IL BORGO MEDIOEVALE DI CANALE DI TENNO

A cura di Alessia Zeni

Un borgo nel Trentino occidentale

Sulle colline che guardano il Lago di Garda si innalza la piccola frazione di Canale di Tenno, borgo medievale che sorge a 600 metri di altezza. Il borgo è iscritto nell'elenco dei Borghi più belli d’Italia e per raggiungerlo basta percorrere in macchina la strada che dal Garda porta a Ville del Monte nel Comune trentino di Tenno. Le Ville del Monte sono costituite da quattro frazioni, Sant’Antonio, Pastoedo, Canale e Calvola, borghi di piccole dimensioni che nel secolo scorso hanno risentito in maniera massiccia dell’emigrazione verso le Americhe e la Germania. Negli ultimi decenni le cose sono mutate grazie ad un forte rilancio turistico alimentato dai vicini Laghi di Tenno e del Garda e dall'interesse storico-artistico e folkloristico delle quattro frazioni.

La frazione che ha avuto maggiore risonanza a livello turistico per il suo interesse storico-artistico e culturale è l’abitato di Canale di Tenno. La piazzetta è il cuore pulsante di Canale che a partire dagli anni Sessanta ha ripreso a vivere grazie alla bellezza del borgo che attira oggi numerosi artisti e visitatori. La bellezza del borgo è data dal suo impianto urbano irregolare e dalle numerose stradine che dal centro si articolano in portici e androni. Ai margini delle stradine si affacciano rustici caseggiati, addossati gli uni agli altri, con portali in pietra architravati e ballatoi in legno. Gli edifici si sviluppano su diversi livelli presentando più accessi a quote diverse. In linea di massima il piano terra assolveva la funzione di stalla o deposito, i due piani superiori a scopo abitativo, mentre il sottotetto fungeva da fienile e deposito dei prodotti coltivati nella campagna circostante.

La bellezza della borgata di Canale di Tenno non si limita al suo antico impianto, ma si estende a particolari strutture e monumenti storici che troviamo nella borgata. La Cà dei Pomati, nel centro del Borgo è la sede della storica manifestazione “Rustico Medioevo”, porta incisa sull'arco della porta di ingresso la data 1860 e il suo soprannome, "Pomati", lo deve alla famiglia che ha abitato e fondato questa casa. Un altro edificio di rilevanza storica è stato adibito a Museo degli attrezzi agricoli, testimonianza degli attrezzi agricoli raccolti un tempo nelle case di Canale di Tenno. Sempre nella piazzetta campeggia la vecchia Edicola di Sant'Antonio da Padova; in una stradina di accesso alla piazza troviamo una raffigurazione di Sant'Antonio abate per la cura degli animali e un piccolo rilievo con una Madonna e il Bambino recante la data 1776.

Il motore della rinascita di Canale lo si deve però ad una delle più importanti strutture del borgo, la “Casa degli Artisti”, una casa-museo diventata con il passare del tempo il fulcro delle attività culturali e artistiche dell’intero tennese. E’ dedicata a Giacomo Vittone, un pittore di origine piemontese che a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso diede molto allo sviluppo culturale del Garda. Giacomo Vittone firmava i suoi quadri con il nome di “Pictor Dominicus ovvero “Pittore della domenica”, in quanto la domenica percorreva il sentiero che da Riva del Garda saliva a Ville del Monte per dipingere gli scorci di questi antichi borghi. Caricava il suo “studio di pittura” in spalla e sulle ruote di una bicicletta si immergeva nella natura e nella pittura dei borghi di Canale e Calvola. Giacomo Vittone nacque a Torino il 3 dicembre 1898 e fin da piccolo si avvicinò alla pittura; venne chiamato alle armi nel 1917 e concluso il servizio militare trovò impieghi saltuari di breve durata. La svolta lavorativa fu grazie ai genitori che riuscirono a farlo assumere presso la Banca d’Italia. Il lavoro di impiegato bancario gli permise sia di mantenersi, sia di avere maggior tempo libero per dedicarsi alla pittura. Per lavoro venne trasferito a Riva del Garda, in Trentino, dove trovò l’ambiente ideale per intensificare la sua attività di pittore e di stringere ottimi legami con diversi pittori locali. A Riva del Garda vi rimase dal 1926 al 1962, quando si trasferì a Roma, dalla figlia, per questioni di lavoro. E’ allora che alcuni amici pittori di Vittone comperarono una casa dal Comune di Tenno, un rudere alla porte di Canale, con l’intenzione di regalarlo al pittore affinché potesse tornare a dipingere nei suoi amati luoghi del Trentino occidentale. L’artista rifiutò l’offerta proponendo al Comune di Tenno il progetto di adibire la casa a “chi vive di pennello e tavolazza”. Fu così che nel 1967 nacque a Canale di Tenno, la “Casa degli Artisti”, con lo scopo di ospitare gli artisti e le loro opere. Ancora oggi, nella stagione estiva, la “Casa” ospita artisti di varie nazionalità che in cambio del soggiorno donano una della loro opere alla casa-museo. Nell'ottica di Vittone gli artisti che soggiornano a Canale di Tenno hanno come costante fonte di ispirazione la natura e il mondo rustico di Canale e dei borghi circostanti. Giacomo Vittone morì nel 1995 all'età di 97 anni, a Ostia, dove viveva con la figlia, e della sua carriera artistica oggi attrae il fatto che abbia sempre donato i suoi quadri, non guadagnando in vita neanche un soldo dalle sue opere, segno di una passione che andava al di là di qualsiasi motivazione economica.

Per ultimo, ma non per questo meno importante, è bene ricordare il “Monumento alla Vicinìa”, opera in bronzo, sistemata alle porte di Canale di Tenno a ricordo delle antiche origini di Canale di Tenno. Il monumento è dello scultore Livio Tasin e ritrae quattro figure umane a grandezza naturale intente a discutere i problemi del villaggio con i “Vicini”. I “Vicini” non sono altro che i rappresentanti delle “Vicinìe”, ancora oggi attive a Ville del Monte e rara testimonianza in Trentino della popolare gestione dei beni collettivi lasciati in eredità alla comunità. L’origine della “Vicinìa Granda” di Ville del Monte non è documentata, ma le ipotesi formulate fino ad oggi fanno risalire la “Vicinìa Granda” alle epidemie di peste nel medioevo. Queste epidemie furono talmente devastanti da lasciare numerosi terreni senza proprietari, fu per questo motivo che venne fondata la “Vicinìa Granda” di Ville del Monte come lascito alla comunità dei terreni dei defunti della peste. Oggi i ricavi della “Vicinìa” sono destinati al mantenimento del patrimonio comune, allo sviluppo culturale dei borghi di Ville del Monte e a mantenere le antiche tradizioni, come quella di distribuire pane e focacce a tutti i “Vicini” delle Ville, il Venerdì santo di ogni anno.

Fig. 8: Canale di Tenno, Monumento alla Vicinìa di Livio Tasin

Questa in breve è la storia di Canale di Tenno e delle frazioni circostanti, raccontata attraverso il suo patrimonio storico-artistico e le sue antiche strutture. Un patrimonio che tutti gli anni viene valorizzato da due importanti manifestazioni folcloristiche, ovvero il “Rustico medioevo” e il mercatino natalizio animato all'interno dei portici e degli androni di Canale di Tenno, aperti per l’occasione ai visitatori della manifestazione.

Fig. 9: Canale di Tenno addobbata per il mercatino natalizio

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

Scuola media Ciro Andreatta e Associazione Amici della storia di Pergine Valsugana, Sulle tracce della storia: Canale di Tenno, Trento, Temi, 1984

Ville del Monte: una cultura, una società, una storia, Tenno (TN), Comitato Ville del Monte, 1984

Graziano Riccadonna, I settant'anni del Comune di Tenno. 1929-1999, Tenno (TN), Comune di Tenno, 1999

Cazzolli Jenny, Pivetti Franco, Colombo Vittorio, Casartisti: cinquant'anni di storia: 1967-2017, Riva del Garda (TN), Fondazione Giacomo Vittone, 2017

Grazioli Mauro, Tenno. Piccola guida del belsapere, Arco, Grafica 5, 2018

www.casartisti.it

www.gardatrentino.it


REMBRANDT A PALAZZO ARNONE A COSENZA

Recensione di Francesco Surfaro

La mostra "Rembrandt: i cicli grafici, le sue più belle incisioni"

Si è conclusa lo scorso 24 marzo a Cosenza la mostra monografica, unica in tutto il Meridione d'Italia, ospitata a Palazzo Arnone, dedicata al grande maestro dell'Età d'oro olandese Rembrandt Harmenszoon Van Rijn a 350 anni dalla morte. All'interno del percorso espositivo di "Rembrandt: i cicli grafici, le sue più belle incisioni", erano esposte 32 rare e importanti stampe realizzate dall'artista, fra le quali "L'Erudito nello studio", "l'Autoritatto con Saskia" e la preziosissima e famigerata "Stampa dei cento fiorini" (che deve il suo nome alla cifra, all'epoca esorbitante, per cui fu venduta). Ammirandole è stato possibile comprendere la maestria dell'artista nel coniugare le tecniche dell'acquaforte, della puntasecca e del bulino, realizzando straordinari effetti di plasticità e del diradamento dei mezzi toni, con cui l'incisione sembra sfidare, vincitrice, la pittura. Straordinaria inoltre la capacità del Van Rijn di riuscire a dare dignità ai soggetti di vita quotidiana, ai personaggi umili quanto ai ricchi (fortemente caratterizzati dal punto di vista psicologico), alle scene di genere, ai corpi raffigurati con brutale realismo.

Al visitatore era data la disponibilità di osservare i particolari delle opere mediante una lente di ingrandimento, per poterne meglio apprezzare i dettagli (dal momento che alcune di queste erano pressapoco delle dimensioni di un francobollo o poco più). La prima sezione esponeva ritratti e autoritratti, la seconda era dedicata ai cicli biblici tanto cari al Maestro di Leida, ed infine l'ultima ai mendicanti, un percorso ideale della formazione e della vita dell'artista, dalla gloria al declino.

Tra le incisioni a mio avviso più interessanti, vi è sicuramente "Il girello", che mostra dietro a due nudi maschili una scena dalla sorprendente umanità: una madre che tende le braccia al figlioletto, mentre quest'ultimo muove i suoi primi passi attraverso un girello.

Sempre all'interno dello spazio espositivo era collocata una fedele riproduzione dello studio di Rembrandt nel 1663, quando ormai era ridotto in miseria. In una camera attigua, appositamente oscurata, era possibile ammirare 6 grandi riproduzioni digitali retroilluminate di alcuni celebri dipinti di Rembrandt, concesse dalla Rembrandthuis di Amsterdam, fra cui spiccavano fra tutte "La Lezione di Anatomia del Dottor Tulp", e "La fidanzata ebrea". Il biglietto d'ingresso era di €5, non erano previste audio-guide, sostituite da ben fornite didascalie poste al lato delle varie incisioni. Il catalogo ufficiale della mostra era disponibile al prezzo di €10.


LA CROCIFISSIONE DEL BERGOGNONE

LA PALA DALTARE DI AMBROGIO DA FOSSANO DETTO IL BERGOGNONE

Citata dal priore Matteo Valerio in quella fucina di informazioni che sono le Memorie della Certosa di Pavia (“L’anno 1490 […] Mastro Ambrosio Fossano fece l’ancona del Crocefisso, scudi n. 125, pretio L. 500”), la pala d’altare che ancora oggi adorna la quarta cappella di destra della Certosa è considerata all'unanimità come “uno dei paradigmi dell’opera di Bergognone” (Mazzini, 1958) sottolineando, infatti, come in essa vi siano richiami che spaziano dalla pittura fiamminga (si veda un’altra sua piccola Crocifissione al Courtald Institute of Art),passando tra “ricordi lombardo-liguri dal Foppa a Donato de Bardi” (Ottino Della Chiesa 1960; Wittgens 1956), fino ad arrivare ad un nuovo interesse ed una particolare attenzione verso il pathos Giambelliniano e “il risentito padovanismo plastico dei Mantegazza e dei De Fondulis” (Baroni-Samek Ludovici 1952).

Fig. 1: la Crocifissione

La paternità della pala rimane confermata in tutti gli interventi che si sono susseguiti dal Seicento in poi; G. L. Calvi, nel 1685, descrivendo la Crocifissione si sofferma sul “colorito” specificando che “al cinericcio cui tendono alcuni de’ sui primi dipinti, qui il Fossano sostituisce una lucentezza e vaghezza mirabili di tinte”, e aggiunge che il pittore Agostino Comerio, che aveva pulito e restaurato tutte le pale della chiesa certosina negli anni 1825-26, “affermava di avervi levato tanta tinta bruna, quanto pareva impossibile vi fosse stata prodotta dal fumo delle candele”.

La crocifissione di Bergognone: analisi dell'opera

Dalla pulitura fatta qualche decennio fa in occasione della mostra monografica sull'artista (Pavia, 1998) sono emersi con maggiore chiarezza particolari interessanti, come la piccola scena a fianco del San Giovanni con il Cristo morto steso sul bianco sudario trasportato a braccia verso il sepolcro; l’albero davanti alla porta delle mura della città, all'inizio della via che conduce in “un luogo detto Golgota che vuol dire luogo del cranio” (Marco 15.22), è spoglio e stecchito, chiaro simbolo di morte; inoltre sono chiaramente leggibili le scritte le scritte sul bordo della Vergine e della Maddalena. Partendo dal basso e salendo sino al capo della Madonna è scritto, con lettere dorate: “MARIA VIRGO ET PIA DEI GENITRIX SALUTEM POSCE MISERIS AMEN; MULIER ECCE FILIUS” (Giovanni 19.26); “MEUS DOLOR […] TUE COSERVAM; IESUS SALVATOR SECULI REDE(NT)TORE SUBVENI NOBIS”. Nel manto della Maddalena, in basso: “MARIA OPT(IMAM) PARTEM ELEGIT QUE NON AUFERT … AB EA..DOM.. NOB..” (Luca 10.42).

Si potrebbero quindi usare parole magnificenti e discorsi mirabolanti per tentare una descrizione di questo capolavoro Bergognonesco ma nessuna sarà mai come quella nata dalla penna commossa di Carlo Magenta (1897); il volo pindarico dello storico milanese inizia dicendo che la crocifissione di Bergognone, “sebbene risenta di una tal quale durezza di stile”, essa “muove le più robuste fibre del cuore” e si sofferma ad analizzare “l’espressioni patetiche delle fisionomie, l’anatomia del Cristo, quello stesso teschio che vedasi ai piedi della croce circondato da vaghi fiorellini e che è di una verità scientifica rigorosa, il profondo rassegnato patema della Madre […] di Maria di Cleofe […] di Salome e della Maddalena che si abbraccia strettamente alla croce, mentre nel lato destro vi è san Giovanni, solo, muto e sublime nel dolore…”. Lo Zappa (1909) aggiunge che “la Vergine, volta di prospetto nello stesso verso e con l’identica inclinazione, e riflette nel suo volto soave, identico per fattezze a quello del Figlio, lo stesso pallore di morte”.

Fig. 2: particolare del Cristo

Nella Crocifissione, se la si osserva attentamente, non vi è ricerca prospettica (come invece è presente nelle altre due pale certosine pagate all'artista, secondo il Valerio, nello stesso anno): la scena si svolge su due piani, contrapposti e lontani: di fronte, il Cristo alto sulla croce, investito da una luce bianca, si immola per la salvezza degli uomini; ai suoi piedi la Madre e i fedelissimi, figure fortemente scultoree ed espressive, in cui vi è angoscia, ma anche accettazione: “fiat voluntas tua”, sembra ripetere Giovanni, solo nel suo dolore. Dietro infine, fa da sfondo un paesaggio ampio, sereno, vivo e vario, popolato di gente indaffarata e, sopra, il cielo terso e luminosissimo.

Calzano a pennello, per concludere, le parole di Stefania Buganza e già riprese nei precedenti articoli sul monastero certosino: “i volti terrei e solcati dalle lacrime, l’atmosfera tersa, i colori freddi e argentati delle vesti contribuiscono a creare un senso di profondo patetismo, che vuole e riesce a coinvolgere lo spettatore nella meditazione sulla Passione di Cristo”.


BEATO ANGELICO: LA VITA E LE OPERE

A cura di Giulia Pacini

Frà Giovanni da Fiesole, meglio noto come BEATO ANGELICO, nasce a Vicchio di Mugello, Firenze, tra il 1396 ed il 1400, e muore a Roma nel 1455. Viene considerato come una figura fondamentale nella pittura italiana del XV secolo, fra le più discusse e, forse, più incomprese.

La critica romantica lo vedeva come ultimo erede della tradizione giottesca e, quindi, antagonista di Masaccio. Da qui il passo è breve a considerarlo un “reazionario”

Eppure l’ Angelico, sotto l’apparente fedeltà alla tradizione pittorica religiosa, è un uomo nuovo. Comprende i problemi dell’umanità in terra, ma li risolve con la fede nella giustizia divina. La posizione del pittore, del tutto particolare rispetto a quella degli altri artisti del primo ‘400, non è dunque reazionaria: l’Angelico pone l’uomo al centro della sua attenzione, sa che l’uomo può giungere a Dio comprendendolo, con la ragione prospettica, il creato, ma sa anche che questa comprensione è voluta da Dio stesso: perciò, nelle sue pitture, il dramma non esplode mai e anche gli episodi, per gli altri più dolorosi, come le Crocifissioni ad esempio, vengono contemplati da lui con la serenità che gli proviene dalla sicurezza che tutto è finalizzato.

ANNUNCIAZIONE E ADORAZIONE DEI MAGI (1425): il tabernacolo con l’ Annunciazione e l’Adorazione dei Magi sembra appartenere alla prima maturità del pittore, attorno al 1425. Nella cuspide, il piano di fondo è costituito da un parametro riccamente ornato, come la decorazione del pavimento, che, se non fosse per la diversa direzione della fascia sottostante, sembrerebbe quasi verticale. La bidimensionalità e la ricchezza decorativa richiamano alla pittura medioevale, a certe raffinatezze cromatiche, forse più senesi che fiorentine. Le figure dei protagonisti, sebbene non trovino uno stabile appoggio nel terreno, hanno una loro consistenza volumetrica, una loro pensosa umanità. Nella sottostante Adorazione gli uomini si distribuiscono spazialmente, vivono, non coralmente, ma da persone, l’evento del quale sono attori.

 

Tabernacolo con l' Annunciazione e l' Adorazione dei Magi, 1425, Museo di San Marco, Firenze

GIUDIZIO UNIVERSALE (1425-1430): sicuramente successiva all'opera di cui sopra è il Giudizio universale, in cui il senso dello spazio appare più maturo. La stessa forma trilobata della cornice superiore, di origine gotica, serve all’Angelico per creare una profondità semicircolare nel disporsi dei Santi, del Battista, della Vergine, attorno a Cristo giudice, contenuto dentro la mandorla formata da cherubini e circondata da angeli. Questa visione contemporanea di terra e cielo, e soprattutto questa espansione semicircolare della corte divina, avranno largo seguito nei decenni successivi: dal Ghirlandaio a Frà Bartolomeo, a Raffaello. Mentre a sinistra gli eletti si avviano verso la “città di Dio”, a destra, nell’inferno, chiuso da rocce simboliche e diviso in grotte, i dannati sono puniti secondo una iconografia medioevale comune in Italia ed in Francia, di origine popolare, con scopi didattici. L’opera mostra l’alta religiosità del pittore e la sua volontà educatrice.

Giudizio Universale, 1425 - 1430, Museo di San Marco, Firenze

VISITAZIONE (1433-1434): la scena fa parte della predella di una pala con l’ Annunciazione, dipinta per la chiesa di San Domenico a Cortona. Tra le molte tavole dedicate a questo tema dal Beato Angelico, questa è una delle più belle per lo smagliante fulgore dei colori che , accostandosi reciprocamente – in particolare i primari: rosso, giallo e blu-, generano un’intensa luminosità. Sulla destra si svolge il fatto sacro,mentre, sulla sinistra, una donna giunge salendo faticosamente, sullo sfondo di un paesaggio reale e riconoscibile: il Trasimeno con Castiglione del Lago, avvolti, per la distanza, in una leggera nebbiolina, come spesso appare nelle campagne umbre.

Visitazione, 1433 - 1434, Museo Diocesano di Cortona, Arezzo

TABERNACOLO DEI LINAIOLI (1433): IL Tabernacolo è definito così perché commissionato dall'Arte dei Linaioli, una delle potenti associazioni mercantili fiorentine che hanno avuto un peso non indifferente nella commissione di opere d’arte. Nell'opera si nota una definitiva adesione del Beato Angelico al Rinascimento, per la monumentalità della Madonna, le gambe della quale, con il manto, formano una solida base di appoggio, per il Bambino benedicente. Tuttavia, qualche concessione al passato è ancora visibile: dall'impostazione che deriva dalle Maestà due- trecentesche, a certa fluidità lineare gotica.

Tabernacolo dei Linaioli, 1433, Museo di San Marco, Firenze

L’IMPOSIZIONE DEL NOME AL BATTISTA (1435): in quest’opera possiamo notare come Zaccaria sia costretto a scrivere su una tavoletta il nome che desidera dare al figlio neonato, perché secondo il racconto del vangelo di Luca egli aveva perso l’uso della parola per punizione divina, non avendo creduto all'angelo che gli annunciava che lui e la moglie Elisabetta, ormai vecchi, avrebbero avuto un figlio. C’è qui una comprensione profonda dell’ umanesimo fiorentino, non soltanto per l’ “esattezza ed il rigore” ma, ancor più, per aver inteso il significato dello spazio delimitato, chiuso, ove si svolge la vita dell’uomo, e, al tempo stesso, aperto, sopra il muro di cinta, verso il mondo esterno.

L' imposizione del nome del Battista, 1435, Museo di San Marco, Firenze

Nel gennaio del 1436 il Papa Eugenio IV cedette ai domenicani di Fiesole l’antico convento silvestrino di San Marco in Firenze. Tra il 1437 ed il 1452, su commissione di Cosimo de Medici, Michelozzo lo ricostruì interamente. A Partire dallo stesso momento Beato Angelico si trasferì da Fiesole nella nuova casa domenicana, rivestendola di affreschi via via che procedevano i lavori di architettura. È un'opera monumentale: per la quantità delle pitture, per la complessità tematica, e soprattutto, per il livello qualitativo. L’intento predicatorio domenicano, il fine popolare qui è scomparso: l’opera infatti non si rivolge alla massa indifferenziata dei fedeli in chiesa, ma ai soli confratelli: il richiamo alla meditazione sui fatti sacri.

ANNUNCIAZIONE (1438 - 1440) : la scena si svolge sotto un portico rinascimentale. L’ambiente è completamente spoglio e privo di ogni decorazione superflua, di ogni arredamento, per accentuare l’essenzialità dello spazio. Il Santo domenicano che compare a sinistra non turba l’intimità del colloquio sacro fra l’Angelo, perché posto al di fuori delle linee prospettiche fondamentali e quindi dallo spazio in cui avviene il miracolo.

Annunciazione, 1438 - 1440, cella 3, Museo di San Marco, Firenze

CROCIFISSIONE (1441 - 1442): la Crocifissione viene trasformata, da descrizione del fatto drammatico, in meditazione pacata e profonda. L’affresco si trova nella “Sala del Capitolo” del Convento di San Marco ed occupa la parete di fronte all'ingresso. Ai piedi delle tre croci vi sono non soltanto le figure tradizionalmente unite nell'iconografia del tema in oggetto, ma anche i Santi di varie epoche per indicare la continuità secolare del cristianesimo e, soprattutto, i fondatori di vari ordini religiosi, fra cui quello dei domenicani stessi.  Al centro vi è Cristo crocifisso in mezzo ai due ladroni. In basso, da sinistra, i Santi Damiano, Cosma, Lorenzo, Marco, Giovanni Battista, la Vergine con Giovanni Evangelista e le pie donne; a destra, inginocchiati, i Santi Domenico, Gerolamo, Francesco, Bernardo, Romualdo, Tommaso. Nella cornice lunettata, al centro, sopra il Crocifisso, vi trova spazio un pellicano, simbolo della redenzione, ai lati i busti di nove patriarchi e della sibilla Eritrea. Nella cornice sottostante troviamo l’albero genealogico dell’ ordine domenicano con sedici Santi e Beati che affiancano il fondatore.

Crocifissione, 1441 - 1442, Museo di San Marco, sala Capitolare, Firenze

Attorno al 1445 Beato Angelico si reca a Roma. Nell'estate del 1447 inizia i lavori della Cappella San Brizio nel Duomo di Orvieto, che saranno poi proseguiti e compiuti da Luca Signorelli. Verso il 1450 rientra a Firenze, dove viene nominato Priore del convento di San Domenico di Fiesole. Tra il 1453 ed il 1454 torna a Roma, dove muore nel 1455.

A Roma affresca con aiuti, tra i quali Benozzo Gozzoli, la Cappella Niccolina per volontà del nuovo pontefice Niccolò V.

STORIE DI SANTO STEFANO E SAN LORENZO: per i protomartiri, l’angelico assume un tono maestoso, romano, per esprimere il significato storico della chiesa e della sua saldezza. Inserisce i personaggi in scenari complessi, davanti a colonnati in prospettiva, con le figure spesso in primo piano. La Cappella affrescata dall’ Angelico, prende il nome dal nuovo pontefice, Niccolò V, il Papa umanista a cui si deve il superamento delle polemiche tra i più rigorosi “osservanti” dell’antica fede ed i sostenitori delle nuove idee, con l’affermazione di un nuovo “umanesimo cristiano”, il cui perno è la riscoperta della “ romanità”.

Elemosina di San Lorenzo, 1447, Vaticano, Cappella Niccolina, Roma

Il Beato Angelico è considerato più un pittore rinascimentale che medioevale: la sua concezione della luce ha avuto un ruolo fondamentale non solo per i suoi immediati collaboratori e seguaci: senza di lui non sarebbero mai emersi Domenico Veneziano e Piero della Francesca.


BASILICA DI SAN FRANCESCO DA PAOLA

A cura di Felicia Villella

Il comune di Paola in provincia di Cosenza vanta l’essere luogo di nascita del patrono della Calabria intera, San Francesco da Paola appunto. La cittadina oltre a custodire la casa storica di nascita del santo, risalente al 1300, è il luogo in cui sorge la basilica a lui dedicata. Precedentemente Santuario e poi elevata al rango di basilica minore nel 1921 da papa Benedetto XV, l'edificio rappresenta un esempio di monumento architettonico religioso dal gusto barocco e gotico, di fattura tardo rinascimentale. La costruzione risale al XVI secolo e vi si accede dopo l'attraversamento di un ampio piazzale lambito da un lato da un torrente su cui si affaccia parte di un edificio religioso adiacente alla chiesa e dall'altro da un palazzo che accompagna lo sguardo direttamente verso la facciata del monumento principale. La basilica ad oggi è definita antica, per differenziarla dalla nuova basilica postmoderna inaugurata in occasione del Giubileo del 2000.

Prima di accedere direttamente ai locali liturgici si attraversa una imponente facciata a doppio ordine sormontato da una nicchia in cui è collocata la statua del santo ritratto nella sua tradizionale posa mentre regge il bastone e porta la mano sinistra al petto.  Il primo livello della facciata è tripartito da tre ingressi, di cui il centrale più ampio, separati da colonne in stile dorico; il secondo livello ripropone la stessa tripartizione, ma cambia l'ordine delle colonne, in stile corinzio ed in più presenta una balconata in ferro battuto a mo' di loggetta. Superata l’imponente facciata, si sosta in un primo androne che prepara al silenzio dei devoti prima di accedere al secondo spazio che permette di scegliere tra l’ingresso a destra nella chiesa o verso il chiostro, oltre che ad una piccola cappella dedicata a San Nicola e ad un'altra stanza di preghiera. La chiesa è composta da un’unica aula principale non particolarmente adornata costituita da una navata centrale su cui capeggia l’organo e un crocifisso ligneo che scende in prossimità della zona dedicata all'altare, lateralmente invece si accede ad una seconda navata sulla destra scandita da quattro cappelle recentemente restaurate fino al raggiungimento della cappella barocca dedicata alle reliquie del santo in corrispondenza della zona absidale. Qui sono conservati gli abiti e i frammenti di alcune sue ossa, il resto del corpo riposa in Francia. 

Particolarmente interessante è anche il chiostro adiacente l'edificio che preserva un roseto protetto da una serie di vetrate che danno su una sequenza di affreschi fortemente danneggiati che raccontano la vita di San Francesco da Paola, dalla nascita alla sua morte, includendo numerosi miracoli attribuiti dalla tradizione. Fiancheggia il chiostro il romitorio, si tratta di una serie di angusti spazi sotterranei che hanno costituito il primo cenobio in cui si riunivano il santo e il suo ordine. Superato il percorso che guida lungo il romitorio si giunge al ponte detto del diavolo legato ad un episodio della vita del santo, oltre il quale si arriva alla fonte di acqua, il cui sgorgare è anch’esso attribuito ad un episodio miracoloso, incorniciata da una delicata struttura che ricorda molto quello dei tempietti di stile romano composto da un pavimento in travertino su cui poggiano quattro colonne doriche che sorreggono una copertura semisferica su cui culmina una croce metallica. Proseguendo sono visibili i resti dell'antico acquedotto del convento su cui poggia la moderna basilica francescana, qui è conservata una bomba inesplosa risalente alla Seconda Guerra Mondiale, fino al raggiungimento della fornace che conclude il percorso, un ambiente circolare al quale si accede attraverso una consumata scalinata.

Il luogo, oltre ad essere una importante meta di pellegrinaggio, rappresenta un piccolo scrigno di storia e arte del territorio calabrese, una meta che non deve mancare negli itinerari turistici della regione.

 


SANTA MARIA DEL PATIR

A cura di Antonio Marchianò

L'abbazia di Santa Maria del Patire, a Rossano, fu fondata intorno al 1095 dal monaco e sacerdote Bartolomeo di Simeri, grazie all'aiuto del conte Ruggero e dell'ammiraglio normanno Cristodulo. Venne dedicata a "Santa Maria Nuova Odigitria", anche se è conosciuta con il nome di "Santa Maria del Patìr", o semplicemente "Patire" (dal greco Patèr = padre), attribuzione data come segno di devozione al padre fondatore. Le vicende della formazione della chiesa sono narrate nel Bios di S. Bartolomeo di Simeri. Nel Bios racconta che il santo siciliano viveva in una laura nei pressi di Rossano, dove ben presto venne raggiunto da discepoli desiderosi di seguire il suo esempio. La Vergine, apparsagli in sogno, ispirò al santo il desiderio di fondare in quel luogo un monastero a Lei dedicato. Per avere i mezzi e i fondi necessari, Bartolomeo si rivolse ad un personaggio eminente della corte normanna: Cristodulo, ammiraglio della flotta normanna di Sicilia. Per suo tramite, il santo fu presentato alla contessa Adelaide, che lo accolse con favore ad approntò con molta generosità i mezzi necessari per la costruzione del monastero. Il monastero divenne per tutti Santa Maria τοũ πατρός, del Padre , per la presenza e la fama di Bartolomeo.

Fig.1 - Santa Maria del Patir.

Oltre al Bios ci sono altri due documenti che ci informano sulla fondazione del Monastero. Il primo, datato al 1103, è una donazione di Ruggero II a Bartolomeo, che vi figura come abate della nuova Odigitria. L’altro è una bolla del 1105 in cui il pontefice Pasquale II sottometteva il monastero alla Santa Sede. La ricchezza del monastero fu assicurata da numerose elargizioni e donazioni di pontefici e personaggi di rilievo. Le sorti del monastero rossanese seguirono infatti quelle del monachesimo greco del sud Italia, che dopo la splendida fioritura di età medievale fu interessato da un lento declino economico, spirituale e culturale. Il monastero venne definitivamente soppresso nel 1806, anche se i religiosi se ne allontanarono solo nel 1830.

Del complesso monastico rimangono ora i ruderi di un chiostro, frutto però di rifacimenti posteriori, e la chiesa, che nonostante le spoliazioni, i restauri, frequenti terremoti che la colpirono minandone parzialmente le strutture, mostra sostanzialmente le forme originali. E’ una costruzione in pietra, adornata da una cornice di conci e mattoncini su mensole che percorrono l’intero edificio, eccetto il lato settentrionale. Gli elementi decorativi più interessanti si trovano nella zona absidale. Decorazioni cromatiche si trovano anche presso i portali laterali: nel portale meridionale, fiancheggiato da due colonne con capitelli e mensole decorate, abbiamo un originale motivo di fiori stilizzati, mentre in quello settentrionale, anch'esso fiancheggiato da due colonne, vi è nella ghiera un motivo a saetta. Una serie di arcatelle cieche scandite al ritmo di cinque da lesene poggianti su uno zoccolo, percorre invece le tre absidi, ed ogni arcatella è decorata a sua volta da un tondo che racchiude un motivo stellare realizzato con tarsie di vario colore. La facciata è invece piuttosto semplice, ed evidenzia la tripartizione interna. Vi si apre un unico portale, fiancheggiato da colonne con capitelli decorati e sormontati da due oculi, il superiore probabilmente coevo alla ricostruzione, l’inferiore più tardo.

L’interno è una basilica a tre navate, di cui la centrale più alta delle laterali, con copertura ad incavallature lignee. Le navate sono divise da arcate a sesto acuto poggianti su colonne in muratura, impostate su basi , forse di rimpiego, prive di capitello. Un arco trionfale e due laterali più piccoli immettono nell'area del presbiterio, sopraelevato rispetto al resto della costruzione e suddiviso in tre ambienti absidati. La tripartizione dello spazio presbiteriale, tipico delle costruzioni legate alla cultura orientale, risponde a criteri di ordine liturgico: nel vano centrale, più ampio, detto Bema, avviene la liturgia eucaristica vera e propria; il vano a sinistra dell’altare, il Diakonikos, è utilizzato per i riti della vestizione e per la conservazione di libri, vasi sacri e altri oggetti di culto; infine nel vano di destra, detto Protesis, avvengono i riti preparatori alla liturgia vera e propria. Tutti e tre i vani presentano una copertura a cupola. Il monastero presenta una decorazione pavimentale in mosaico nella navata centrale ed in opus sectile presso le navate laterali. Tale decorazione doveva svolgersi per gran parte del pavimento attuale. In una visita apostolica del 1587 parla di un “pavimento tutto de marmi, ad usanza delle chiese di Roma et bona parte, circa il terzo de detto pavimento, è fatto et lavorato a dadi de marmo con animale at mostri depinti..” In seguito all'abbandono della chiesa, i baroni Compagna utilizzarono parte di questi marmi per la decorazione della loro cappella di famiglia nella vicina Schiavonea. Non rimane dunque che una vasta area decorata presso la navata centrale, il cui disegno presenta elementi vegetali (fiori e foglie) intrecciati fra loro a formare delle rotae, dischi di oltre due metri di diametro, con figure di animali mitologici: un liocorno, un centauro (fig2), un felino(fig.3) e un grifone (fig4). Troviamo anche un’iscrizione che recita che BLASIUS VENERABILIS ABBAS HOC TOTUM IUSSIT FIERI. Blasio è documentato come abate di Santa Maria del Patir nel 1152: intorno a questi anni è possibile datare l’opera musiva. Nelle navate laterali rimangono invece resti di decorazioni in opus sectile con motivi geometrici, del tutto simili a quelli ritrovati nel pavimento musivo della vicina San Adriano a San Demetrio Corone.

Il pavimento non è l’unico vanto della costruzione: la relazione del 1587 ci informa della suppellettile ed oggetti liturgici di grande valore, di cui oggi non rimane nulla, eccetto una tavola con la Vergine Odigitria donata da Atanasio Calceopilo nel periodo del suo archimandriato ed oggi presso il Museo Arcivescovile di Rossano.  Un altro oggetto è il fonte battesimale conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York (fig.5), reca un iscrizione incisa lungo il bordo data al 1137 su commissione di Luca, successore di Bartolomeo come igumeno del Patirion. L’oggetto mostra nella forma e nella decorazione contatti e derivazioni d’ambiente nordico rare in Italia. L’autore forse fu Gandolfo artefice della conca battesimale oggi conservata presso il Museo Nazionale di Messina, proveniente dal monastero di S. Salvatore a Messina. Luca commissionò il prezioso recipiente patirense a Gandolfo, un artigiano d’oltralpe.

Fig. 2 - Santa Maria del Patir, mosaici, liocorno, centauro e iscrizione.
Fig. 4 - Fonte battesimale conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York.

 

Bibliografia

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Barralt X., Altet l., Volte e tappeti musivi in Occidente e nell’Islam, in Il mosaico, a cura di C. Bertelli, Milano 1998.

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Mercati S. G., ” Sul tipico del monastero di S. Batolomeo di Trigoria tradotto in italo-calabrese  in trascrizione greca da Francesco Vucisano”, in ASCL VIII, 1938, p.205;S. G. Mercati, “Sulle reliquie del monastero di S. Maria del Patir presso Rossano “, in ASCL IX, 1939, pp. 1-14.

Nordhaggen P.J. , s.v. Mosaico, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. VIII, Roma 1997.

Orsi P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929,pp.113-151.

Rende M., Cronistoria del monastero e chiesa di S. Maria del Patir(Napoli 1717), Ris. Anast. Rossano scalo 1994.

 

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/codex.php


LA SCALA FENICIA: UN CAPOLAVORO SOSPESO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

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921 scalini alti e ripidissimi che collegano Capri ad Anacapri. Un percorso quasi in verticale, tortuoso, tra scorci mozzafiato e boschi, da cui si gode un panorama meraviglioso. Può sembrare una descrizione di un luogo da fiaba, invece è un’antica via di comunicazione. La cosiddetta Scala Fenicia oggi è un percorso turistico fra la Capri glamour e Villa San Michele, ma un tempo questi quasi due km di scale erano l’unico collegamento fra Marina Grande (il porto di Capri) e Anacapri: un percorso compiuto quasi quotidianamente dalle donne anacapresi, che scendevano al mercato per acquistare generi di prima necessità o per attingere acqua alla sorgente di Truglio, e risalivano con pesanti vasi mantenuti in equilibrio sulla testa. Stesso percorso doveva essere compiuto da chiunque volesse trasportare delle merci dal porto fin su o viceversa, da coloro che consegnavano la posta, o dai facchini che faticosamente trasportavano i bauli dei viaggiatori.

Fig. 1: scorcio della scala fenicia

La sorgente del Truglio

La cosiddetta sorgente del Truglio deve il suo nome ad un'antica villa romana ove tale sorgente zampilla, ed è situata nella parte bassa dell'isola, nelle vicinanze del mare e di una piccola spiaggia dove oggi i pescatori tirano in secca le barche. E' una delle quattro sorgenti d'acqua dolce dell'isola, ed ha una storia curiosa. In una pubblicazione del 1834 si racconta come nel corso di uno scavo nei pressi della sorgente venissero alla luce dei resti di alcune camere che sicuramente facevano parte di un edificio più grande: pulendo dalla terra queste camere emersero dei pavimenti con mosaici in buono stato di conservazione, e addirittura delle lastre di marmo giallo e verde che ornavano le pareti, e che furono poi trasportate a Napoli. Dallo stesso luogo emersero cinque meravigliose statue di marmo, tutte acefale, di cui una raffigurante l'imperatore Tiberio e una colonna di marmo giallo. Due delle statue furono inviate a Napoli al "real museo", una fu venduta dal proprietario del campo a un inglese e due furono lasciate sottoterra. In seguito il proprietario interruppe lo scavo e vi piantò sopra delle vigne. (Richerche topografiche ed archeologiche sull'isola di Capri da servire di guida ai viaggiatori, R. Mangoni, Napoli 1834)

Il percorso della scala fenicia

Venne chiamata erroneamente “scala fenicia” in quanto si credeva che l’isola fosse stata colonizzata dai Fenici, ma in realtà è una scala costruita dai Greci in una maniera tipica, ossia scavando i gradini a vivo nella roccia con una specifica tecnica. Fino al 1877, anno in cui fu costruita la strada carrozzabile, rimase l’unico modo per accedere ad Anacapri. Da Marina Grande, dove un tempo sorgeva la villa di Augusto, la scala comincia dolcemente a inerpicarsi su per poi diventare più ripida, e lungo il tragitto vi sono alcune testimonianze artistiche molto particolari: innanzi tutto vi è la chiesa di San Costanzo, a croce greca, che sorge su una chiesa più antica e che conserva al suo interno le spoglie del patrono di Capri, custodite in un reliquiario d’argento, che viene portato in processione ogni 14 maggio. Delle dodici colonne presenti al suo interno, quattro reggono la cupola centrale, e quelle quattro colonne in marmo giallo provenivano dalla villa di Augusto; solo in seguito furono sostituite con colonne meno preziose.

Salendo lungo il sentiero è possibile, inoltre, ammirare delle croci intagliate nella pietra, che furono scolpite dai monaci (o secondo alcuni dai vescovi di Capri) come “protezione” divina per i passanti, affinché i massi che si staccavano spesso dal costone roccioso soprastante non li colpissero. Si incontrano inoltre altre due chiesette: la prima è la cappella di Sant'Antonio, patrono di Anacapri, altresì detta la chiesa dei marinai perché qui le donne anacapresi si riunivano per pregare il santo affinché proteggesse i marinai e i mariti in mare. Un fuoco, perennemente acceso dinanzi ad essa, fungeva inoltre da faro, in maniera tale da far orientare gli uomini che tornavano al porto.

La seconda è la cappella di San Michele, attigua alla cosiddetta “Porta della differenza”, che segna il confine fra Capri e Anacapri e la fine della Scala.

1,7 km letteralmente sospesi fra cielo e mare.

https://www.capri.it/it/c/capri-online/i/SJ9FQ

https://web.archive.org/web/20160404005613/http://www.comunedianacapri.it/it/s/la-scala-fenicia

https://www.ioviaggio.it/la-scala-fenicia-a-capri

https://www.capri.it/it/e/la-scala-fenicia-2

http://www.caprireview.it/project/la-scala-nella-roccia/

https://www.fotoeweb.it/sorrentina/Foto/Capri/Scala_Fenicia.htm

https://www.paesionline.it/italia/foto-immagini-anacapri/2464878_scala_fenicia


LA GRANDIOSA CERTOSA DI PAVIA

Nel mezzo dei silenzi e delle nebbie della campagna pavese, al confine settentrionale di quello che, anticamente, doveva essere il grande parco del Castello di Pavia, si staglia la sagoma monumentale della Gratiarum Carthusiae e del suo vasto e intricato complesso monastico, vetta irraggiungibile di tutta l’arte lombarda.

Fondata nel 1396 da Gian Galeazzo Visconti e pensata come regale mausoleo per se e la sua famiglia, la Certosa rappresenta altresì l'apice del programma politico e culturale voluto dal signore di Milano durante gli anni della sua reggenza e portato poi avanti, nel corso dei secoli successivi, dai suoi eredi; le mura infatti, poste come delimitazione del desertum certosino, fanno da scrigno a capolavori, piccoli e grandi, di inestimabile valore (seppur ancora per la maggior parte da studiare). Dopo aver varcato il vestibolo rinascimentale, quasi completamente affrescato da Bernardino de’ Rossi e Bernardino Luini, ci si ritrova all’interno di un modesto piazzale in cui, al frontale seicentesco della foresteria che corre lungo tutto il lato sud (opera di Francesco Maria Richini), risponde, svettante ed imponente, la ben più monumentale e splendida facciata rinascimentale della chiesa della Certosa la cui vicenda critica è, ancora oggi, terreno impervio e difficile. Creata in sostituzione del più antico frontale tardogotico (le cui forme si possono apprezzare nell’affresco del Bergognone con la Madonna con il Bambino tra Gian Galeazzo Visconti che offre il modellino della chiesa della Certosa, Filippo Maria Visconti, Galeazzo Maria Sforza e Gian Galeazzo Sforza, nel catino absidale del transetto meridionale), la facciata che noi oggi possiamo ammirare nel suo tipico candore “sporco” lombardo del marmo di Candoglia, screziato da spazzi di verde e rosa antico, è il frutto del minuzioso lavoro delle più alte maestranze della Lombardia del tempo (periodo che, fra alti e bassi, va dal 1473 al 1550); tra gli artisti più illustri che troviamo citati in varia documentazione abbiamo: Cristoforo e Antonio Mantegazza, Giovanni Antonio Amadeo, Antonio della Porta (detto il Tamagnino), Benedetto Briosco e Cristoforo Lombardi. Nella parte inferiore della facciata, partendo dalla zoccolatura fino ad arrivare alla galleria di archetti, troviamo un’esuberanza di elementi decorativi scultorei che spaziano dalla cultura classica (medaglioni figurati all’antica, lesene fitomorfe ecc.) alla raffigurazione religiosa (episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, statue di Santi e Profeti). Dal livello superiore l’ornamentazione plastica lascia il posto ad un più sobrio decorativismo geometrico con intelligenti inserti scultorei di riutilizzo. Nel portale infine, creato dalla collaborazione tra l’Amadeo ed il Briosco, all’interno del già citato decorativismo scultoreo di ripresa classica (tipico, in particolare, del primo), abbiamo la presenza di minutissime formelle istoriate con Storie di San Brunone e dei Certosini.

La Certosa di Pavia: l'interno

Quando si entra per la prima volta all’interno della Certosa di Pavia ci si sente come schiacciati dalla monumentalità e dalla bellezza quasi arcana che pervade il monastero certosino; lo sguardo spazia lungo tutta la navata centrale scandita ritmicamente da possenti pilastri compositi e si insinua, attraverso gli archi delle campate, nelle navatelle laterali fino quasi a scorgere, in lontananza, i tesori incastonati nelle cappelle e, dietro la mastodontica cancellata, nel transetto e nell’abside. Le opere custodite in questo prezioso scrigno, affrescato nelle volte dai fratelli Bergognone, Ambrogio e Bernardino, e da una schiera di pittori facenti riferimento a Jacopino de Mottis, percorrono quasi tutti i “mondi” del fare arte: pale dall’altare dipinte o di marmo, sculture, pitture murarie, tarsie lignee, opere di oreficeria ecc.

Partendo da sinistra, nella prima cappella dedicata alla Maddalena, sotto quattro sante monache affrescate, secondo la documentazione, dalla “compagnia” di Jacopino de Mottis (in almeno una vi si può scorgere la mano di Bernardo Zenale), stanno l’altare (il cui paliotto è tra le prime opere di Carlo e Andrea Sacchi9, e sopra di esso una tela dell’abate parmigiano Giuseppe Peroni, datata 1757, raffigurante Cristo in casa di Marta e Maria Maddalena. Dedicata a San Michele è invece la seconda cappella. Questo ambiente racchiude una delle opere d’arte che ancor’oggi, nel ricostruirne le vicende, desta non pochi problemi agli studiosi: si tratta di quello che rimane di un grande polittico d’altare commissionato a Perugino nel 1496. Dei quattro antelli inviati dal Perugino in Certosa, solo uno (il Padre eterno benedicente) è ancora nella sua postazione originaria, mentre gli originali degli altri tre (Madonna in adorazione del Bambino e angeli, San Michele Arcangelo e Tobiolo e l’arcangelo Raffaele) si trovano alla National Gallery di Londra sostituiti, nella chiesa pavese, da copie seicentesche. Non ancora finito nel 1499 sembra essere stato completato con tavole dei fiorentini Fra’ Bartolomeo e Mariotto Albertinelli ma, similmente a quelle del Perugino, sono poi passate al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra e a loro volta rimpiazzate dai Quattro dottori della Chiesa del Bergognone. Sotto un’aura di misticismo e raccoglimento data dai quattro santi monaci certosini dipinti nella volta della terza cappella da Jacopino de Mottis, è conservata una rara testimonianza lombarda dell’artista genovese Giovanni Battista Carlone (1603-1684?); il pittore opera qui affrescando una finta pala d’altare rappresentante San Giovanni Battista (da cui la cappella prende il nome) che rimprovera Erode. La scena con il Battista davanti al tetrarca di Galilea è paradigmatica dello stile del genovese, incline ad un caldo cromatismo, a un’esuberanza avvolgente e dinamica e a un’espressività di volti. La quarta cappella di sinistra, conosciuta con il nome di cappella di San Giuseppe e dei Re Magi, conserva al suo interno un bel dipinto dell’artista cremonese Pietro Martire Neri raffigurante una Adorazione dei Magi e datata intorno al 1640-1641. La cappella di Santa di Caterina, la quinta, le cui storie sono narrate dal già citato Giovanni Battista Carlone e da Francesco Villa per le quadrature, ha come pala d’altare (al di sopra dello splendido paliotto del solito Sacchi), una Madonna col Bambino tra le Sante Caterina d’Alessandria e Caterina da Siena; è opera dell’artista milanese Francesco Cairo (1607-1665) che l’ha dipinta in sostituzione di una pala bergognonesca di medesimo soggetto. La vetratina, piccolo esempio della grande maestria vetraria lombarda, è con molta probabilità costruita partendo da un cartone di Vincenzo Foppa. Nell’austerità generale della sesta cappella (dedicata a Sant’Ambrogio) spiccano le dorature e i vivi colori della pala del Bergognone raffigurante Sant’Ambrogio fra i Santi Satiro, Marcellina, Gervasio e Protasio. Si respira in questa pala un’aria tersa, che blocca il movimento delle figure; a schiarire l’atmosfera contribuisce poi la luce mattutina che filtra dalle due finestre con vetri a tondelli retrostanti il tondo del santo. La cappella “dupla” di sinistra (la settima seguendo l’ordine), denominata cappella del Rosario, si vede negli affreschi la presenza di un artista non italiano; si tratta del pittore tedesco Giovanni Cristoforo Storer (1611-1671) di cui sua è infatti la grande decorazione pittorica con l’Incoronazione della Vergine tra i santi Giovanni Battista e Giuseppe e due certosini. Nato a Costanza ma formatosi alla scuola di Ercole Procaccini il Giovane, Storer, nella vivacità narrativa e cromatica, nella concitazione e nel dinamismo esasperato, nella dilatazione delle forme e, più in generale, gli incisivi richiami a Rubens e van Dyck, rivelano l’ormai avvenuto affrancamento dal manierismo veneziano e lombardo di matrice procaccinesca. L’elegante e raffinata pala che svetta al di sopra dell’altare (paliotto con Adorazione dei Magi di Giovanni Battista Maestri detto il Volpino) è invece opera del lombardo Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone (1573-1626) e raffigura la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina (1617).

Spostandoci ora nelle cappelle del lato di destra, in una pittura che, al suo interno, contiene già i germi del barocchetto lombardo, gli affreschi con le tre Marie al sepolcro di Andrea Lanzani (1641-1712) della prima cappella, raccontano scene dal timbro cromatico schiarito, dalla stesura pittorica ammorbidita nel disegno e nell’andamento delle pennellate; il paesaggio, invece, si fa di gran lunga più ampio raggiungendo tonalità liriche soprattutto nell’episodio dell’orazione nell’orto degli ulivi. Sono evidenti una attenta meditazione dell’artista sulla tradizione figurativa emiliana (Reni e Lanfranco in particolare), ma anche di un consapevole sguardo al Maratta. Un aiuto per capire la denominazione di questa cappella ci viene dalla pala di Camillo Procaccini raffigurante la Veronica. Spunta poi, fuori da questo contesto seicentesco, un piccolo affresco attribuito ad Ambrogio Bergognone raffigurante l’Adorazione del Bambino e angeli (1491-1493); contemporanee, circa, sono anche le pitture di santi certosini presenti nelle volte e documentati a Jacopino de Mottis (con aiuto, sembrerebbe ancora, di Bernardo Zenale). Nella seconda cappella di destra, di notevole importanza è il polittico posto sopra l’altare (firmato e datato MACRINUS D. ALBA / FACIEBAT 1496); esso rappresenta, nel registro inferiore la Madonna in trono con il Bambino e angeli, ai lati sant’Ugo di Langres, sant’Ugo di Canterbury (ai quali viene dedicata la cappella), mentre in quello superiore la Resurrezione di Cristo e due pannelli raffiguranti i quattro Evangelisti del Bergognone. Le quattro tavole di Macrino d’Alba sono l’unica testimonianza rimasta in Certosa, insieme al Padre eterno benedicente del Perugino, dell’indirizzo culturale promosso nel corso degli anni novanta del Quattrocento da Ludovico il Moro, attento alle novità centroitaliane di matrice classicista. Saltando la terza cappella per povertà di rimanenze, in quella successiva, intitolata al Santissimo Crocifisso, vi è contenuto al suo interno uno dei capolavori su tavola di Ambrogio Bergognone: la Crocifissione. I volti terrei solcati dalle lacrime, l’atmosfera tersa tipicamente bergognonesca, i colori freddi e argentati delle vesti contribuiscono a creare un senso di profondo patetismo che vuole e riesce a coinvolgere lo spettatore nella meditazione sulla Passione di Cristo. Nella quinta cappella trova collocazione un'altra pala bergognonesca; la scena con San Siro in trono fra i santi Stefano, Invenzio, Teodoro e Lorenzo rappresenta una Sacra Conversazione ambientata in uno spazio definito architettonicamente ed illuminato da un sole ormai al tramonto, basso sull’orizzonte (permettendo così al pittore un’indagine molto dettagliata delle ricche vesti dei santi e delle membrature architettoniche). Sulle volte si ha la solita presenza di Jacopino de Mottis e Bernardo Zenale con raffigurazioni dei Patriarchi e di Giacobbe. Prendendo la dedicazione dai Santi Pietro e Paolo, gli artisti che operano all’interno della sesta cappella di destra hanno impostato le tematiche iconologiche sulle figure di questi due Santi. La decorazione ad affresco, raffigurante la crocifissione di San Pietro è frutto del pittore trevigliese Giovanni Stefano Danedi detto il Montalto (1612-1690), molto attivo in ambito lombardo sin da prima della metà del Seicento. La figura di San Paolo, insieme ancora a quella di San Pietro, si ritrovano anche nella pala d’altare del Guercino (Francesco Barbieri, 1591-1666) raffigurante la Vergine con il Bambino in mezzo ai due apostoli (1641). Resa molto più leggibile da un recente restauro, l’opera si può ricondurre con tutta evidenza a quel periodo di transizione durante il quale le composizioni del pittore di Cento si semplificano, le figure si definiscono nei loro contorni e la luce tende a diventare molto più uniforme. La cappella “dupla” di destra, l’ultima della fila, intitolata alla Santissima Annunziata, presenta un vasto apparato pittorico con scene quadraturate della Vita di Maria; opera del sopracitato Montalto (con la collaborazione, per la definizione degli spazi, di Francesco Villa), queste scene si innestano su di una matrice molto vicina agli echi del Morazzone ma con una ventata di novità in più datagli, oltra che dall’aiuto dei figli, anche da una personale comprensione delle opere contemporanee di Carlo Francesco Nuvolone; questo si vede soprattutto nella narrazione molto sciolta, nella grande disinvoltura compositiva e nelle soluzioni “morazziane” evidenti nei panneggi e nelle forme allungate e assiepate. La vetrata fine quattrocentesca con l’Annunciata in origine doveva essere accoppiata con un’altra raffigurante l’angelo annunciante ma ad oggi scomparsa. L’attribuzione da parte degli studiosi del disegno di questa vetrata si sta sempre di più ancorando, ancora una volta, alla figura di Vincenzo Foppa; suoi sembrano infatti essere il volto pieno della Vergine e l’architettura di matrice bramantesca nella quale è inserita.

Bibliografia:

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P. C. MARANI, M. OLIVARI (a cura di), Il polittico di Macrino d'Alba alla Certosa di Pavia: il restauro, Voghera, 2011.

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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PALAZZO CARACCIOLO SAN TEODORO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Gioiello nascosto e luogo di incredibile bellezza, palazzo Caracciolo San Teodoro sorge sulla Riviera di Chiaia, uno dei cosiddetti quartieri chic di Napoli. Nel '500 qui sorgevano soltanto poche case di pescatori, un mercato del pesce e qualche altra povera attività; successivamente nel '600 e nel '700, vista la splendida posizione, cominciarono ad essere edificate case di villeggiatura e la zona fu lastricata nel 1697 ad opera di Luis de la Cerda, duca di Medinacoeli, che aggiunse anche <<tredici fontane, sedili e un doppio filare di alberi>>. Tale sistemazione però fu alterata nel corso del tempo fino a quando, tra il 1778 e il 1780, Ferdinando IV di Borbone decise di realizzare un grande giardino pubblico, la Villa Reale, affidando il progetto a Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi. Ciò determinò un vero e proprio incremento di ville e palazzine nobiliari, che permise quindi l'eliminazione delle zone paludosi qui presenti e l'edificabilità del luogo mediante le cosiddette "colmate a mare", ossia un "riempimento" della zona antistante la spiaggia, che modificò irreversibilmente la linea di costa. In questo "fervore edilizio" si colloca palazzo Caracciolo San Teodoro.

Fig. 1: una veduta di Chiaia del 1800 ad opera di Caspar Van Wittel

Palazzo Caracciolo San Teodoro

È il classico palazzo che non avendo una facciata particolarmente imponente può passare inosservato, ma se si ha la curiosità di andare oltre l’ingresso ciò che si scopre lascia senza fiato.

Fig. 2: facciata

Costruita agli inizi del 1800, la residenza è un chiaro esempio di Neoclassicismo: la facciata è lunga e bassa, a tre ordini, idealmente divisa in due parti da due ordini di vetrate centrali sovrapposte; il colore utilizzato per l’intera superficie, un rosso pompeiano, fa capire non solo le intenzioni dell’architetto che ne curò la realizzazione, Guglielmo Bechi, ma anche la sua specifica preparazione. Costui era non solo un architetto toscano molto rinomato alla corte dei Borbone, ma anche un archeologo. Tenne la cattedra di storia dell'arte all'Università e fu il curatore delle collezioni del Real Museo Borbonico; diresse inoltre gli scavi di Pompei dal 1851 al 1852, anno della sua morte. La progettazione del palazzo Caracciolo San Teodoro piacque talmente da fargli affidare la realizzazione di Villa Pignatelli.

Palazzo Caracciolo San Teodoro: l'interno

Dal portico una grande scala in marmo bianco, molto scenografica, conduce al primo piano, ove sono ubicate le sale.

Fig. 3: lo scalone

Si può dire che sostanzialmente l'edificio, che occupa una superficie di 600 metri quadri, sia diviso in due parti. Una prima parte è costituita dalle gallerie, trasformate in salottini, ove si aprono le grandi vetrate della facciata. Inondando di luce naturale l'interno e alleggerendo all'esterno la superficie della facciata, e lasciando intravedere i sontuosi ambienti interni, costituiscono sicuramente gli ambienti più particolari del palazzo. Qui la suggestione pompeiana è molto forte, ed è in generale l’ambiente ove meglio si respira il lusso e lo sfarzo di quello che un tempo era uno dei palazzi più eleganti della Riviera di Chiaia. Le colonne danno un ritmo compositivo alle gallerie che ne spezza la monotonia, ritmo ripreso dai tavoli e dai divani che suddividono lo spazio in ambienti più piccoli. Nonostante la funzione di raccordo fra le varie sale, le gallerie si configurano come ambienti autonomi, vero diaframma fra l’interno e l’esterno. Inoltre affacciano sul giardino del palazzo e sul mare, dando una sensazione di continuità con il paesaggio esterno.

Fig. 4: la galleria

Una seconda parte, invece, a cui si accede tramite la Galleria, è caratterizzata da una fuga prospettica di tre salotti che terminano nel salone da ballo. Tutta la decorazione riprende temi che si ritrovano nelle pitture pompeiane, principalmente fiori e figure mitologiche declinate al femminile. Tutti gli ambienti hanno conservato gli arredi originali come tavoli e specchiere. Dalla Galleria del primo piano, girando a sinistra, si apre una successione di sale: il Salone dei Fauni, caratterizzato da una decorazione con fauni intenti a godersi i piaceri della vita, e la Sala delle Centauresse, rarissima declinazione al femminile di questo tema tipico delle decorazioni mitologiche (a tal punto che il Metropolitan Museum di New York gli ha dedicato una pubblicazione apposita).

Fig. 5: particolare dell'affresco delle Centauresse

Ultimo è il cosiddetto Salone dei cigni, un ambiente molto strano ad una prima occhiata: ciò che infatti salta agli occhi è la presenza di alcuni grandi specchi che sembrano messi a casaccio sulle pareti, in quanto ne coprono parzialmente gli affreschi paesaggistici. In realtà fu una scelta precisa del Bechi, che intese così coprire dei precedenti affreschi che non si armonizzavano con la decorazione da lui immaginata. La sala è coperta da una decorazione a soffitto che imita un padiglione di tessuto ocra ben gonfio, con le tende che illusionisticamente ricadono drappeggiate agli angoli.

Fig. 6: sala dei cigni

Dal salone dei cigni si passa al salone da ballo, di forma rettangolare ma che alle estremità presenta due nicchie laterali introdotte da colonne e un arco trionfale. Alle pareti paraste ioniche scanalate scandiscono le varie aperture, mentre il soffitto, a volta, presenta un'originale decorazione a stucchi scanalati sormontato da una cupoletta riccamente affrescata. Il pavimento, ligneo, è connotato da una decorazione a stelle.

Dalla parte opposta invece si aprono altre tre sale, due più piccole e la grande Sala da pranzo, di forma rettangolare, arricchita da un decorazione parietale in perfetto stile pompeiano, ove ben si nota la vocazione da archeologo del Bechi; un tavolo rettangolare in legno e marmo con lamine d'oro è collocato nel bel mezzo della stanza, bianca e oro, in cui troneggia un imponente lampadario dorato, dono dei Borbone. Imponenti specchiere e un pavimento a lastroni connotano l'ambiente, sormontata da un soffitto bianco decorato con motivi geometrici e festoni di frutta e fiori. Le porte che affacciano sulla sala sono sormontate da pitture scultoree di personaggi classici e motivi a girali.

Fig. 8: la Sala da pranzo

Altri due piccoli ambienti qui presenti sono la Sala della musica, bianca con decorazioni a colonne impreziosite da rappresentazioni di rampicanti, e la Sala cinese, in azzurro e bianco.

https://www.residenzedepoca.it/matrimoni/s/location/palazzo_sa_teodoro/

https://www.napoli-turistica.com/palazzo-san-teodoro-napoli/

http://www.sirericevimenti.it/it/portfolio/palazzo-san-teodoro/

http://www.palazzosanteodoroexperience.com/

http://www.palazzidinapoli.it/quartieri/chiaia/riviera-di-chiaia/

https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/13-febbraio-2012/via-caracciolo-lungomare-costruito-una-colmata-1903257733298.shtml


IL PONTE DI ANNIBALE O SANT’ANGELO

A cura di Antonio Marchianò

Il ponte è situato a Scigliano lungo il tragitto del fiume Savuto in provincia di Cosenza. Si tratta di un ponte di epoca romana risalente al periodo che va dal 121 al 131 a C. cioè durante la costruzione della via Popilia. Questo ponte assieme al ponte Fabricio dell’Isola Tiberina (69 a C.) ed il ponte Emilio (179 a C.) è uno dei più antichi ed importanti d’Italia.

Fig. 1: il ponte di Annibale

E’ anche conosciuto come il ponte di Annibale o Ponte Sant'Angelo. Il primo nome si riferisce al passaggio di Annibale con le sue truppe sopra la struttura, anche se non esistono documenti attendibili su questa ipotesi.  Il secondo nome, invece, fa riferimento alla tradizione popolare che narra uno scontro tra S. Angelo e il diavolo, quest’ultimo sarebbe stato scagliato dal santo contro il ponte, dove anticamente vi era una fessura, poi ricucita durante la ristrutturazione del 1961. Il ponte fu costruito con archi in tufo calcareo rosso prelevati da una cava sulla parete di una collina vicinissima al ponte. Ancora oggi si vedono i tagli sulla parete, operati dagli schiavi al servizio dell’esercito romano. I blocchi venivano precipitati a valle e cadevano proprio dove sorge il ponte. Questi massi venivano lavorati o messi in opera o adoperati per fare la calce nella fornace adiacente, anch'essa ritrovata in passato. Le fondazioni del ponte si trovano a profondità di circa 1,50 m dal piano attuale del greto del fiume. Sono costruite da una platea di due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti per una larghezza di 5 m e una lunghezza pari a quella del ponte compresa la rampa di salita dell’estremo più basso. L’altezza della platea e circa di 1,50 m. La volta è costituita da due archi concentrici a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco sfalsati. Il secondo arco è in tufo per le parti prospettiche e in pietrame e pozzolana all'interno, a copertura del primo arco portante. L’arco portante è impostato sulla platea di fondazione, senza pile d’appoggio, e il secondo arco ha solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo.

Fig. 2: il ponte

La lunghezza dell’arco è di 21,50 m. mentre la larghezza è di 3,55 (fig.2). L’altezza massima è di 11 m. rispetto all'attuale piano del fiume. I romani in virtù dell’importanza del ponte, lo costruirono in modo da sfidare il tempo e le intemperie, comprese le piene del Savuto. Il piano di calpestio, la cui larghezza totale è di 48m., è stata costruito in muratura con pietre di fiume e pietra pozzolana. Da un lato troviamo una tipica rampa romana che poggia sulla roccia della collina. Sull'altro lato poggia invece su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm.

Accanto al ponte, nei suoi estremi esistono invece, i resti di due garrite, utilizzate per riparare le truppe a protezione del ponte. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani è stata costruita una vecchia casa colonica, rudere anch'esso e in parte sede della chiesetta di S. Angelo (fig.3).

Fig. 3: veduta del ponte

L’antica tradizione popolare diede a questo ponte il nome di Annibale, ma secondo gli studi condotti da Eduardo Galli nel 1906 negano questa convinzione. Lo studioso afferma che “ i ritrovamenti, nelle vicinanze, di embrici, di vasi, di monete imperiali, hanno generato nelle anime semplici dei paesani la falsa credenza che Annibale, prima di partire dall'Italia, ci abbia dimorato lungamente costruendo perfino il ponte e che perciò porta il suo nome”. A smentire questa tesi è, lo stile prettamente romano, l’analisi di cippi miliari sulla via Popilia, e la data di costruzione della via Popilia, tra il 131 e il 121 a C. cioè ottanta anni dopo il passaggio del generale. L'origine romana del Ponte è dimostrabile da diverse ipotesi e da alcuni reperti recuperati. Durante l'ultimo restauro de ponte sono state rinvenute monete antiche, a tal proposito Saturno Tucci, in uno dei suoi libri scrive: "Sul piedritto a monte venne ricucita la famosa lesione che, a suo tempo, permise di scoprire una camera vuota, all'interno della quale gli operai si sbizzarrirono a scavare alla ricerca di un antico tesoro che la diceria popolare voleva fosse lì nascosto. Furono trovate, invece, alcune monete che vanno dal periodo greco (350-194 a.C.) al periodo romano fino ai "Vespri Siciliani" (1200-1280 a.C.)”.

Attualmente il ponte è uno tra monumenti recensiti e sotto la protezione dell’Unesco ma, pur essendo uno dei ponti più antichi d’Italia, è fuori da ogni circuito turistico sia regionale che nazionale.

Bibliografia

De Sensi Sestino G., Tra l’amato e il Savuto. Tomo II: studi sul Lametino antico e tardo antico, Soveria Mannelli: Rubbettino, 1999.

Galli E., Intorno ad un ponte della Via Popilia sul fiume Savuto, Catania: Giannotta, 1906.

Tucci S., Storia del ponte romano sul fiume Savuto, Soveria Mannelli: Calabria letteraria editrice 1991.