SANTA MARIA NOVELLA A MARTI

Marti: il paese, la chiesa

La chiesa di Santa Maria Novella si trova a Marti, una frazione del comune di Montopoli, in provincia di Pisa. La storia di questo paese ricalca quella di molti centri abitati toscani, contesi dalle mire espansionistiche di Firenze, a cui anche Marti si arrese nel 1406: il perdurare della condotta filo-pisana da parte dei martigiani comportò lo smantellamento e la distruzione di questo castello, insieme al saccheggio della chiesa che era stata costruita nel 1332.

Dopo questo periodo bellicoso le fonti parlano di un primo restauro di Santa Maria Novella avvenuto nel 1470, per poi essere definitivamente rinnovata nel XVIII secolo, grazie a un programma decorativo che comportò la totale copertura pittorica dell’aula interna, e che rese la chiesa di Marti “uno dei luoghi più affascinanti e riccamente decorati della diocesi di San Miniato”. Esternamente Santa Maria Novella presenta un corpo di fabbrica in stile tardo romanico toscano, coperto da un paramento murario in mattoni: la facciata a capanna mostra una decorazione ad archetti pensili ed è ripartita da due lesene che spartiscono la zona superiore da quella inferiore, in cui si apre il portone centrale affiancato da due portali ciechi (fig.1).

Fig. 1: chiesa di Santa Maria Novella, Marti

Superata la soglia della chiesa ci troviamo immersi in uno spazio scenografico magnifico ed avvolgente (fig.2), catturati dalla sfarzosa decorazione ad affresco della tribuna: questo assetto settecentesco fu promosso dal pievano Giuseppe Panzani, che nel 1719 si rivolse a Antonio Domenico Bamberini (1666-1741) per l’esecuzione del ciclo pittorico nella zona presbiteriale. Allo stesso artista fu commissionata anche la Pala del Rosario (1722), pensata per un altare laterale, raffigurante due santi adoranti in abito religioso (San Domenico e Santa Maria Maddalena dei Pazzi?) e i quindici medaglioni, contenenti i misteri del culto mariano del Rosario (fig.3).

Il Bamberini fu un pittore-frescante molto attivo nel circondario della diocesi sanminiatese, specializzato nella decorazione quadraturista di gusto tardo barocco, un genere pittorico improntato sulla resa illusionistica e prospettica di fondali architettonici, che a Firenze fu ampliamente sviluppato dalla scuola di Jacopo Chiavistelli (1621-1698).  Anche il Bamberini di formazione fiorentina fu indirizzato verso il quadraturismo, facendo suo un repertorio decorativo molto vasto di elementi architettonici che ne accentuassero la resa trompe-l'œil: a Marti il fronte della tribuna imita un tempio nella rappresentazione delle due grandi colonne corinzie che sorreggono il timpano, arricchito da capitelli, cornici e mensole in monocromo, mentre i tre fornici, che ne caratterizzano l’impianto, ricordano la forma di un arco trionfale romano. Due figure muliebri (probabilmente le donne alludono alle virtù teologali della Fede e della Speranza), siedono sull'archivolto centrale a presenziare un cartiglio in cui si legge parte di un’iscrizione che allude alla chiesa come casa di Dio: “Domine, dilexi decorem domus tuae et locum habitationis gloriae tuae”, ovvero “Signore, amo la bellezza della tua casa, il luogo che hai scelto per abitazione della tua gloria”. La parte culminante del frontone termina con una cornice mistilinea in cui è rappresentato in monocromo il Miracolo di San Martino, a imitazione di un rilievo.

Nei tre ambienti voltati della tribuna continua la decorazione ad affresco: nella zona centrale dietro l’altare è rappresentata l’Assunzione della Vergine, mentre nei fornici laterali la pittura riproduce illusionisticamente degli ambienti classicheggianti voltati a lacunari, in cui sono rappresentati trionfanti San Giovanni Battista e Cristo Risorto, accompagnati nelle pareti laterali rispettivamente dagli episodi del Banchetto di Erode e la Cena di Emmaus. Nelle volte e nell'intradosso degli archi la decorazione pittorica riempie ogni spazio con l’imitazione di specchiature marmoree e stucchi, nelle forme di cornici, volute, cartigli e medaglioni (fig.4-5-6).

Fig. 4: Anton Domenico Bamberini, Decorazioni della tribuna, particolari, 1719, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

Nel 1805 il pittore Filippo Lenzi venne incaricato di affrescare i rimanenti spazi della chiesa con partiture architettoniche quali finestre e balaustre, determinando così un vero e proprio horror vacui.

Tra le tele seicentesche che si trovano sugli altari laterali di Santa Maria Novella ricordiamo la commissione della famiglia fiorentina dei Baldovinetti (tenutaria nel Valdarno di diversi possedimenti), raffigurante il Miracolo di San Pietro che risana l’infermo (fig.7), del pittore Matteo Rosselli (1578-1650): la lastra ovale sotto la mensa dell’altare riporta le iniziali dell’artista insieme all'anno di esecuzione (1622). Rispetto allo stile più comunemente adottato dal Rosselli, vicino ai modi del Cigoli, qui la critica ha ravvisato piuttosto l’influenza di Domenico Crespi, detto il Passignano (1559-1638), in linea per la sobrietà cromatica e l’impianto scenico (l’ipotesi è avvalorata dalla conoscenza dei due artisti, come attesta la notizia di un viaggio che Rosselli intraprese al seguito di Passignano). È invece assegnata a Taddeo Baldini (attivo 1642-1677) la Sacra conversazione di Santi adoranti (Santa Caterina d’Alessandria, Giuseppe, Lucia, un santo carmelitano e Sant’Antonio da Padova con le anime del purgatorio in adorazione dello Spirito Santo), vicino nelle forme all'appassionato sentimentalismo di Lorenzo Lippi (1606-1665).

Fig. 7: Matteo Rosselli, San Pietro risana l’infermo, 1622, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

Riveste un importante valore artistico oltre che devozionale il Crocifisso in cartapesta policroma attribuito a Ferdinando Tacca (1619-1686) e arrivato a Marti nel 1673 (fig.8).

Fig. 8: Ferdinando Tacca (?), Crocifisso, seconda metà XVII secolo, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

I committenti della croce sono da rintracciarsi nei componenti della sopracitata famiglia Baldovinetti, di cui Vincenzo di Giovanni in particolare, cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, fu protagonista di una leggenda marinaresca: il racconto tramandato nel borgo riguardava la cattura da parte di Vincenzo del pirata Ciriffo Moro, e il conseguente rinvenimento sulla sua imbarcazione del crocifisso, in seguito donato alla chiesa di Santa Maria Novella. La leggenda si era probabilmente affermata nell'ambito della stessa famiglia Baldovinetti, per incrementare il prestigio sociale della casata tramite il riconoscimento di gesta militari e atti di benevolenza, rimanendo per lungo tempo nella memoria collettiva della comunità.

L’attribuzione dell’opera a Ferdinando Tacca nasce dall'identificazione del modello originario realizzato dal padre, Pietro Tacca (1577-1640), per il crocifisso bronzeo donato al re di Spagna Filippo III nel 1616, oggi conservato nella Sacrestia della Santa Forma all'Escorial (fig.9), e da cui derivano numerose copie in materiali diversi (bronzo, cartapesta e stucco).

Fig. 9: Pietro Tacca, Crocifisso 1615 c., Madrid, Monastero di San Lorenzo de El Escorial, Sagrestia della Sagrada Forma.

Dopo la morte di Pietro Tacca, fedele collaboratore del Giambologna, la bottega fiorentina fu portata avanti dal figlio Ferdinando, a cui probabilmente spetta anche l’esecuzione del Crocifisso di Marti: a livello formale l’opera presenta, rispetto all'esemplare dell’Escorial, alcune caratteristiche più esasperate che la critica ha rintracciato come segni distintivi dello stile di Ferdinando. La scelta di realizzare la figura morente di Cristo in cartapesta rivela la committenza per un contesto devozionale, affinché fosse facilmente trasportabile durante le processioni, insieme ad una compartecipazione emotiva maggiormente intensa da parte dei fedeli, resa grazie a una malleabilità del materiale più consona a esprimere il dolore fisico: la carne lacerata dai chiodi nelle mani ed in particolare nei piedi contrasta  con la flessuosità con cui è plasmato il corpo esile e affusolato di Cristo, di una bellezza struggente. Il restauro avvenuto nel 2001 ha permesso il ripristino di alcuni raffinati quanto delicati particolari, come il fiocco del perizoma (realizzato ad applique-parti eseguite separatamente e aggiunte in seguito alla struttura) e il recupero della policromia originale: in particolare è stata rivalorizzata la presenza di alcune gocce di sangue lumeggiate sulle braccia e le gambe, oltre alla ferita sul costato, che versa rivoli di sangue e acqua. Questo dettaglio è una citazione puntuale di un passo del Vangelo in cui Giovanni rammenta che dopo la morte di Cristo “Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua” (Giovanni 19,34). In una valenza simbolica tale avvenimento attesta tramite il sangue, il sacrificio e il sacramento dell’eucarestia, mentre l’acqua allude allo Spirito e alla rinascita nel battesimo. Anche la croce lignea, che si credeva non originale, ha restituito durante il restauro diverse tracce pittoriche raffiguranti sanguinamenti in concomitanza delle braccia e dei piedi.

Il dipinto che incornicia l’opera venne invece appositamente realizzato nel 1821 dal pittore originario della vicina Cascina, Giuseppe Bacchini (attivo 1806-1845), collocando il crocifisso al centro di quattro Dolenti, Maria, San Giovanni, Maria Maddalena e Maria di Cleofa, quest’ultima menzionata proprio nello stesso Vangelo di Giovanni durante la passione di Gesù (fig.10). La bidimensionalità della pittura d’impostazione neoclassica è qui evidenziata da una resa quasi sagomata delle figure, trattenute in un composto e imperturbabile dolore.

Fig. 10: Giuseppe Bacchini, I dolenti, 1821, Marti, Chiesa di Santa Maria Novella.

 

Bibliografia

  1. Bitossi, Scheda n.74 (Matteo Rosselli, San Pietro risana l’infermo), Scheda n.75 (Taddeo Baldini, Pala d’altare con Santi), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, pp. 170-173.
  2. Campigli, Scheda n.76 (Ferdinando Tacca, Crocifisso), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, p. 175.
  3. Parri, Scheda n.83 (Giuseppe Bacchini, I dolenti), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, p. 181.
  4. Boldrini, Il cavaliere, il pirata e il Crocifisso di Marti tra leggenda e devozione, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 10-26.
  5. Campigli, Sul crocifisso di Marti, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 27-43.
  6. Granchi, Il restauro del Crocifisso in cartapesta policroma di Marti attribuito a Ferdinando Tacca, in Restauri nella Pieve di Marti- Il Crocifisso di Ferdinando Tacca e tre ovali dipinti del Seicento fiorentino, a cura di B. Bitossi e M. Campigli, Firenze 2003, pp. 46-74.

 

*Le figure n.2-7-10 sono tratte dal volume Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2000, Vol. I, pp. 167,171,182.


IL RINASCIMENTO NEL DUCATO PARMENSE

Come si evince dal titolo, parlerò degli artisti che hanno giocato un ruolo chiave nel Rinascimento del ducato parmense prima del 1545 . Perché proprio questa data? Fino al 1513 i territori di Parma erano sotto il controllo del ducato di Milano, poi successivamente fu soggetta ad un’alternanza di governi Pontifici e Francesi. Questi ultimi vennero cacciati nel 1521 in seguito all'assedio di Parma da parte dell’esercito papale unito a quello spagnolo, portando la città e i territori limitrofi sotto il controllo della chiesa. Dal 1545 Alessandro Farnese, meglio noto come Papa Paolo III, creò il Ducato di Parma e Piacenza cedendolo al figlio Pier Luigi Farnese. Nel 1556 Ottavio Farnese restituì Piacenza al Ducato di Milano.

Il Rinascimento nel ducato parmense: Alessandro Araldi

Nasce nel 1460 a Parma. Non si sa nulla sulla sua formazione ma si può notare nelle prime opere giovanili l’influenza della scuola forlivese di Melozzo da Forlì, di quella veneta di Mantegna e di quella emiliana di Lorenzo Costa, come si nota nell'affresco del 1496 della Madonna con Bambino1. Dal 1500 l’Araldi lavorò maggiormente presso il monastero di San Paolo, portando a termine nel 1514 la Camera delle grottesche2 dove non mancano i riferimenti alla maniera di Pinturicchio e di Francesco Francia, mentre quella di Leonardo è individuabile nella Pala Centoni3 del 1516 e nello Sposalizio della Vergine4 del 1519 collocati nella Cattedrale di Santa Maria Assunta di Parma.Ricordiamo il Ritratto per Barbara Pallavicino5 del 1510 inizialmente attributo a Piero della Francesca.

Il pittore morì nel 1528 a Parma.

 

Opere Araldi

 

Fig. 1 - Madonna con Bambino, 1496, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 2 - Camera delle grottesche, 1514, Monastero San Paolo, Parma.
Fig. 3 - Pala Centoni, 1516, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 4 - Sposalizio della Vergine, 1519, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 5 - Ritratto di Barbara Pallavicino, 1510, Palazzo degli Uffizi, Firenze.

 

Correggio

Nome d’arte di Antonio Allegri, nacque nell'omonimo paese di Correggio in provincia di Reggio Emilia nel 1489. Sappiamo poco della sua formazione artistica, ma ci è giunto che tra il 1503 e 1505 si trovasse a Modena presso Francesco Bianchi Ferrari da cui apprenderà il linguaggio figurativo di Lorenzo Costa e Francesco Francia, mentre nel 1506 sarà a Mantova dove ebbe modo di studiare gli spazi pittorici di Mantegna e dipingere nella cappella funeraria di Sant'Andrea dedicata al pittore da poco defunto (prima opera giovanile di Correggio). Tornato nella sua città natale nel 1514 realizzò per la chiesa di San Francesco la pala con Madonna e Santi6.

Il pittore emiliano, dopo un viaggio a Roma, ebbe modo di ammirare la maniera di Michelangelo e Raffaello, formulando in seguito un linguaggio che avrebbe influito sulla pittura del Seicento, barocca e classica. Un esempio di questo nuovo stile lo troviamo nel Ritratto di dama7 del 1518-19.

Iniziò così una nuova fase della vita di Correggio. Nel 1519 si trasferì a Parma dove nello stesso anno gli venne commissionata la decorazione della Camera della Badessa8 nel monastero di San Paolo. Questa decorazione portò al pittore un enorme successo, nonché numerose commissioni come la decorazione della Cupola di San Giovanni Evangelista tra il 1520-24 di cui oggi rimane solo la cupola con la Visione di San Giovanni9 e un frammento dell’Incoronazione della Vergine10 dell’abside, ora alla Galleria Nazionale di Parma. Sempre all'interno della chiesa ma nella cappella Del Bono, Correggio dipinse due pale: Martirio di quattro Santi11 e Compianto sul Cristo Morto12.

Dal 1526 al 1530 circa il Correggio passò alla realizzazione della cupola del Duomo di Parma dove venne rappresentata l’Assunzione della Vergine13. Verso la fine degli anni 30 del 500 il pittore portò a compimento due pale d’altare; la Madonna di San Girolamo14per la chiesa di Sant'Antonio e la Madonna della Scodella15 per la chiesa del Santo Sepolcro.

Prima della sua morte il pittore ebbe modo di lavorare nuovamente per Isabella d’Este a Mantova realizzando quattro opere dei cosiddetti Amori di Giove, morendo poi nel 1534 nella sua città natale e venendo sepolto nella chiesa di San Francesco.

 

Opere Correggio

 

Fig. 6 - Madonna di San Francesco, 1514, Gemäldegalerie, Dresda.
Fig. 7 - Ritratto di Donna, 1518-19, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
Fig. 8a - Camera della Badessa, 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 8b - Camera della Badessa [dettagli], 1519, monastero di San Paolo, Parma.
Fig. 9 - Visione di San Giovanni, 1520-24, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 10 - Incoronazione della Vergine (frammento), 1520-24, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 11 - Martirio di quattro Santi, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 12 - Compianto sul Cristo morto, 1524, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 13 - Assunzione della Vergine, 1526-30, Duomo di Parma, Parma.
Fig. 14 - Madonna di San Girolamo, 1528, Galleria Nazionale, Parma.
Fig. 15 - Madonna della Scodella, 1528-30, Galleria Nazionale, Parma.

 

Parmigianino

Nome d’arte di Girolamo Francesco Maria Mazzola, nacque a Parma nel 1503. Soprannominato in tale modo per le origini e l’aspetto fisico minuto. Si formò nella bottega del padre e verrà influenzato da Correggio, Dosso Dossi e dai pittori attivi nel Duomo di Cremona. Ciò che diede il via alla carriera del pittore furono le opere per la chiesa di San Giovanni Evangelista.Nel 1519 dipinse il Battesimo di Cristo16 e affrescò la prima e la seconda cappella della navata sinistra nel 1523 con le raffigurazioni di Sant’Agata e il  Carnefice17, Santa Lucia e Apollonia18 (prima cappella), Santi Stefano e Lorenzo19, San Vitale a Cavallo20(seconda cappella). Altre commissioni avvennero a Fontanellato presso la corte dei Sanvitale nel 1524 e successivamente con la fine della peste partì con lo zio per Roma, dove lavorò per il cardinale Lorenzo Cybo. Nella città eterna avrà modo di legare con Rosso Fiorentino e studiare le opere di Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano. Prima di tornare a Parma, il pittore passò quattro anni a Bologna. Col rientro nella città natale datato 1530, l’anno successivo gli venne commissionato l’affresco del presbiterio della Basilica di Santa Maria della Steccata, scegliendo il tema delle vergini sagge e vergini stolte21. Dal rientro a Parma, Parmigianino tronca i rapporti con i famigliari, non sappiamo se dovuto ad uno “scandalo” legato alla pratica dell’alchimia come riportato dal Vasari, oppure alla scoperta della sua omosessualità.

In questo ultimo decennio della sua vita ebbe problemi con la Confraternita della Steccata, subendo poi l’arresto e la carcerazione per due mesi a causa di una mancata restituzione di denaro. Venne poi scarcerato ritirandosi a Casalmaggiore nel 1539. Prima del ritiro portò a termine l’opera più importante del Manierismo italiano ovvero la Madonna dal collo lungo22.

Il pittore morì l’anno successivo, nel 1540 a Casalmaggiore, probabilmente colpito dalla malaria.

 

Opere Parmigianino

 

Fig. 16 - Battesimo di Cristo, 1519, Gemäldegalerie, Berlino.
Fig. 17 - Sant’Agata e il Carnefice, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 18 - Santa Lucia e Apollonia, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 19 - Santi Stefano e Lorenzo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 20 - San Vitale a Cavallo, 1523, chiesa di San Giovanni Evangelista, Parma.
Fig. 21 - Vergini sagge e vergini stolte, 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 21a - Vergini sagge e vergini stolte [dettaglio], 1531-1539, Basilica di Santa Maria della Steccata, Parma.
Fig. 22 - Madonna dal collo lungo, 1534, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Bibliografia

Correggio, Elemond Arte, 1992.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-araldi_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/mazzola-francesco-detto-il-parmigianino_%28Dizionario-Biografico%29/


STORIARTE IN VIAGGIO NELLE FIANDRE

RACCONTO DI UN VIAGGIO TRA STORIA, ARTE E SOGNI

Quando sono stata contattata per questo viaggio nelle Fiandre, quasi non potevo crederci. Mi si chiedeva di andare a visitare luoghi che avevo avuto la possibilità di vedere e studiare solo nei libri. Chiaramente, la paura c’è stata da subito, ma sarebbe stata più la frustrazione di restare nella zona di comfort che quella di lasciare il certo per qualcosa di mai vissuto. Le tappe di questo viaggio sono state BRUGES e GENT, due cittadine situate nel cuore pulsante delle Fiandre e che racchiudono l’essenza stessa della cultura fiamminga.

BRUGES

Il mio viaggio nelle Fiandre è iniziato da BRUGES, il 15 ottobre, con una visita al centro storico della città e, grazie alla guida di ANNE, abbiamo avuto modo di comprendere la vita e la storia del luogo.

Il Markt, ossia la piazza principale della città, è il fulcro intorno al quale si sviluppa la vita sociale cittadina, circondata da adorabili case in stile tutte colorate  al centro del quale sorge la torre di vedetta, che anticamente serviva per proteggere il centro abitato da attacchi esterni.

Subito dopo ci siamo recati al Beghinaggio, luogo in cui le donne, durante le crociate, si riunivano per formare una comunità e per sentirsi al sicuro durante l’assenza degli uomini in guerra.

Tutta la città è attraversata da canali e ponti, che rendono il soggiorno molto romantico. I canali sono navigabili, infatti ci sono vari punti di attracco per fare delle piccole gite lungo le acque di Bruges.

Il 16 ottobre è stata la giornata destinata alla scoperta della vita di van Eyck,quindi ci siamo recati nel suo quartiere, abbiamo visto la casa dove ha abitato e la statua nella piazza a lui dedicata.

Lo sapevate che van Eyck era tenuto in altissima considerazione alla corte di Duca Filippo il Buono, suo Signore? Ebbene sì, fu il Pittore di Corte di Filippo il Buono il perfezionatore della tecnica della pittura a olio, che verrà celebrata nel 2020 nella grande mostra a lui dedicata: VAN EYCK. AN OPTICAL REVOLUTION (per info qui: https://vaneyck2020.be/en/).

Visto il maltempo abbiamo approfittato per visitare l’Historium, un‘ attrazione multimediale ed interattiva che sta proprio nel Markt, il cui scopo è di proiettare il visitatore nell'epoca del Maestro e a quando l’opera della Madonna del Canonico van der Paele venne dipinta. In questo museo si fa un vero e proprio salto indietro nel tempo, perché sono state ricreate le esatte ambientazioni, i rumori, i suoni e gli odori dell’epoca. Un’esperienza immersiva che rende davvero l’idea di cosa voleva dire vivere durante il rinascimento fiammingo! (https://www.historium.be/en )

Una tappa importante per scoprire i dipinti dei Primitivi Fiamminghi a Bruges è stata la visita al Museo Groeninge, custode di due importanti opere di Jan van Eyck: il RITRATTO DI MARGARETA e la MADONNA DEL CANONICO VAN DER PAELE.

Da lì ci siamo poi spostati all’ OSPEDALE DI SAN GIOVANNI, al cui interno sono conservati una quantità notevole di dipinti di HANS MEMLING, altro grande artista del luogo e del tempo di van Eyck.

Il direttore RUUD PRIEM ci ha accolto e ci ha spiegato le origini di tale luogo, ossia che storicamente i malati venivano condotti lì, non per essere curati nel corpo, ma nello spirito. Solo successivamente si è iniziato a curare la malattia in modo scientifico, infatti al suo interno sono conservati, oltre alle opere d’arte, anche vari strumenti medici. In supporto a questo luogo di cura,venne fondata anche una farmacia, caduta in disuso negli anni ‘70 e che ora è diventata luogo di interesse culturale annessa all’ospedale.

Terminata questa visita il nostro tempo a Bruges era terminato, ed era già ora di spostarsi a GENT, che ci ha accolti sotto una pioggia battente.

GENT

Gent, città universitaria, conserva il più grande patrimonio lasciatoci dal grande maestro van Eyck, il POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO.

 

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Si sta ultimando la seconda fase del restauro su questo dipinto maestoso, che verrà presentato ufficialmente in tutto il suo rinnovato splendore con una grande mostra a lui dedicatagli nel 2020 (https://www.mskgent.be/en/home), infatti, una parte del polittico si trova dal 2012 in restauro presso il museo MSK di Gent.

Nell'autunno del 2016 è stato completato il restauro dei primi otto pannelli esterni del polittico, che ora si possono ammirare in una sala appositamente allestita all'interno della Chiesa di San Bavone.

Al momento il team di restauro sta lavorando alla seconda fase: il registro inferiore della pala d’altare, contenente l’imponente pannello centrale con l’agnello. Gli esperti restauratori stanno rimuovendo, con la massima cura, gli strati di pittura che si sono sovrapposti nel corso del tempo, e permettendo al vero virtuosismo di Jan van Eyck di venire nuovamente alla luce.

I restauri hanno rivelato i colori, i dettagli, le pieghe e la profondità proprie dell’opera e che dimostrano ancora una volta la bravura dell’autore.

In primo luogo i restauratori hanno svelato l’agnello originale, che ha dimostrato di avere un muso molto più “umano” rispetto alla versione che prima si vedeva dipinta. Intorno alla metà del XVI secolo, la testa dell’agnello venne ridipinta. Quando nel 1951 i restauratori rimossero la vernice verde intorno all’agnello, vennero alla luce le due orecchie originali della bestiola.

I restauratori hanno inoltre scoperto, sotto gli strati di vernice, una serie di edifici sconosciuti.

Come base per gli innumerevoli strati di pittura ad olio del polittico, Jan van Eyck scelse di utilizzare dei pannelli di quercia ai quali sovrappose strati sottili di gesso e colla animale: il risultato, visibile ancora oggi, è un effetto traslucido  che sembra creare una dimensione aggiuntiva e che fa sembrare che la vernice brilli dall’interno.

 

JAN VAN EYCK E IL 2020: LA GRANDE ESPOSIZIONE

Il 2020 sarà l’anno dedicato a JAN VAN EYCK, a conclusione del progetto triennale “Flemish Masters 2018-2020” promosso da VISITFLANDERS.

Il progetto è strutturato per focalizzarsi ogni anno su un artista diverso, facendo emergere la sua arte, le città fiamminghe che l'hanno ospitato e che lo celebrano con eventi e mostre.

Il 2018 è stato l’anno  dedicato a RUBENS, con la rassegna “Anversa barocca 2018. Rubens Inspires” e la città coinvolta è stata Anversa.

Il 2019 è l’anno di BRUEGEL, in occasione del 450° anniversario della sua morte  e si è concentrato a Bruxelles, Pajottenland e in parte ad Anversa.

Il 2020, come anticipato, sarà l’anno di JAN VAN EYCK, con la città di Gent come protagonista, in occasione della fine della seconda parte del restauro del POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO, iniziato nel 2012.

Al termine del restauro verrà inaugurata una grande mostra in programma dal primo febbraio a fine aprile 2020 dal titolo: “VAN EYCK. AN OPTICAL REVOLUTION

La mostra si svilupperà intorno ai pannelli esterni restaurati del polittico di Gent, ed includerà più della metà delle 23 opere dell’artista attualmente esposte in altre parti del mondo.

Questa sarà una grande occasione per poter ammirare il maggior numero di opere del maestro fiammingo tutte nello stesso luogo, inoltre questi tesori saranno esibiti accanto alle opere di contemporanei di van Eyck di maggior talento.

 

APERTURA DEL NUOVO VISITOR CENTER NELLA CATTEDRALE DI SAN BAVONE

A ottobre 2020 verrà inaugurato il nuovissimo VISITOR CENTER all’interno della Cattedrale di San Bavone.

Attualmente si stanno ultimando i lavori di messa a punto delle sale.

In questo centro verranno sperimentate delle nuove tecniche di presentazione per evidenziare la storia che si cela dietro  il Polittico.

Grazie all’ausilio della realtà aumentata, si potrà osservare ed apprezzare la  campagna di restauro che si sta ultimando, e conoscere la straordinaria storia del pannello centrale del Polittico.

All’ingresso, i visitatori riceveranno un set di occhiali per la realtà aumentata, che darà loro la possibilità di vedere mura medioevali e numerose opere d’arte come se fossero effettivamente sul posto.

Grazie all’aiuto di simulazioni storiche e moduli interattivi, i visitatori potranno sperimentare le diverse fasi di costruzione della cattedrale, avvenuta in periodi storici diversi, nonché la storia movimentata della Pala d’ Altare di Gent.

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IL RINASCIMENTO BOLOGNESE DEL XVI SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

L’epoca dei Bentivoglio ormai è passata. Dopo la loro cacciata nel 1506, la famiglia provò a riappropriarsi della città altre volte: nel 1507, nel 1511 dove Annibale II Bentivoglio riuscì - solo per un anno - a riprenderla diventando signore sotto il protettorato dei francesi. Gli altri tentativi furono fatti nel 1513 dopo la morte di Papa Giulio II e l’ultimo nel 1522, entrambi senza successo, lasciando Bologna sotto il potere pontificio per quasi 3 secoli (fine 700). Nel XVI secolo a Bologna vi furono alcuni avvenimenti importanti come l’incoronazione di Carlo V Asburgo nella Basilica di San Petronio nel 1530 e la scelta di Bologna come sede del Concilio di Trento tra il 1547 e 1549 e la Controriforma. Questi ed altri avvenimenti avvenuti in questo secolo furono alla base della pittura dei Carracci, che fu la più importante del Rinascimento bolognese.

Il Rinascimento bolognese: la famiglia dei Carracci

Agostino Carracci

Artista di spicco del panorama del Rinascimento bolognese, nasce nel 1557 a Bologna formandosi nell'ambiente tardo-manieristico frequentando la bottega di Prospero Fontana, successivamente quella di Bartolomeo Passarotti e infine quella dell’architetto incisore Domenico Tebaldi. Negli anni 70 del 500 frequentò lo studio di Cornelis Cort dove avviò l’attività di incisore. Negli anni a seguire assieme al fratello Annibale e il cugino Ludovico diede vita all'Accademia degli Incamminati (1582) e verrà visto come l’intellettuale del gruppo. Compì viaggi di studio a Venezia due volte (1582 e tra il 1587-89) e Parma tra il 1586-87. Nella città lagunare entrò in rapporti con Paolo Veronese e Tintoretto, che apprezzò la grandissima abilità grafica del pittore bolognese (ammirazione nata dopo la visione dell’incisione della Crocifissione1 della Scuola Grande di San Rocco del 1589). Anche se furono poche le incisioni del Carracci (lavorerà per produzioni di traduzione, cioè su lavori altrui) egli diventerà uno dei migliori incisori italiani del suo tempo mettendo a punto una tecnica grafica che divenne un punto di riferimento di quest'arte.

Nel 1584 assieme al fratello Annibale e il cugino Ludovico realizzò gli affreschi delle Storie di Giasone e Medea2 per Palazzo Fava a Bologna, divenendo la prima commissione fatta da tutti e tre i Carracci. Sempre con il fratello e cugino tra il 1590-92 parteciperà ad un’altra commissione per la realizzazione degli affreschi della Storia della fondazione di Roma3 presso Palazzo Magnani, sempre a Bologna.Sempre nell'ultimo decennio del 500 il pittore porterà a termine altre due opere: l’Assunzione della Vergine4 del 1592-93, per la chiesa di San Salvatore e la Comunione di San Girolamo5 datata tra il 1592-97.

Nel 1598 Agostino raggiunse il fratello a Roma, dove lo aiutò alla decorazione della Galleria Farnese, ma vi rimase per soli due anni, sembrerebbe a causa di un litigio avuto con Annibale anche se le ragioni non sono del tutto note. Da Roma si trasferì a Parma dove lavorò per Ranuccio I Farnese alla decorazione della volta della Sala d’Amore di Palazzo del Giardino, dove però dovette abbandonare presto i lavori a causa del peggiorarsi delle sue condizioni di salute.

Agostino Carracci morì di lì a poco nel 1602, e fu sepolto nel duomo di Parma.

 

Opere Agostino Carracci

 

Annibale Carracci

Fratello minore di Agostino, nasce nel 1560 a Bologna. Della sua formazione non ci sono giunte notizie, ma pare che questa sia avvenuta lontana dalla cerchia familiare. Sarà un importantissimo pittore che darà vita ad un nuovo modo di dipingere, riunendo sia gli stilemi del Rinascimento bolognese sia i vari stili dei più illustri pittori del Rinascimento maturo, ponendo assieme a Caravaggio e Rubens le basi per la pittura barocca.

La prima opera del Carracci sarà la pala d’altare raffigurante la Crocifissione e santi6 datata 1583 per la chiesa di San Nicolò a Bologna, dove possiamo notare il rifiuto delle convenzioni tardo manieristiche e un primo tentativo di ritorno al vero. Altre sue opere molto importanti furono i dipinti di genere come la Grande Macelleria7 e il Mangiafagioli8 del 1585.

Annibale ebbe due soggiorni che lo segnarono nella sua evoluzione stilistica. Il primo a Parma dove conoscerà la pittura di Correggio, visibile nell'opera Battesimo di Cristo9 del 1585 per la chiesa di San Gregorio, il secondo a Venezia tra il 1587-88 dove avrà modo di studiare la pittura del Veronese. Come già citato, assieme al fratello e al cugino affrescherà Palazzo Fava e Palazzo Magnani a Bologna tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 del 500, trasferendo nell'ultimo decennio lo stile di Annibale verso la pittura del Veronese. Ne sono testimoni la Pala di San Giorgio10 e la Resurrezione di Cristo11 del 1593, quest’ultima vista come l’opera di arrivo alla fase matura. Prima di lasciare Bologna Annibale produsse assieme al fratello e al cugino un’ultima decorazione collettiva per il Palazzo Sampieri di Bologna, dando vita all'opera Cristo e la Samaritana12 del 1593-94. L’insieme di questi capolavori conferì al Carracci grande notorietà e ciò lo condusse a Roma a lavorare per il cardinale Odoardo Farnese dandogli il compito di decorare assieme al fratello il piano nobile dell’omonimo palazzo; per il monsignor Tiberio Cerasi presso la cappella di famiglia, realizzò la tela dell’Assunzione della Vergine (1600-01) posta tra la Crocifissione di Pietro e la Conversione di San Paolo di Caravaggio ed infine, per la famiglia Aldobrandini per cui dipinse diverse opere e decorò la cappella privata di palazzo.

Annibale Carracci morirà a Roma nel 1609, venendo sepolto presso il Pantheon vicino alla tomba di Raffaello come da lui richiesto.

 

Opere Annibale Carracci

Ludovico Carracci

Fu il più anziano dei tre Carracci e il meno importante, dando comunque un contributo di ortodossia al Rinascimento bolognese. Nacque a Bologna nel 1555, formandosi come il cugino Agostino presso Prospero Fontana, proponendo una pittura religiosa. Anch'egli ebbe modo di viaggiare, in particolare a Firenze, Parma, Mantova e Venezia. Alcuni esempi di sue opere religiose sono l’Annunciazione13 del 1584, la Pala dei Bargellini14 del 1588, la Conversione di Saulo15 1587-88 e la Madonna degli Scalzi16 datata 1590 presso la cappella Bentivoglio nella chiesa di Santa Maria degli Scalzi a Bologna. Tra le sue realizzazioni da decoratore vi furono le già note Storie di Giasone e Medea a Palazzo Fava (1584) e la Storia della fondazione di Roma a Palazzo Magnani (1590-92) fatte assieme ai cugini Annibale e Agostino. Sempre nello stesso periodo della decorazione di Palazzo Magnani compì le opere della Predicazione del Battista17e il Martirio di Sant’Orsola18 (influenzato dallo stile di Tintoretto e Veronese). Con il nuovo secolo Ludovico fu all'opera presso il Duomo di Piacenza tra il 1607-08, Roma nel 1612 nella chiesa di Sant'Andrea della Valle e Ferrara presso la chiesa di Santa Francesca Romana, presentando una lodevole qualità espressiva e morale.

Morirà a Bologna nel 1619.

 

Opere Ludovico Carracci

 

Bibliografia

G.C.Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni, ristampa 1982.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/annibale-carracci_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-carracci_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-carracci_(Dizionario-Biografico)/


EDICOLE VOTIVE E DEVOZIONE MARIANA

A cura di Irene Scovero

Madonna regina di Genova

Il centro storico di Genova è disseminato di edicole votive chiamate Madonnette; il cuore antico della città vede manifesta la presenza del sacro attraverso queste forme artistiche di millenaria tradizione.

 

L’esistenza di queste testimonianze espressive portano a scoprire e guardare ammirati antichi tabernacoli contenenti immagini devozionali posti agli angoli dei palazzi. Le origini di questi piccoli capolavori in pietra è antica e risale  al XII secolo con l’affermarsi del culto della Madonna e  quando, in pieno Medioevo, ogni strada doveva avere la propria immagine sacra cui raccomandarsi, cui rivolgere protezione.

Le "Madonnette"

Le Madonnette dovevano proteggere la bottega artigiana, la corporazione o il quartiere. Dal punto di vista urbanistico, questi elementi figurativi hanno assunto una connotazione così forte da cambiare la denominazione della via o della piazza in quello dell’edicola. Ne è un esempio Vico del Rosario, per la presenza dell’edicola dedicata alla Madonna del Rosario o Piazza del Carmine per l’imponente edicola baroccheggiante del XVIII secolo. Vi sono molte tipologie architettoniche che caratterizzano le edicole votive. Si possono trovare delle strutture più classiche a tabernacolo e strutture più fantasiose con motivi fitomorfi con cornici  sapientemente lavorate con forme più articolate. Per il carattere marinaresco di Genova e della Liguria, le edicole erano spesso l’ultima immagine sacra a cui i marinari , prima di imbarcarsi, chiedevano protezione. Infatti, non è raro trovare, soprattutto nei paesi della Riviera, molte cornici delle edicole costellate di conchiglie e concrezioni marine che gli uomini, una volta tornati dai viaggi in mare, donavano all’immagine sacra del tabernacolo.  Il porto, fino all’Ottocento, ne era pieno e le edicole erano state fatte edificare spesso da pescatori, marittimi e camalli.

Purtroppo, essendo state esposte da secoli alle aggressioni degli agenti atmosferici e a fattori inquinanti, molte edicole del centro storico (cui moltissime sono rimaste vuote, perché le scultore all'interno con gli anni sono state rubate) sono state recentemente sottoposte a un sapiente restauro. In occasione del Giubileo dell’anno 2000, la Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia ha promosso il restauro e la salvaguardia di molti di questi beni. Sono state eseguite numerose copie e calchi della statue da mettere in loco al posto degli originali, mentre quest’ultimi sono ora esposti al Museo di San’Agostino.

La devozione in Liguria, da sempre molto sentita, vede in Maria la figura protettrice della città.  Già alla fine del XVI, con la fine della peste, Maria venne investita del ruolo di protettrice civica, una nuova Eva, vincitrice sul demonio e liberatrice dell’uomo dal peccato. La diffusione dell’iconografia mariana trova la sua massima espressione nel Sei-Settecento con la proclamazione di Maria Regina di Genova nel 1637. Il 25 marzo di quell’anno, nella cattedrale di San Lorenzo, il doge di Genova presentò alla statua della Madonna dell’altare maggiore le insegne regali: corona, scettro e chiavi della città. Maria con quell’atto venne designata come sovrana dello Stato. Fu uno stratagemma politico in modo che l’assetto della Repubblica non cambiasse, ma allo stesso tempo fosse alla pari delle altre monarchie europee del tempo. Dal punto di vista iconografico, l’evento fu un momento molto importante e portò all’elaborazione di nuove immagini devozionali e il ruolo di Maria come patrona della città fu riconosciuto attraverso voti, immagini, cerimonie ed iscrizioni. Anche la Zecca provvide a realizzare nuove monete con l’effige della Madonna Regina di Genova che andò a sostituire quella più antica del Castello. Anche per le edicole, i modelli iconografici di queste Madonne barocche vanno ricercati nelle opere pittoriche degli artisti genovesi del tempo come  Domenico Fiasella e Bernardo Strozzi e a botteghe di scultori come gli Orsolino e gli Schiaffino, successivamente saranno un punto di riferimento lo stile scultoreo di Filippo Parodi e Pierre Puget.

 

Moltissime, quindi, le  Madonne raffigurate in quegli anni nelle edicole votive, anche se non manca la presenza dei santi e i protettori della città - san Giovanni Battista, san Giorgio, santa Caterina da Genova. La vergine è rappresentata spesso come Mater Misericordiae, Madonna Immacolata, Madonna Assunta, Madonna del Cardellino, Madonna in gloria.  Il centro storico è testimone di moltissime edicole di epoca barocca che mostrano i cambiamenti iconografici della Vergine come Regina rappresentata con gli attributi del potere regale come lo scettro, la corona e le chiavi della città. Vediamone alcune:

 

Fig.5: Edicola di Palazzo Rosso, XVIII secolo

La Madonna, incoronata come regina, è rappresentata in trono con il bambino in braccio. La statua è contenuta in un tabernacolo marmoreo decorato con frutta e quadrifogli. Sulla cornice della base dell’edicola, sorretta da un cherubino alato è presente la scritta VIRGO VIRGINVM MATER DEI ORA PRO NOBIS.

 

La bellissima edicola che si trova tra Vico Casana e Via D. Chiossone è stata restaurata nel 2003. Evidenzia un ricco repertorio decorativo con elementi di ispirazione vegetale tipici del barocchetto genovese del XVIII secolo. La scultura al suo interno, ora sostituita da una copia, per motivi conservativi si trova all’interno del salone di rappresentanza della sede centrale dell’Istituto Bancario Carige. Spesso identificata come Madonna della città, studi stilistici hanno evidenziato  che tale scultura sia invece antecedente la proclamazione della Madonna Regina di Genova (1637). L’iscrizione scolpita nella base marmorea- SUB TUUM PRESIDIUM- evidenzia una sensibilità già molto diffusa nel sentire la Madonna patrona della propria città, ben prima della proclamazione ufficiale. Le corone che la Vergine e Gesù Bambino recano in capo sono state realizzate nel XIX secolo.

Fig. 8: Edicola Palazzo Millo, XVIII secolo

Quest’opera di notevole pregio si trova nell'area del Porto Antico sul lato mare della Palazzina Millo.  Prima del grande progetto di riconversione del Porto Antico affidato a Renzo Piano nel 1992, cui obiettivo è stato quello di riconnettere il mare con la città, questa zona dell’antico porto era adibita a carico e scarico merci provenienti dalle navi. Per questo motivo l’edicola è soprannominata Madonna dei Camalli (scaricatori del porto). Entro una semplice teca in legno, sorretta da una mensola in marmi policromi, un bassorilievo in marmo bianco rappresenta la Madonna della Città, con scettro in mano , simbolo del potere su Genova, con ai lati  San Giovanni Battista e Sant’Erasmo, protettore dei naviganti e dei pescatori.

Fig. 9: Edicola Palazzo San Giorgio, XVIII secolo

La Madonna dell’Assunta è posta all'interno di una spettacolare edicola marmorea con due angeli ai lati che porgono dei piatti ricolmi  di frutta alla Vergine. Sopra la nicchia che ospita la Madonna, la cui visione è compromessa dalla grata in ferro, due angeli sorreggono una corona dorata. Il monogramma di Maria, inserito in una corolla a raggiera, sovrasta il grande baldacchino dorato lavorato con elementi fitomorfi che chiudono la composizione.

Fig. 10: Edicola Via di Prè, nicchia sotto il muraglione di Palazzo Reale, XVII secolo. Attribuzione della bottega di Orsolino

In origine questa statua di notevoli dimensioni, attribuita alla bottega degli Orsolino, era  situata in porto, a dominare i traffici marittimi. Viene posta in questa nicchia in Via Prè nel 1840 per volere di Carlo Alberto. Sia la Madonna che il bambino erano incoronati e la Vergine impugnava lo scettro del potere. Attualmente la grata in ferro della porta e il vetro antisfondamento, già scheggiato, compromettono la visione della notevole scultura. Il basamento in marmo che sorregge la statua testimonia il trasferimento dell’opera avvenuta nel XIX secolo.

 

Bibliografia

Domenico Fiasella a cura di Piero Donati, Sagep, Genova, 1990

Edicole Votive un percorso nel cuore antico di Genova: progetto di restauro promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova, Microart’s, 2000

Guida d’Italia. Liguria, 7.ed.Milano, Touring Club Italiano, 2009

Il patrimonio artistico di Banca Carige. Sculture, ceramiche, stampe, arredi a cura di Giovanna Rotondi Terminiello, Milano, Silvana Editoriale, 2009

La scultura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, Genova, Fratelli Pagano, 1987

Riccardo Navone, Viaggio nei caruggi: edicole votive, pietre e portali, Genova, F.lli Frilli, 2007[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


L'ABBAZIA DI FOSSANOVA A PRIVERNO

A cura di Vanessa Viti

Introduzione

Percorrendo il viale acciottolato che precede l'Abbazia si ha l'impressione di essere finiti in un'altra dimensione temporale, infatti la chiesa e gli edifici attorno ad essa danno vita ad un piccolo borgo circondato da mura che sembra essere immune allo scorrere del tempo.  Il complesso abbaziale si trova a Priverno, in provincia di Latina; nel XII secolo i monaci cistercensi bonificarono la zona, crearono un canale (da qui il nome Fossanova) ed innalzarono la chiesa che venne consacrata da Papa Innocenzo III nel 1208. L'abbazia di Fossanova, insieme a quella di Casamari, rappresenta il più antico esempio d'arte gotico-cistercense.

Fig. 1:esterno abbazia di Fossanova

ABBAZIA DI FOSSANOVA: ESTERNO

La chiesa, dedicata alla Vergine Maria e al martire Santo Stefano, riflette perfettamente la severità della regola cistercense, la quale era fondata sul voto, sull'isolamento e sull’Opus Dei. La chiesa appare severa e maestosa, la facciata è semplice ma allo stesso tempo grandiosa, il portale è strombato e formato da un arco a sesto acuto nella cui lunetta si trova un motivo decorativo ripreso dal rosone, mentre nella parte inferiore un mosaico cosmatesco sostituisce un'iscrizione dedicata a Federico Barbarossa. Nella parte superiore della sobria e semplice facciata, al di sopra del portale, trova spazio un grande rosone, ventiquattro colonnine binate, sui cui capitelli si impostano archetti a sesto acuto, funzionano da armatura della vetrata intermessa.

INTERNO

La chiesa, costruita in travertino, ha una pianta a croce latina, è divisa in tre navate coperte da volte a crociera, le quali si incontrano perpendicolarmente con il transetto. La navata centrale è formata da sette campate rettangolari e trova conclusione nel presbiterio che forma un unico corpo insieme all'abside. Al centro del transetto si erge il tiburio sormontato dalla lanterna, mentre nei due bracci laterali vi sono quattro cappelle. Le arcate sono sorrette da massicci pilastri rettangolari ai quali sono addossate delle semi-colonne da cui partono gli archi che si sviluppano verso le navate laterali; delle semi-colonne pensili invece, sorreggono gli archi trasversi della navate centrale. A spezzare il verticalismo delle colonne trova spazio una cornice che corre lungo la navata centrale. L'interno risulta completamente spoglio, nessun tipo di decorazione, nulla distrae l'attenzione dal maestoso silenzio dell'abbazia, il tutto va ad esaltare lo stile gotico-cistercense.

Fig. 2: interno dell'abbazia

CHIOSTRO

Come la tradizione cistercense vuole, il fulcro di tutto l'impianto architettonico è il chiostro, attorno ad esso infatti vi sono tutti gli edifici. Nel chiostro ritroviamo la stessa semplicità di forme della chiesa, se si fa eccezione del lato meridionale che appartiene, indubbiamente ad  una costruzione più tarda. Le arcatelle a tutto sesto nascono da colonnine doppie lisce e le gallerie sono coperte da volte a botte. Ai tre lati di stile romanico si contrappone quello costruito a sud in stile gotico, vi sono infatti, arcate a sesto acuto, colonnine abbinate di forme differenti e particolarmente complesse che però non contrastano con le forme degli altri tre lati, nonostante essi risultino molto semplici.

SALA CAPITOLARE

La sala capitolare è chiaramente in stile gotico, divisa in due navate e coperta da volte a crociera costolonate, è sostenuta da due pilastri cosiddetti fascicolari, perché formati da un fascio di colonnine. Questo luogo riveste un ruolo importante all'interno della vita monastica, è proprio qui che i monaci si riunivano ogni mattina per leggere un capitolo della Regola di San Benedetto.

Fig. 6: sala capitolare

 

REFETTORIO

Il refettorio, dove i monaci si riunivano per il pasto, è l’ambiente più vasto dopo la chiesa, il tetto è sostenuto da cinque archi a sesto acuto; sulla parete destra si trova il pulpito, al quale si accede mediante una scalinata di pietra. In principio vi erano tredici finestre, ora cinque di esse sono murate, dovevano dare grande luminosità alla sala. A ridosso della porta d’ingresso si trova, sulla destra, dalla quale le vivande venivano passate direttamente dalla cucina al refettorio.

L'infermeria si trova in una posizione distaccata rispetto al resto degli ambienti, al secondo piano di essa vi è la cella di San Tommaso, trasformata in cappella, sull'altare trova spazio un bassorilievo che raffigura la morte del santo.

Fig. 7: altare maggiore

SAN TOMMASO

Appare evidente quanto l’Abbazia di Fossanova è legata alla vicenda della morte di San Tommaso d’Aquino, avvenuta il 7 marzo 1274, il Santo si stava recando in Francia per assistere al Concilio di Lione. Fu convocato nei primi mesi dello stesso anno da papa Gregorio X. Il suo viaggio iniziò da Napoli alcuni giorni prima sul dorso di una mula, si era fermato a Maenza per visitare la nipote Francesca, qui, però, aveva iniziato ad accusare una febbre che celermente era divenuta preoccupante. Fu così che San Tommaso, conscio della morte che stava per sopraggiungere, volle farsi portare alla vicina Fossanova per poter trascorrere le ultime sue ore in preghiera e raccoglimento. Secondo la tradizione, egli attese il trapasso come l’uso francescano vuole: disteso sul nudo pavimento. La leggenda, inoltre, narra che nel chiostro siano ancora visibili le impronte lasciate dalla mula che portava il Santo al momento dell'arrivo nell'abbazia.

 

 

Bibliografia:

Storia dell'arte italiana-Electa-Bruno Mondadori

Sitografia:

https://www.goticomania.it/gotico-italiano/abbazia-cistercense-fossanova.html


UN ITINERARIO MANZONIANO A LECCO

A cura di Silvia Piffaretti

Tra letteratura e realtà: un itinerario manzoniano

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli []: così Manzoni sceglie di iniziare i suoi “Promessi Sposi”, noto capolavoro della letteratura italiana, ambientato sulle rive della piccola provincia lombarda di Lecco, dove lago e montagne convivono in pura armonia. Da sempre il lago di Como è stato meta di grandi viaggi di artisti e letterati, includendo note personalità come Stendhal e Wagner, che su queste rive poterono assaporare la bellezza di una fuga momentanea dalla civiltà per poter ritrovare l’ispirazione e la pace dell’io. A compiere questa fuga fu lo stesso Manzoni che, sofferente di agorafobia e cresciuto nella caotica Milano, trascorreva le vacanze nella sua casa di villeggiatura sul lago, l’attuale Villa Manzoni. Da qui egli poteva ammirare il poetico profilo seghettato del Resegone e dedicarsi con dedizione alla scrittura.

In questo articolo ripercorreremo dal principio, attraverso le pagine dell’edizione del 1840, i vari luoghi di interesse menzionati nel romanzo, cercando di comporre un vero e proprio itinerario manzoniano.

Comincia l'itinerario manzoniano: Don Abbondio

Il primo capitolo si apre con il noto incipit sopracitato, seguito dalla descrizione di Don Abbondio che, il giorno 7 novembre 1628, sta tranquillamente rientrando dalla sua passeggiata; ad un bivio incontra i bravi che gli intimano, per conto del potente don Rodrigo, di non celebrare il matrimonio dei due giovani Renzo e Lucia. In queste pagine emerge come il curato non era nato con un cuor di leone, egli infatti s’era fatto prete per volere dei parenti ignorando gli obblighi e fini del suo ministero, per poter vivere con qualche agio in una classe riverita e forte. La sua immediata sottomissione e paura viene esemplificata dal Manzoni nella seguente frase:  Il nostro Don Abbondio, [] sera dunque accorto, [] dessere, in quella società, come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.

La famosa stradina dritta che si biforca, portando a destra al monte Resegone e sulla sinistra a valle, oggi corrisponde a via Tonio e Gervaso, a sinistra dall'odierna rotonda di Viale Montegrappa. Qui si può ammirare una ricostruzione del tabernacolo, privo però delle raffigurazioni pittoriche delle anime del purgatorio descritte nel romanzo, affiancato da una targa col famoso passo tratto dal testo.

Percorrendo la strada in salita si giunge presso la chiesa di don Abbondio, l’odierna Chiesa di San Giorgio ad Acquate.

Altra chiesa connessa al curato è quella dei dei Santi Vitale e Valeria del sottostante quartiere di Olate, in cui si celebreranno le nozze di Renzo e Lucia.

La casa di Lucia

Proseguendo nella lettura e nell'itinerario manzoniano, il secondo capitolo presenta una breve descrizione della casa di Lucia occupata dalla donna immersa nei preparativi del matrimonio con la madre Agnese.

L’autore ce la descrive così: Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. Simmaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia.

Seguendo la descrizione manzoniana si identificano due presunte case di Lucia, una ad Olate e l’altra ad Acquate. La prima è ad oggi non visitabile in quanto residenza privata, nonostante ciò sopra il portone d’ingresso esterno è possibile ammirare un’Annunciazione affrescata.. La seconda è collocata a pochi passi dalla chiesa di San Giorgio, ed è un’osteria dal cui caratteristico cortile si può scorgere lo zucco presso cui sorgeva il palazzotto di don Rodrigo.

Il palazzotto di don Rodrigo

Il nostro itinerario manzoniano continua con il palazzotto, che presentava un tempo le caratteristiche dettate dal Manzoni, ora scomparse a causa della successiva demolizione che vide il nascere di una villa razionalista. Dell’impianto originario si conserva però la torretta centrale. La sua descrizione trova spazio nel V capitolo, quando Padre Cristoforo si presenta alla porta del signorotto per cercare di dissuaderlo dal tormentare la giovane Lucia.

L’edificio sorgeva isolato sulla cima di un poggio, a circa tre miglia dal convento del frate, e ai suoi piedi vi erano un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Giunto al portone dell’edificio, all'apparenza abbandonato dato il silenzio che vi regnava, il frate si trova di fronte a delle finestre chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni protette da delle inferriate. Queste erano accompagnate da due avvoltoi dalle ali spalancate inchiodati ai battenti del portone, quasi fossero lo specchio dei due bravi che vi facevano da guardia. In questo passaggio del romanzo la descrizione dell’ambiente rivela una funzione simbolica, diviene infatti riflesso del comportamento crudele e inumano degli abitanti del luogo e metafora della personalità di Rodrigo.

Fra Cristoforo

Un’importante località che non possiamo omettere nel nostro itinerario manzoniano è Pescarenico,villaggio di pescatori ed unica località che l’autore indica precisamente.

Qui si trova il convento di Fra Cristoforo, presso la chiesa dei Santi Materno e Lucia. La chiesa, risalente al 1576 e ospitante i Cappuccini fino al 1810, presenta un’unica navata con un altare ligneo ed è arricchita dalla seicentesca pala del Cerano, raffigurante Francesco e Gregorio Magno adoranti la Trinità. Il convento, menzionato nel IV capitolo, era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia allentrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo.

Pescarenico è un susseguirsi di piccole casette colorate a metà tra uno specchio d’acqua costeggiato da barchette ed il seghettato profilo del Resegone. Quest’ultimo fa da sfondo alla famosa scena, contenuta nell’VIII capitolo, dell’ “Addio monti” che costituisce una sorta di monologo interiore di Lucia terminante col pianto “segreto” della donna sulla barca. Così recita drammaticamente il testo: Addio, monti sorgenti dallacque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia laspetto de suoi più familiari; torrenti, de quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!

Al centro si collocano le immagini del villaggio, con il suo paesaggio familiare della casa (“natia” e quella “ancora straniera” di Renzo) e della chiesa. Qui la vita finora condotta dai personaggi appare come un Eden perduto, ed il distacco è interpretato come l’immersione nel doloroso mondo della storia identificato con l’opprimente e angosciosa immagine della città, contrapposta alla prospettiva del villaggio.

L'Innominato

Proseguiamo l’itinerario manzoniano lasciandoci Lecco alle spalle per addentrarci nell'imponente Castello dellInnominato situato a Somasca, frazione di Vercurago.

Tale fortezza, nel Trecento di proprietà della famiglia Visconti, fu costruita a partire dalle fortificazioni di epoca carolingia e di cui si conservano tuttora i muri perimetrali, i bastioni e alcune torri. La famiglia Visconti giocò un ruolo importante, si pensava infatti che l’autore si fosse ispirato a Bernardino Visconti, uomo avente alle spalle una vita di crimini, pentimento e conversione che riflette la figura dell’Innominato. Il XX capitolo presenta la descrizione della fortezza, definita “castellaccio" del “selvaggio signore” ed irta sulla cima di un monte che controllava la valle e la sua unica via di accesso. I termini utilizzati per suggerire il paesaggio circostante si riferiscono a quattro campi semantici: altezza, asprezza e solitudine e bassezza. L’altezza identifica la sua volontà di potenza e superiorità, dal romanzo: Dallalto del castellaccio, come laquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava allintorno tutto lo spazio dove piede duomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.

Seguono asprezza e solitudine che rappresentano il ricordo dell’antico stato di sicurezza e l’attuale ripugnanza del presente da parte dell’Innominato. Infine il campo della bassezza, specchio della presa di coscienza della malvagità che l’ha colto. E’ proprio in questo capitolo che si illustra il suo monologo interiore, caratterizzato da tre pensieri che lo atterriscono: la morte, la responsabilità individuale del male e l’esistenza di Dio. Il finale ha in serbo per lui una rinnovata pace interiore, avvenuta a seguito dell’incontro con il cardinale Federigo Borromeo.

La fine dell'itinerario manzoniano: la casa del sarto

Termina qui il nostro itinerario manzoniano con l’esplorazione della casa del sarto e della chiesa di San Giovanni Battista, detta del Beato Serafino, collocate nel rione di Chiuso e citate da Manzoni nella prima stesura del romanzo intitolata “Fermo e Lucia”.

La casa del sarto è quella presso cui Lucia si rifugia, e dove ritrova la madre Agnese a seguito della conversione dell’Innominato facilitata dall'aiuto del cardinal Borromeo nella chiesa di San Giovanni Battista. Al suo interno è conservato un delizioso ciclo di affreschi risalenti al Quattrocento e attribuiti a Giovan Pietro da Cemmo. Inoltre, annesso alla chiesa è visitabile il museo dedicato a Beato Serafino Morazzone, personaggio realmente esistito a cui si ispirò lo scrittore per la creazione del personaggio del curato di Chiuso. Esso contiene documenti ed oggetti del Beato,ma anche le litografie originali dei “Promessi Sposi”di Roberto Focosi datate al 1830.

Qui finisce il nostro itinerario manzoniano.

Bibliografia

 

  • Brentari “I paesi dei Promessi sposi” - Hoepli, 1896
  • Andrea Spreafico “La topografia dei Promessi sposi nel territorio di Lecco” - Bottega d’Arte, 1932
  • Furlani Marchi Mariagrazia, Benini Aroldo, Bartesaghi Massimiliano “Luoghi manzoniani a Lecco” -Cattaneo, 1991
  • Tommaso Di Salvo “I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni” - Zanichelli, 1994
  • Franco Suitner “I Promessi Sposi, un’idea di romanzo” - Carrocci editore, 2012
  • Giovanni Nencioni “La lingua di Manzoni” - Il Mulino, 1993

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LA VILLA DEI MARCHESI AYALA A VALVA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

C’è un luogo in provincia di Salerno che sembra essere rimasto fermo in un’epoca imprecisata, dove l’eleganza e il manierismo dominano incontrastati, un luogo ove il verde è il vero protagonista. È Villa Ayala a Valva, e in particolar modo il suo splendido ed incantato Parco.

Fig. 1: villa Ayala

Il paese di Valva

Valva è un piccolo centro di circa duemila abitanti in provincia di Salerno che si estende sulle pendici del monte Marzano, nel pieno della riserva naturalistica dei monti Eremita e Marzano, fondata nel 1993. La riserva si estende fino alla vicina Basilicata ed annovera un territorio di più di 3500 metri quadrati che abbraccia, oltre a Valva, i comuni di Laviano e Colliano. Il comune si divide in Valva vecchia, ossia il primitivo nucleo abitativo di epoca romana di cui restano solo rovine, e l’attuale insediamento.

Villa Ayala a Valva e il suo costruttore

Situata sulle pendici del monte Marzano, la villa risale alla seconda metà del 1700 e il suo nucleo originario è una torre d’angolo voluta dal signore normanno Gozzolino nel 1108, che prenderà appunto il nome di Torre Normanna. Successivamente si deve a un suo discendente, il marchese Giuseppe Maria Valva, sovrintendente di tutti i ponti e le strade del Regno di Napoli e consigliere di Ferdinando IV di Borbone, l’idea della costruzione di una villa che potesse attrarre e stupire i visitatori. Il marchese, appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta e all’Ordine dei Cavalieri di Costantinopoli, era una figura di spicco dell’epoca: fu l’ideatore della cosiddetta “Via del grano”, ossia la strada che attraversava Campania, Basilicata e Puglia mettendo in comunicazione Napoli con il Tavoliere delle Puglie, cosa molto importante in un periodo in cui, a seguito di una grave carestia, il grano scarseggiava all'interno del regno borbonico. Ancora oggi un epitaffio sulla via del grano, eretto nel 1797, ne ricorda la costruzione.

Fig. 2: l'epitaffio a Eboli sulla "Via del grano".

La costruzione della villa

Come spesso accadeva in quegli anni il marchese immaginò un edificio a pianta rettangolare, inserito in un ampio parco esterno a cui si accedeva da un arco merlato. Stranamente si ispirò ad un’opera ben precisa, ossia il Castello del Buonconsiglio a Trento, per immaginare la villa. La struttura, chiamata anche Castello, è cinta ed introdotta da un muro perimetrale merlato, molto suggestivo, con un arco centrale che dà sull'ingresso principale.

Una volta oltrepassato, ci si ritrova nel cortile esterno antistante la villa, un piccolo giardino all'italiana che ricorda vagamente un’arpa, caratterizzato da viali irregolari costituiti da aiuole e siepi con statue delle Quattro Stagioni disseminate qua e là; un tempo nel giardino vi era un piccolo lago, ora invece c’è la fontana con Diana e il cervo. Sulla destra del viale d’ingresso vi è la chiesetta della Madonna del Fileremo, in cui ancora oggi i Cavalieri di Malta tutti gli anni celebrano una messa commemorativa.

La struttura del castello, che si estende su una superficie di circa 600 metri quadrati, è suddivisa in altezza su due livelli: il primo è quello che ospita le varie sale e si divide a sua volta in due corpi di fabbrica merlati, mentre il secondo è quello della Torre quadrata angolare. Quello che colpisce è l’estremo dinamismo costruttivo: la struttura infatti è movimentata non solo dalla merlatura che corre immediatamente al di sotto del sottotetto, ma anche da un ulteriore portico che cinge tutto l’edificio, spezzato da torrette angolari. Sull'edificio più a sinistra, che è anche quello più sporgente in avanti, si notano due coppie di quadrifore inquadrate in una trabeazione rettangolare, intervallate da un finestrino romboidale centrale. Al di sotto un porticato con tre archi a tutto sesto che dà luce al piano terra, in cui si trovano la cucina, cosiddetta “voltata”, e la sala delle armi.

Il secondo edificio, invece, più arretrato, presenta una facciata più semplice, scandita da una fascia marcapiano centrale, in cui il primo piano presenta tre finestre ad unico arco e il piano terra tre piccole e semplici bifore. Un piano cosiddetto “ammezzato” ospita la Cappella, mentre al primo piano, il cosiddetto piano nobile, trova posto l’appartamento marchesale. Caratterizzato da un grande salone con affreschi, l’appartamento era in origine un luogo ricco di arredi lignei e suppellettili, senza dimenticare quadri, affreschi e statue. All'ultimo piano è collocato il sottotetto, realizzato in calcestruzzo armato (uno dei primi esempi dell’utilizzo di questo nuovo materiale) e che ospitava varie stanze e relativi bagni. Sicuramente la parte di maggiore interesse dell’edificio è la cosiddetta Torre normanna, che si eleva ad un lato della struttura. Tutto l’edificio è stato parzialmente danneggiato dal terremoto del 1980.

Il Parco di villa Ayala

Uscendo fuori da villa Ayala a Valva si è circondati da in un bellissimo parco su più livelli, strutturato in un impianto manieristico e quasi barocco. I viali che lo solcano lo dividono un po’ irregolarmente in una scacchiera, e l’intera superficie è divisa in zone, tra cui due giardini all'italiana. Abbraccia una superficie di circa diciotto ettari, ed è inserito nei giardini più belli d’Italia. È caratterizzato da un susseguirsi di frutteti, boschi di magnolie, di cedri, di spazi ricavati tra la vegetazione ove trovano posto gruppi scultorei. È il caso, ad esempio, del cosiddetto emiciclo della Bellezza, che ospita tra gli altri il gruppo scultoreo delle Tre Grazie opera dello scultore Donatello Gabrieli.

Fig. 12: l'Emiciclo della bellezza

Ma non è un caso isolato: l’intera superficie arborea è decorata da statue, busti di marmo, complessi architettonici etc, che sbucano dalla vegetazione quasi come se l’abitassero. È il luogo del castello ove maggiormente si avverte un senso di estraniamento della realtà, come nel caso del giardino di Diana e la cerva, dominato dal gruppo scultoreo corrispondente.

Fig. 13: Diana e la cerva

Uno dei fiori all'occhiello del parco, che ha reso Villa Ayala famosa nel mondo, è il cosiddetto “Teatrino di verzura”: un anfiteatro naturale di quasi mille posti ottenuto da siepi di bosso accuratamente sovrapposte, da cui emergono dei busti in marmo che sembrano spettatori di un’immaginaria rappresentazione. La cosa più straniante è che solo alcuni dei busti guardano in direzione del proscenio, mentre il resto guarda altrove. Sembra quasi una cristallizzazione di uno spettacolo vero, con gli spettatori che assistono attenti e altri che si distraggono. Quando il Teatrino è utilizzato per gli spettacoli si possono vedere gli spettatori in carne ed ossa seduti accanto a questi busti, e l’insieme è altamente suggestivo.

Fig. 14: il teatrino di verzura

Tutto il resto del parco è ornato da statue a carattere mitologico e porticati eleganti, mentre al di sotto si può osservare un imponente sistema di grotte e canali, probabilmente scavato per incanalare le acque.

Fig. 15: le grotte

Anche le grotte sono ornate di statue, come la cosiddetta “Caverna dei mostri” che ospita statue di aspetto orribile.

Attualmente la Villa, che appartiene al priorato di Malta, è parzialmente visitabile.

 

Sitografia

http://www.villadayala.altervista.org/index.php

https://www.livesalerno.com/it/giardini-villa-dayala

https://www.comune.valva.sa.it/villa-dayala-valva/

https://salerno.occhionotizie.it/villa-ayala-piccola-versailles-valle-sele/

http://ambientesa.beniculturali.it/BAP/?q=luoghi&luogo=&provincia=&comune=&src=&ID=46

http://www.didatour.it/gita-scolastica/villa-dayala-valva/


IL MONUMENTO FUNEBRE DI ISABELLA D'ARAGONA

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona

Il monumento funebre di Isabella D’Aragona si trova nel transetto della Cattedrale di Cosenza. Il monumento era scomparso in seguito ai rimaneggiamenti subiti della Cattedrale e fu scoperto solo nel 1891 durante i lavori di restauro. Si ritiene che venne realizzato poco dopo la morte della Regina da uno scultore francese, forse facente parte del seguito dei reali, attivo nell'ottavo decennio del Duecento. L’opera è giunta frammentaria, priva di iscrizioni che doveva accompagnarla, delle probabili dorature, delle cromie e della cassa in cui furono conservate le spoglie della regina. Il monumento è uno degli esempi più significativi di scultura monumentale dell’Ile-de-France conservato nell'Italia meridionale.

Fig. 1 - Monumento funebre di Isabella d’Aragona.

Isabella D’Aragona nacque nel 1248, figlia di Giacomo I il conquistatore re di D’Aragona, la più piccola di otto fratelli. Della sua infanzia e adolescenza si conosce poco, però si sa che fu "utilizzata" per i giochi di potere di suo padre che voleva rafforzare sia la sua posizione in Europa e presso i francesi, sia combattere gli infedeli, cioè i musulmani. E infatti con il trattato di Corbeil Giacomo concesse sua figlia al figlio del re di Francia, Felipe, e questo segnò la pace tra i due grandi regni. Nel 1262 i due si sposarono a Clermont-en-Auvergne e l’anno seguente ebbero quattro figli. Durante questo periodo il re di Francia, che era molto cristiano, sarà il futuro San Luigi dei francesi, decise di fare una crociata per liberare Gerusalemme. Nel luglio 1270 Isabella accompagnò il marito Filippo III l’Ardito a Tunisi per l’Ottava Crociata, successivamente ad agosto, Isabella divenne regina di Francia per la morte del suocero Luigi IX di Francia. Al ritorno in Francia l’11 gennaio 1271, mentre attraversava il fiume Savuto nei pressi di Martirano, in Calabria, incinta di sei mesi del quinto figlio, cadde da cavallo. Dopo numerosi giorni di agonia morì il 28 gennaio. Filippo III fece seppellire nella Cattedrale di Cosenza il corpo della regina insieme al figlio nato morto, mentre le ossa furono trasportate nella Basilica di Saint-Denis in Francia. Nell’archivio della Cattedrale di Cosenza c’è una piccola pergamena che spesso viene confusa con il testamento di Isabella. Essa è in realtà, un atto di compra-vendita della vendita di un terreno. Inoltre in questo testo è citato come il re di Francia abbia donato del denaro affinché venisse celebrata una messa in suffragio della defunta moglie. Il vero testamento fu scritto durante la sua agonia tra il 19 e 28 gennaio. In esso Isabella appare come la regina dei Francesi, dice di offrire del denaro per costruire la cappella dove doveva riposare, lascia del denaro alla badante dei suoi figli, lascia i suoi soldi e i suoi vestiti ai poveri, agli studenti e agli infermi.

Il monumento si presenta come una trifora cieca a trafori di trilobi e quadrilobi in un disegno e un dettaglio di esecuzione di tardo rayonnant, simile a quello dei finestroni delle cappelle che venivano costruite lungo i fianchi di Notre-Dame a Parigi. I tre altorilievi a grandezza poco meno naturale assumono aspetto di statue entro nicchie e mostrano lo stile grazioso e sofisticato proprio di tanta scultura, anche funeraria, prodotta in ambito della corte parigina. Al centro del monumento troviamo la Madonna con il bambino, dal panneggio sinuoso e che accenna a un delicato incurvarsi del corpo, tipico della statuaria francese del duecento e degli avori (fig.2). Ai lati della Madonna, in atto di adorazione, compaiono la regina (fig.3) a sinistra e sulla destra Filippo L’Ardito (fig.4).

Lo studioso Stefano Bottari ha notato che il volto della regina è raffigurato con occhi chiusi, sembra calcato su una maschera mortuaria, Mentre i lineamenti del re sono simili a quelli che si vedono nella figura giacente del suo monumento di Saint-Denis, avviato per iniziativa da Filippo il Bello nel 1298 e sistemato nel 1307. Nel caso della figura del re il confronto con la tomba di Saint-Denis è interessante perché, oltre ai tratti fisionomici e alle peculiarità del costume, che appaiono molto simili, si riscontrano analogie anche sul piano stilistico. Questo suggerisce l’origine e l’educazione francese dell’ignoto scultore autore della tomba cosentina, avvenuta appunto tra i cantieri di Saint-Denis e quelli di Notre-Dame. La presenza a Cosenza della tomba di questa regina deve considerarsi del tutto causale per l’imprevedibilità della morte avvenuta durante la caduta da cavallo.

Fig. 2 - Monumento funebre, Madonna con il bambino al centro, ai lati Isabella d’Aragona e Filippo L’Ardito.

 

Bibliografia e Sitografia

Arnone N., "Le tombe regie del Duomo si Cosenza", Archivio storico per le provincie napoletane, 18, 1893, pp. 380-408.

Bottari S., "Il monumento alla Regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Arte antica e moderna, 4, 1958, pp. 399-344.

De Castris 1986, Arte di corte nella Napoli angioina, Napoli 1986,p. 161.

Foderaro G., "Il sepolcro della regina Isabella d’Aragona nel Duomo di Cosenza", Bollettino calabrese di cultura e bibliografia, 7, 1990, pp. 292-306.

Martelli G., "Il monumento funerario della regina Isabella nella Cattedrale di Cosenza", Calabria nobilissima, 4, 1950, pp. 9-21.

Romanini, Angiola Maria. Peroni Adriano, Arte Medievale, interpretazioni storiografiche, Spoleto 2005, pp. 403.

 

Sitografia

http://www.cattedraledicosenza.it/


L'ARTE A BOLOGNA NEL XV SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

Il contesto storico nella Bologna del XV secolo

Bologna nel 1401 divenne la città dei Bentivoglio, famiglia toscana che, alleata con i Visconti di Milano, cacciò il Legato Pontificio dalla città emiliana. Giovanni I Bentivoglio fu il primo della casata a governare sulla città, ma il prestigio e la rinomanza politica arrivarono sotto Giovanni II, cugino del precedente signore di Bologna, Sante Bentivoglio. L’arte pittorica a Bologna durante il XV secolo fu rappresentata per lo più dai pittori ferraresi come Ercole de Roberti e Francesco del Cossa, trovando poi sviluppi verso la fine del secolo con Francesco Francia e Lorenzo Costa. Dal 1506 i Bentivoglio vennero esiliati dal papa Giulio II, portando la città solo il potere papale. Fu in questo contesto che si sviluppò il Rinascimento bolognese del XV secolo.

Francesco del Cossa

Come già sappiamo Francesco del Cossa fu un pittore appartenente all'Officina ferrarese del XV secolo. Dopo le scene affrescate nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia si trasferì stabilmente a Bologna attorno al 1470 dove fin da subito ebbe un’intensa attività, caratterizzata da commissioni di grande prestigio. La prima opera bolognese del pittore avvenne lo stesso anno del suo arrivo e fu la Pala dell’Osservanza (fig. 1) in San Paolo in Monte; due anni dopo per Giovanni II Bentivoglio ridipinse la Madonna del Baraccano (fig. 2) un affresco votivo di grande significato simbolico. Tra il 1472 e 73 assieme ad Ercole de Roberti portò a compimento il Polittico Griffoni (fig. 3) commissionato da Floriano Griffoni mentre nel 1474 portò a termine la Pala dei Mercanti (fig. 4) commissionata da Alberto de Cattanei e Domenico degli Amorini, dove possiamo notare l’attenuamento dello stile bizzarro e tagliente tipico della pittura ferrarese a vantaggio di una maggiore monumentalità delle figure, portando nel panorama bolognese le novità pittoriche rinascimentali. Prima della morte avvenuta nel 1478 per la peste, del Cossa decorò le volte della Cappella Garganelli dentro la Cattedrale di San Pietro, portata poi a termine da Ercole de Roberti.

 

Opere Francesco del Cossa

 

Ercole de Roberti

Anch'egli pittore dell’Officina ferrarese seguì Francesco del Cossa a Bologna ma a differenza di quest’ultimo lui tornò a Ferrara nel 1479. A Bologna il pittore lavorerà per lo più al fianco di Francesco del Cossa come nel caso dei Santi sui pilastrini e la Pradella con le storie di San Vincenzo Ferrer (fig. 5) del Polittico Griffoni del 1472-73. In quest’ultima opera notiamo come il suo stile si sia evoluto, soprattutto nelle architetture organizzate razionalmente. Nel 1475 de Roberti compì un ritratto di profilo per Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza, chiamato Dittico Bentivoglio (fig. 6) Questa tipologia di ritratto dominò nelle corti italiane per quasi tutto il XV secolo (si rifaceva all’ideale umanistico dei ritratti dei Vir Illustris, derivate dalle effigi degli imperatori nella monetizzazione romana). Prima del ritorno a Ferrara egli concluse gli affreschi della Cappella Garganelli  (fig. 7) iniziata sempre con del Cossa, che ebbe un forte impatto sulla scuola locale e sui visitatori che la videro tra cui Niccolò dell’Arca e Michelangelo. Purtroppo degli affreschi della Cappella rimane un solo frammento raffigurante la Maddalena Piangente.

 

Opere Ercole de Roberti

 

Lorenzo Costa

Altro esponente del Rinascimento bolognese del XV secolo fu Lorenzo Costa detto il Vecchio; nacque a Ferrara nel 1460 da Giovanni Battista Costa e Bartolomea. I primi passi in pittura furono condizionati quasi sicuramente dal padre, anche se successivamente come modello stilistico prenderà quello di Cosmé Tura. Una delle sue prime opere giovanili fu il San Sebastiano8 del 1482, inizialmente attributo al Tura ma successivamente, dopo la trascrizione in latino dei caratteri ebraici sullo scudo in basso a sinistra, si è riusciti a dedurre che l’opera era del Costa (firma del pittore a caratteri ebraici).

Nel 1483 Lorenzo Costa e tutta la sua famiglia si trasferirono a Bologna per sfuggire alla peste che stava affliggendo Ferrara e per la guerra contro Venezia. Già in quell’anno lavorava per i Bentivoglio, signori di Bologna e nella primavera del 1475 , venne nominato “pictor” in un atto notarile, questo ad indicare che all'età di 25 anni probabilmente lavorava già in proprio. Col tempo a Bologna strinse amicizia con Francesco Francia, altro illustre pittore bolognese del XV secolo. L’anno seguente Giovanni II Bentivoglio gli commissionò di dipingere la cappella di famiglia nella Chiesa di San Giacomo Maggiore, portando a termine la Vergine alla presenza della famiglia Bentivoglio9 nel 1488, completandola due anni più tardi con i due Trionfi10a,b (Trionfo della Fama e Trionfo della Morte). Nel biennio 90-92 del 400 il pittore oltre ai trionfi già citati fece il ritratto di Giovanni II Bentivoglio11 e la Pala Rossi12, ultima sua tavola eseguita in San Petronio. In quest’ultima opera vi è una svolta fondamentale nel suo percorso artistico che lo portò a distaccarsi dalle influenze di Tura e del Cossa, rimandando al canone classico dell’arte del Bellini, del Perugino e del Francia, senza però rinunciare al tocco leggero di geniale bizzarria padana tipicamente costesca. Verso la fine del secolo operò in San Giovanni in Monte per la realizzazione della Pala Ghedini13. All'inizio del secolo ebbe un’attività molto intensa: per citarne alcune il pittore realizzò opere come l’Incoronazione della Vergine14 (1501), San Petronio fra i Santi Domenico e Francesco15 (1502) e lo Sposalizio della Vergine16 (1505).

Nel 1506 i Bentivoglio vennero esiliati a Ferrara da Papa Giulio II, ma il Costa non li seguì, dirigendosi a Mantova dove lavorerà per Isabella d’Este e vivrà fino alla sua morte avvenuta nel 1535.

 

Opere Lorenzo Costa

 

Francesco Francia

Francesco Raibolini, detto il Francia, nasce a Zola Predosa tra il 1447-49. Prima di dedicarsi alla pittura si dedicò all’arte orafa, facendosi riconoscere per le “paci” in argento niellato. Nell'età giovanile ebbe modo di viaggiare molto (Ferrara, Romagna, Marche, Firenze, Perugia, Mantova, Padova, Venezia) entrando in contatto con Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, il Perugino, Antonello da Messina e le opere fiamminghe. Queste ultime costruiranno un tratto stilistico assai rilevante nella sua intera produzione. L’enorme patrimonio di conoscenze e di eredità stilistiche le troviamo nelle opere degli anni 80 e 90 del 400 come la Sacra Famiglia Bianchini17, la Crocifissione Bianchini18 del 1485, le Pale per la famiglia Felicini19, Malanzuoli20, il ritratto di Violante Bentivoglio del 1490 e quello di Bartolomeo Bianchini detto Codro21 del 1495. Altra opera realizzata lo stesso anno fu la Pala per la famiglia Scappi22 presso la Chiesa dell’Annunziata, a testimoniare come il pittore ricevette molte richieste dalle famiglie dell’aristocrazia bolognese. Alle fine del 1400 Anton Galeazzo Bentivoglio figlio di Giovanni II, chiese al Francia di realizzare per la Chiesa della Misericordia una Pala23 da inserire nella loro cappella presso la Chiesa della Misericordia. Con il nuovo secolo il pittore portò a termine alcuni affreschi24a,b delle storie dei Santi Cecilia e Valeriano presso l’Oratorio di Santa Cecilia, oltre alla Madonna del Terremoto25 del 1505 (omaggio alla vergine per aver preservato la città dalle peggiori conseguenze del recente terremo).

Con la cacciata dei Bentivoglio e l’avvento di Giulio II, il pittore dal 1508 fu responsabile dei conii, ricevendo importanti commissioni da parte di famiglie prima emarginate come i Gozzadini, per i quali realizzò la Pradella della natività e passione di Cristo, chiamata Visione di Sant’Agostino26.

Nell'ultimo decennio di vita il pittore fu in grado di rispondere più liberamente alle commissioni provenienti da signorie, città forestiere e committenti ecclesiastici come Guidobaldo di Montefeltro, Francesco Maria della Rovere e Isabella d’Este, dando maggiormente lustro al Rinascimento bolognese del XV secolo.

Il pittore morirà a Bologna nel 1517.

 

Opere Francesco Francia

 

 

 

Bibliografia

Emilio Negro, Nicosetta Roio - Lorenzo Costa 1460-1535, Artioli, 2001.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/raibolini-francesco-detto-il-francia_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-del-cossa_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/ercole-roberti_%28Dizionario-Biografico%29/