tre navate, con l’abside posto in corrispondenza della centrale.

Dal sagrato medievale si giunge, attraverso il percorso creato per i visitatori, ad ammirare un pozzo ed una cisterna scavati nel sottosuolo fino ad uno spesso strato di argilla, che, da materiale impermeabile quale è, avrebbe protetto la costruzione da eventuali penetrazioni di acqua.

Il perimetro racchiude ben 19 tombe, alcune ancora integre ed altre solo parzialmente, distrutte in seguito alla costruzione dei pilastri di sostegno dell’attuale costruzione. Con pianta rettangolare e scavate nella roccia sono disposte lungo tutta la navata centrale sino a raggiungere l’abside. Dalle tombe a fossa, presenti al di sotto delle tombe normali, sono state ricavate le camere sepolcrali, costruite a fine 1500 durante la realizzazione della chiesa superiore ed utilizzate come sepolcreti fino al XVIII secolo, quando l’editto di Napoleone sancì il divieto di seppellire i defunti negli edifici sacri. Qui, infatti, fino a quel momento erano sepolti non solo gli appartenenti alle confraternite, ma anche i loro famigliari. Da un’analisi specifica le pareti e le volte dei sepolcreti appaiono molto deteriorati a causa del gas che i corpi in decomposizione hanno emanato nell’arco dei secoli.

Completamente affrescata – ipotesi molto probabile – come anche testimoniano i frammenti a tre strati arrivati sino a noi, nel vano absidale è stato ritrovato un frammento a massello raffigurante il volto, di tre quarti, del Bambino, con incarnato roseo ombreggiato da toni verdastri e capelli lisci, contornato da una forte linea nera.

Sulla parete destra è apprezzabile, seppur mutila, la raffigurazione di San Leonardo, con le sue catene pendenti dal braccio sinistro, accompagnato, sul secondo strato, dalla testa di un animale con fauci aperte (forse un cane o un leone). A questo, su un ulteriore strato sovrapposto, si riconosce la figura di San Vito, con un gonnellino da centurione, gambe calzate e due cani ai suoi piedi: palesemente posteriore all’affresco di San Leonardo, è databile nella seconda metà del XVI secolo. Caratteristica comune ad entrambe è il carattere votivo.

Questa fabbrica d’altronde ci consente di affermare come, in ogni tempo, sia possibile conservare e preservare l’antico e il moderno, il medievale e il rinascimentale, racchiudendo in maniera naturale le sue anime al servizio del culto cristiano.


LA MOSTRA "RITRATTO DI DONNA", UBALDO OPPI

IL SOGNO DEGLI ANNI VENTI E LO SGUARDO DI UBALDO OPPI

"Ritratto di donna", è questo il titolo che si è voluto dare alla mostra in essere da Giovedì 6 dicembre 2019 a Vicenza, nei meravigliosi spazi della Basilica Palladiana. Una mostra dal sapore sensuale e coinvolgente, in cui l’amicizia femminile, il sogno, il doppio riflesso nello specchio, il rapporto tra il pittore e la modella,donne fiere al punto di divenire feline, la nostalgia di paradisi perduti, ma anche la crudezza della realtà, sono i temi centrali della mostra.

Dipinti, gioielli, abiti firmati Chanel, rendono immersiva e suggestiva questa esperienza di vita che Oppi e i contemporanei del suo tempo, come Felice Casorati, Mario Sironi, Antonio Donghi, Achille Fumi, Piero Marussig, Mario Cavaglieri, Guido Cadorin e Massimo Camigli, hanno voluto raccontare, e noi siamo partecipi di questo racconto personale e eterno.

Oppi, cresciuto a Vicenza ma formatosi a Vienna, Venezia e Parigi, ha un immediato successo in mostre importantissime, anche e soprattutto nella Milano e Roma dei primi anni Venti, dove viene scoperto da Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti, la quale afferma: “la pittura appare tra tutte l’arte magica per eccellenza”.

Una delle correnti di pittura più affascinanti degli anni Venti è quella del ”Realismo Magico” -di cui Ubaldo Oppi è uno dei maggiori esponenti-, in cui la visione della realtà è immersa in un'atmosfera di meraviglia e di attesa, e questa aura di sogno si respira tutta in questo spazio museale costruito ad hoc per accogliere sia questa mostra che le successive esposizioni, in prospettiva di un grande progetto di rilancio della Basilica Palladiana di Vicenza come spazio espositivo per eventi culturali di rilevanza internazionale.

L’ ESPOSIZIONE.

L’esposizione è curata da Stefania Pontinari, docente di storia dell’arte contemporanea all'Università Cà Foscari di Venezia, la quale ha suddiviso in sette sezioni la mostra:

Sezione 1: UNA PRIMAVERA DELL’ARTE

La Secessione Viennese ci accoglie con i suoi ultimi echi e simboli, che influenzano ancora la ricerca artistica dei pittori italiani degli anni Dieci. In questa sala svetta tra tutte LA GIUDITTA II di GUSTAV KLIMT (1909). Questa sezione ricrea la suggestione della sala dedicata a Klimt alla Biennale di Venezia del 1910.

 

Sezione 2: LE MUSE STRANIERE

In questa parte si intende dar merito all'intreccio delle affascinanti suggestioni che giungono anche da Parigi, intesa dagli artisti come la Ville Lumière della Belle Epoque, dove imperano divertimenti e dissolutezza, ma che è anche il laboratorio dell’avanguardia, in cui si mescolano intelligenza e disperazione. Le donne, in questa fase, divengono fatali o perdute, sono ritratte nel loro incedere nella vita moderna: mentre sono nei caffè vestite alla moda, compiaciute della loro gioventù, o smarrite e distanti come falene nella notte.

Sezione 3: PASSAGGI

Qui troviamo il racconto del passaggio dalle vie di Montmartre, dove Oppi si recò tra il 1913 ed il 1913, al suo ritorno in Italia in cui, nel 1915 viene spedito al fronte a combattere: da qui i soggetti di profughi e addii.

 

Sezione 4: NOVECENTO

Siamo negli anni Venti. Sta avvenendo un rinnovamento nelle arti: Valori Plastici, Novecento Italiano, Realismo Magico, Nuova oggettività, sono tra le correnti e i gruppi che indicano una strada nuova, ispirata anche alla classicità e all'italianità del Rinascimento italiano. In questo periodo avviene l’incontro tra Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti con Ubaldo Oppi.

Sezione 5: IMMAGINAZIONE

In questo spazio domina l’opera LE AMICHE (1924), dando origine ad una rosa di possibili chiavi di lettura, come per esempio due amiche, due sorelle o due sculture. Negli anni Venti dive del cinema e della moda come Josephine Baker, Amelia Louise Brooks, Greta Garbo o Coco Chanel lanciano l’immagine di una donna nuova e diversa: dotata di una diversa silhouette ma anche di ambizioni moderne. Questo è il messaggio che si vuole lanciare attraverso questa sala: il progresso femminile.

Sezione 6: VISIONE

Questa parte della mostra presenta un momento di riflessione sul momento storico e sulle figure del tempo, sul ruolo sociale del lavoro, sul ruolo sociale del lavoro ed il confronto con la controparte maschile.

Sezione 7: PARADISO PERDUTO

Scandali e successi: Le “donne nuove” sono ardite e sanno essere anche scandalose, ma sono costantemente rinchiuse anche in ruoli tradizionali, subordinati, come quello della modella per il pittore, che diviene solo un oggetto da contemplare o desiderare.

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PASTORI E PRESEPI A SAN GREGORIO ARMENO

“… te piace ‘o presepio?” 

  1. De Filippo – Natale in casa Cupiello, 1931.

Percorsi di fede, cultura e arte

Via San Gregorio Armeno è probabilmente una delle vie più famose del mondo: è la strada dei presepi e dei pastori artigianali di Napoli e per raggiungerla, si passa attraverso un percorso che è un museo a cielo aperto. Da Piazza del Gesù, che deve il suo nome alla Chiesa del Gesù Nuovo e che s’impone sulla piazza con la sua maestosa facciata di bugnato rustico a punta di diamante, con davanti l’obelisco dell’Immacolata, s’imbocca Via Benedetto Croce, strada in cui lo sguardo inevitabilmente cade sulla facciata e sul campanile della Basilica del Complesso Monumentale di Santa Chiara, ove c’è l’imbocco di  “SpaccaNapoli”, un vero e proprio viaggio attraverso il sacro ed il profano.

Un pullulare di bancarelle con i più svariati articoli accompagna fino a Piazza San Domenico Maggiore, dove troneggiano l’obelisco di San Domenico con la sua Basilica che fieramente conserva le Arche Aragonesi, di lì a poco si giunge ad un’altra chiesa, quella di Sant’Angelo a Nilo con le opere di Donatello e,nella Piazzetta adiacente, alla statua di epoca romana rappresentante il Dio Nilo che immette a San Biagio dei Librai, dove ci si imbatte tra le prime botteghe dell’arte presepiale napoletana, fino ad incrociarsi proprio con Via San Gregorio Armeno,la strada dei pastori, che congiunge perpendicolarmente il Decumano inferiore a quello superiore fino a Piazza San Gaetano, dove alle spalle della statua del Santo s’impone la Basilica di San Paolo Maggiore e alla sua sinistra, quella di San Lorenzo  che immette nella Napoli Sotterranea.

Nella “strada dei pastori” s’ incontrano botteghe d’arte presepiale centenarie, nelle quali quest’arte  si è mantenuta inalterata per secoli, divenendo parte delle tradizioni natalizie più consolidate e seguite della città, nonostante l’avvento della tecnologia, mantenendo ancora vivo il ricordo di una lavorazione artigianale, immutata nel tempo.

La tradizione dei pastori di San Gregorio Armeno: la lavorazione

Dalle operose mani dei maestri artigiani nascono presepi in sughero, quadri di paesaggi tridimensionali, dove gli elementi fondamentali sono la grotta della Natività, che è il centro della scena, elementi paesaggistici come fiume e ponte, i mercati e le botteghe, poiché non è solo la rappresentazione della Natività, ma è tutto un mondo in cui rivivono scene e momenti della quotidianità napoletana del ‘700.

ll secolo d’oro del presepe napoletano è il Settecento, quando regnò Carlo III di Borbone: per merito della fioritura artistica e culturale, in quel periodo anche i pastori cambiarono le loro sembianze. I committenti non erano più solo gli ordini religiosi, ma anche i ricchi e i nobili che gareggiavano per allestire impianti scenografici e statuine sempre più ricercati, c’era già la figura del “figurinaio” cioè l’artista specializzato nella creazione delle statuine.

Ma era un diletto anche per i nobili:lo stesso Carlo III s’impegnava personalmente nella realizzazione del presepe, preparando mattoncini e scene diverse, la Regina si occupava tutto l’anno nel preparare, con le Dame di Corte, gli abiti per i pastori.

La preparazione dei pastori richiede diverse fasi, molte di esse sono sempre le stesse e segue una lavorazione che è immutata nel tempo: si tratta di un corpo preparato creando una struttura in filo di ferro morbido e riempito con della stoppa così da formare un corpo appena abbozzato.

Le parti da modellare, saranno le uniche visibili: sono la testa, le mani complete di avambraccio e la parte finale delle gambe, che alla fine andranno assemblate sul corpo;con l’argilla fresca si modella la testa dandole un certo movimento sottolineando i muscoli del collo e i tratti somatici dell’espressione E’ necessario, inoltre forare la pettiglia avanti e dietro per poterla innestare e fissare sul manichino in fase di assemblaggio. Lo stesso procedimento vale per gli arti inferiori e superiori.

I pezzi finiti ed essiccati, dovranno essere quindi cotti nel forno. Dopo la cottura entro i 980° l’argilla naturale diventa terracotta. Sulla testa, dopo la cottura andranno inseriti gli occhi di vetro nelle orbite.

A questo punto il passo successivo era e resta quello della pitturazione , in cui non solo è fondamentale realizzare il colore esatto per gli incarnati, ma anche esaltare le gote, le palpebre, i muscoli del collo, il dorso delle mani e le dita per dare maggiore realismo alle figure.

Dopo essere stati dipinti, sono pronti per l’innesto sul manichino. La rifinitura del corpo non è importante, poiché verrà vestito con abiti e accessori.

figura del presepe napoletano e suo abito – Museo Nazionale Bavarese –Monaco di Baviera – Wikipedia

 

La vestizione è la fase conclusiva che dovrebbe essere affidata ad una persona specifica in quanto, per quest’operazione, si richiedono requisiti affini a quella di un sarto: importante è la scelta delle stoffe, la conoscenza degli abiti d’epoca, un tempo contemporanei; le stoffe usate saranno adeguate al personaggio, così che per i pastori si creeranno costumi con tessuti poveri e grezzi, mentre per i Re Magi si useranno stoffe di maggior pregio e bellezza; utile è anche il ricordo di eventi come i costumi orientali dei re e del loro seguito come accadde per gli inviati del Sultano e del re di Tripoli, o a quelli degli ambasciatori della Porta Ottomana in visita a Napoli, che nel 1778 sfilarono in pompa magna per via Toledo.

Per il Corteo dei Magi si prediligono abiti lunghi e grandi mantelli, ori, perle e preziosi che arricchiscono i già preziosi tessuti damascati e i velluti, colori forti e tra essi quasi contrastanti, abbinamenti cromatici forti che rendono la scena ricca ed imponente al tempo stesso, corone realizzate cercando di rimanere il più fedele ai Paesi di provenienza.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv.

ph. Ornella Amato – Magi – Napoli, coll. priv. Dettagli del tessuto dell’abito.

Essi s’impongono nella scena della Natività, dove i costumi con i quali sono vestiti i personaggi della Sacra Famiglia cercano di mantenere l’iconografia originale, poiché il manto di Maria è azzurro, la veste rosa chiaro, mentre Giuseppe è rappresentato in viola e marrone. Ciononostante i tessuti restano pregiati, le greche ed i bordi dorati arricchiscono i mantelli che generalmente sono realizzati in  seta od organza rigida e cinture dorate. Scende sulla grotta lo sciame angelico, anche’esso vestito secondo l’iconografia sacra tradizionale: tuniche larghe dai colori pastello, cinti in vita da  una cintura dorata.

Ma è sui personaggi che animano tutto il resto della scena che si scatena la fantasia, ieri contemporanea dell’epoca che li creò, oggi riproposizione di un passato glorioso: nobildonne con corsetti ed adornate di gioielli, chiuse in abiti dai tessuti importanti come velluti e damascati;gli uomini in giacche lunghe e ricchi bottoni dorati, finemente decorati, i servi con le loro tipiche vesti, camicie bianche e pantaloni al ginocchio, le donne, con  il tradizionale grembiule bianco che spesso poggia su gonnelloni di colore scuro, i cui tessuti non sono quasi mai pregiati, così come il loro stesso status sociale imponeva, ma soprattutto tutti i personaggi che animano il mercato che è un vero e proprio mercato napoletano: il fruttivendolo con la sua frutta in cassette di legno, il pescivendolo col pescato del giorno ed il pescatore che pesca lungo il fiume, accanto al ponte, i bottegai, l’oste con i suoi tavoli  e soprattutto il pizzaiolo, con la sua pizza, il suo camice bianco.

Interessanti poi le minuterie del presepe napoletano ovvero tutti gli oggetti miniaturizzati, appositamente creati da artigiani specializzati, con l’utilizzo di vari materiali, come cuoio, rame, legno, vimini, ceramica, argento e oro, ferro, cordame, cera colorata. Questi accessori  completano e caratterizzano le figure e le scene, in genere riproducono oggetti realmente in uso nel Settecento; così come gli ambienti sono quelli dei vicoli napoletani, delle finestre coi panni stesi, delle case coi tetti dei mattoni rossi a spioventi, eppure non mancano “angoli verdi” con la presenza di alberi sempreverdi e alberi completamente spogli dovuti alla stagione invernale.

La narrazione evangelica della Natività è rivisitata dalla fantasia napoletana che, mettendola al centro e con, attorno ad essa, i pastori adoranti e i re Magi, si allarga alla figure di contorno, come gli zampognari subito fuori la grotta e i bottegai dei mercati e delle piazze della città, esprimendo lo spirito festoso e vivo del popolo  partenopeo del XVIII secolo e che continua fino ai giorni nostri.

 

pastori del presepe napoletano  – Wikipedia

pastori del presepe della Reggia di Caserta – Wikipedia

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno

ph. Ornella Amato – Napoli, Via San Gregorio Armeno- presepi in mostra

Bibliografia:

Collana Monumenti e Miti della Campania Felix – Supplem. A “Il Mattino”Vol. XIV – Le tradizioni di Natale e il Presepe – Ed. Pierro Gruppo Editori Campani Dic. 1996

 

Sitografia:

Treccani.it

Sapere.it

Wikipedia.it