IL QUADRO DELLE TRE MANI: MANIFESTO PITTORICO DI UN’EPOCA

A cura di Alice Savini

La Milano della Controriforma e dei Borromeo

Passeggiando tra le ultime sale della Pinacoteca di Brera ci si imbatte in un quadro la cui storia compositiva è molto interessante; si tratta del Martirio di Santa Seconda e Rufina conosciuto anche come “Quadro delle tre mani”, poiché a realizzarlo furono tre tra i pittori più importanti della Milano dei primi anni del 1600: il varesotto Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, il valsesiano Giovanni Battista Crespi detto il Cerano e il bolognese naturalizzato milanese Giulio Cesare Procaccini. Il quadro è una sorta di emblema della Lombardia della Controriforma (dopo il Concilio di Trento) che, da 1564 al 1584 e dal 1595 al 1631, fu segnata dal riformismo degli arcivescovi e cugini Carlo e Federico Borromeo.

Il rinnovamento sia edilizio che artistico dei decenni post tridentini si diffuse in tutte le città del territorio grazie all’instancabile impegno di Carlo Borromeo. Fu proprio lui, tra i più ferventi sostenitori del Concilio tridentino, a promuovere una pittura capace di “parlare a tutti” che rifiutava gli eccessi del linguaggio manierista e le rappresentazioni dei nudi, ma che cercò altresì maggiore corrispondenza con le Sacre Scritture e una semplificazione formale e compositiva che potesse permettere maggiore facilità di comprensione. Divenuto santo nel 1610, Carlo Borromeo assunse il ruolo dell’episcopato post-tridentino ideale e l’esempio da lui tracciato, anche nel settore della promozione architettonica e figurativa, venne proseguito dai suoi successori come il cugino Federico Borromeo, salito sulla soglia arcivescovile nel 1595[1].

La politica artistica e l’ideologia figurativa di Federico furono ereditate dal predecessore e cugino Carlo Borromeo. Scomparsa la generazione di pittori legati alla stagione della cultura post-tridentina, Federico scelse i tre pittori Giovan Battista Crespi detto Cerano, Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e Giulio Cesare Procaccini, che diedero avvio ad uno stile pittorico unico. Tali artisti riuscirono a unire in un unico linguaggio le ricercatezze formali derivanti dai modelli del tardo manierismo tosco-romano e emiliano all’oltranza espressiva, alla violenta drammaticità dei contrasti chiarosurali[2], creando una pittura eccentrica, tenebrosa, dal tumultuoso ritmo corale e “morbosa”, per certi versi molto lontana dal linguaggio della generazione precedente e che guarda già alle messe in scena del grande teatro barocco.

Coetanei, i tre artisti erano già impegnati da tempo in committenze d’alto livello di natura prevalentemente religiosa ed entrarono in contatto tra loro in svariate occasioni; infatti furono chiamati dalla Fabbrica del Duomo a lavorare ad alcuni quadroni raffiguranti la Vita di Beato Carlo (1602-1603) e dei Miracoli del Santo (1610). Cerano e Procaccini si ritrovarono a lavorare insieme anche nel cantiere di Santa Maria presso San Celso, chiamati a decorare le prime e le seconde campate laterali. Mentre il Morazzone, che entrò più tardi sulla scena pubblica, lasciò la sua prima opera pittorica milanese nella chiesa di sant’Antonio Abate, dove peraltro sono presenti anche il Cerano e Procaccini.

Il "Quadro delle tre mani": Il Martirio di Santa Rufina e Seconda

 

Il dipinto "delle tre mani", di forma quadrata e di modeste dimensioni, fu realizzato per la fruizione privata del ricco mecenate Scipione Toso, uno degli amatori d’arte più in vista del tempo ricordato anche da Girolamo Borsieri tra coloro che apprezzarono la nuova pittura dei “moderni” (Procaccini, Cerano e Morazzone). Nelle mani di Toso già nel 1625 (probabile anno di esecuzione[3]), passò poi alla proprietà del Cardinale Cesare Monti (successore di Federico Borromeo), per poi essere ceduto alle collezioni dell’Arcivescovado di Milano nel 1650; per entrare infine nelle collezioni della Pinacoteca di Brera solo nel 1896. Scipione Toso diede inizio a una competizione tra i tre grandi artisti che crearono un quadro non del tutto omogeneo ma comunque unitario; il dipinto è da intendere come un vero e proprio manifesto della scuola pittorica milanese della prima metà del Seicento.

Il dipinto doveva essere una sorta di celebrazione del cristianesimo delle origini, infatti in quegli anni gli artisti ricevevano molte commissioni riguardanti i primi martiri. Nel dipinto è raffigurato il martirio delle due sante, Seconda e Rufina, avvenuto durante le persecuzioni nella Roma dell’imperatore Gallieno (260 d.C.). Inizialmente fidanzate con Armentario e Verino, fecero successivamente voto di castità; i due giovani rifiutati decisero di vendicarsi denunciandole alle autorità. Le due Sante, che scelsero di non abiurare, furono portate al X miglio della Via Cornelia dove Rufina venne decapitata e Seconda bastonata fino alla morte. Nel dipinto il corpo di Rufina è raffigurato riverso nella parte destra della composizione, la santa è accompagnata da un angelo che tenta di fermare il desiderio di carne del cane da caccia. Mentre Santa Seconda è raffigurata sulla destra, rassegnata al suo destino e illuminata da una fonte luminosa che preannuncia l’ascesa al cielo. Lo stesso angelo che la accompagna, con il dito puntato verso l’alto, sembra rassicurare la ragazza del destino che la attenderà. I responsabili del martirio invece irrompono nella scena in tutta la loro potenza e prestanza, un cavaliere loricato è raffigurato a cavallo (potrebbe essere il conte Archesilao mandante della loro morte), mentre due sgherri, con ancora in mano la spada, sono gli autori materiali del martirio. Nel frattempo un paggio in armatura osserva nell’ombra ed un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del martirio.

Già nel 1636 il letterato Giovanni Pasta, che per primo coniò il titolo di “Quadro delle tre mani”, attribuì alla mano del Morazzone la composizione generale del dipinto insieme al carnefice centrale e l’angelo con la palma del martirio, mentre a Cerano il cavaliere e le figure di sinistra e a Procaccini la Santa Rufina e l’angelo che la assiste sulla destra. Ai pittori sembra essere stata assegnata la parte di dipinto più consona al proprio registro espressivo e ai temi solitamente affrontati; i tre sono infatti simili tra loro ma ciascuno fa proprio un filone diverso. Il Cerano è chiamato a realizzare la parte più ”macabra” del dipinto, la testa mozzata e sanguinosa di santa Seconda, così come il cavallo e il cane voglioso di carne, memore della grande attenzione alla pittura di animali della sua bottega. Egli inserisce nel quadro elementi di una violenza quasi al limite dell’orrore, ma questo rientra nella sua poetica spesso vigorosa quasi fino alla sgradevolezza; le sue opere riescono a tradurre in immagini i toni drammatici e visionari della religiosità del tempo.

Il carnefice dipinto nella penombra luminescente è opera del Morazzone, il quale passò alla storia come il pittore più drammatico e potente e antiedonista. Celebre pittore di battaglie e di grandi composizioni corali egli riuscì a donare all’intera scena un forte senso di dinamicità e coinvolgimento illusionistico. Mentre il linguaggio tenero e soave del Procaccini è riservato a Santa Rufina, ancora in vita che attende il momento del trapasso attorniata da una luce celestiale. L’aspetto eroico della santa è tipico del linguaggio del Procaccini che si contraddistingue per essere un artista di profonda devozione e coinvolgimento, ma al contempo anche legato a una fisicità con potente carica erotica, di una bellezza insieme idealizzata e sensuale.

Note

[1] Federico Borromeo fonda nel 1607 la Biblioteca Ambrosiana, uno spazio pubblico comprendente una ricca biblioteca, una pinacoteca e un’accademia artistica. Il primo nucleo della pinacoteca nasce nel 1618 quando l’arcivescovo Federico Borromeo dona la sua raccolta di disegni e dipinti alla biblioteca, mentre nel 1620 nasce l’Accademia di disegno, pittura, scultura e architettura simile a quella romana di San Luca e quella fiorentina.

[2] L’inizio del Seicento è un momento di contraddizioni dal punto di vista pittorico, si scontrano infatti due scuole pittoriche: quella caravaggesca diffusasi grazie al genio del Merisi e quella emiliana che si basa sulla pittura dei fratelli Carracci, che porta in campo il revival classicheggiante e neo-pagano alla base del barocco romano maturo.

[3] Nel 2005 lo studioso Jacopo Stoppa ha ipotizzato, su basi stilistiche, la datazione al 1617-1618.

Bibliografia

Baini (a cura di), Brera : guida alla Pinacoteca, 2004

J.Stoppa; Il Cerano. 2005

Gregori, Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999

Coppa, Seicento lombardo a Brera [: capolavori e riscoperte], 2013

Sitografia

Il "Quadro delle Tre Mani": testamento di pittori maledetti | Viaggiatori Ignoranti

L'opera del lunedì - "il Quadro delle Tre Mani" - Bing video


L’AMORE PER LA CITTÀ DELLA MONTAGNA: GIUSEPPE SCIUTI

A cura di Mery Scalisi

Nato a Zafferana Etnea, paesino alle pendici dell’Etna, il 26 febbraio del 1834, Giuseppe Sciuti, con la vocazione per l’arte fin da bambino, che non amava il gioco, nè la scuola, intraprende gli studi artistici con il volere del padre farmacista.

Da Zafferana, si trasferisce in giovane età, nella vicina città di Catania, dove inizia a studiare con lo scenografo Giuseppe De Stefani, i pittori Giuseppe Gandolfo e Giuseppe Rapisardi, dal quale apprende ornato e prospettiva, e il decoratore Giuseppe Spina, artisti, che nella loro diversità, ebbero un notevole influsso nello sviluppo della personalità artistica dello Sciuti (fig. 1 e 2).

 

La carriera pittorica di Sciuti, dunque, parte dalla sua terra natia, Catania, dove inizia ad esporre anche i primi dipinti, che seppur ancora ci mostrano uno Sciuti immaturo nello stile, indicano una maestria nel disegno e nel colore. È a questo periodo che risalgono Eruzione dell’Etna, un angosciante olio caratterizzato dai toni rossastri tipici della lava, che illumina in maniera inquietante Zafferana Etnea, con davanti, in primo piano, la folla senza fisionomia, smarrita, immobile e schiacciata da quanto sta accadendo, documento del terribile evento di cui fu testimone all’epoca dei suoi esordi pittorici, e San Giuseppe col Bambino, pala d'altare della chiesa madre di Zafferana (fig. 3).

 

Le voci sulla bravura del pittore arrivano ben presto fino al comune, tanto da mettergli a disposizione una borsa di studio che gli consenta di perfezionarsi fuori dalla Sicilia e di conoscere città come Napoli, Roma e Firenze. Dallo stile verista, acquisito tramite il contatto con il Caffè Michelangelo a Firenze, alla fine degli anni Settanta inizia a preferire il genere storico e una tecnica realista, con opere come La vedova e La tradita, che mostrano un chiaro gusto per il realismo toscano.

Nel 1875 si trasferisce nella capitale, dove morirà nel 1911; qui inizia a ricevere diverse commissioni private, che ben presto arriveranno anche da Sicilia, Liguria e Svizzera.

Il periodo più maturo per Sciuti sarà negli anni trascorsi a Napoli, accanto al Morelli, col quale collaborerà per la realizzazione del sipario del Teatro Verdi di Salerno; da questo momento in poi il genere storico, trattato con il realismo morelliano, diventerà la sua firma.

 

La passione di Giuseppe Sciuti per le grandi ‘’tele’’: il sipario del Teatro Bellini di Catania

A seguito della collaborazione con Domenico Morelli, che lo vede impegnato, nel 1870, nella decorazione del sipario del Teatro Verdi di Salerno, arrivano le commissioni anche dai due importanti Teatri dell’isola, il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro Massimo Bellini di Catania.

Nonostante, da quello che si dice, fosse di bassa statura fisica (circa 1,50 m), amò paradossalmente dipingere tele di grandi dimensioni, solitamente non inferiori ai 5 × 8 m; tra i suoi più grandi dipinti abbiamo infatti il telone del Teatro Massimo di Catania con Il trionfo dei catanesi sui libici (12 × 14 m) e il telone per il Teatro Massimo di Palermo con Uscita di Ruggero I dal Palazzo Reale (14 m di base).

Per Sciuti, il sipario, in un Teatro, che da semplice cortina diventa vera e propria macchina scenica, non solo separa il pubblico dalla scena sul palcoscenico, ma lancia l’idea di un luogo, esso stesso, di rappresentazione, con storie, spesso tratte da avvenimenti dell’antichità.

Come già accennato, formatosi presso lo scenografo Giuseppe Di Stefano, Sciuti risultò avvezzo per i grandi formati e a causa delle importanti dimensioni del sipario pensato per Catania, la soluzione fu quella di realizzare l’enorme sipario in una sala di Palazzo Venezia, a Roma, messa a disposizione dall’ambasciatore austriaco presso la Santa Sede.

Catania, e la Sicilia in generale, rappresentano fin dall’antichità luoghi dai mille volti, ricchi di testimonianze artistiche e proprio per questo e per l’amore che Sciuti ha per le tematiche epiche, che per il Teatro di Catania, propone La battaglia di Himera, battaglia svoltasi nel 480 a.C. che contrapponeva l’esercito cartaginese di Amilcare, sbarcato in Sicilia con i suoi soldati di ventura, e quello siracusano di Gelone. Il comune, nelle vesti di una giuria composta da cinque rappresentanti del Consiglio comunale di Catania e due pittori, bocciò il bozzetto, oltre che per motivi strettamente politici, anche per la presenza di ragazze nude; tra l’altro, la battaglia riguardava i siracusani e non i catanesi.

L’orgoglioso Sciuti non digerì la bocciatura del primo bozzetto e per questo motivo inventò un episodio storico mai esistito, Trionfo dei Catanesi sui Libici, una tempera su tela del 1833, che racconta un episodio leggendario, mai avvenuto, inventato e narrato da Pietro Carrera nelle Memorie historiche della città di Catania, e accolto, però, dai grandi esperti con estremo entusiasmo

Parliamo di una tela di oltre 140 metri quadrati, esposta al pubblico sempre a palazzo Venezia nel febbraio del 1883, in cui si evidenzia il contrasto tra il centro, freddo ed accademico, e il gruppo di destra ricco di vita e di movimento, con protagonista l’Etna fumante e innevata, rovine e templi romani e la celebrazione durante il momento dei festeggiamenti, con gli elefanti catturati all’esercito avversario e a destra una folta schiera di sacerdoti.

Da questo momento in poi, dopo il successo ricevuto grazie alla realizzazione del sipario destinato al Teatro Bellini di Catania, per Sciuti arriveranno commissioni, una dietro l’altra, di opere private e pubbliche, destinate queste ultime anche al Municipio e al Castello Ursino nella città di Catania.

A proposito del Castello Ursino, la pinacoteca dell’oggi Museo Civico vede ampliare la propria collezione nel 1978 con l'acquisto di un'importante raccolta di dipinti, oli su tela, del pittore zafferanese, tra i quali: Paesaggio del 1862, La Verità scoperta dal Tempo del 1864, Peppa la cannoniera del 1865, già al Museo Civico del Castello Ursino di Catania, distrutto da un incendio nel 1944, Regalo di nozze, 1865 (datazione incerta), Madre del Barone Zappalà, opera, anch’essa del 1865, e il bozzetto La Carità (Visitare gli infermi) del 1867.

 

 

 

Bibliografia

Dato Toscano, Sulla scena della città, Catania, Le istituzioni culturali municipali

Ronsivalle, Cantare al Bellini era purissimo piacere, Catania. Le istituzioni culturali municipali.

Sciacca, Costa Chines, Danzuso, Il Teatro Massimo Bellini di Catania, Catania, Lions Club Catania Host, 1980

Calvesi, A. Corsi, Giuseppe Sciuti, Nuoro, Ilisso, 1980

Accademia degli Zelanti e dei Dafnici (a cura di), Giuseppe Sciuti, nel centenario della morte, Acireale, Galatea editrice, 2011


ROCCHETTA MATTEI

A cura di Valentina Fantoni

 

Rocchetta Mattei: ecclettismo ed elettromeopatia sull’Appennino bolognese

Rocchetta Mattei è un edificio dal fascino misterioso, affascinate ma al tempo stesso sfuggevole: è commistione di arte, scienza, cultura e spettacolo. Questo edificio, più volte definito “magico”, si trova nel comune di Grizzana Morandi, in provincia di Bologna, facente parte dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese. Il toponimo del comune venne modificato nel 1985 per omaggiare il pittore Giorgio Morandi che passò lunghi periodi a Grizzana, come dimostrano alcuni suoi dipinti. La Rocchetta si staglia su un colle, alto circa 300 metri, su quella che viene chiamata Valle del Limentra, un territorio particolarmente affasciante ed interessante per l’origine dei suoi borghi medievali (La Scola, Montovolo, Tudiano, Poggio di Veggio, Poggio Mezzano).

 

Il Conte Cesare Mattei

L’origine della Rocchetta è abbastanza recente. Fu eretta nel 1850 per volere di un uomo il cui fascino e mistero diedero vita alla magnificenza dell’edificio in tutti i suoi aspetti.

Quest’uomo fu il conte Cesare Mattei (1809-1896). Il Mattei era un uomo di umili origini: i genitori, originari di Scascoli (frazione di Loiano, in provincia di Bologna) erano contadini piuttosto agiati, e col tempo acquistarono diversi terreni e proprietà tra Bologna e provincia. Tra le varie proprietà figurava un palazzo in via Mazzini 46 (oggi Strada Maggiore), che giocherà un ruolo importante nella vita e nella carriera del Mattei.

Formatosi presso l’Alma Mater con alcuni dei più noti ed importanti precettori ed intellettuali del tempo, Cesarei Mattei fu un uomo di grande interesse e cultura. Nel 1837 fu tra i cento membri fondatori della Cassa di Risparmio a Bologna, aspetto che si rivelerà curioso se si pensa che 168 anni dopo questo evento la stessa Cassa di Risparmio, tramite la sua Fondazione, prenderà possesso della Rocchetta per ripristinare il suo splendore grazie ad un’importante impresa di restauro conservativo nel 2005. Nel 1847 ottenne il titolo di Conte, in seguito alla donazione di alcuni suoi possedimenti presso Comacchio a Papa Pio IX, zone al tempo di grande importanza strategica, poiché ai confini tra lo Stato Pontificio e i territori controllati dall’Impero Austriaco. Poco tempo dopo aver ricevuto tale riconoscimento, il Mattei acquistò i terreni in cui avrebbe poi eretto il suo castello, la Rocchetta.

 

L’elettromeopatia

Il Mattei, a seguito di un doloroso lutto nel 1840 per la scomparsa della madre, sviluppò una progressiva sfiducia nei confronti della medicina tradizionale, dedicandosi da autodidatta allo studio della medicina alternativa, quella che sarebbe stata poi chiamata omeopatia. Per farlo si ritirò dapprima nella sua tenuta di Vigorso, e successivamente presso il suo laboratorio per eccellenza, la Rocchetta. Quello che fece in più rispetto a Samuel Hahnemann, fondatore dell’omeopatia, fu quello di lavorare e sperimentare una nuova teoria medica: l’elettromeopatia. Questa nuova medicina offriva dei farmaci basati sullo studio che il Mattei aveva condotto sui fluidi elettrici. Secondo tale tesi, avvalorata dalla medicina ufficiale, il corpo umano possiederebbe due cariche elettriche opposte, una positiva e l’altra negativa, che se non ben equilibrate possono portare a importanti scompensi nell’organismo, come gravi patologie.

I farmaci elettromeopatici del Mattei, suddivisi a seconda delle loro specificità terapeutiche, ebbero un grandissimo successo, tanto da essere importanti a livello internazionale. Inoltre, numerosi furono i personaggi illustri del tempo a recarsi presso le sale del Mattei per farsi curare, tra questi: Alessandro Zar di Russia, il maresciallo Radetzsky, Gioacchino Rossini. Altri invece li ricevano direttamente presso le proprie dimore, come l’Imperatrice Elisabetta (Sissi). Addirittura, lo scrittore russo Dostoevskij ne citò l’efficacia in uno dei dialoghi del romanzo I Fratelli Karamazof. La composizione di questi medicinali era segreta, o meglio gli ingredienti e quindi la ricetta erano noti, ma il Mattei si guardava bene dal rendere noto l’esatto procedimento, motivo per il quale in seguito alla sua morte si perse progressivamente l’efficacia del farmaco.

 

La nascita di Rocchetta Mattei

Il Mattei acquistò i terreni su cui un tempo si ergeva un castello di proprietà della Contessa Matilde da Canossa, l’antica Rocca di Savignano, ma da alcuni studi più recenti viene confermata la presenza di resti addirittura etruschi, non solo medievali. La costruzione della Rocchetta iniziò nel 1850 per concludersi una settantina di anni dopo per mano di Mario Venturoli Mattei, fedele aiutante del Mattei e suo figlio adottivo. Il conte partecipò in prima persona ai lavori, essendo l’ideatore e l’artefice di ogni aspetto del suo castello, tanto da posare egli stesso la prima pietra. Già nel 1859 la Rocchetta era abitabile, diventando così la residenza stabile del conte per il resto della sua vita.

In seguito alla morte del Mattei nel 1896, si occuparono dell’edificio e della produzione dei farmaci, e quindi dell’attività elettromeopatica, i suoi eredi: il figlio adottivo Mario Venturoli portò a compimento i lavori in Rocchetta che il conte non era riuscito a terminare, e parallelamente la governate Maria Bonaiuti si occupò della produzione dei farmaci. Alla morte del Venturoli nel 1937 l’attività passo alla moglie Gianna Longhi e successivamente ai suoi eredi. Dal 1969 il laboratorio in cui si producevano i farmaci, in Strada Maggiore 46, venne chiuso, gli ultimi eredi sperperano le ricchezze della famiglia e così scomparve l’impero elettromeopatico che il Conte aveva fatto nascere. La Rocchetta stessa subì un destino nefasto: in seguito alla Seconda guerra mondiale il castello venne requisito dai tedeschi, costringendo la vedova Venturoli a rifugiarsi a Bologna. Non tardarono saccheggi e distruzione da parte delle truppe tedesche e poi da quelle alleate, ma anche da semplici civili. Vennero dunque distrutti e portati via molti degli arredi e dei mobili pregiati che adornavano gli ambienti della Rocchetta. Nel 1959, in seguito alla vendita della Rocchetta a Elena Sapori e marito, una delle costruzioni adiacenti venne trasformata in albergo, con annesso ristorante e accesso al parco. Purtroppo, la Rocchetta venne progressivamente abbandonata e lasciata al proprio destino, fino al 1989 quando si decise di chiuderla per ragioni di sicurezza e stabilità strutturale. Grazie all’impegno della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna è stato possibile recuperare lo splendore della Rocchetta e così permettere nuovamente di visitarla a chi era desideroso di farlo. I restauri sono stati lunghi, meticolosi e ben fatti. Iniziati nel 2006 e durati circa 10 anni, la Rocchetta è tornata ad essere visibile il 9 agosto 2015. Da quel momento è sempre stata aperta nei giorni di sabato e domenica per visite, suddivise per orari e gruppi, grazie alla formazione di guide in grado di accompagnare i visitatori negli ambienti recentemente restaurati. Quello che ora è visibile risulta essere i 2/3 dell’edificio, dal momento che una parte dell’edificio è ancora bisognosa di importanti restauri.

 

Dentro a Rocchetta Mattei

L’aspetto che più colpisce di questa dimora-castello è il suo fascino: ogni scorcio, ogni angolo colpisce l’attenzione di chi vi sta passando, mostrando alternanze di diversi stili architettonici, da quello romanico, al moresco e il liberty, di colori, di forme e di materiali.

L’ingresso al castello avviene sulla destra della possente roccia che ospita l’intera costruzione, affiancata a sinistra da una possente torre rotonda di chiaro stile romanico. Al centro della torre si colloca un’elegante porta-finestra in stile moresco, con un particolare balconcino formato dalla metà di un pulpito romanico in pietra, sul quale compaiono due degli animali simboleggianti gli Evangelisti: il toro per San Luca e l’aquila per San Giovanni. Il portale di ingresso riporta invece una lapide sulla quale venne inciso: “Il Conte Cesare Mattei – sopra le rovine di antica rocca – edificò questo castello dove visse XXV anni – benefico ai poveri – assiduamente studioso – delle virtù mediche dell’erbe – per la qual scienza ebbe nome in Europa – ed era cercato dagli infermi il suo soccorso – Mario Venturoli Mattei – compié l’edificio – e secondo il voto di lui – nel X anno dalla morte – ne portò qui le ceneri – con amore e riconoscenza di figlio. – il III Aprile MCMVI”[1].

Ad accogliere il visitatore, una volta varcato l’ingresso, vi è un piccolo atrio e un arco dalla forma di fiamma, sormontata nella parte che viene lasciata alle spalle di chi entra da una testa di leone incastonata in una cornice elegante e rotonda. Segue poi una lunga ed ampia scalinata scoperta, i cui gradini furono ricavati da un unico pezzo di pietra proveniente dalla cave di Montovolo. Sulla sinistra della scala compaiono tre finestrelle e una balaustra in pietra ospitante sculture simboliche. Ad ammonire i visitatori lungo il percorso una statua di un ippogrifo, animale alato, simbolo esoterico e magico. Dall’altra parte della scalinata un’altra statua scruta chi di passaggio: è quella della testa di Giove barbuto.

 

Percorsa la scalinata si giunge al portone d’ingresso, sormontato da tre piccoli leoni, animale simbolo di potenza. Alla sinistra del portone un’altra scultura accoglie il visitatore: un’arpia che sorregge un mappamondo, esplicito simbolo massonico scelto dal Mattei. Inoltre, nella zona che precede l’ingresso al castello, il conte aveva fatto collocare dei simboli esoterici negativi, per rappresentare la medicina tradizionale che tanto ripudiava, mentre all’interno, dove somministrava i suoi medicinali, i simboli che accompagnavano il visitatore erano invece di segno positivo. Il portone, già esistente al tempo del Mattei, formato da quattro elementi policromi a forma di ruota, motivo ripreso anche nella lunetta sovrastante, introduce a un breve passaggio coperto, dalle pareti rosse decorate da motivi geometrici a zig-zag.

Una volta varcata la soglia, appare la volta dell’arco di ingresso, che introduce al cortile centrale, sorretta da due telamoni: uno bianco, rappresentante il bene, e uno rosa, rappresentante il male. Queste sculture in pietra, di epoca medievale, risalgono al XII secolo. Al di sopra della volta compare un balcone, in stile romanico, le cui mensole di sostegno si dicono provenienti da un monumento funebre attribuito a Pierpaolo e Jacobello dalle Masegne, scultori veneziani del XII secolo. Il balcone cela alcune delle stanze del castello: la Stanza Bianca, anche detta Stanza del Papa, che il Mattei fece realizzare appositamente in previsione di una visita da parte del pontefice Pio IX in seguito alla sua designazione a conte. Purtroppo per il conte questa visita non avvenne mai. Il resto della parete sovrastante la volta e il balcone, racchiusa tra due piccole guglie, è di ispirazione moresca. Osservando il cortile centrale è evidente la forza dell’influenza architettonica moresca: le decorazioni geometriche e le eleganti finestre che circondano le pareti sono sormontate da piccole croci, formate da cinque elementi a forma di rombo. Al centro del cortile si erge una monolitica fontana in pietra, ricavata da una vasca battesimale del XII-XIII secolo, proveniente dalla Pieve di Verzuno.

 

Nella parete di fronte all’ingresso del cortile, una porta contornata da una cornice sinuosa e arancione, sormontata da piccole formelle di terracotta disposte a scacchiera, permette l’accesso a uno degli spazi più rappresentativi del castello: la Sala dei Novanta. Il nome deriva dal desiderio del conte di celebrare il suo novantesimo compleanno in compagnia di novanta suoi coetanei, ma purtroppo il Mattei morì all’età di 87 anni. La sala è a pianta esagonale ed è illuminata e arieggiata da tre porte-finestre in vetro e ferro battuto in stile liberty, ognuna delle quali consta di un balcone che si affaccia sul paesaggio, e da quello centrale è possibile accedere al parco del castello. Il soffitto, di dieci metri di altezza, è decorato da un cielo stellato e adornato da un lampadario in elegante vetro e ferro battuto, mentre il ritratto del Conte è collocato al centro di una rotonda e colorata vetrata in corrispondenza della porta centrale. Alle spalle del visitatore, sulla porta compare un balcone in legno, dietro il quale si cela la Loggia delle Uri, uno degli ambienti in attesa di restauro. Accanto all’ingresso due eleganti mobili con sedile rafforzano il gusto liberty dell’ambiente, come altri due mobili gemelli affiancano la porta-finestra centrale.

Gli elementi e gli arredi in stile liberty presenti nella Rocchetta sono risalenti agli interventi del Venturoli, e quindi in seguito alla morte del Conte.

Dall’atrio della Sala dei Novanta si accede a una scala ripida e stretta che conduce alla porta della Cappella, il luogo più ammirato e conosciuto della Rocchetta. La sala fu ideata e iniziata dal Mattei e portata a termine dal Venturoli. L’ispirazione è stata chiaramente la cattedrale-moschea di Cordova, per l’elegante gioco dei numerosi archi bicromi. L’ambiente è composto da tre navate, divise da colonne rotonde di colore bianco che a loro volta sorreggono colonne quadrate, decorate da strisce regolari bianche e nere, dalle quali partono archi a ferro di cavallo, anch’essi bianchi e neri, che raggiungono l’alto soffitto decorato con disegni di stile moresco nei riquadri. Alcuni affreschi sono presenti nelle lunette alla base degli archi, con le figure di San Pietro, San Giovanni e San Paolo. I materiali impiegati per la realizzazione di questa sala sono molto eterogenei: si va dal marmo, alla pietra, ai telai lignei rivestiti di compensato, alla tela utilizzata per i riquadri del soffitto.

Dalla cappella, proseguendo il percorso si giunge a un altro degli spazi più affascinanti della Rocchetta: il Cortile dei Leoni. Di chiara ispirazione moresca, il cortile si rifà al più monumentale Patio de Los Leones dell’Alhambra di Granada, costituendo così il cuore moresco del castello. Il cortile è contornato da uno stretto portico sorretto da colonne rotonde e sottili, dagli eleganti capitelli, sui quali poggiano colonne quadrate più larghe che affiancano degli splendidi archi polilobati. Al di sopra di ciascun arco compaiono scritture in caratteri cufici, la scrittura araba del VII-X secolo, con l’iscrizione: “Dio (o Allah) solo è il conquistatore”. Dai quattro angoli del cortile partono quattro canalette che confluiscono nella sezione centrale del cortile, decorata da una vasca ottagonale. Al centro, su un basamento a forma di croce, si ergono le figure di quattro fieri leoni, che sorreggono una fontana riccamente decorata. Le pareti interne del cortile sono decorate da motivi geometrici riportati su finissime piastrelle di maiolica azuleios provenienti dalla manifattura di Siviglia. In alcune sezioni le pareti sono mancanti delle piastrelle a causa del deturpamento del luogo avvenuto in seguito all’occupazione del castello durante la Seconda guerra mondiale.

 

Superato il Cortile dei Leoni, si accede alla Sala della Musica, ambiente che prende il nome per la presenza di un pianoforte di notevole pregio. I mobili all’interno di questa sala sono autentici, tra i pochi rimasti dei numerosi e preziosi arredi della Rocchetta. L’ambiente, dipinto di verde pallido, riporta un’elegante boiserie, alla cui altezza si incontrano quattro doppie colonne sulla cui parte alta si mostrano gli stemmi della famiglia del conte.

Altra sala che segue lungo il percorso è la Sala Verde, una piccola stanza dalla pianta rotonda, rivestita in legno fino per circa la metà della sua altezza, per concludersi con una bellissima tappezzeria di colore appunto verde. Il soffitto è a cassettoni intarsiati e una grande doppia finestra illumina l’ambiente offrendo una maestosa vista sulla vallata.

Salendo su per una scala, da questo punto è possibile arrivare alla loggia sopraelevata dove si trova la tomba del conte. Dall’alto della loggia è possibile ammirare il gioco geometrico degli archi della cappella sottostante. A dominare lo spazio del balcone è il grande sarcofago di maioliche colorate in stile liberty, opera della Manifattura Minghetti di Bologna, dove riposano le spoglie mortali del conte Cesare Mattei. La tomba è priva di nomi e di date, nel rispetto delle volontà del conte che volle solamente riportata un’iscrizione.

Un’altra sala a cui è possibile accedere è quella chiamata Sala dell’Oblio (o Stanza del Venturoli), che si affaccia sul Cortile dei Leoni. Le pareti sono intonacate da un verde pallido con rifiniture in legno pregiato. Il Venturoli portò a termine questa stanza e vi abitò, per questo è possibile pensare che la lettera M che appare sulla porta-finestra sia da riferirsi al suo nome. Il pavimento in legno intarsiato offre un effetto tridimensionale alla stanza grazie alle sue forme quadrate e romboidali.

Un'altra piccola stanza che si affaccia sulla vallata è la Sala Gialla, arieggiata da una finestra decorata con una colorata vetrata e illuminata da una pregiata tappezzeria gialla.

Altra stanza portata a termine grazie all’intervento del Venturoli è la Sala della Pace, così chiamata per celebrare la vittoria nella guerra del 1915-18, in cui compare la scritta PAX in oro sulla porta d’ingresso. La sala è illuminata da ampie portefinestre, incorniciate da legni intarsiati e scolpiti nelle parti superiori, mentre in quelli inferiori il legno è artificialmente dipinto. Degni di nota sono il lampadario in alabastro, restaurato, e il pavimento ligneo a spina di pesce e la sontuosa tappezzeria rossa che circonda tutto l’ambiente.

Particolare è la Sala Rossa (o Studio del Conte): è divisa in due sezioni da quattro sottili colonne bianche dalle decorazioni azzurre a zig-zag, originariamente in bianco e nero, a sorregger tre archi polilobati. Al di sopra degli archi, una parete gialla finemente decorata accompagna le decorazioni degli archi. La parte più piccola della sala è decorata da pareti di coloro azzurro pallio, mentre il soffitto, di forma esagonale, riporta decorazioni arabescate ed è diviso in spicchi azzurri che convergono vero il rosone centrale. Nell’altra parte della sala le pareti sono decorate da riquadri gialli con cornici bianche e il soffitto è interamente ricoperto da piccole piramidi di color marrone realizzate in cartapesta, ricavata dalle carte di giornali dell’epoca. Il pavimento è unico per entrambi le sezioni della sala, con riquadri a listelli orizzontali e verticali.

A seguire si incontra la Stanza della Torre di Vedetta, una piccola e accogliente stanza dalla pianta circolare con portefinestre incassate fra pannelli di legno. Originale il soffitto a losanghe artisticamente dipinte.

Per concludere, dalla parte del castello si scende da una lunga ed elegante scala a chiocciola, che conduce con una perfetta spirale al cortile centrale.

La Rocchetta, come è possibile intuire, può trasformarsi in un’ottima e particolare scenografia e non si fecero scappare l’occasione di girare al suo interno registi come Pupi Avati (in Balsamus, l’uomo di Satana) o Marco Bellocchio (Enrico IV) o come affasciante ambientazione di romanzi, come dimostrano i libri scritti da Arturo Palmieri (In Rocchetta con Cesare Mattei: ricordi di vita paesana, 1931), Mario Facci (Il Conte Cesare Mattei, parte prima e seconda, 2012 e Il Conte Cesare Mattei Signore della Rocchetta, 2014).  La sera del 9 luglio 2017 il film Enrico IV è stato proiettato nel cortile centrale della Rocchetta, in presenza del regista e dell’attrice Claudia Cardinale.

 

Visite in Rocchetta

Dal 2015 con la riapertura al pubblico, resa possibile dai restauri condotti in seguito all’acquisizione della Rocchetta da parte della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, è possibile visitare la Rocchetta nei giorni di sabato e domenica, con orari e entrate prestabilite, accompagnati da una guida fornita dal servizio del comune di Grizzana Morandi, che ha in gestione l’immobile per il rapporto con il pubblico. Inoltre, durante la settimana sono previste visite esclusive, sempre su prenotazione, è possibile affittare alcuni spazi interni ed esterni per cerimonie, ricevimenti e/o congressi. Non solo, di recente è andato in onda il programma “Voglio essere un mago”, un reality-talent in cui giovani apprendisti tra i 14 e i 18 anni seguono le lezioni di insegnanti esperti per trasformarsi in incantatori e illusionisti professionisti, le cui puntate non potevano che essere registrate all’interno degli spazi della Rocchetta.

Per le visite, orari e prenotazioni è utile, oltre che consigliato, la consultazione del link: https://rocchetta-mattei.it/visite/

 

 

 

Note

[1] Rocchetta Mattei. Un gioiello ritrovato, a cura di Gianni Castellani, ed. IMG – Moderna Industrie Grafiche S.r.l., Bologna, 2017, p. 13.

 

 

Bibliografia

Rocchetta Mattei. Un gioiello ritrovato, a cura di Gianni Castellani, ed. IMG – Moderna Industrie Grafiche S.r.l., Bologna, 2017

 

Sitografia

https://rocchetta-mattei.it/chi-siamo/

https://rocchetta-mattei.it/la-storia-della-rocchetta-mattei/

https://web.archive.org/web/20150811061646/http://www.fondazionecarisbo.it/fondazionecarisbo/page.do?idc=12


LA SCUOLA DI ATENE PT I

A cura di Andrea Bardi

 

 

Il dibattito interpretativo sulla Scuola di Atene

Sulla parete opposta rispetto alla Disputa, argomento approfondito in precedenza, Raffaello dispiega quello che con ogni probabilità e il suo affresco più noto. La Scuola di Atene (Fig.1), la cui datazione viene fatta risalire attorno al 1510, occupa, in ordine cronologico, la seconda delle pareti (quella ad ovest) della Stanza della Segnatura. Il titolo con cui l’affresco è universalmente conosciuto, La Scuola di Atene, non corrisponde, tuttavia, alle intenzioni di Giulio II, il quale affidò a Raffaello il compito di tradurre in figura la Filosofia, come si evince, del resto, dal piccolo tondo affrescato sulla volta (Fig. 2), all’interno del quale la rappresentazione allegorica della disciplina è affiancata da due putti recanti cartigli con l’iscrizione “CAUSARUM COGNITIO” (“conoscenza delle cause”, ovvero lo scopo ultimo della speculazione filosofica).

 

Una prima interpretazione – errata – del soggetto dell’affresco venne tentata da Giorgio Vasari, il quale, nella Vita di Raffaello da Urbino, parla di come il pittore

havendo ricevute molte carezze da Papa Iulio cominciò nella camera della segnatura una storia quando i teologi accordano la Filosofia & l’Astrologia; con la Teologia; dove sono ritratti tutti i savi del mondo che disputano in vari modi”[i]

Più di un secolo dopo fu Giovan Pietro Bellori (Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino,1695) a riportare la discussione su un binario più corretto. Nel brano relativo all’affresco, lo storico romano contesta l’ipotesi vasariana già a partire dal titolo, che fa riferimento proprio all’ “antico Ginnasio di Atene”. Oltre ad offrire all’opera un titolo pressoché definitivo – la storiografia protestante nordeuropea sistematizzò in seguito tale riferimento – Bellori parte con lo sconfessare l’intera costruzione teorica dell’aretino:

“improprio ancora è il nome impostole dal Vasari: la concordia della Filosofia, ed Astrologia con la Teologia, non vi essendo ne Teologi, ne Vangelisti, com’egli lungamente descrive”[ii]

per poi mettere a fuoco quello che è il reale soggetto dell’opera, ribadendo come l’intenzione di Raffaello fosse quella di

“raccorre insieme gli studi, e le scuole de’ più illustri filosofanti, non di una età sola, ma de’ più celebri del Mondo per formare l’Immagine della Filosofia”[iii].

 

La Scuola di Atene e l’evoluzione iconografica della Filosofia

Dopo aver chiarito ogni dubbio relativamente alla terminologica adottata – e, di conseguenza, alla tematica affrontata dal pittore nell’affresco – si rende ora necessario un approfondimento descrittivo dell’opera e il suo inquadramento all’interno della tradizione pittorica europea.

Incorniciata dall’arco acuto della parete di fondo, La Scuola di Atene altro non è che un consesso di filosofi – in prevalenza greci, ma non solo – che occupano la scalinata di dislivello di due ambienti. Inquadrati dall’infilata di due botti a lacunari geometrici, i principi della tradizione filosofica greca – Platone e Aristotele (rispettivamente a destra e a sinistra) – costituiscono il baricentro della composizione, il polo magnetico di riferimento attorno al quale gravitano, su entrambi i lati, cinquantotto figure, molte delle quali sono state individuate con un buon margine di certezza.

Prima di affrontare la questione – delicata – dell’identificazione dei personaggi, occorre tuttavia provare a dare all’opera un posto nella storia, per chiarirne tanto i legami con la tradizione precedente quanto i motivi di distacco e di originalità nei confronti della stessa. Lo studioso che si è occupato di tracciare, sia pur per sommi capi, una storia dell’iconografia della Filosofia è stato Glenn W. Most, in un articolo dedicato all’affresco vaticano, originariamente pubblicato nel 1996 e tradotto nel 2001 da Einaudi (Leggere Raffaello: “La Scuola di Atene” e i suoi pre-testi). Oltre a porsi sulla scia di Springer (1883) e alla sua critica all’eccesso di zelo dimostrato da certa storiografia positivistica, “colpevole” di aver provato – senza successo – di fornire un identikit preciso ad ognuno dei quasi sessanta personaggi ritratti, il contributo di Most agli studi raffaelleschi risulta essere estremamente utile per due motivi: se da un lato lo studioso fornisce ipotesi affascinanti – sebbene non provate – relativamente alle fonti e agli uomini chiave dietro l’elaborazione concettuale dell’opera (argomento che verrà discusso successivamente), dall’altro il suo merito è indubbiamente quello di aver dato una collocazione precisa, all’interno di un filone iconografico ben preciso, alla Scuola di Atene.

L’iconografia della Filosofia, spiega Most, nasce nella letteratura tardoantica, con il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio (524 d.C. ca.), testo in cui la Filosofia appare come una donna caratterizzata, già a queste altezze cronologiche, dalla presenza di due attributi canonici, il libro e lo scettro. Anche il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (V secolo) e la Psychomachia di Prudenzio (390-405 d.C.) sembrano aver partecipato alla creazione di un’iconografia comune, in cui al tema della Filosofia si accompagnava quello delle arti liberali e quello dei vizi e delle virtù[iv].

Nelle arti visive, il periodo della tardoantichità e successivamente il Medioevo videro la diffusione di due grandi modelli iconografici: la Filosofia, infatti – le cui fattezze erano ancora femminili – poteva venire sia isolata sia circondata da un numero ristretto di personaggi maschili, che a loro volta potevano essere identificati come filosofi. Altre volte ancora, la Filosofia veniva attorniata anche dalle personificazioni delle arti liberali (Coppa Horst, XII secolo; Manoscritto miniato dell’Hortus deliciarum di Herrad di Landsberg, anch’esso del XII secolo). Un modello simile era ancora vivo nella tradizione europea ai tempi di Raffaello, testimoniato dal frontespizio della Margarita Philosophica di Gregorius Reisch (1504)[v].

Julius von Schlosser e Ernst Gombrich – continua lo studioso – arrivarono a proporre un confronto della Scuola con testi cronologicamente più vicini agli affreschi Vaticani –  e sicuramente conosciuti dall’urbinate – ovvero le Virtù di Pinturicchio nel Collegio del Cambio di Perugia (fig. 3) e le arti liberali di Pinturicchio nell’Appartamento Borgia (fig. 4)[vi]. Sia in Pinturicchio che in Perugino, tuttavia, si era in presenza di una narrazione unificata, di una struttura unica e comprensiva tanto dell’allegoria filosofica quanto dei “praticanti”. In questa prospettiva l’innovazione apportata da Raffaello consiste, sostanzialmente, nell’aver separato i due elementi, scomponendo l’impaginazione tradizionale e riservando al primo elemento il tondo della volta e al secondo un’intera parete.

 

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le vite, p. 69.

[ii] G. P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 30.

[iii] Ivi, p. 31.

[iv] G. W. Most, Leggere Raffaello: “La Scuola di Atene” e il suo pre-testo, p. 21.

[v] Ivi, p. 22.

[vi] Ivi, p. 24.

 

 

 

Bibliografia

Daniel Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, in “The Art Bulletin”, vol. 77, no. 4, New York, College Art Association, 1995, pp. 638-646.

Glenn W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo (1999), trad. it. di Daniela La Rosa, Torino, Einaudi, 2001.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.


CHIOSTRO DEGLI ARANCI PT. I

A cura di Federica Gatti

 

Il Chiostro degli Aranci

Progettato, costruito e decorato tra il 1419 e il 1441, il Chiostro degli Aranci della Badia Fiorentina è parte del progetto di rinnovamento della stessa portato avanti dall’abate Gomezio[1]. Seguendo i costumi benedettini, il chiostro è situato a Sud della chiesa di Santa Maria Assunta: questa collocazione non solo seguiva la tradizione centenaria, ma separava anche i monaci il più possibile dal lato pubblico della Badia. Lo spazio di costruzione era predeterminato: a Nord dal nartece e la navata della chiesa; a Est dalla sala capitolare quattrocentesca e da un gruppo di botteghe lungo via del Proconsolo; a Sud da un altro gruppo di botteghe lungo via del Garbo; ad Ovest da alcune case e torri appartenute alla famiglia dei Sacchetti.

 

L’architetto o il progettista risolse, quindi, il problema della mancanza di sufficiente spazio aperto tramite lo sviluppo verticale della costruzione del chiostro.

Il Chiostro degli Aranci è un ambiente trapezoidale, formato da cinque campate nel lato Nord e in quello Sud e sette nel lato Est e Ovest, che si sviluppa per tre piani, due loggiati e il terzo terrazzato.

 

I due piani bassi del chiostro hanno coperture voltate a crociera rette da colonne ioniche collegate da archi a sesto ribassato poco profondi, tipici delle logge del tardo Medioevo e primo Rinascimento. A differenza dei cortili non monastici dove le colonne continuano fino al pavimento, quelle delle arcate del Chiostro degli Aranci sono supportate da un muro basso che serve anche come panca dove i monaci possono sostare.

La colonna d’angolo, di grossezza maggiore di quelle dei vari lati, sia nel piano terreno che nel piano superiore, rappresenta un elemento arcaicizzante e per contrapposto negli spigoli delle pareti si ha la scomparsa delle lesenette intermedie, ridotte ad un esilissimo elemento, a pianta pressoché quadrata, inserito fra le due parti ad angolo retto: si ha quindi uno spicchio di peduccio nei quattro angoli della muratura della loggia.

Sembra che il supporto finanziario per il progetto del Chiostro venga non solo dall’abate Gomezio, ma anche da fuori del monastero, e Ser Filippo di Ser Ugolino Pieruzzi è spesso accreditato come il patrono del Chiostro degli Aranci, in conformità alla biografia del notaio e studioso scritta da Vespasiano da Bisticci[2]. Egli afferma che Ser Filippo faceva molti regali anonimi, includendo fondi per il Chiostro degli Aranci. Questa dichiarazione trova conferma in alcune prove documentarie: Eduardo Nunes, storico portoghese interessato alla vita e ai lavori dell’abate Gomezio, interpretava i pagamenti del 1434 e del 1436 per indicare la responsabilità di Ser Filippo per il materiale da costruzione dei dormitori e del Chiostro di Badia. Apparentemente conferma ciò che sostiene da Bisticci, anche se i pagamenti sono relativamente ridotti e sembra che si sia comportato come intermediario per le transazioni finanziarie per conto del monastero. Non si è quindi certi del patronato di Ser Filippo anche perché altre fonti menzionano l’abate Gomezio e non Ser Filippo come responsabile del progetto.Le colonne grigie di pietra serena, i capitelli e le modanature si contrappongono ai muri in stucco dei parapetti, eco di un classicismo brunelleschiano reso popolare solo pochi anni prima nella loggia dell’Ospedale degli Innocenti.

Molti degli studi sulla storia architettonica del Chiostro degli Aranci si sono incentrati sull’identità del suo architetto, indagine resa difficoltosa dalla frammentarietà dei documenti e dalla loro forma di brevi annotazioni.

Anche se Vasari non include il Chiostro degli Aranci nella biografia di Bernardo Rossellino, molti storici hanno attribuito il Chiostro allo scultore e architetto perché il suo nome appare in un libro contabile della Badia pertinente al complesso del Chiostro. Si sa che tra il febbraio 1436 e il febbraio 1438 Rossellino venne pagato più di 56 fiorini, presumibilmente per i lavori nel nuovo complesso del Chiostro. Le ipotesi attributive avanzate sono molte, tra le quali quella di Pietro Sanpaolesi, ad esempio, il quale sostiene che il “maestro di murare” Antonio di Domenico progettò e realizzò l’intero complesso, poiché in molti pagamenti, anche se non tutti, viene chiamato “capomaestro alla parte” o semplicemente “capomaestro”, titolo che veniva dato al direttore dei lavori.

I libri contabili della Badia riportano una lista di nomi di molti lavoratori specializzati che si adoperarono per il progetto del Chiostro, per cui, da quanto si è iniziato a vedere il Chiostro degli Aranci come uno sforzo collettivo, il problema di identificarne l’autore è passato in secondo piano. Durante il XV secolo dei progetti costruttivi erano, infatti, spesso incaricati due “capomaestri”, uno per controllare gli intagliatori e un altro per controllare i muratori: per il Chiostro degli Aranci, grazie all’analisi dei pagamenti effettuati, sono stati fatti i nomi di Giovanni d’Antonio da Maiano e Antonio di Domenico dalla Parte.

 

Primo piano del Chiostro degli Aranci

Il primo piano del Chiostro degli Aranci permette l’accesso alla chiesa, alla sala capitolare, alla cappella, al refettorio, alle scale che conducono al secondo piano del chiostro e ai dormitori. Seguendo le regole stabilite nei monasteri cistercensi, il chiostro doveva avere due entrate per la chiesa: mentre il portale arcuato del capitolo nuovo venne rimodernato durante il XVII secolo, la porta monumentale probabilmente sostituisce una precedente entrata all’antico nartece della chiesa. Una seconda porta si apre nella navata della chiesa dalla campata angolare di Nord-Est: quest’entrata è rialzata di quattro scalini e permette l’accesso al coro dei monaci. L’entrata originale del coro venne demolita per creare una delle due cappelle che fiancheggiano l’altare maggiore della Badia Fiorentina. Attualmente i visitatori entrano nel chiostro da una porta situata nel lato destro del presbiterio, la quale conduce a una scalinata costruita nel XVII secolo rimpiazzando una piccola cappella che era sotto il patronato della famiglia dei Del Caccia e dedicata nel 1523 ai Santi Giacomo e Filippo.

La quattrocentesca sala del capitolo era situata adiacente alla cappella Del Caccia, sul lato Sud, e i costruttori del Chiostro incorporarono la facciata nella terza e quarta campata nella loggia Est del Chiostro, incastonando i suoi tre archi a mensola nel cornicione della facciata medievale.

 

Il muro della campata della loggia meridionale è coperto da un affresco di Vincenzo Meucci del 1736 che raffigura San Benedetto che presenta il marchese Ugo alla Vergine.

 

L’affresco è situato all’interno di una cornice in bugnato che include il peduccio corrispondente alla colonna angolare e che riprende le incorniciature delle porte e delle finestre. Sulla sinistra dell’opera si vede la Madonna seduta, avvolta da un velo sul quale sono adagiati degli amorini, che guarda il marchese Ugo presentatole da Benedetto, il quale è posizionato sul lato destro dell’affresco. L’opera venne staccata per il restauro e attualmente versa, soprattutto nella parte bassa, in cattivo stato.

Sulla parete Ovest è fissata in verticale una lastra tombale, precedentemente collocata in chiesa, dell’uomo di legge Tommaso Salvetti, morto nel 1472.

Altre lapidi tombali si susseguono sul resto della parete settentrionale e su quella orientale: tra le molte del XIV-XV secolo si ha a Nord quella dei Cerchi, con l’arme parlante della potente famiglia;

 

a Est quelle di modestissime dimensioni, con un semplice stemma, di personaggi legati alla vita artigiana fiorentina, come ad esempio Guglielmo Spadalunghi, notaio dell’Arte della Lana morto nel 1300, oppure Piero di Pacino pianellaio, le quali erano già situate in altri ambienti del monastero.Altre lapidi tombali si susseguono sul resto della parete settentrionale e su quella orientale: tra le molte del XIV-XV secolo si ha a Nord quella dei Cerchi, con l’arme parlante della potente famiglia;

Le prime tre campate della parte meridionale della loggia Ovest contengono finestre che si aprono sul refettorio, la cui entrata era dalla campata dell’angolo Nord-Ovest, dove una porta collegava la loggia Ovest con un largo vestibolo voltato a crociera. Un affresco che raffigura San Benedetto che addita silenzio, progettato e forse anche realizzato da Beato Angelico, sormonta questa porta e ricorda ai visitatori di rimanere in silenzio nel refettorio come richiesto dalla regola benedettina.

La lunetta rappresenta un mezzo busto della figura del santo, vestito con l’abito nero dei monaci benedettini, circondato da un arco a sesto acuto in finto marmo. Il santo addita silenzio con il dito indice della mano sinistra che poggia sulle labbra serrate e nella mano destra tiene una fascina di bastoni, ovvero il flagello che è uno dei suoi attributi più comuni. Vasari attribuisce la lunetta a Beato Angelico in entrambe le versioni delle sue Vite: l’attribuzione sembra piuttosto certa sulla base dello stile della sinopia a confronto con altre simili lunette dipinte nei primi anni 40 del Quattrocento nel convento di San Marco, soprattutto confrontandola con la lunetta che rappresenta San Pietro Martire che addita silenzio.

 

Un’attribuzione del completamento in pittura è più complicata: nel 10 e 17 dicembre 1443, la Badia si accordò con un distributore di pigmento blu per l’acquisto di due once di azzurrite per questo affresco. Non si sa se questa quantità di pigmento fosse per completare, risistemare o riparare l’affresco. Ad ogni modo si può dire con certezza che la quantità di affresco eseguita fino al momento era minima, data la piccola quantità di pigmento acquistato, il quale venne lavorato a secco perché l’azzurrite non può essere applicata sull’intonaco fresco.

 

 

Note

[1] Il nome del chiostro della Badia Fiorentina suggerisce la presenza di alberi di aranci, anche se non ci sono prove che il nome venisse usato prima del XIX secolo. Si veda: A. Leader, The Florentine Badia… p. 159.

[2] V. Da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, Firenze, 1859, pp. 382-391.

 

 

 

Bibliografia

Magno, Dialoghi, manoscritto n. 215 S.78, Abbazia di San Gallo

Neumeyer, Die Fresken im “Chiostro degli Aranci” der Badia Fiorentina, Jahrbuch der Preuszischen Kunstsammlungen, 48. BD., Staarliche Museen zu Berlin, Preussicher Kulturbesitz, 1927, pp. 25-42

Tyszkiewick, Il Chiostro degli Aranci della Badia Fiorentina, Rivista d’Arte, gennaio 1, 1951, pp. 203-209

Procacci, Sinopie e affreschi, Milano, Electa per Cassa di Risparmio di Firenze, 1960, p. 66

R. Henderson, Reflection on the Chiostro degli Aranci, Art Quarterly 32, n. 4, inverno 1969, p. 395, p. 399

Guidotti, La Badia Fiorentina, Firenze, Becocci Editore, 1982

Leader, The Florentine Badia: Monastic Reform in Mural and Cloister, Ann Arbor, Umi Microform, 2000

Leader, Architectural Collaboration in the Early Renaissance. Reforming the Florentina Badia, Journal of the Society of Architectural Historian, Boston, University of Massachussets Boston, 2005, pp. 204-233

Leader, The Badia of Florence: Art and Observance in a Renaissance monastery, Indiana University Press, 2011, pp. 138-139

Salvestrini, P. D. Giovannoni, G. C. Romby, Firenze e i suoi luoghi di culto dalle origini a oggi, Pisa, Pacini Editore, 2017


“RITRATTE – DIRETTRICI DI MUSEI ITALIANI”

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

“Ritratte – Direttrici di musei italiani”

Nelle Sale degli Arazzi di Palazzo Reale ha aperto al pubblico, dal 3 marzo al 3 aprile 2022, la mostra fotografica “Ritratte – Direttrici di musei italiani” promossa e prodotta da Palazzo Reale, Comune di Milano Cultura e Fondazione Bracco. L’esposizione, attraverso gli scatti del fotografo francese Gerald Bruneau, si pone in continuità con l’impegno della Fondazione che da tempo si confronta con la valorizzazione delle competenze femminili nei vari campi del sapere e l’abbattimento dei pregiudizi. Come sostiene Diana Bracco, Presidente di Fondazione Bracco, “alla guida di importanti istituzioni culturali del nostro Paese ci sono professioniste straordinarie che hanno raggiunto posizioni apicali grazie a competenze multidisciplinari, che uniscono una profonda conoscenza della storia dell’arte con capacità gestionali e creative”, pertanto è risultato doveroso valorizzarne le storie ai fini di incoraggiare le nuove generazioni di donne.

 

L’impegno per il femminile e la costruzione di una società paritetica però non è nuovo a Fondazione Bracco, infatti già nel 2016 aveva concepito il progetto “100 donne contro gli stereotipi” (100esperte.it), ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A. e sviluppato grazie alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Quest’ultimo progetto prevedeva la costituzione di una banca dati online ai fini di radunare profili eccellenti di esperte in vari settori del sapere, selezionate con criteri scientifici, allo scopo di aumentarne la visibilità sui media. Nel 2019 invece, sempre in collaborazione con Bruneau, aveva ideato la mostra fotografica “Una vita da scienziata” di cui i soggetti principali erano alcune delle più grandi scienziate italiane.

 

Ritratte. La donna oltre il ruolo della Musa”

La scelta del titolo “Ritratte” per la mostra è dovuta a molteplici motivi. In primo luogo permette di ricollegarsi alla storia dell’arte, un tempo ad essere raffigurati erano soprattutto i membri di famiglie nobili, aristocratici e regnanti che, quando ancora non esisteva la fotografia, fissavano la propria immagine attraverso la pittura. Ad essere ritratte tuttavia erano unicamente le dame di buona nascita, la cui famiglia poteva permettersi il pagamento di un pittore. Il termine gioca inoltre sul fatto che le direttrici di tali istituzioni, che di norma abitano spazi di lavoro appartati, in questa sede sono state trasformate in quelle stesse opere d’arte di cui si occupano, divenendo così oggetto dell’attenzione collettiva che ne riconosce il ruolo apicale.

 

Il fotografo, in merito alla genesi del progetto, ha affermato che da tempo sognava di intraprendere un piccolo Grand Tour alla ricerca dei luoghi che custodiscono l’Arte nel nostro paese. Egli però, a differenza dei viaggiatori del passato che amavano farsi ritrarre innanzi ai capolavori dei pittori, ha voluto ritrarre chi di questo patrimonio si fa oggi custode. “La storia”, argomenta Bruneau, “è sempre stata piena di figure femminili, prevalentemente nel ruolo di muse o modelle di grandi artisti. Ma se le donne hanno sempre ispirato l’arte o ne sono diventate, grazie ai loro talenti, autrici prestigiose, io ho preferito andare alla scoperta di quelle donne che hanno scelto di custodirne i tesori, sempre più consapevoli del ruolo vitale dell’arte nella cultura del proprio paese, e si cimentano oggi in un compito estremamente difficile: la direzione e la cura dei Musei, i luoghi sacri alle Muse”.

L’intento del fotografo è quello di valorizzare la bellezza di tali figure, stimolando la riflessione e il pensiero critico. A partire da questo desiderio ha lavorato per circa due mesi, durante il difficile periodo della pandemia scandito da continui lockdown, poiché vivere senza l’arte non era uno scenario per lui attuabile. In questo suo Tour negli spazi museali, pressoché disabitati, ha avuto la possibilità di ammirare grandi capolavori in una cornice sospesa nel tempo. Il fotografo si è mosso tra le statue della Magna Grecia e dell’Antica Roma, fino alle realizzazioni contemporanee, attraversando disparate epoche ed i loro costumi, simboli, capolavori e architetture. Di fronte a cotanta bellezza, che gli ha provocato una forte sindrome di Stendhal, Bruneau ha faticato nell’effettuare una scelta dei luoghi in cui realizzare gli scatti.

 

Tra le protagoniste della mostra figurano i ritratti di Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese di Roma; Flaminia Gennari Santori, Direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma; Anna Maria Montaldo, già Direttrice Area Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano e Alfonsina Russo, Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, per citarne alcune. Una delle fotografie più suggestive è quella di Emanuela Daffra, Direttrice Regionale Musei della Lombardia, immortalata di fronte all’iconico Cenacolo vinciano; a cui fa seguito quella di Virginia Villa, Direttrice Generale Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari di Cremona, ritratta nell’atto di abbracciare con amore un violino, simbolo cremonese.

 

In questo modo Gerald Bruneau ha dato vita ad un viaggio nella bellezza di tali “splendide vestali”, come da lui definite, dedite a tenere in vita il fuoco sacro dell’arte per mezzo della loro sensibilità e intraprendenza. Le direttrici, trasformate nelle sue muse e guide, gli hanno regalato una ventata di energia e di ottimismo in un periodo travagliato, a loro pertanto rivolge la sua gratitudine e ammirazione.

 

 

Informazioni di visita

MOSTRA FOTOGRAFICA “RITRATTE – DIRETTRICI DI MUSEI ITALIANI “

Palazzo Reale di Milano | Sale degli Arazzi |Milano, piazza del Duomo 12

3 marzo – 3 aprile 2022

www.palazzorealemilano.it

www.fondazionebracco.com

 

INGRESSO GRATUITO

 

ORARI
Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00 – 19.30 | Giovedì 10.00 – 22.30 | Lunedì chiuso Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

 

Ufficio stampa mostra

Lucia Crespi | [email protected]

Ufficio Stampa Comune di Milano

Elena Conenna | [email protected]


LA CHIESA DI SAN DOMENICO A NARDÒ: UN RACCONTO DI PIETRA IMMORTALE

A cura di Letizia Cerrati

 

 

 

Fulgido esempio di Barocco salentino, nella sua declinazione di Barocco neretino, la Chiesa di Santa Maria de Raccomandatis a Nardò è meglio conosciuta come San Domenico.

La data di costruzione è incerta, il complesso architettonico sorge su una delle più antiche aree di fondazione domenicana sul territorio (1300 circa).

Il convento originario andò distrutto a seguito dell’assedio e dell’incendio della città nel 1384 e della ricostruzione si occuparono i vescovi Giovanni Barella (1423-34) e Ambrogio Salvio (1569-77), coadiuvati dal popolo.

L’edificio attuale è frutto della ricostruzione promossa dai frati Domenicani che lo intitolarono a Sancta Maria de Raccomandatis nel decennio successivo alla Battaglia di Lepanto.

Il contratto, risalente al 14 dicembre 1580, stipulato alla presenza del notaio Francesco Fontò, testimonia che l’incarico fu affidato dai frati Domenicani all’architetto neretino Giovanni Maria Tarantino[1].

I lavori furono ultimati nel 1586, ma il terremoto che si abbatté sulla città il 20 febbraio 1743 causò ingenti danni alla struttura, soprattutto alla parte interna, risparmiando la facciata, la parete laterale sinistra ed una parte della sagrestia.

 

La chiesa ha pianta a croce latina, a navata unica, e presenta quattro cappelle in ciascun lato e il suo architetto è il massimo esponente di quella maniera neretina che fra Cinque e Seicento si contese il primato nel panorama artistico locale con quella leccese.

Questa sottile ma significativa differenziazione tra le due maniere contemporanee è rafforzata dall’impiego di un materiale di costruzione caratteristico nell’ambiente neretino, che induce alcuni studiosi a parlare di pietra barocca neretina riferendosi al carparo, diverso dalla pietra leccese ed anche da quella di Cursi o Maglie.

La chiesa domina oggi sullo spazio della piazza principale della città, catturando l’attenzione dei passanti, stregati dalle voci degli omuncoli di pietra, osservati dall’alto dai capitelli antropo-fitomorfi, dalle maschere e dai telamoni che affollano la facciata.

La facciata in carparo è un imponente monumento barocco, incrostato di reminiscenze di simbologia medievale e riecheggiante gli avori bizantini, soprattutto nella resa puntigliosa delle figure protagoniste. Dal 1580 vi lavorarono Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio, Scipione de l’Abate e Scipione Bifaro.

Circa l’iconografia della facciata sono state avanzate numerose ipotesi, tra cui quella di un possibile coinvolgimento di Ambrogio Salvio, il teologo domenicano che soggiornò per un periodo a Nardò; tuttavia, questa fu costruita durante il vescovato di Cesare Bovio, che si avvaleva della collaborazione di Carlo Borromeo.

 

Gli altari barocchi sono spesso assimilabili a facciate chiesastiche in miniatura, viceversa l’impaginazione architettonica della facciata del San Domenico potrebbe evocare la struttura e la decorazione fitta e complessa di un altare barocco.

Il prospetto strutturato in due ordini sovrapposti si divide in mondo terreno e mondo celeste.

Il portale è di fattura più tarda, inquadrato da una struttura ad arco di trionfo, e si rivela immediatamente nella sua natura di inserimento posteriore rispetto al resto della facciata.

L’ordine inferiore inizia con un basamento alto, con i piedistalli delle colonne aggettanti e decorati con roselle e teste di profilo.

Sei colonne binate e scanalate, terminanti con capitelli con testine umane – con scanalature che si infittiscono ad un terzo dell’altezza, evidente grazie alla presenza di un collarino – dividono in tre parti la facciata.

Gli intercolunni ospitano teste barbute, piccoli festoni vegetali, putti nudi, seduti, capovolti o recanti vari attributi; una piccola schiera di personaggi grotteschi, foriera di uno spirito pagano, popola il prospetto, variando nell’aspetto a seconda di come cadono luci e ombre, nel fregio, invece, si scorgono altri occhi attenti: quelli dei mascheroni vegetali scolpiti.

La parte centrale, ai lati del portale è caratterizzata da motivi barocchi: volute, erme fogliate e barbute, grandi putti nudi che sostengono sulla testa canestri di frutta come fossero telamoni.

 

La zona inferiore si pone in un atteggiamento di subordinazione rispetto a quella superiore: il mondo mortale, pagano ed effimero, si inchina al mondo della Fede, della contemplazione e dell’eternità.

Nell’ordine superiore, trionfo del Regno di Dio e quindi della Redenzione, l’eccesso decorativo è abbandonato a favore di un’essenzialità dal tono sacro; le forme si alleggeriscono, perdono la pesantezza delle cose terrene ed acquisiscono la levità di quelle divine, su cui le ombre non paiono più posarsi.

L’impalpabilità che caratterizza ciò che è celeste si riflette su questa parte dell’edificio: svaniscono i significati misteriosi e si dissolve l’aura ancestrale che riveste la parte inferiore, si fanno spazio la trascendenza e la luce.

Le lesene binate e rigonfie internamente tenute insieme da un unico grande capitello sono una delle costanti grammaticali nel linguaggio architettonico di Tarantino che si ritrova in quest’opera.

Analoghe a quelle inferiori, le nicchie laterali superiori ospitano santi domenicani affiancate da lesene decorate a squamette e poggianti su una finta balaustra posta al di sotto.

Quest’ultima, di dimensione maggiore, è presente anche al di sotto del finestrone centrale, inquadrato da lesene decorate con motivi floreali.

La nicchia centrale strombata è caratterizzata da una finestrella centinata[2] ed interrompe la trabeazione di coronamento.

Sullo spigolo che unisce la facciata e la parete laterale campeggia, sostenuto dall’erma fogliato, lo stemma della città di Nardò, ora quasi completamente consunto.

L’alto basamento prosegue sulla parete laterale, imbiancata e scandita da coppie di colonne scanalate, che intrappolano tra loro un pilastro ruotato di 45°, motivo ricorrente nelle architetture di Tarantino.

Questo rapporto tra colonne e pilastro rimanda alla dialettica tra volumi nelle architetture barocche ampiamente indagata dagli studiosi e storici dell’arte Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato ed alle sue possibili letture e interpretazioni come relazione neoplatonica tra corpo e anima, materia e forma, perfezione celeste e incompiutezza terrestre.

La cornice superiore è interrotta da sei piccole finestre centinate e strombate che anticamente si affacciavano sulla piccola navata.

Il campanile che svetta sull’edificio, di grande interesse artistico, è il punto da cui ebbe inizio il rinnovo della chiesa nel Cinquecento, ultimato nel 1572, in cui è possibile distinguere attualmente una porzione risalente al Quattrocento, una seconda al Cinquecento ed una terza successiva alla ricostruzione seguita al terremoto del 1743.

Lo schema dell’intero prospetto segue le leggi geometriche del quadrato, come si può facilmente notare osservandolo.

La magnifica decorazione della facciata assorbe l’attenzione dei visitatori che si perdono, frastornati e ammaliati dai racconti di pietra che si dispiegano su di essa, per poi essere catapultati nell’atmosfera solenne dell’interno dell’edificio.

 

Lo spazio interno fu ricostruito dopo il 1743 e allestito con un nuovo apparato di stucchi.

Sono nove gli altari presenti nella chiesa. L’altare maggiore originario era, però, più maestoso rispetto a quello attuale in marmi policromi risalente al 1944.

Il transetto occidentale ospita un altare in marmo dedicato alla Vergine del Rosario, con una pala, opera del pittore locale Donato Antonio d’Orlando che raffigura la Madonna con in braccio il Bambino. La Vergine, col capo leggermente chinato, pone con la mano destra il Rosario a Santa Caterina, mentre con la sinistra regge il Bambino, che porge invece il Rosario a San Domenico; dietro di loro gruppi di Santi, pontefici, martiri e sovrani.

Due angeli in alto recano fiori e i putti mantengono aperto un pesante tendone rosso.

Il convento adiacente alla chiesa fu in seguito arricchito da una scala alla napoletana a cui lavorò Adriano Preite seguendo i disegni del domenicano Alberto Manieri.

 

 

Le foto dalla 2 alla 7 sono state realizzate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Lo stesso architetto conferma i suoi natali qualificandosi “Nardoniensis” (neretino).

[2] Murata probabilmente in seguito al terremoto, per garantire maggiore stabilità all’edificio.

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il barocco leccese, in Itinerari d’arte, a cura di M. Rossi e A. Rovetta, Roma-Bari, Laterza, 2003

Regione Puglia, Assessorato alla Cultura E.P.I., C.S.P.C.R., Nardò, Itinerari turistico culturali, Sulla via delle capitali del barocco, Nardò, S.Maria de Recomandatis (S. Domenico)

Benedetto Vetere, Città e monastero, i segni urbani di Nardò (secc. XI – XV), Galatina, Congedo Editore, 1986

Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di Marcello Gaballo, Galatina, Congedo Editore, 1999


IL CASTELLUCCIO: UN FORTALIZIO SVEVO A POCHI PASSI DA GELA

A cura di Adriana d'Arma

 

 

Introduzione

 A pochi chilometri dalla città di Gela, situato su una collina gessosa nei pressi della contrada Spadaro, si erge il cosiddetto Castelluccio, una costruzione di epoca sveva (Fig. 1).

 

Nonostante la notevole posizione geografica di questo edificio fortificato nell’entroterra della pianura di Gela e la sua struttura architettonica, il Castelluccio non viene citato dagli storici e dagli autori più antichi, come il Fazello e il Camilliani, tra i baluardi costieri della Sicilia. Tuttavia, esso viene menziontato soltanto come struttura in termini di luogo di confine e non di costruzione.

 

Storia del Castelluccio 

Le origini di tale fabbrica risalgono già al XII secolo, e nello specifico al 1143, data a cui risalgono alcuni documenti che menzionano un atto di concessione. In quell’occasione fu il conte Simone di Butera, membro della famiglia Alemarica, che lo concesse in dono, insieme ad alcune terre nella zona meridionale della contea, all’Abate del Monastero di San Nicolò l’Arena di Catania. Per comprendere meglio la storia e l’evoluzione architettonica del Castelluccio sono state fondamentali delle operazioni di scavo condotte, in occasione dei primi interventi di restauro, nel maggio del 1988. All’epoca, il piano terra della costruzione era stato ribassato di circa 50 centimetri. Inoltre, erano stati condotti due saggi. Il primo, in corrispondenza del finestrone di sud, il secondo in corrispondenza dell’angolo di sud-est.

L’anno successivo, durante la seconda fase dei lavori, il Castelluccio ha visto succedersi al suo interno una regolare campagna di scavo, sia al suo interno sia nelle zone della torre est. Altri due saggi all’esterno della struttura, poi – in particolare uno nel pendio meridionale della collina (Fig. 2) – sono stati effettuati in questa occasione.

 

L’edificio medievale si è sviluppato, secondo gli studi, in quattro distinti periodi. Il primo periodo, quello cosiddetto “antico”, è circoscritto spazialmente all’area collinare del Castelluccio e alle zone limitrofe. È solo alla seconda fase, invece, che dobbiamo far risalire la costruzione della fabbrica vera e propria e al suo utilizzo come fortificazione, come presidio militare. La costruzione della fabbrica è stata portata avanti in due distinti momenti, uno attorno al 1200 e l’altro circa un secolo dopo. Il terzo periodo, invece, è databile attorno al 1400: all’epoca il Castelluccio iniziò ad essere abitato dalla famiglia, ed è in questo momento che la fortezza assunse un carattere di residenza civile, ad uso abitativo, perdendo il suo ruolo strettamente strategico-militare. La storia del Castelluccio, tuttavia, si concluse con un disastroso incendio, che fu l’evento che condusse la struttura ad una successiva fase della sua storia, un momento di abbandono totale. Tali eventi sfavorevoli portarono ad un successivo tentativo di ristrutturazione, con il seguente avvio di lavori che non vennero mai portati a termine. Il quarto ed ultimo periodo, infine, può essere associato esclusivamente alle frequentazioni sporadiche della struttura da parte dei pastori e della locale comunità contadina e, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, alla collocazione di una postazione militare.

 

Descrizione del Castelluccio

Per entrare al Castelluccio, vi si accede percorrendo la collinetta.  Esso presenta una pianta rettangolare, disposta in senso est-ovest, con accesso a occidente.

La struttura è caratterizzata da due torri terminali a pianta quadrata, disposte alle opposte estremità a est e ad ovest. La prima si contraddistingue per aver ricoperto sia funzioni di avvistamento sia ruolo di protezione verso l’ingresso. La seconda torre, invece, era destinata esclusivamente a controllare il lato est della pianura. Tale torre contiene, sulla parete sud, una nicchia contornata da cornici in pietra; si suppone, secondo gli studiosi, che questa torre dovesse in origine contenere un’immagine di culto.

Il Castelluccio ad oggi si presenta formato da un piano terra e da un primo piano che in verità non fu mai portato a termine. Probabilmente l’edificio doveva prevedere più piani, ed originariamente era pianificata una copertura, un tetto che però non venne mai completato.

Nel piano terra sono disposte diverse feritoie e due grandi finestre ad arco, decorate con ghiere, che si affacciano rispettivamente sul lato sud e su quello nord.

La parete nord presenta un incasso, proprio allo spigolo, in alto; tale incasso corrisponde a una traditora, ovvero il punto dove gli arcier colpivano il primo nemico che provava ad entrare nel castello.

Inoltre, sempre sulla parete nord, una monofora ogivale, che in qualche modo qualifica la particolarità dell’ambiente chiuso rispetto al salone d’ingresso. Si tratta della camera padronale, dalla quale si accede direttamente alla torre orientale, al terrazzo e quindi alla torre ovest.

Al centro della parete sud, poi, si trova un magnifico finestrone in pietra bianca, mentre altre quattro finestre sono presenti sul muro della seconda elevazione, sui lati opposti di nord e di sud.

Lo spazio interno era suddiviso da cinque archi ogivali disposti trasversalmente; nella parete meridionale si trovava un grande camino, ornato da stipiti scolpiti e sormontati da un arco a tutto sesto.

 

Oggi è possibile visitare il Castelluccio soltanto se preventivamente autorizzati, e sono concesse peraltro soltanto visite in gruppo. Grazie ad una scala e ad una passerella prefabbricata in metallo, ci si può affacciare e godere del panorama mozzafiato, in virtù della posizione strategica in cui è collocato.

Il diminutivo “Castelluccio”, usato per descrivere questa struttura, si conserva fino ai giorni nostri, ma non restituisce l’immagine reale, di grande bellezza e magnificenza, di un edificio che è invece oggetto del sentito e profondo apprezzamento da parte di di tutti coloro che hanno, e hanno avuto, l’occasione di ammirarlo (Fig.3).

 

 

 

Le immagini sono scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Scuto, S. Fiorilla, Gela, il Castelluccio. Un nuovo documento dell’architettura sveva in Sicilia, Messina, 2001.


LE 3 ECOLOGIE

A cura di Marco Bussoli

Dal 5 febbraio al 15 maggio al Museo di Arte Contemporanea di Termoli MACTE sarà possibile vedere la mostra Le 3 ecologie, prima mostra curata dalla direttrice del museo Caterina Riva.

“[…] soltanto un’articolazione etico-politica – che io chiamo ecosofia – fra i tre registri ecologici (quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività umana) sarebbe capace di far adeguata luce su questi problemi”[1]

Con queste parole nel 1984 il filosofo francese Felix Guattari introduce il concetto di molteplicità dell’ecologia, di pluralità delle ecologie, aggiungendo ulteriore profondità ai temi di sviluppo indiscriminato che tanti studiosi, a partire dagli anni ’70, stavano portando avanti. Sono proprio le tre ecologie del filosofo il punto di partenza per la riflessione che la mostra del MACTE vuol far scaturire.

Il percorso espositivo ha inizio con l’opera Ipogea di Piero Gilardi, che la concepisce a partire da molteplici suggestioni, come il rumore di un fiume sotterraneo e la molteplicità di miti sulle caverne su cui si fonda la cultura europea; l’opera è pensata come un luogo di immersione per l’avventore, che illuminandola dall’interno fa nascere rumori e punti luminosi della caverna. Il percorso passa poi per i 19 pannelli in gesso di Micha Zweifel, Calendar, artista svizzero, che detta una sorta di ritmo evolutivo, un tempo in cui l’umanità si sviluppa e cresce. Il concetto di evoluzione è poi richiamato dall’opera Tuslava di Len Lye, un’animazione del 1929, in bianco e nero, che però procede in modo diverso: l’evoluzione è totale e da un organismo unicellulare si sviluppa un organismo più complesso, con le sue tradizioni e i suoi modi, slegandosi dalla figura umana.

Nella grande sala circolare del museo, oltre a queste opere è presente anche la doppia proiezione di Francesco Simenti, chiamata Corpi, del 2021, definendo così un luogo in cui i cambiamenti non abbiano in alcun modo un’accezione negativa, ma piuttosto costituiscano un’origine, un punto di partenza neutrale.

Spostandosi nelle sale il panorama è già cambiato, ci si trova catapultati nell’oggi, in un mondo di cambiamenti repentini: sullo sfondo della carta da parati disegnata da Francesco Simenti, Hawkweed (2016), i disegni a penna di Nicola Toffolini ci mostrano degli scorci, suggestivi e inquietanti, si tratta di Pòst #2 e di Palma e tetrapodi e Banano e tetrapodi, due disegni in cui i vegetali sono ormai protetti dall’aggressione del mare solo da dei frangiflutti.

I documentari Wutharr: Saltwater Dreams (2016), del Karrabing Film Collective, e Wild Relatives di Jumana Manna, del 2018, fanno spostare l’osservatore in tutto il mondo: il primo è infatti ambientato nei Territori del nord-ovest, in Australia, mettendo in relazione cambiamenti ambientali, sociali e mistici, mentre il secondo segue le semenze, dalla Siria alla Norvegia, tra problemi climatici e socio-economici.

Le opere della serie Boutade di Silvia Mariotti costruiscono luoghi naturali inediti, frutto di un lavoro di montaggio di elementi fotografici, per creare nuovi immaginari, fatti di vegetazione mutevole e affollata.

Nell’ultima sala, infine, si confrontano due artisti: Francis Offman usa materiali di riuso, estremamente variegati, per comporre delle opere che parlano di migrazioni e che presentano ad un’attenta riflessione una serie di significati inediti; Jonatah Manno invece con le sue sculture e le sue cianotipie porta in mostra il mare ed il suo paesaggio.

Come di consuetudine sono poi esposte opere di proprietà della Fondazione MACTE appartenenti al Premio Termoli, che ponendosi a metà del percorso di visita cercano di dialogare con le opere temporanee in mostra.

Abbiamo fatto alcune domande alla Direttrice del museo e curatrice della mostra, Caterina Riva, per meglio comprendere ed approfondire il significato della mostra, che si presenta denso ed aperto a molteplici interpretazioni.

Il tema dell'ecologia è, fortunatamente, sempre più presente nelle vite di tutti, in modi molto diversi tra loro e con intensità molto variabile. L'idea di portare in mostra questo tema dove e quando nasce o, più esattamente, come si è concretizzata?

CR: Da una necessità di pensare ad ogni aspetto della vita come un continuum e una mostra d’arte come qualcosa di più che una semplice evasione. In realtà l’idea di questa mostra aveva già fatto capolino nel programma che avevo presentato nel concorso che mi ha portato alla direzione del MACTE nel 2020. Nel frattempo la pandemia non solo ha posticipato la mostra a più riprese e ne ha reso l’organizzazione difficoltosa, ma l’ha fatta cambiare e crescere, come fosse essa stessa un organismo che si muta.

La struttura della mostra all'interno degli spazi del MACTE si integra alla perfezione, definendo due grandi spazi principali: quello della sala principale e quello delle salette, in cui sono esposte opere che ci dicono cose molto diverse. Le opere nell'emiciclo ci parlano di origine e di evoluzione, di ideali incontaminati che man a mano diventano più complessi, definendo una sorta di punto di partenza. In qualche modo dopo aver percorso tutta l'esposizione ed aver conosciuto diversi panorami in cui le ecologie possono operare, ci si auspica un ritorno ad un'origine o comunque ad un equilibrio?

CR: La ringrazio molto di questa lettura de Le 3 ecologie, non avevo pensato tanto in termini dialettici di evoluzione nella costruzione curatoriale della mostra, ma più, come faccio sempre, facendomi guidare dalle opere e cercando un dialogo tra di esse e gli spazi del museo.

Un punto di partenza della mostra è stato per me l’animazione di Len Lye del 1929 Tusalava, che ho ottenuto in prestito dalla Nuova Zelanda e che è presentata in Italia per la prima volta e che letteralmente ci porta agli antipodi. Nelle sale del MACTE si alternano opere che richiedono di essere guardate lentamente e con attenzione ed altre più immersive, che colpiscono subito la retina, ma che devono comunque essere scoperte e interrogate. Non so se si ritorna a un equilibrio a fine mostra, temo questo sia solo l’inizio di un cammino e non sarebbe del tutto corretto immaginare di trovare le risposte che cerchiamo in una mostra d’arte, quello che m’importa piuttosto è offrire al pubblico diversi punti di vista, delle sensibilità o strategie che i visitatori possono portare con sé fuori dal museo. Anche i laboratori didattici e il public program che offriremo in parallelo alla mostra, alimenteranno dei filoni di approfondimento e riflessione sulle ecologie al plurale.

Questa mostra si occupa di temi estremamente sensibili per il mondo contemporaneo, potrebbe anche essere la prima di una serie che si avvicinano sempre più ai temi stringenti per la società?

CR: Più che una serie di mostre preferisco immaginarmi un modo organico di pensare al museo MACTE come ad un’entità nel mondo dove si portano esperienze e ricerche che guardano alla nostra complessa contemporaneità. Gli artisti rivolgono a volte domande scomode, più che fornire risposte pacificanti, e portano con sé una molteplicità di esperienze; il compito di un museo di arte contemporanea è, secondo me, di portare alcune di queste domande davanti al pubblico (che intenderei però come non omogeneo per definizione).

Al momento al MACTE stiamo ospitando dei laboratori pratico-teorici con l’artista Nico Angiuli, con il quale abbiamo vinto un bando del Ministero della Cultura per un progetto di performance collettiva che verrà presentata a Termoli a giugno 2022, quest’ opera sociale che si sta costruendo insieme uscirà dalle mura del museo, rendendolo, spero, poroso.

Note

[1] F. Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019, p. 14

Bibliografia

Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Milano, Sonda, 2019

Sitografia

https://www.fondazionemacte.com/it/programma/le-3-ecologie


C’ERA UNA VOLTA IL CARNEVALE

A cura di Ornella Amato

 

 

Introduzione

C’era una volta la voglia di divertirsi, di mascherarsi, la voglia di realizzare il desiderio di non essere sé stessi, ma di essere qualcun altro, almeno una volta l’anno.

C’era una volta il Carnevale!

Oggi è considerata soprattutto una festa per bambini, ma in realtà è molto apprezzata anche dagli adulti: perché al Carnevale, nessuno resta indifferente!

Nelle case iniziano a comparire maschere adornate da colori cangianti, piumaggi e perline di ogni genere.

Si ha un’idea del valore che, anche nell’adulto, può avere il Carnevale se solo pensiamo al Carnevale di Venezia ed ai costumi e agli accessori utilizzati: abiti lussuosi ornati da pizzi e merletti, parrucche suntuose e maschere misteriose indossate da persone che, passeggiando lungo San Marco, si proiettano – e proiettano la città – in un glorioso passato, di cui i Gran Balli in maschera fanno rivivere i giorni che furono della Serenissima, in primis il Ballo del Doge, considerato tutt’oggi il più sontuoso ed esclusivo.

 

Ma il Carnevale non è solo quello di Venezia, è anche quello dei carri allegorici che sfilano lungo le strade di cittadine che ne hanno fatto il loro punto di forza turistico, come Viareggio o Putignano per citare i più famosi, che si riempiono di coriandoli colorati e stelle filanti lanciati sulla folla dai personaggi che coronano i colorati carri, realizzati in genere con cartapesta, i cui temi spesso strizzano l’occhio alla satira e si colorano del gossip del momento.

 

Le origini

Il periodo di Carnevale, che ha la sua maggiore rappresentazione nel giorno del Martedì grasso, si colloca al centro tra il Natale e la Pasqua e, di conseguenza, non ha una calendarizzazione ben precisa. È collocato il martedì immediatamente precedente al Mercoledì delle ceneri che apre la Quaresima, che prelude ai riti della Settimana santa e della Pasqua.

Il termine “Carnevale” deriva dal latino carnem levare ovvero “levare la carne” prima del periodo di digiuno e penitenza come prevedono i riti di Santa Romana Chiesa.

In Italia si inizia ad attestare intorno ai sec. XI e XIII: giovani scanzonati vanno in giro travestiti da donna mischiando il goliardico e l’osceno, il tutto misto ad una sottile ironia che rende comico il drammatico e il grottesco, lasciando da parte il comune senso del pudore e del buon gusto.

 

L’incontro con l’arte

Al di là delle figure che ritroviamo nella Commedia dell'Arte, quali Arlecchino, Pulcinella, il Dottor Balanzone e Colombina, che tutt'oggi sono e restano le maschere per eccellenza del Carnevale, anche l'arte ha dato il suo contributo attraverso diversi artisti.

Il primo è stato il pittore fiammingo Pieter Bruegel con la tela Combattimento tra Carnevale e Quaresima, datata al 1559, nella quale rappresenta proprio la lotta tra il Carnevale e la Quaresima all’interno di una piazza colma di gente, dove si incontrano e quasi si scontrano moltitudini di persone da un lato e dall'altro. Il Carnevale è rappresentato da grandi esagerazioni trasposte in un unico uomo grasso che mangia golosamente; la Quaresima invece è interpretata da una donna pallida seduta e attorniata da fedeli in preghiera.

 

Al 1888 risale invece l’opera di Paul Cézanne, Mardi Gras (ovvero Martedì grasso), l’ultimo giorno del Carnevale. Qui il pittore rappresenta le due maschere in antitesi tra di esse per eccellenza: Pierrot e Arlecchino. Quest’ultimo non è rappresentato secondo l’iconografia tradizionale, ma con un costume i cui riquadri riprendono solo il rosso il nero, colori che nelle iconografie tradizionali sono relegati a figure demoniache. Pierrot, invece, è rappresentato nella sua veste tradizionale, con i pantaloni larghi e camicione bianchi, sebbene manchi delle rifiniture in nero che ne caratterizzano l’abbigliamento. Manca anche la classica lacrima che scende lungo il suo viso e che ricorda quella malinconia che non solo lo caratterizza, ma che lo pone in disparte rispetto alle altre maschere della Commedia dell’Arte, per tradizione furbe, burlone, ma soprattutto scaltre.

 

Conclusioni

L’antropologia culturale si è occupata spesso del Carnevale, analizzando i comportamenti degli uomini e andando indietro nel tempo fino alle feste dionisiache dei Greci e alle saturnali dei Romani. Ha cercato nelle maschere della Commedia dell’Arte risposte che non ha trovato pur analizzando i comportamenti degli uomini che sono stati trasposti nelle maschere; ha analizzato e studiato momenti che hanno il loro apice nel Martedì grasso che chiude il Carnevale che “dalle ceneri era nato e alle Ceneri è tornato”[1] traghettando il popolo cattolico nei quaranta giorni della Quaresima.

 

 

Note

[1] Liberamente tratto da filastrocche.it

 

 

Sitografia

focus junior.it

repubblica.it/chi_ha_inventato_il_carnevale del 03/03/2019

veneziaeventi.com

ansa.it/canale_viaggi I carnevale nell’arte da Picasso a Chagall

 

ORNELLA AMATO

Laureata ne 2006 presso l'Università di Napoli "Federico II con 100/110 in Storia, indirizzo storico - artistico. Durante gli anni universitari  ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.

Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadell’arte.it