SALA DEI FASTI FARNESIANI A CAPRAROLA - PARTE II

A cura di Andrea Bardi

Introduzione

Se nella prima parte dell'articolo sulla Sala dei Fasti Farnesiani si è profusamente parlato della volta, in quella che segue ci si occuperà di analizzare la decorazione delle pareti laterali.

La Sala dei Fasti Farnesiani. Le pareti laterali

Sulle pareti laterali della Sala dei Fasti Farnesiani a Caprarola, Taddeo dispiega otto episodi inerenti alla storia più recente del casato. Così come per le scene sulla volta, anche per queste ultime la successione temporale parte dal lato corto del camino. La nomina a comandante dell’esercito pontificio di Pier Luigi Farnese, qui anticipata di due anni rispetto all’effettiva datazione (1535 e non 1537) si riallaccia, a distanza di un secolo esatto, all’altrettanto falsa elezione di Ranuccio.

L’iscrizione, posta tra la cornice e il riquadro, recita:

PETRVUS LVISIVS FARNESIVS / A PAVLO III PONTIFICE MAXIMO / ECCLESIASTICI EXERCITVS IMPERATOR / CONSTITVITVR ANNO SAL. MDXXXV

(“Pier Luigi è nominato da papa Paolo III comandante dell’esercito della Chiesa nell’anno di grazia 1535”)

Associata alla nomina di Ranuccio sulla volta, quella di Pier Luigi Farnese (1503-1547) permette, per la maggior facilità di visione, uno sguardo più approfondito. Analogamente alla prima, presenta un punto di vista sbalzato, non frontale, che sembra tuttavia quasi del tutto controbilanciato dalla disposizione pressoché paratattica dei personaggi. Nelle fisionomie dei tre Farnese, Taddeo paga a Tiziano il giusto tributo. Il volto di Pier Luigi assume i tratti del ritratto oggi a Capodimonte, mentre i tratti di Paolo III e Alessandro sono assimilabili a quelli della tela, anch’essa a Capodimonte, comprendente anche Ottavio. Il riquadro successivo sulla parete della Sala dei Fasti Farnesiani presenta l’affresco con Orazio Farnese nominato prefetto. 

L’iscrizione, posta nella medesima posizione rispetto alla scena adiacente, recita:

PAVLVS III PONTIFEX MAXIMVS / HORATIVM FARNESIVM NEPOTEM / SVMMAE SPEI ADOLESCENTEM / PRAEFECTVM VRBIS CREAT / ANNO SALVTIS MDXXXIIX

(“Paolo III papa nomina prefetto dell’Urbe il nipote adolescente di grande speranza Orazio Farnese nell’anno di grazia 1538”)

Nel 1538 Orazio aveva sette anni, e la sua nomina a Prefetto avvenne solo nel 1547. All’anno in questione risale, però, la nomina di Ottavio, qui presente affianco a Pier Luigi e a Paolo III i quali, denunciando ancora una volta la chiara matrice cadorina, chiudono la composizione da destra. Sul lato opposto della Sala dei Fasti Farnesiani, invece, è ancora un’apertura sull’esterno a dare la possibilità a Taddeo di cimentarsi col paesaggio mentre l’equilibrio delle figure è garantito da uno stuolo di porporati. Tra i due riquadri, infine, l’ovato con il ritratto di Enrico II di Francia. L’iscrizione recita:

HENRICO FRANCORVM REGI MAXIMO FAMILIAE FARNESIAE CONSERVATORI

(“A Enrico, Re di Francia, grande protettore della famiglia Farnese”)

L’accordo di protezione firmato con Enrico II risaliva al 27 maggio 1551. Con l’inizio della stagione spagnola in Italia, in corrispondenza del pontificato di Paolo IV, la famiglia si pose (15 settembre 1556) sotto l’ala protettrice di Filippo II [ritratto sulla parete opposta della Sala dei Fasti Farnesiani].

L’iscrizione che sovrasta la porta adiacente alla Cappella recita infatti:

PHILIPPO HISPANIARVM REGI MAXIMO OB EXIMIA IN DOMVM FARNESIAM MERITA

(“A Filippo, Re di Spagna, per il suo grande servizio alla famiglia Farnese”).

I ritratti dei due reali, inseriti in un contesto simile, potrebbero venir letti come l’effettiva concretizzazione dei piani diplomatici di Alessandro; le corone di Spagna e di Francia unite al papato contro la minaccia turca e l’eresia luterana. Come ha giustamente notato Loren Partridge, una simile lettura sarebbe quantomeno mistificatoria. Lo svolgimento effettivo dei fatti storici ha dimostrato infatti che la distanza che nella sala separa i due sovrani si presta più eloquentemente ad esprimere il costante stato di conflitto che interessava le due superpotenze. La reazione di Enrico alla firma del trattato tra gli Asburgo e i Farnese fu in effetti molto violenta: egli non esitò a dichiarare i Farnese dei “traditori” e a confiscarne i beni in territorio francese. Lo sforzo diplomatico bilaterale dei Farnese si ritrova anche nelle due scene che fiancheggiano l’effigie di Filippo: il Matrimonio di Ottavio Farnese con Margherita d’Austria e il Matrimonio di Orazio Farnese con Diana di Francia [Fig. 20].

Fig. 20 – Matrimonio di Orazio Farnese con Diana di Francia. Credits: Di Taddeo Zuccari - https://www.flickr.com/photos/mamondini/5673117503/sizes/l, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16108266.

Paolo Portoghesi ha evidenziato come, nel Matrimonio di Ottavio, Taddeo si fosse lasciato ammaliare dalla “coeva ritrattistica di corte europea”, che assommava ai “richiami all’ufficialità del Bronzino e all’eco di Tiziano e Raffaello [...] il carattere araldico perseguito da pittori come Antonio Moro e Juan Pantoja de la Cruz”[1]. Per il Matrimonio di Orazio, invece, il modello più spiccatamente francofono richiama i coevi esempi di Francois Cluet (1510-1572), il cui ritratto di Enrico II funse effettivamente da base per la sua effigie nel salone di Caprarola. Le ultime quattro scene, nonché le più grandi per dimensioni nella Sala dei Fasti Farnesiani, coprono invece un arco temporale che va dal 1540 (Incontro a Parigi) al 1550 (Restituzione di Parma), e che comprende l’Incontro a Worms (1544) e la Guerra luterana (1546).  Il primo episodio è quello dell’Entrata a Parigi tra Francesco I re di Francia, Carlo V e il cardinal Alessandro Farnese [Fig. 21]. L’iscrizione qui recita:

FRANCISCVS GALLIARVM REX CAROLVM V AVGVSTVM / COMPRIMENDAE DEFECTIONIS CAVSA IN BELGIAS PROFICISCENTEM / ET ALEXANDRVM FARNESIVM CARDINALEM MAGNIS / DE REBVS LEGATVM LVTETIAE PARISIORVM / AMPLISSIMO APPARATV SVSCIPIT ANNO SALVTIS MDXL

(“Francesco re di Francia accoglie a Parigi con grande pompa l’augusto Carlo V in viaggio verso le Fiandre per reprimere una ribellione e il cardinale Alessandro Farnese come legato di affari importanti nell’anno di grazia 1540”).

Fig. 21 – Entrata a Parigi. Credits: By Taddeo Zuccari - http://dizionaripiu.zanichelli.it/, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53502394.

La scena nella Sala dei Fasti Farnesiani descrive l’incontro parigino del 1540 tra Francesco I di Valois (in testa al corteo su di un cavallo bianco), Carlo V d’Asburgo (alla sua sinistra) e Alessandro Farnese (in sella ad un mulo). Il vertice seguì l’insurrezione della città di Gent tanto contro Carlo quanto contro Roma (forte si stava dimostrando l’ascendente della confessione luterana nelle Fiandre). All’interno del fitto corteo, che si risolve sullo sfondo in teste appena accennate e in una trama di lance appuntite, i soldati si mescolano ai popolani locali, tra cui un uomo che, sull’estremità sinistra, si intravede nello spazio tra due alberi. Chiude la composizione sulla destra una delle porte di accesso alla città, il cui dubbio rigore archeologico è totalmente ascrivibile alla sua assimilazione in “nuova Roma” (romani sono anche le vesti e gli equipaggiamenti dei due soldati a cavallo) di Parigi. Curiosa risulta anche la scelta, da parte di Taddeo, di ritrarre se stesso e i suoi familiari (il padre Ottaviano e il giovane fratello Federico, che all’epoca aveva ventitré anni) nei panni dei portatori del baldacchino. A questa scena segue Il convegno di Worms sulla guerra contro i luterani tra il cardinal Alessandro Farnese, Carlo V e suo fratello Ferdinando I. L’iscrizione recita:

ALEXANDER FARNESIVS CARD. A PAVLO III / PONT. MAX. DE BELLO LVTHERANIS INFERENDO / LEGATVS VORMATIAE CVM CAROLO IMP. ET / FERDINANDO ROMANORVM REGE CONGREDITVR / ANNO SALVTIS MDXLIV

(“Il cardinale Alessandro Farnese legato a Worms da papa Paolo III per trattare della guerra ai Luterani si incontra con Carlo V imperatore e Ferdinando re dei Romani nell’anno di grazia 1544”).

Il gusto quasi neotrecentesco ed estremamente solenne[2] del cardinal Farnese, visto di profilo e in sella allo stesso mulo (un’imitatio Christi, questa, assai più eloquente che nella scena precedente) apre la scena nella Sala dei Fasti Farnesiani che, nota ancora Portoghesi, si caratterizza per una “diversa sensibilità nei confronti del paesaggio che [...] pare quasi un’anticipazione di quello ‘classicistico’ di Annibale Carracci e Domenichino”[3]. In uno spazio più arioso, quindi, il Gran Cardinale stavolta si appresta a confrontarsi con Carlo V, suo fratello Ferdinando I (che lo sostituì alla guida dell’Impero nel 1558) e il di lui figlio Massimiliano II, Re dei Romani. La penultima scena sulle pareti è quella della guerra luterana [Fig. 23], accompagnata dall’iscrizione

PAVLVS III PONTIFEX MAXIMVS CAROLO V IMP. / CONTRA LVTHERANOS BELLVM GERENTI / ALEXANDRO FARNESIO CARDINALI LEGATO ET / OCTAVIO EIVS FRATRE PARMAE ET PLACENTIAE PRINCIPE / COPIARVM DVCE MAGNA ITALORVM AVXILLA MITTIT / ANNO SALVTIS MDXLVI

(“Paolo III papa invia a Carlo V imperatore in guerra con i Luterani ingenti truppe ausiliarie con il cardinale Alessandro Farnese come legato e Ottavio suo fratello, principe di Parma e Piacenza, come comandante nell’anno di grazia 1546”)

Fig. 23 – La guerra luterana. Credits: By Daderot - Own work, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=79913723.

La controversa questione parmense è invece affrontata nell’ultimo riquadro storico con Giulio III che restituisce Parma al cardinal Alessandro e quindi al fratello Ottavio. L’iscrizione recita:

ALEXANDER FARNESIVS CARDINALIS / VRBEM PARMAM OCTAVIO FRATRI INTERPOSITIS / CALVMNIIS NON REDDITAM A IVLIO III ACCIPIT / EAQVE FRATRI TRADITA ANCIPITEM ID TEMPORIS / DOMVS SVAE STATVM IN TVTO COLLOCAT AN. MDL

(“Il cardinale Alessandro Farnese riceve da Giulio III la città di Parma non restituita al fratello Ottavio per macchinazioni interpostesi, e riconsegnatala al fratello rimette in sicurezza l’incerta condizione in quel tempo della sua Casa nell’anno 1550”).

La restituzione di Parma a Ottavio Farnese da parte di Giulio III fu in gran parte dovuta all’influenza del cardinal Alessandro sul concilio cardinalizio, che, sotto le pressioni di quest’ultimo, riuscì a far eleggere nel 1550 Giovanni Maria Del Monte. Fino ad allora, la città era stata oggetto di contesa tra la chiesa, l’imperatore e la famiglia Farnese in seguito all’assassinio di Pier Luigi ordito dal duca di Milano Ferrante Gonzaga (1547). L’ambientazione della scena trova un suo immediato riscontro figurativo nell’episodio della nomina di Orazio: del tutto simile è la costruzione dello spazio, con lo scranno papale rialzato sulla destra e il collegio cardinalizio sulla sinistra; analogo il pretesto figurativo della finestra che diviene, così come nella nomina di Ranuccio Farnese, espediente efficace per un abbandono del pittore alla natura. I seggi cardinalizi vengono ricavati, differentemente rispetto all’episodio della nomina di Ranieri Farnese, da “frammenti di architrave resi a chiaroscuro”[4].  Quello che Portoghesi definisce poi un “compendio tra elementi del repertorio archeologico e una visione venezianeggiante dell’insieme”[5] si arricchisce di stimoli colti dalla cultura veneta, con la quale Taddeo ebbe modo di confrontarsi tramite gli esempi di Francesco Salviati e Sebastiano del Piombo.

Chiudono il complesso apparato decorativo della sala l’allegoria di Roma[6][Fig. 25] sulla sovrapporta d’ingresso dal portico e lo stemma Farnese, ancora una volta fiancheggiato dalla Freccia col Bersaglio e dalla Navicella, simboli di una Chiesa pronta a combattere in un contesto, come quello di palazzo Farnese, che Clare Robertson definì “una nuova Roma, una nuova Gerusalemme, o il microcosmo della Repubblica Cristiana”[7].

Fig. 25 - Roma. Fonte: L. Partridge, Divinity and Dynasty at Caprarola: Perfect History in the Room of Farnese Deeds, in “The Art Bulletin”, 60, New York, 1978, pp. 494-530.

 

 

Note

[1] Portoghesi, pp. 59-60.

[2] Un riferimento più vicino è il Raffaello delle Stanze (il Cardinal Giovanni de’ Medici nell’Incontro di Leone Magno con Attila).

[3] Portoghesi, p. 60.

[4] Portoghesi, p. 61.

[5] Ibidem

[6] Il modello iconografico di riferimento è quello delle monete romane (Partridge, p. 499). L’allegoria di Roma è una donna in veste militare, seduta sui sette colli e con il piede apppoggiato su un globo, a simboleggiare il dominio di Roma sul globo. Presente anche la lupa e i due fanciuli della leggenda, Romolo e Remo. La Nike alata tenuta con la mano destra invece è emblema di vittoria.

[7] Robertson, p. 123.

 

Bibliografia

Agosti, sulla biografia vasariana di Taddeo Zuccaro, in “Prospettiva”, 153/154, Firenze, Centro Di della Edifimi, 2014, pp. 136-157.

Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, Torino, SEAT, 1981.

Labrot, Le Palais Farnese de Caprarola, Parigi, Klincksieck, 1970.

Mascagna, Caprarola e il palazzo Farnese. Cinque secoli di storia, Viterbo, Quatrini, 1982.

Partridge, Divinity and Dynasty at Caprarola: Perfect History in the Room of Farnese Deeds, in “The Art Bulletin”, 60, New York, 1978, pp. 494-530.

Pierguidi, Disegnare e copiare per imparare: il trattato di Armenini come fonte per la vita di Taddeo Zuccari nei disegni del fratello Federico, in “Romagna Arte e Storia”, 92/93, Rimini, Panozzo, 2011, pp. 23-32.

Portoghesi (a cura di), Caprarola, Roma, Manfredi, 1996.

Robertson, Il Gran Cardinale. Alessandro Farnese patron of arts, New Haven-Londra, Yale University Press, 1992.

Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, Roma, coi tipi della civiltà cattolica, 1869.

Vecchi, P. Cimetta, Il palazzo Farnese di Caprarola, Caprarola, Il Pentagono, 2013.

Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568.

Voss, La pittura del tardo Rinascimento a Roma e a Firenze (1920), Roma, Donzelli, 1994.

 

Sitografia

http://www.bomarzo.net/palazzo_farnese_caprarola_04_sala_fasti_farnesiani_it.html

https://www.britannica.com/biography/Taddeo-Zuccaro

www.culturaitalia.it

https://www.rocaille.it/villa-farnese-a-caprarola-pt-1/


LA CHIESA DELLA MADONNA DEGLI ANGELI A SAVONA

A cura di Alice Perrotta

La Madonna degli Angeli: introduzione

Fin da-i tempi do seiçento,

Di Paveixi un bon cristian

O l’aveiva alzôu a-o vento,

Pe sentila da lontan,

Unn-a bella campanetta

In scio teito da gexetta.

Dentro poi o gh’ea l’artâ

A Madonna dedicôu,

E o faxeiva camminâ,

Tutta a gente a Mont’Ornôu:

Ch’a finiva poi in t’un costo

A godise o doi d’agosto.

                                       (A. Vassallo)

 

 

 

Con questi versi, il poeta dialettale Antonio Vassallo (1887-1933) rende omaggio alla chiesa della Madonna degli Angeli. Nella prima strofa, l’autore si riferisce al momento in cui il frate Giovanni Ambrogio Pavese (“Paveixi”) costruì l’edificio. Nella seconda strofa, Vassallo ricorda la folla di persone che il due agosto di ogni anno si recava in pellegrinaggio verso il monte ornato, in occasione della festa della Madonna degli Angeli.

A Savona, sul monte Ornato, è ubicata la piccola chiesa della Madonna degli Angeli.

Si tratta di un luogo molto suggestivo, immerso nel verde e affacciato su un vasto paesaggio costiero. Oggi, purtroppo, l’edificio si presenta in uno stato deteriorato e risulta inagibile, sebbene costituisca un pezzo di storia locale molto significativo e sia un bene vincolato dal 2009. È un luogo caro a molti savonesi tant’è che nel 2012, all’interno del censimento FAI “I Luoghi del Cuore”, ottenne il primo posto a livello regionale, il quarto su scala nazionale per quanto riguarda la categoria “chiese” e il 17° nella classifica nazionale generale.

Oggi l’edificio, sebbene sia apparentemente abbandonato, fa parte del progetto “Voce e Luce alla Madonna degli Angeli” dell’associazione GPN2010. Si tratta di un’iniziativa molto ampia e in continuo divenire che s’impegna nella salvaguardia non solo della chiesa, ma dell’intera collina circostante (figg. 1,3,6).

La chiesa della Madonna degli Angeli: cenni storici

Il primo documento conosciuto relativo alla chiesa (fig.7) reca la data 12 agosto 1596 ed è conservato nell’archivio vescovile di Savona. La costruzione dell’edificio risale a qualche anno prima ed è legata al nome del frate cappuccino Giovanni Ambrogio Pavese (1558-1631), appartenente a una ricca e importante famiglia di Savona. Suo padre ricopriva infatti la rilevante posizione di consigliere di Stato alla corte del duca Emanuele Filiberto di Savoia.

Fig. 7 - Il più antico documento che riguarda la chiesa. Fonte: Dal testo La Madonna degli Angeli, 1982).

Il frate si ritirò sul monte Ornato dove visse da eremita, alloggiando in alcune cellette vicine. Qualche tempo dopo, tuttavia, fu costretto a lasciare questo luogo (forse a causa degli inverni troppo rigidi e della sua salute cagionevole) e si stabilì a Torino «andando scalzo e continuando quella sorta di vita rigida e austera»[1].

Un documento attesta che nel 1623 Giovanni Ambrogio cedette l’edificio alla Repubblica di Genova con l’obbligo di farvi celebrare la messa ogni mese «per coloro che sono in peccato mortale e per la conversione degli Infedeli, dei Giudei e degli eretici»[2]. In seguito a quest’evento, sulla porta venne dipinto lo stemma della Repubblica.

Nello stesso anno venne arrecato un grave danno alla struttura: un padre scolopio rubò la campana. Nel 1631 Giovanni Ambrogio, mosso dalla nostalgia, decise di far visita al suo eremo, ma durante il tragitto contrasse la peste e morì prima di raggiungere la sua meta. Nel frattempo, l’edificio rimase pressoché abbandonato dato che in quel periodo vi si celebrava la messa solamente il 2 agosto, giorno di festa in onore alla Madonna degli Angeli. Nel 1650 l’accesso alla chiesa fu definitivamente vietato «per essere stata fatta ricetto di pecore e d’altro bestiame»[3]. In quegli anni venne anche rinvenuto da due padri francescani del convento di Lavagnola il corpo di un giovane soldato svizzero (o belga) morto suicida.

Quando nel 1654 l’allora vescovo Francesco Maria Spinola visitò la chiesetta diede il permesso per riprendere a celebrare le funzioni.

Negli anni della guerra di successione austriaca (1740-1748) l’edificio fu notevolmente compromesso e terminati i conflitti, il cappellano Giuseppe Maria Montaldi fece richiesta al governatore genovese della città di risanare le parti danneggiate. Un documento significativo relativo alla chiesa attesta che nel 1815 papa Pio VII, al tempo prigioniero a Savona, concesse, su supplica dei cittadini, l’indulgenza plenaria per il giorno della solennità della Madonna degli Angeli. Un fatto, questo, che dimostra quanto i savonesi avessero a cuore l’edificio.

Il documento riguardante l’indulgenza fu l’ultimo atto della storia della vecchia chiesa seicentesca. Da allora e per più di un secolo non si ebbero altre notizie, se non che l’edificio finì per diventare un rudere (fig.8).

Fig. 8 - I ruderi dell’antica struttura seicentesca. Fonte: testo La Madonna degli Angeli, 1982).

Nel 1929 il prof. Filippo Noberasco (1883-1941), direttore della Biblioteca Civica di Savona e studioso appassionato, pose al centro del dibattito locale la questione della chiesa e del suo degrado: «… Chi sa che qualche savonese non senta la nostalgia della chiesetta devota e romita e non intenda alla sua ricostruzione?» [4]. La sua richiesta venne ascoltata e messa in atto dal parroco Monsignor Tommaso Fonticelli: l’edificio venne ricostruito, seppur riducendone le dimensioni, con le pietre della precedente struttura e sul punto esatto in cui si trovava all’origine. Per questo motivo della chiesa antica oggi non rimane nulla, eccetto una traccia di pavimento. La nuova chiesa venne inaugurato il 2 agosto 1930 e nei decenni seguenti vennero svolte altre attività di riedificazione, seguiti però da continui atti vandalici. L’ultimo grande restauro della chiesa risale al 1982 e venne eseguito ad opera dell’impresario Gerolamo Delfino. Nonostante tutto ancora oggi questo luogo resta inagibile.

L’edificio

La chiesa attuale ha un aspetto semplice e presenta una struttura a capanna. La facciata è costituita da un portale rettangolare sovrastato da una finestra di ridotte dimensioni. Anche l’interno dell’edifico risulta molto modesto: le pareti sono spoglie e vi è un’unica aula. Un tempo vi era collocata una tela, di pittore ignoto, raffigurante la Madonna con il Bambino tra angeli, S. Stefano e le anime del purgatorio, ma in seguito l’opera fu trasferita nella chiesa di San Giuseppe a Savona per motivi di sicurezza (figg. 2,4,5).

 

Le fotografie dalla 1 alla 6 sono state scattate dalla redattrice.

 

Note

[1] La Madonna degli angeli, Savona: Parrocchia S. Giuseppe, 1982, p. 3. Le parole sono di Giovanni Vincenzo Verzellino (1562-1638), storico savonese.

[2] Ivi, p. 7.

[3] Ivi, p. 3.

[4] G. Gallotti, Chiese di Savona, 1992, p. 189.

 

Bibliografia:

Gallotti, Chiese di Savona, 1992

La Madonna degli angeli, Savona: Parrocchia S. Giuseppe, 1982

 

Sitografia:

www.amiciliceochiabrera.it

www.fondoambiente.it

www.lanuovasavona.it


GIUSEPPE PAURI: VITA E OPERE

A cura di Arianna Marilungo

Introduzione: Giuseppe Pauri

Giuseppe Pauri nacque a San Benedetto del Tronto il 1° novembre 1882 dalla sambenedettese Giovanna Mascaretti e da Giovanni di Calvorio Pauri. La sua famiglia fu presto colpita duramente: l'unica sorella del Pauri, infatti, venne strappata all'affetto dei suoi cari in tenera età ed il padre morì improvvisamente all'età di 35 anni, lasciando la giovane vedova ed il figlio di soli tre anni.

La formazione

Frequentando la scuola, il giovane Giuseppe Pauri mise subito in mostra le sue doti artistiche derivanti da un naturale talento. Durante il tempo libero dallo studio, frequentava la scuola di pittura del maestro Gerardo Gerardini e nel 1897, a soli quindici anni, iniziò a collaborare con Adolfo De Carolis, che stava affrescando i saloni della villa dei conti Costantini-Brancadoro a San Benedetto del Tronto. Durante la collaborazione con De Carolis, Pauri affinò la sua preparazione artistica acquisendo una certa rapidità e sicurezza del segno e prontezza della pennellata. Questa esperienza fu molto rilevante nella carriera artistica del pittore: rimase influenzato dallo stile liberty del De Carolis, fatto di intricati linearismi floreali e dalla trasparenza delle cromie.

L'anno successivo ottenne le prime committenze private in ambito provinciale, ma presto si manifestò una profonda inquietudine che lo portò a cercare nuovi maestri per migliorare il suo talento artistico, per imparare ed indirizzare la sua arte verso forme sempre più personali. In questo periodo entrò in contatto, infatti, con la pittura tardo-neoclassica di Luigi Fontana e divenne allievo di Nicola Achilli, un artista marchigiano specializzato in ornamentazione e decorazione e cresciuto sotto la guida del Fontana. Dopo questo periodo di formazione con Achilli, Giuseppe Pauri prese la decisione di trasferirsi a Roma per approfondire le sue conoscenze artistiche. Partì per la capitale nel 1899 per studiare architettura alla Scuola Preparatoria di Belle Arti e pittura nel Regio Museo Artistico Industriale. Questi sono anni molto produttivi in cui il Pauri ebbe la possibilità di analizzare dettagliatamente molteplici tecniche decorative, imparando a gestirle con padronanza. L'ambiente che si trovò a vivere Giuseppe Pauri era senza dubbio molto stimolante e costituì una significativa esperienza di crescita artistica e umana. Roma stava cambiando il suo volto grazie ai grandi cantieri urbanistici e architettonici e il clima culturale internazionale che si respirava in città, dove convivevano varie correnti pittoriche (Eclettismo, Preraffaellismo, Simbolismo, Liberty), lasciò tracce profonde sulla formazione artistica del Pauri.

A Roma conobbe Ludovico Seitz[1] ed entrò nel suo studio come collaboratore. Le notizie che abbiamo su Pauri non individuano una datazione certa per il suo rientro nelle Marche, anche se è noto che all'inizio degli anni Dieci del Novecento egli aveva già iniziato la sua intensa attività di decoratore e frescante nelle chiese della regione ed anche in Abruzzo.

Una delle sue prime commissioni marchigiane fu il ciclo pittorico nella Chiesa di San Giovanni Battista a Grottammare realizzato tra il 1911 ed il 1913. La sua arte continuò ad ottenere notevoli apprezzamenti e la sua opera presto fu molto richiesta: in questa cornice della sua carriera artistica si inserisce il ciclo decorativo della Chiesa di San Basso a Cupra Marittima, trattata in questa sede.

Oltre alle committenze ecclesiastiche Giuseppe Pauri riceve anche molti incarichi da privati per la decorazione di ambiente in residenze, tra cui il Palazzo dei Conti Lucangeli di Porto Recanati. Durante la sua attività artistica Pauri si dedicò anche alla realizzazione di ritratti e paesaggi.

Negli anni Trenta, nonostante la sua carriera iniziò a rallentare, decorò il ciclo pittorico nella Chiesa di San Lorenzo in Campo e l'abside della Chiesa di Martinsicuro (TE).

Giuseppe Pauri morì all'età di sessantasette anni, nel 1949, a Grottammare (AP)[2].

La decorazione della Chiesa di San Basso

Il progetto della Chiesa di San Basso (figg. 1 e 2) è stato eseguito dall’architetto Francesco Vespignani. L’edificio venne inaugurato nel 1887 quando vi furono traslate le spoglie del Santo[3]: presenta una pianta a croce latina con una navata centrale e due laterali. All'incrocio dei bracci della navata centrale e del transetto si innalza una cupola, mentre il presbiterio termina con l'abside.

Il Pauri ottenne la commissione della decorazione del soffitto nel 1921: il 10 febbraio di quell’anno venne firmato il contratto con il quale Giuseppe Pauri si impegnava a consegnare il lavoro nel febbraio dell’anno successivo. Tuttavia, il Pauri terminò la decorazione solo il primo ottobre del 1930. La decorazione si estende su quasi tutta la superficie del soffitto della Chiesa, includendo la navata principale, il transetto, la grande cupola ed il catino absidale.

La volta a botte che copre la navata centrale è suddivisa in due larghe zone da cornici decorate con festoni, tralci vegetali, motivi geometrici e tondi con simboli cruciformi. In ciascuna zona è stata dipinta la stessa raffigurazione: al centro vi è una sorta di tendaggio bianco cosparso di stelle fiancheggiato da due fasce in cui è riprodotto un mare stilizzato e paranze, nelle cui vele è riportato il monogramma di Cristo sormontato da una Croce. Lo sfondo su cui si stagliano le barche è costituito da una schiera di teste ovine affiancate e ripetute (figg. 3-4). Questo motivo sullo sfondo può assumere vari significati religiosi: le pecore potrebbero alludere al gregge mistico, ma la scena potrebbe anche rappresentare San Basso come pastor et nauta, assumendo il ruolo di unica guida dei fedeli, di pastore e nocchiero che li conduce verso la salvezza eterna, simboleggiata dal monogramma di Cristo dipinto al termine della navata. Un'altra chiave di lettura per questa scena marina potrebbe fare riferimento ad un significato prossimo al contesto sociale in cui è stata eseguita la decorazione: le brache e gli agnelli, infatti, potrebbero alludere alla pesca e alla pastorizia, attività economiche fondamentali del piceno, e allo stretto rapporto tra la cultura marinara e quella contadina tipiche del territorio cuprense.

Sulle vele della volta che sovrastano le finestre è raffigurata una tenda arricchita di piccole fiamme e fiancheggiata da un fitto pergolato. Al centro di ogni tenda, circondato da un tondo raggiante, è rappresentato un simbolo che allude alla missione redentrice di Gesù Cristo (fig. 5). A destra c'è una coppa e una colonna sormontata da una lampada, simboli della passione di Cristo. A sinistra sono stati rappresentati una corona fiammeggiante ed un libro che richiamano la gloria del Messia, come descritta nell'Antico Testamento[4] ed il libro del giudizio che solo il leone della tribù di Giuda potrà aprire[5].

Fig. 5 - Vele che sovrastano le finestre della navata centrale con i simboli della missione redentrice di Gesù Cristo. Credits: Walter Ruggeri.

La cupola (fig. 6) si unisce alla navata grazie ad un arco nel cui intradosso vi sono decorate varie cornici, tra cui spicca quella centrale composta da intrecci vegetali e rami di palma intervallati da tondi con simboli cruciformi (fig. 7). Su ciascuno dei quattro pennacchi della cupola sono dipinti altrettanti angeli rappresentati con le braccia e gli occhi rivolti verso il cielo in posizione orante e con le ali spiegate. Indossano una lucente tunica e poggiano i piedi su un globo. Lo sfondo su cui sono rappresentati è stato dipinto come se fosse un mosaico dorato (fig. 8).

Come osserva correttamente lo studioso Antonio Lazzari, il ciclo decorativo della zona presbiteriale si differenzia moltissimo da quello della navata centrale. Nella zona del presbiterio, infatti, Giuseppe Pauri adotta modelli stilistici e schemi iconografici che richiamano esplicitamente l'arte ravennate del VI secolo. Gli angeli, ad esempio, sono un evidente riferimento a quelli che si trovano nella cupola dell'abside della chiesa di San Vitale a Ravenna (fig. 9). La grande croce greca che suddivide lo spazio della cupola è un ulteriore riferimento ad un elemento della chiesa ravennate già citata. È ipotizzabile che il Pauri abbia preso spunto dall'arte ravennate-bizantina sull'esempio di un importante artista inglese, Edward Burne-Jones[6], che negli anni Ottanta dell'Ottocento aveva decorato la chiesa di San Paolo entro le Mura con chiari riferimenti all'arte musiva tipica dell'Impero bizantino.

Fig. 9 - Angelo che sorregge il clipeo, Basilica di San Vitale, Ravenna, metà del VI sec. Fonte: www.omnia.ie.

I quattro bracci della grande croce greca dipinta sulla cupola terminano con i quattro troni degli evangelisti, ognuno dei quali è vestito all'antica ed è contrassegnato dal proprio simbolo che si trova sul dossale di ciascun trono: l'aquila per San Giovanni nel braccio che sporge verso l'abside; l'angelo per San Matteo a destra, il toro per San Luca a sinistra ed il leone per San Marco verso la navata. È interessante notare come il volto di San Luca (fig. 10) sia un autoritratto del Pauri (fig. 11), che si è voluto ritrarre nelle vesti di colui che è considerato patrono degli artisti perché, secondo la tradizione, aveva realizzato il primo ritratto della Madonna.

Nel tondo centrale della croce greca è illustrata una scena che rimanda al libro dell'Apocalisse (fig. 12). Nel cielo campeggia il trono del Cristo giudice dove vi è appoggiato il libro con i sette sigilli contenente i decreti divini escatologici. L'agnello indica che il libro potrà essere aperto solo da Cristo in virtù del suo sacrificio per la salvezza dell'umanità, grazie al quale è stata abbattuta la pratica delle offerte votive alle divinità pagane, simboleggiate dal tripode e dal toro sacrificale che fugge rappresentati in basso. Quattro porticati di stile neogotico sono rappresentati negli spazi tra un braccio e l'altro della croce. Attraverso i porticati dipinti si scorgono dei giardini fioriti, allusione al Paradiso. Al centro dei giardini fioriti il Pauri rappresenta una grande croce gemmata che sembra nascere da un cespo vegetale e fiancheggiata da gigli. Ai lati della croce vi sono due cervi che si abbeverano: simboleggiano i fedeli che, rigenerati dalle acque del battesimo e nutriti dai Vangeli, ricevono la promessa della vita eterna. Due pavoni affrontati, rappresentati su uno sfondo di riquadri e losanghe, sormontano ciascun portico.

Fig. 12 - Cupola, particolare del tondo centrale. Credits: Walter Ruggeri.

La cupola si ricongiunge con le finestre del transetto attraverso archi che presentano fasce tripartite e variamente decorate: motivi geometrici, lampade sormontate dalle palme della vittoria con i lunghi chiodi del martirio di San Basso, tondi con il motivo delle colombe affrontate (fig. 13). Numerosi ornamenti decorano anche le incorniciature delle finestre: frange, fregi geometrici e vegetali, tra cui alcuni tralci di aranci.

Fig. 13 - Motivi ornamentali nel punto di congiuntura della cupola con le finestre del transetto. Credits: Walter Ruggeri.

Il catino absidale è preceduto da una copertura a botte (fig. 14) nel cui centro il Pauri ha dipinto una sorta di pergolato ottagonale fiancheggiato da due arcate trilobate caratterizzate da un fregio a linea spezzata tipico di alcuni artisti futuristi e dello stile Art Déco. Sopra l’arco absidale si scorge, attraverso l'arcata dipinta a sinistra, l'albero del bene e del male con il serpente. A destra, invece, si vede una palma carica di frutti. Tali raffigurazioni simboleggiano la contrapposizione vizio e virtù: percorrendo la retta via l’uomo otterrà il regno di Dio, mentre vivendo nel peccato si condannerà alla dannazione eterna.

Fig. 14 - Copertura a botte che precede il catino absidale con le rappresentazioni dell'albero della conoscenza del bene e del male e l'albero della vita. Credits: Walter Ruggeri.

Nel catino absidale (fig. 15) è stata dipinta la gloria del santo titolare della chiesa. Anche in questo caso, lo schema compositivo rimanda alle grandi decorazioni dell'arte bizantina, come ad esempio il mosaico absidale della Basilica Eufrasiana a Parenzo, in Croazia (fig. 16).

San Basso è raffigurato su uno sfondo dorato come un uomo anziano con una folta barba bianca e con gli attributi del vescovo: piviale, mitria e pastorale. Il santo è seduto su un elegante trono di legno, arricchito da dorature, al centro di una struttura circolare che simboleggia il firmamento ed è circondato da folte schiere di angeli. Ai piedi del gruppo è stato rappresentato un mare stilizzato in cui navigano alcune barche. Sul lato destro, sopra il mare, vi è la personificazione del vento. Sul lato sinistro, invece, saette. Queste raffigurazioni simboleggiano i carismi di San Basso di dominare gli elementi naturali e placare le burrasche, quindi testimoniando ai fedeli che il Santo veglia e protegge le imbarcazioni e le persone. In particolare, il fatto che il santo sia rappresentato nel punto più importante della chiesa soddisfa l'esigenza di protezione divina da parte di una comunità marinara come quella di Cupra Marittima. Questa idea di protezione sacra è ribadita anche dalla presenza delle spoglie di San Basso sotto l'altare.

La glorificazione di questo santo è sottolineata anche da altri due aspetti iconografici. Sulla sommità dell'abside, tra nimbi, stelle e cerchi concentrici dorati, spunta la mano di Dio che reca un anello: tema iconografico proveniente dalla cultura figurativa paleocristiana e sta a significare che il potere del personaggio dipinto ha origine direttamente da Dio. L'anello che offre rappresenta il legame tra San Basso e la sua comunità, l'unione tra il vescovo e la Chiesa, così come Cristo è sposo della Chiesa.

Inoltre, l'evangelista Marco, l'unico dipinto con un libro aperto in mano su cui si può leggere Secundum Marcum (fig. 17), ha il volto rivolto verso il Santo. È proprio nel vangelo di Marco che si trova la versione più estesa dell'episodio di Gesù che placa la tempesta[7]. Il potere di placare le burrasche accumuna San Basso a Cristo, così come il martirio subito dal santo lo rende alter Christus.

Fig. 17 - Particolare della cupola con in primo piano l'evangelista Marco. Credits: Walter Ruggeri.

Il programma iconografico ideato dal Pauri allude alla missione redentrice di Cristo stabilendo un parallelismo di carattere salvifico tra la Sua figura e quella di San Basso.

In questo ciclo pittorico, il Pauri si dimostra un artista maturo e molto attento alla rappresentazione della figura umana, come dimostrano la naturalezza e le espressioni nei volti degli angeli che circondano san Basso, l'intensità del suo sguardo, la sua gestualità e la caratterizzazione fisiognomica degli evangelisti. Sulla base degli esempi dei suoi maestri, Pauri si focalizza molto sugli aspetti ornamentali e decorativi della pittura in cui libera tutta la sua fantasia creativa. Questi elementi, che spesso primeggiano su tutto il resto, accolgono suggestioni stilistiche di varia natura: linee sinuose e serpentinate che ricordano quelle del De Carolis e dello stile Liberty; linee secche con un andamento spezzato e spigoloso che rimandano al Futurismo e all'Art Déco[8].

Per la stesura di questo elaborato sono stati importanti due persone a me care che, in tempi e modalità diverse, mi sono state di grande aiuto: la mia collega ed amica dott.ssa Eliana Ameli che mi ha fatto conoscere questo sorprendente ciclo pittorico ed il mio amico Walter Ruggeri che si è generosamente messo a disposizione per scattare le fotografie. Ad entrambi va il mio più profondo e sentito ringraziamento.

 

 

Note

[1]Ludovico Seitz (Roma, 11/06/1844 – Albano, 18/01/1908) è stato un pittore italiano che aderì alla corrente artistica ottocentesca dei Nazareni. Affrescò la Cappella dei Tedeschi nella Basilica di Loreto (1892-1902). Fu direttore della Pinacoteca Vaticana.

[2]Antonio Lazzari, La gloria di San Basso. Il ciclo decorativo di Giuseppe Pauri nella Chiesa parrocchiale di Cupra Marittima, Quaderno n. 6, Comitato Festeggiamenti San Basso, Linea Grafica, Centobuchi (AP), 2010, pp. 5-8

[3] San Basso (Nizza, 190 circa – 5 dicembre 250) è patrono di Termoli e Cupra Marittima.

[4] «In quel giorno sarà il Signore degli eserciti una corona di gloria, uno splendido diadema per tutto il suo popolo» (Is. 28, 5)

[5] «Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più; ecco, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide; egli dunque aprirà il libro e i suoi sette sigilli”» (Ap. 5, 5)

[6] Nato a Birminghan il 28 agosto 1833 è stato uno dei principali esponenti della corrente artistica dei Preraffaelliti. Allievo di Dante Gabriel Rossetti. Affascinato dall'arte italiana, Burne-Jones diviene presto un pittore di grande successo nonostante la sua ritrosia ad esporre in pubblico. Espone nel 1877 alla Grosvenor Gallery ottenendo un grande successo che lo porterà ad essere uno dei pittori più amati in Inghilterra. Nel 1880 viene nominato Baronetto. Muore a Fulham il 17 giugno 1898. L'eredità delle sue opere d'arte è considerata un anello di congiunzione tra il preraffaellismo, il simbolismo e l'Art Nouveau.

[7] Mc 4, 35-41

[8]Antonio Lazzari, cit., pp. 9-29

 

Bibliografia

Antonio Lazzari, La gloria di San Basso. Il ciclo decorativo di Giuseppe Pauri nella Chiesa parrocchiale di Cupra Marittima, Quaderno n. 6, Comitato Festeggiamenti San Basso, Linea Grafica, Centobuchi (AP), 2010.

Cesare Caselli, Giuseppe Pauri 1882-1949: un sambenedettese tra Adolfo de Carolis e Ludovico Seytz, fa parte di "Riviera delle Palme mensile di informazione e cultura", anno V, n. 3-4. Marzo/Aprile 1989.


SAN GIOVANNI A CARBONARA

A cura di Ornella Amato

 

 

Il complesso monumentale di San Giovanni a Carbonara: le origini

 

Fig. 1 - La facciata del Complesso di San Giovanni a Carbonara vista da Via Carbonara. Credits - Di Leandro Neumann Ciuffo - S. Giovanni a Carbonara, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28378509.

 

Il Complesso Monumentale di San Giovanni a Carbonara è uno di quei gioielli nascosti di storia e storia dell'arte che non solo raccontano silenziosamente un passato glorioso e lontano, ma incuriosiscono tutti: dallo storico al turista, poiché non è solo uno scrigno d'arte, ma tra le sue mura conserva e, quasi sottovoce, racconta aneddoti nascosti della città di Napoli dalla fine del gotico all'inizio del Rinascimento, fino ad arrivare e con un salto temporale al Settecento con la scala in piperno davanti la facciata che fu opera del Sanfelice.

Fig. 2 - La facciata. Credits - Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Chiesa di San Giovanni a Carbonara, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16381571.

La chiesa di San Giovanni a Carbonara

La chiesa - punto centrale del complesso e dalla quale tutto si snoda - è dedicata a San Giovanni Battista ed è detta “a Carbonara” sia perché si trova proprio in via Carbonara, precisamente in via Carbonara n. 4, sia perché durante il medioevo quest'area, detta “Ad Carbonetum” era l'area esterna alla città dove si accumulavano i rifiuti cittadini, insomma una vera e propria discarica.

Durante la dominazione angioina la zona divenne l'area nella quale si tenevano fiere e giostre, giostre spesso talmente cruente da provocare non poca irritazione anche tra letterati del tempo.

La realizzazione della chiesa di San Giovanni a Carbonara avvenne tra gli anni 1339 e il 1418 grazie al contributo del nobile napoletano Gualtiero Galeota ma, per volere di Ladislao di Durazzo ultimo erede del casato degli Angiolini, si procedette ad un ampliamento, compresa la realizzazione del chiostro.

Nella chiesa convivono non solo gli elementi del ‘300 e del ‘400 ma, già ad un primo esame degli esterni, ci si rende conto che in essa è entrata tutta la storia dell'arte d'Italia, a cominciare dallo scalone settecentesco realizzato da Ferdinando Sanfelice, che conduce davanti al portale gotico caratterizzato da due pilastri e una lunetta affrescata dal Lombardo Leonardo da Besozzo.

Fig. 3 - Interno. Credits: Di Miguel Hermoso Cuesta - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37957246.

L'interno di San Giovanni a Carbonara è ad unica navata, a croce latina, quasi austera, con l'abside caratterizzata da una volta a crociera secondo i canoni del gotico; la pavimentazione invece è di marmo policromo e, all'interno della stessa, non sono stati pochi a voler vedere anche dei simboli massonici, come ad esempio le forme ortogonali che, a ben guardare, formano le piastrelle.

Fig. 4 - Dettaglio del pavimento. Credits - By Giuseppe Guida - Cappella Caracciolo del Sole. 0085, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=46187886.

La chiesa di San Giovanni a Carbonara conta sei cappelle: quattro laterali, una nella controfacciata, la Cappella Somma

Fig. 5 - Cappella di Somma. Credits - Di Mongolo1984 - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=80279485.

ed una alle spalle dell'abside, quale è la cappella Caracciolo del Sole, alla quale si accede passando sotto il Monumento Funebre di Ladislao di Durazzo.

Il Monumento Funebre di Ladislao di Durazzo

Ladislao di Durazzo, re di Napoli, figlio di Carlo III D'Angiò, fu un sovrano politicamente ambizioso: la sua politica estera fu caratterizzata da forti mire espansionistiche, e il suo motto, “o Cesare o niente”, ben dimostra il suo temperamento. Scomunicato, visse una vita in bilico tra l'ambizione e il timore continuo di una morte per avvelenamento, una morte che, stando alle fonti, più volte avrebbe beffato, poiché viaggiava sempre col suo coppiere, il cui compito era quello di assaggiare tutto ciò che sarebbe stato servito il sovrano.

Destino volle che la sua fine fosse segnata proprio da un avvelenamento, quasi subdolo: si racconta infatti che, innamoratosi della figlia di un medico fiorentino facente parte della fazione nemica dei Durazzo, volle giacere con lei; il padre acconsentì alla sua richiesta ma, qualche istante prima che si coricasse, intinse le labbra intime della figlia di un potente veleno che uccise il re, il quale rimase vittima non solo di una vera e propria congiura, ma anche del suo stesso piacere verso le donne.

Il suo nome resta legato al monumento funebre a lui dedicato all'interno della chiesa di San Giovanni a Carbonara, più che una chiesa un vero e proprio Pantheon del casato D'Angiò - Durazzo, così com'è definito da molti storici.

Realizzato per volere di Giovanna, sorella di re Ladislao, il monumento funebre è un'opera grandiosa in marmo, alta circa 18 metri, un gioiello dell'arte tardo gotico e proto rinascimentale, che monopolizza l'attenzione dello storico, del turista, del visitatore che entra e che vede davanti a sé un'opera dalle mastodontiche dimensioni.

Fig. 7a - Pianta e struttura del monumento. Credits - Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=46617664.

L'opera è stata realizzata soprattutto da scultori toscani, tra il 1414 e il 1430 e, per tradizione, è attribuito ad Andrea da Firenze, attivo in quegli anni proprio nella chiesa San Giovanni a Carbonara, il quale avrebbe ricevuto la commissione direttamente dalla Regina Giovanna succeduta sul trono dopo la morte del fratello.

L'opera si sviluppa su tre livelli: il primo vede un frammento marmoreo con le quattro virtù cardinali, al primo ordine risaltano in particolare le statue di Ladislao e della sorella Giovanna in trono nel gruppo centrale, collocati come se fossero all'interno di un loggiato e, alle loro spalle, ancora sono visibili gli affreschi coi simboli del casato angioino.

Fig. 8 - Dettagli. Credits - Di Armando Mancini - Questa è una immagine ritoccata, il che significa che è stata modificata digitalmente dalla sua versione originale. Modifiche: cropped. La versione originale può essere trovata qui: https://www.flickr.com/photos/13428228@N07/4330416438., CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17689265.

Il terzo ordine invece non si sviluppa in senso orizzontale ma in senso verticale ed è caratterizzato dal sarcofago del re aperto da due angeli reggi-cortina; alla base sono presenti quattro figure che rappresentano, oltre lo stesso re e la sorella, anche i genitori Carlo III e la moglie Margherita di Durazzo.

Volgendo lo sguardo verso l'alto si incontra anche il santo della casa D'Angiò, San Ludovico da Tolosa, che benedice la salma di Ladislao;

Fig. 9 - Dettaglio. Credits - Di Miguel Hermoso Cuesta - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=70634074.

La statua equestre del re, sull'ultimo ordine, con la spada sguainata e puntata verso l'alto, sormonta totalmente il mausoleo. Risalta, alla base, la scritta “Divus Ladislaus”.

Fig. 10 - Dettaglio. Credits - Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Chiesa di San Giovanni a Carbonara, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17689264.

Diverse sono state le letture e le interpretazioni di questa rappresentazione del sovrano sulla cima del monumento: le letture tradizionali che si danno sono due:

 

  1. All'indomani della scomunica, Ladislao, in groppa al suo cavallo, sfida la Chiesa;
  2. L'esaltazione delle sue virtù militari.

 

Resta certa l'interpretazione della presenza del cavallo, legata alla maniera scultorea tardogotico lombarda.

 

Il Crocifisso di Giorgio Vasari

Merita di essere citato il Crocifisso realizzato da Giorgio Vasari, all’interno del Complesso stesso, un olio su tela conservato all'interno della chiesa stessa.

Si tratta di un Crocifisso databile intorno al 1545, che alcune fonti raccontano che non sarebbe l'unica opera realizzata dal Vasari per la chiesa, ma che avrebbe fatto parte di un gruppo di opere conservate attualmente presso il Museo di Capodimonte.

Le fonti raccontano che il dipinto sarebbe stato realizzato a Roma e, solo in un secondo momento, spedito a Napoli per essere collocato all'interno della Cappella Seripando poiché fu commissionata dallo stesso cardinale Gerolamo per porla nella cappella di famiglia all'interno della chiesa di San Giovanni stesso.

Fig. 11 - Giorgio Vasari, Gesù Crocifisso, 1545, Napoli, Chiesa di San Giovanni a Carbonara. Credits - Di Peppe Guida - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93029705.

Attualmente è collocata accanto al monumento sepolcrale di Ladislao; lo spostamento si è reso necessario per i lavori di restauro che hanno interessato la cappella stessa a partire dall'anno 2011.

Fig. 12 - Credits - Di Miguel Hermoso Cuesta - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=70634072.

 

 

 

Bibliografia

I.Maietta. Vasari a Napoli - Paparo editori

 

Sitografia

Treccani.it

Napoligrafia.it

Napoli-turistica.com

Napolike.com

Touringclub.it


LA CAPPELLA CHIGI IN SANTA MARIA DEL POPOLO

A cura di Federica Comito

 

Fig. 1 - Interno Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, Roma.

La Cappella Chigi: introduzione

Commissionata a Raffaello plausibilmente nel 1511 da Agostino Chigi, la Cappella Chigi ha funzione funeraria e prende il nome dal suo committente. Al 1513 risale il progetto del maestro urbinate che prevedeva il rifacimento della cappella quattrocentesca, ma i lavori verranno ufficialmente portati a termine solo nel 1661. La cappella occupa il penultimo ambiente della navata sinistra nella basilica romana di Santa Maria del Popolo. Probabilmente, l’idea di trasformare la semplice nicchia laterale in un mausoleo a cupola, impreziosito da marmi policromi e mosaici, deve essere giunta al committente dopo un viaggio a Venezia e la vista degli esempi di San Marco e Santa Maria dei Miracoli.

La struttura

Trattandosi di una struttura già esistente, Raffaello era vincolato nella creazione della pianta della Cappella Chigi e perciò decise di elaborare un progetto in altezza rifacendosi all’idea di Bramante in San Pietro. La struttura architettonica della cappella presenta una pianta centrale con quattro pilastri angolari arricchiti da nicchie. Questi sorreggono altrettanti arconi, sui quali si imposta il tamburo con otto finestre quadrate che illuminano l’ambiente. Su quest’ultimo si erge la cupola emisferica cassettonata. Il peso totale della copertura grava sui pilastri e questo espediente permise a Raffaello di assottigliare le pareti e di ingrandire lo spazio interno della Cappella Chigi, raggiungendo i sette metri di ampiezza. Decise, inoltre, di raddoppiare l’arcata d’ingresso e a quella interna diede lo spessore di tre paraste.

Fig. 2 - Cappella Chigi, particolare della cupola sui quattro pilastri.

A ridosso della parete frontale della cappella si trova il sepolcro, disegnato da Raffaello stesso, rialzato su un podio formato da tre gradini. Questo è a sua volta affiancato da nicchie, ricavate nei pilastri, contenenti statue. Infine, affiancano le nicchie paraste scanalate sormontate da capitelli di ordine corinzio. Tra i due capitelli corre una decorazione con festoni di fiori, frutta e un mascherone posto al centro in perfetta corrispondenza con la scultura collocata all’interno della nicchia sottostante. Quest’ordine fu scelto da Raffaello per essere accordato con quello in uso nelle navate laterali della chiesa.

Fig. 3 - Particolare della decorazione, festoni di fiori e frutta con mascherine tra capitelli corinzi.

Anche Francesco Salviati contribuì alla decorazione della Cappella Chigi. Gli sono attribuiti i tondi con le Stagioni collocati nei pennacchi e gli affreschi che narrano la Creazione e il Peccato Originale, posizionati tra le finestre del tamburo della cupola. Salviati collaborò anche con Sebastiano del Piombo per il dipinto a olio sull’altare raffigurante la Nascita della Vergine che andò a sostituire la pala dedicata all’Assunzione della Madonna, prevista da Raffaello, che però non fu mai realizzata.

La cappella è arricchita da marmi policromi e si distaccano dall’insieme colorato solo gli elementi architettonici in marmo bianco posti nei punti di snodo come gli archivolti, le paraste e le cornici, impreziositi da inserti pittorici e a mosaico. In origine, invece, il prototipo presentato risultava bianco e spoglio.

All’interno della cappella sono custodite, nelle quattro nicchie in prossimità dei pilastri, le statue di Giona che esce dalla Balena opera di Lorenzetto e di Elia, realizzata anch’essa dallo stesso artista tra il 1517 e il 1522 circa e terminata da Raffaello da Montelupo. Nelle due nicchie restanti si trovano i gruppi scultorei raffiguranti Abacuc e l’angelo e Daniele e il Leone ad opera di Gian Lorenzo Bernini e datate rispettivamente 1656-61 e 1655-57. Lorenzo Lotto, detto il Lorenzetto, lavorò presumibilmente anche al bassorilievo in bronzo con Cristo e la Samaritana che doveva essere collocato sulla tomba di Chigi ma che oggi si trova sull’altare.

Fig. 4 - Lorenzetto, Giona, scultura in marmo, 1520 (collocato a destra dell'altare) su disegno di Raffaello.

Sono altresì da attribuire a Raffaello le tombe piramidali in marmo rosso per Agostino Chigi e suo fratello Sigismondo, alle quali Bernini aggiunse dei particolari decorativi nei tondi marmorei. Queste preziosissime tombe si collocano in corrispondenza dei sarcofagi dei due fratelli e chiudono le arcate cieche laterali con lastre di marmo bugnato. La forma piramidale porta l’occhio dell’osservatore verso l’alto, fino a giungere all’oculo chiuso al centro della cupola. In passato si poteva osservare, attraverso una grata posta sul pavimento, un’ulteriore piramide che si trovava nel sepolcro sotterraneo insieme ai sarcofagi della famiglia Chigi. Opera di Raffaello furono anche i cartoni per la realizzazione dei mosaici sulla cupola, terminati nel 1516 dal veneziano Luigi de Pace, come ricorda la data incisa sulla cupola stessa.

Attraverso i costoloni dorati della cupola si apre uno spazio celeste dove Dio creatore a mezzo busto, al centro dell’oculo, è circondato da angeli e divinità pagane che rappresentano il Sole, la Luna e i pianeti ed è rappresentato mentre accoglie le anime che ascendono al cielo. I cartoni originali di Raffaello sono purtroppo andati perduti, ma si conservano all’Ashmolean Museum di Oxford alcuni studi preparatori databili al 1512-13 circa che confermerebbero l’autografia raffaellesca.

Fig. 5 – Cupola con mosaici.

Particolarissimo è il pavimento della cappella ideato da Bernini su commissione di Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII.  Al centro della pavimentazione, dove è collocata la tomba dello stesso Alessandro VII, c’è una decorazione che rimanda al tema del memento mori, confermato dalla Morte alata che cela nella scritta Mors aD CaeLos l’indizio della data di realizzazione in numeri romani (MDCL: 1650). Bernini realizzò anche la lampada in bronzo con tre cherubini in volo e le otto stelle simbolo della famiglia Chigi. Il modello della lampada rimanda alla corona della Madonna alla quale è dedicata la cappella. Infine, all’ingresso sono collocati due candelieri bronzei alti 1,5 m al di sopra di zoccoli lignei e decorati con simboli che rimandano alla famiglia dei committenti.

Fig. 6 - Dettaglio pavimento con "Morte alata".

Conclusione

La cappella Chigi è un’opera d’arte completa. Al suo interno si fondono diverse espressioni artistiche quali architettura, scultura, pittura e mosaico formando un insieme fortemente unitario. Sono presenti tematiche cristiane e richiami pagani che, tuttavia, creano un insieme armonioso. Diversi sono i rimandi all’antico: la forma piramidale delle tombe richiama un antico simbolo funerario, mentre l’uso di marmi e mosaici si rifà agli sfarzosi rivestimenti che ricoprivano anticamente i monumenti romani di età imperiale.

 

Bibliografia

C.L. Frommel-S. Ray-M. Tafuri, Raffaello e la sua carriera architettonica, in Raffaello architetto, Milano, 1984.

  1. Oberhuber, Raffaello: l’opera pittorica, Elemond Electa – Mondadori, 1999.
  2. Bruschi, Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, Electa, 2002.

C.L. Frommel, L’architettura del Rinascimento italiano, Skira, 2007.

  1. Bertelli-E. Daffra-M. Pavesi, Invito all’arte. Dal rinascimento al rococò; Pearson Italia, Milano-Torino 2017.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzetto_(Dizionario-Biografico)/


LA MADONNA DELL’ARCO: UN RITO PASQUALE

A cura di Ornella Amato

Introduzione: la Madonna dell'Arco il Lunedì in Albis

Nell’ambito delle celebrazioni pasquali l’arte spesso si è esplicata non solo attraverso le opere di grandi artisti, ma anche e soprattutto attraverso il fervore popolare, che ha sempre riconosciuto nel sacro triduo di Pasqua non solo la sacralità del cattolicesimo, ma il nucleo su cui tutto si fonda, celebrando e riportando nell’arte le ore e i giorni della Passione, della Morte e della Resurrezione del Cristo. Questo concetto è particolarmente vivo e presente a Napoli grazie alla tradizione della cosiddetta Madonna dell'Arco.

Arte e associazioni popolari: lo strano caso della Madonna dell’Arco

In particolare sono state le opere d’arte a farsi portavoce, probabilmente loro malgrado, del popolo, poiché non solo l’arte maggiore, ma soprattutto l’arte popolare, ha dato vita ad una forma artistica che, sebbene considerata minore, impegna ogni anno uomini e donne: stiamo parlando dello “strano caso” della Madonna dell'Arco, che ci pone di fronte ad un'arte popolare poco conosciuta o comunque nota quasi esclusivamente nell'hinterland partenopeo, che vede la luce ogni anno nel giorno del Lunedì in Albis, mostrandosi in tutta la sua grandezza.

Il Lunedì in Albis

Era il 6 Aprile 1450, un lunedì in Albis appunto, ed esisteva un’edicola all'interno della quale vi era un affresco raffigurante una Madonna con Bambino.

Nei pressi di quell’edicola, nel lunedì di Pasquetta, la gente del luogo era solita raccogliersi e, durante una partita di pallamaglio che si disputava tra due contadini, il perdente bestemmiò violentemente contro la Madonna e le scagliò contro la palla stessa.

La Sacra Immagine fu colpita sul viso e, da una guancia, ne sgorgò del sangue vivo tanto da gridare immediatamente al miracolo; subito il contadino blasfemo fu arrestato e condannato per direttissima all'impiccagione ad un albero di tiglio, accanto all'edicola, che in 24 ore seccò.

L’edicola era ormai divenuta un luogo di culto mariano.

Il 3 Aprile 1589, lunedì di Pasquetta, una donna, Aurelia del Prete, a seguito dell’insistenza del marito, si recò alla Sacra edicola per voto e grazia ricevuta: essendosi ferita gravemente ad un piede mentre spaccava della legna e temendo di rimanere storpia, fece voto alla Madonna dell'Arco che, se fosse guarita, le avrebbe portato in dono dei ceri il lunedì successivo la Pasqua, il lunedì in Albis, appunto; e così fu. Guarì, e per riconoscenza pensò di portare con sé anche un maialino, che perse nella folla. Dalla rabbia iniziò a bestemmiare così come era sua abitudine fare: giunta davanti la cappella inveì contro il marito, gettò violentemente a terra il dono in cera realizzato per ex voto, inveì contro la Vergine e i presenti, ma a nulla valsero i tentativi di calmarla: la notte tra il 21 e il 22 Aprile 1590, ovvero tra la domenica della Pasqua e il lunedì in Albis dell’anno successivo, i piedi di Aurelia si staccarono improvvisamente dalle gambe.

Si racconta che a seguito di ciò Aurelia si convertì e chiese perdono alla Vergine del suo comportamento e delle sue bestemmie; successivamente i piedi, inizialmente nascosti in una gabbietta, furono esposti alla visione dei fedeli per volere di uno dei Cavalieri dei Seggi della città di Napoli. Tutt'oggi sono visibili al museo di ex voto presente all'interno del Santuario stesso, e che sorge a partire dal ‘600 nel luogo dove un tempo sorgeva la piccola edicola da cui tutto ebbe inizio.

I “Vattienti”

Il culto della Madonna dell'Arco è un culto che si è diffuso un primo momento soprattutto nelle fasce più basse e più popolari dell'hinterland partenopeo fino ad arrivare al cuore pulsante della città di Napoli, ai suoi vicoli a ai suoi quartieri, soprattutto i più popolari dove ci si affida ‘a Mamm e ll’Arc ’ perché protegga senza remore i suoi figli.

I fedeli durante questa festa sono vestiti totalmente di bianco: pantaloni e maglia bianca per gli uomini, gonne, calze e maglie bianche invece per le donne; tutti indossano una fascia bicolore rossa e blu generalmente bordata di nastri dorati. È possibile sentirli per le vie dei quartieri della città a partire dal 6 gennaio, giorno dell’Epifania, nota al culto cattolico come “la prima Pasqua”, che chiedono offerte da portare al Santuario nel giorno del lunedì in Albis, oltre che per realizzare stendardi e carri per celebrare la Madonna dell'Arco.

Vengono chiamati “vattienti” o più semplicemente “fujenti” poiché, giunti al Santuario, corrono a gruppi verso la Sacra Immagine, oggi posta sull’altare maggiore.

I carri e gli stendardi

I carri, spesso realizzati in cartapesta, legno e coi materiali più svariati, sono considerati tra la maggiore esplicazione non solo di un'arte popolare ma anche dell’elevazione e della fede al culto della Madonna dell'Arco: sono realizzati tendenzialmente a mano, hanno grosse dimensioni e sono trasportati a spalla dai fedeli. Le loro dimensioni sono notevoli, la loro iconografia è abbastanza convenzionale: non mancano mai realizzazioni della statua della Vergine dell’arco in trono col Bambino, il Cristo Risorto ed elementi della natura che li circondano.

Oltre ai carri, gli stendardi votivi e le bandiere sono la maggiore elevazione che si possa offrire anche perché la loro produzione comporta costi che sono abbastanza elevati e che spesso sono sostenuti non solo a carattere personale, ma anche a carattere comunitario; l'elevazione della bandiera a chi ha saputo dare conforto e aiuto concreto in un momento di totale disperazione segue il motto: “Elevate bandiere stendardi al Signore unica potenza degna di lode”.

Presentano tutti un’iconografia abbastanza simile: grossi gonfaloni dalla forma rettangolare, le dimensioni variano tra i 2 e i 4 m, vengono issati su grosse aste verticali sormontate da aste orizzontali che presentano le stesse dimensioni del lato piccolo del gonfalone stesso. Si presenta in forma quadrangolare, il tessuto con cui è realizzato è sempre pregiato, si tratta di broccati rossi o blu, ma anche giallo oro o comunque tessuti spessi; lungo i margini presentano bordi dorati che li rendono nobili e regali, nella parte centrale è riprodotta l'immagine della Vergine o il Santo a cui insieme ad esso è dedicata. Generalmente sono immagini a stampa e poi cucite, specie per quel che riguarda gli stendardi di recente realizzazione, mentre gli impianti interamente realizzati a mano sono il frutto di un lavoro collettivo, spesso realizzato dalle donne della comunità o delle associazioni e reca nel retro, a lettere capitali, il ringraziamento e il nome dell’Associazione Cattolica Operaia della Vergine dell'Arco che lo ha realizzato.

Un ruolo fondamentale è quello del gonfaloniere, colui che porta lo Stendardo: lo porta spesso a piedi nudi con l'arduo compito di maneggiarlo e nel contempo di dimostrare la sua abilità nel destreggiarsi con la bandiera, finendo col diventare, nell'ambito delle manifestazioni del lunedì in Albis, il vero uomo - spettacolo, all'interno della navata del santuario e prima di arrivare ad esso.

Concetto di arte popolare e conclusioni

Fede e arte popolare? Sì. Fede popolare, ma anche arte popolare.

Il concetto di arte popolare può avere due spiegazioni diverse:

si può parlare di arte popolare intesa come realizzazione di un qualcosa da parte del popolo, di artisti non professionisti, come le realizzazioni di ambito artigianale, e arte popolare intesa come arte conosciuta dal popolo.

E proprio il popolo tende a definirne le caratteristiche: è un'arte che sprigiona naturalezza e che per questo si svincola dal bello e, simultaneamente, dalla componente estetica della quotidianità contemporanea, che a sua volta si libera dai canoni della bellezza tradizionale e lascia libertà all'ingegno creativo degli artisti che non fanno appello all'intelletto. È un’arte che sollecita la sfera affettiva lasciando trasparire il lato umano: qui si sviluppano il concetto di bello, le tradizioni popolari, le diverse realtà locali, innestando un imprescindibile innesto tra sacro e profano, antropologia culturale ed arte.

Nel tempo in cui scriviamo, il “rito del Lunedì in Albis “ al Santuario della Madonna dell’Arco è temporaneamente vietato poiché è, purtroppo, un tempo di pandemia che non avremmo mai pensato di vivere, è un tempo in cui dobbiamo affidarci alla memoria di un tempo remoto e che ci sembra lontano, ma che auspichiamo di rivivere, recuperando non solo la memoria delle tradizioni da lasciare ai posteri, ma anche un’arte popolare all’interno di un’area metropolitana, che si affida alla fede e che da essa trae stimoli e prende forza.

 

Si ringrazia Gianni Marino per il corredo fotografico

 

 

 Bibliografia per il concetto di Arte popolare

E.H. Gombrich Arte popolare in  E.H. Gombrich La Storia dell’Arte pagg.: 505 – 509 Ed. Leonardo 2003

 

Bibliografia per gli stendardi votivi

P.G. Della Testa Dentro e fuori la potenza di Dio pag 46 Ed. Paoline 2001

Ippolito Fede e Folklore in Storia del Santuario di Madonna dell’Arco pagg. 75 e succ. Ed. Cuore e Mente 2000

 

Sitografia

santuarioarco.com

 

 

ORNELLA AMATO

Laureata nel 2006 presso l’università di Napoli “Federico II” con 100/110 in storia indirizzo storico – artistico. Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.

Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it.

 


IL DIADEMA DI FONTENOVA A MONSUMMANO TERME

A cura di Luisa Generali

Introduzione: il diadema di Fontenova

Dopo aver tracciato le vicende storiche e artistiche dell’affresco di Fontenova a Monsummano Terme (PT) passiamo ora a raccontare l’origine del diadema di Fontenova, un tempo pensato per incoronare l’immagine della Vergine, e che ad oggi per motivi conservativi si trova nel Museo della Città e del Territorio dello stesso paese (fig.1).

Fig. 1 - Arte orafa toscana (Odoardo Vallet?), Corona, 1608, Monsummano T., Museo della Città e del Territorio. Credits: sito ufficiale del Museo della Città e del Territorio di Monsummano.

L’idea di rendere omaggio all’immagine sacra di Fontenova nacque dalla volontà del Granduca Ferdinando I (1549-1609) di offrire un ex voto a suo nome. Questa promessa fu portata a compimento nel 1609, un anno dopo la morte dello stesso duca, dal figlio Cosimo II (1590-1621), che fece arrivare a Monsummano il prezioso gioiello creato nelle botteghe orafe granducali. Con la posa di questo monile i Medici avevano così suggellato tutti i passaggi fondamentali per l’affermazione del culto di Fontenova, prima con la costruzione del Santuario, poi con l’inizio della campagna decorativa a opera dei grandi maestri del Seicento fiorentino (che andò avanti fino al 1633), ed infine con l’omaggio del prezioso diadema.

La controriforma: i culti mariani e le incoronazioni

L’intensificarsi dei culti mariani nella cornice della controriforma assunse anche una ragione storica in quanto la protesta luterana aveva notevolmente ridimensionato il ruolo di Maria, per cui di controparte la chiesa cattolica ebbe la necessità di rafforzare il credo nelle masse servendosi anche del sostegno e della partecipazione attiva dei regnanti. Risale alla seconda metà del XVI secolo, sull’onda delle predicazioni postridentine, la missione del frate Girolamo Paulucci de Calboli da Forlì (1552-1620), grande devoto di Maria che si dedicò a diffondere fra la gente l’usanza di incoronare le immagini sacre della Vergine, guadagnandosi l’appellativo di “Apostolo della Madonna”. Si impose così fra i fedeli la consuetudine di rinunciare alle proprie ricchezze per contribuire alla realizzazione di monili e corone che sarebbero state offerte alle tante icone mariane venerate nella penisola. La rinuncia dei beni materiali per donarli a Maria significava mettere da parte l’agiatezza per votare la propria anima alla Regina dell’umiltà. Col passare dei secoli tale tradizione popolare venne ufficializzata dal Capitolo Vaticano di San Pietro che, guardando “all’antichità, la venerazione e il carattere miracoloso dell’immagine”, aveva il compito di formalizzare il rito, disciplinando, in base a delle regole, il fiorire sempre più incontenibile delle incoronazioni.

 

Il diadema di Fontenova

Il diadema di Fontenova, considerato uno dei prodotti d’oreficeria fiorentina più pregevoli e meglio conservati del XVII secolo, si mostra ancora oggi in tutto il suo splendore, luccicante di pietre e gemme preziose. L’inserimento sull’affresco di questo magnifico oggetto metallico, che andava a nobilitare e abbellire l’immagine, cambiava sensibilmente anche l’iconografia dell’opera originaria, non più solo raffigurante la Madonna in adorazione del Bambino, ma anche Maria Regina dei Cieli, in quanto madre di Gesù, Re dell’Universo, l’unica vera fonte di ricchezza a cui aspirare.

Come in altri contesti simili, anche a Monsummano fu presa la decisione difficile quanto necessaria di separare la corona dall’affresco: in genere l’aggiunta di elementi metallici sulle pitture murarie, così come per altri supporti, si avvaleva di mezzi invasivi quali ganci, viti o chiodi, andando a gravare pesantemente sull’opera. Questa separazione, che snatura e priva il contesto di un suo fondamentale dato storico, ha d’altra parte consentito una maggiore protezione e fruizione di entrambe le opere, assicurando anche all’affresco una salvaguardia maggiore. Per ricordare gli eventi seicenteschi che portarono all’incoronazione della Madonna di Fontenova, talvolta è stata posta sulla fronte della Vergine una corona in sostituzione dell’originale, in modo da non smarrire la memoria e quella componente devozionale in cui la stessa collettività si era riconosciuta per secoli (fig.2).

Fig. 2 - Giovanni di Ser Giovanni, detto “Lo Scheggia”, Madonna in adorazione del Bambino, metà XV secolo, Santuario di Maria Santissima di Fontenova, Monsummano Terme. Credits: Wikipedia Commons.

Attualmente la corona è custodita nel Museo della Città e del Territorio di Monsummano, che trova spazio negli ambienti del Palazzo dell’Osteria dei Pellegrini, progettato dallo stesso Gherardo Menchini come rifugio per i forestieri, e che quindi si trova in stretta relazione storica-religiosa con il Santuario. Fa parte dell’allestimento del museo una sezione destinata proprio al Tesoro di Fontenova, che nei secoli ha raccolto tutto il fervore dei devoti tramite donazioni di varia natura: dagli ex voto più datati in lamina d’argento (tra cui si conservano anche altri esemplari di corona), agli oggetti per la liturgia, agli arredi tessili come i paramenti e i mantellini per la protezione dell’icona.

Ritornando al diadema (fig.3), sorprende la finezza del disegno e la preziosità che in ogni centimetro riveste la superficie, realizzata da una placca in rame ricoperta di uno strato d’oro su cui si inserisce una magnifica distesa di gemme. Sul retro un’iscrizione ricorda il voto di Ferdinando I e la data 1608, mentre i puntali prendono le forme del giglio fiorentino alternato a stelle, e due mezzi gigli. Oltre la grande quantità di pietre preziose e semipreziose disposte simmetricamente, coesiste anche una finissima lavorazione in filigrana e smalti che determinano l’eccezionalità del gioiello.

Il riconoscimento della stessa simbologia di cui si avvale la decorazione con la preminenza del giglio fiorentino (emblema della città di Firenze) e delle stelle ad otto punte (simbolo di Maria, fonte di luce e di salvezza) in cristallo di rocca, se da una parte voleva porre l’attenzione sul rinnovato sentimento religioso di cui la famiglia Granducale si faceva portavoce, “spogliata” delle sue gioie per donarle alla Vergine, dall’altra ostentava una vera e propria propaganda politica di affermazione dell’egemonia fiorentina, la cui sovranità era stata riconosciuta dalla stessa Chiesa.

Fig. 3 - Arte orafa toscana (Odoardo Vallet?), Corona, 1608, Monsummano T., Museo della Città e del Territorio. Credits: Museo della città e del territorio – Città di Monsummano Terme, pag. 266.

Le corone granducali

Sebbene l’intento devozionale, sono infatti lampanti i confronti fra il diadema di Monsummano e le corone granducali, tutti manufatti provenienti dalle medesime botteghe orafe della capitale. Qui avevano preso forma i “simboli del potere” di natura politica che riconoscevano al reggente lo status di Granduca della Toscana. Prima fra tutte le insegne regali, per il suo affermatissimo ruolo celebrativo, fu proprio la corona, realizzata dal fiammingo Hans Domes (seconda metà XVI secolo) sulla base del disegno della bolla papale del 1569 promulgata da Papa Pio V che, dopo la presa di Siena da parte di Firenze, sancì il riconoscimento ufficiale di Cosimo I (1519-1574) come “Magnus Dux Etruriae” (fig.4). Vista la transitorietà di questi oggetti che venivano creati per essere in fretta disfatti e nuovamente forgiati, sono fondamentali i ritratti in cui è possibile osservare come doveva essere l’aspetto originario del primigenio copricapo creato appositamente per il regnante fiorentino, che assumeva per la prima volta un titolo governativo mai esistito prima. Nelle opere commemorative di Giovan Battista Naldini (1535-1591) e di Ludovico detto il Cigoli (1559-1613) vediamo il Granduca in abiti di rappresentanza con il mantello d’ermellino sfoggiare la corona in cui spicca, in posizione centrale, il giglio rosso accompagnato da una schiera di lance aperte verso l’esterno che correvano circolarmente lungo la circonferenza (fig.5-6).

Risale allo scorso anno la mostra a Palazzo Vecchio dal titolo “Nel Palazzo di Cosimo. I simboli del potere” in occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario dalla nascita di Cosimo I e Caterina de’ Medici, inaugurata il 13 dicembre 2019, a 450 anni esatti dalla lettura ufficiale della bolla di Papa Pio V che decretava la nascita del Granducato di Toscana. Il percorso, finalizzato ad una rilettura storica-artistica degli ambienti del palazzo durante il ducato cosimiano, ha esibito nella Sala delle Udienze i tre oggetti celebrativi del regno: il collare del Toson d’oro (ordine cavalleresco di cui faceva parte anche Carlo V), lo scettro e la corona (fig.7). Seguendo le tradizioni artigianali fiorentine, questi monili, che non si possono considerare copie ma vere e proprie creazioni poiché rappresentative di un prototipo non più esistente, sono stati realizzati dal maestro Paolo Penko grazie ad un accurato studio delle fonti scritte e iconografiche. Guardando da vicino la creazione del maestro Penko (fig.8) si noterà la straordinaria perizia nell’esecuzione tecnica dei dettagli, a partire dalla smaltatura scarlatta dei gigli con riflessi dorati, alla messa in posa delle perle e delle pietre preziose selezionate una ad una, ed alla lavorazione del metallo per le decorazioni ai piedi delle punte e nella dentellatura. Per arrivare infine alla riproduzione del cammeo in agata scolpita raffigurante la personificazione del fiume Arno, interpretato “alla romana” come una divinità maschile semigiacente; chiude il cerchio la fascia centrale dove corre l’iscrizione latina in memoria di quei meriti che portarono Cosimo all’incoronazione: “Pio V Sommo Pontefice donò per l’eccezionale devozione e per lo zelo nei confronti della religione cattolica e per il particolarissimo amore della giustizia”. La componente emozionale di questa rievocazione storica del passato, quando 450 anni fa negli stessi ambienti si trovavano gli autentici gioielli, è stata suggellata dall’esposizione delle tre insegne regali su cuscini rossi in velluto di pura seta collocati su una cattedra coperta da un centrotavola in velluto lavorato, capolavori tessili della Fondazione Arte della Seta Lisio di Firenze che si occupa di tramandare le antiche tecniche artigianali della lavorazione tessile (fig.9).

Dopo la morte di Cosimo, tra gli anni ‘70-‘80 del XVI secolo, venne realizzata dall’orafo Jaques Bylivelt (1550-1603) un’altra corona ancor più sfarzosa della precedente. Anche in questo caso il pezzo non più esistente ci viene tramandato dalle testimonianze visive, in cui appare spesso a fianco dei regnanti nella ritrattistica ufficiale. Particolarmente vivida è l’immagine del gioiello nel dipinto di Scipione Pulzone (1540 c.-1598) datato al 1590 che vede Cristina di Lorena (1565-1636), consorte di Ferdinando I, sostare a lato di un tavolo dove è collocata la corona, posando la mano proprio in prossimità di questa (fig.10). Le tonalità chiare che esaltano gli effetti serici dell’abito della granduchessa e del drappo che fa da sipario, restituiscono un’immagine cristallina della scena. Anche il monile appare in tutta la sua nitidezza, puntuale nei dettagli, per cui è verosimile credere che questa sia una delle sue raffigurazioni più fedeli. Rispetto al precedente esemplare le forme della corona sono più gravi, appesantite dai grandi castoni sulla base del cerchio e sul giglio centrale, mentre anche le punte che ne circondano il perimetro si fanno più spaziose per far posto alle gemme (fig.11). Pietre preziose inserite in modo da formare dei ciondoli e catene agghindano il vestito della regnante come ornamenti sulle spalle, nella cintura e nella massiccia collana: lo stesso abito sembra quindi diventare un vero e proprio “gioiello” modellato sulle forme incantevoli della corona.

Visto il legame con il santuario di Monsummano ed in particolare la sentita adorazione di Cristina di Lorena, di cui si conservano nel tesoro di Fontenova anche alcuni arredi elargiti a suo nome, si può ipotizzare una esplicita richiesta da parte dei granduchi di realizzare un diadema che evocasse ulteriormente il legame tra la casata e il monile per l’affresco miracoloso. Evidenti sono infatti i richiami del diadema di Fontenova con quello granducale eseguito da Bylivelt come suggerisce la lavorazione per l’incastonatura delle gemme, che segue un preciso intento decorativo. Per le chiare similitudini gli studiosi hanno proposto di riconoscere l’orefice responsabile del diadema di Fontenova nella cerchia di Bylivelt e più precisamente nell’erede di bottega Odoardo Vallet (prima metà XVI secolo-1622 c.), che secondo le fonti dell’epoca fu molto abile nella tecnica degli smalti, particolare ornamentale che contraddistingue anche il manufatto di Monsummano.

 

 

Bibliografia

Baccherini, F. Capecchi, Il tesoro di Maria Santissima della Fontenova, in Museo della città e del territorio – Città di Monsummano Terme, a cura di G. Carla Romby, E. Vigilanti, Ospedaletto 2001, pp. 239-241.

Capecchi, Scheda n.221. Corona, in Museo della città e del territorio – Città di Monsummano Terme, a cura di G. Carla Romby, E. Vigilanti, Ospedaletto 2001, pp.266-267.

 

Per una Bibliografia specifica

Francini, Zucchi, Nel palazzo di Cosimo: i simboli del potere, catalogo della mostra a cura di C. Francini e V. Zucchi, Museo di Palazzo Vecchio, 13 dicembre 2019-31 agosto 2020, Firenze 2019.

 

Sitografia

Sull’applicazione delle corone metalliche: http://www1.unipa.it/oadi/oadiriv/?page_id=2268

Sul culto dell’incoronazioni mariane: http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/59/2008-10/10-156/incoronazioni%20mariane1.pdf

Sul Santuario di Maria Santissima di Fontenova e il diadema: https://www.toscanaoggi.it/Territorio/Musei-d-arte-sacra/Santuario-di-S.-Maria-a-Fontenuova-Museo-della-Citta-e-del-Territorio

http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_69118

 

Sulla mostra Nel Palazzo di Cosimo. I simboli del potere

http://musefirenze.it/nel-palazzo-di-cosimo-i-simboli-del-potere/

https://www.fondazionelisio.org/it/chi-siamo/la-fondazione/

https://www.pressreader.com/italy/corriere-fiorentino/20191214/281994674378851

https://www.500cosimocaterina.it/eventi/nel-palazzo-di-cosimo/

https://cultura.comune.fi.it/dalle-redazioni/nel-palazzo-di-cosimo-i-simboli-del-potere


L’ALTARE D’ORO DI SANT’AMBROGIO A MILANO

A cura di Gianmarco Gronchi

 

A pochi passi dall’Università Cattolica e dal Tempio della Vittoria di Muzio, di cui vi sarà occasione di parlare in futuro, sorge la basilica di Sant’Ambrogio, una delle più importanti chiese milanesi. Luogo ricco di opere d’arte, ha visto all’opera molti artisti di rilievo durante un periodo che va dal IV secolo fino all’operato di Bramante e Gaudenzio Ferrari.

Tra i molti manufatti artistici di rilievo, merita particolare attenzione per il suo carattere di eccezionalità l’altare d’oro del IX secolo.

Il desiderio di accrescere il prestigio della basilica di Sant'Ambrogio attraverso la filiazione dai martiri e dai più degni predecessori è ciò che spinge il vescovo di Milano Angilberto II (morto nell’859) a commissionare un rivestimento per l’altare maggiore. È bene ricordare che la produzione di immagini nel Medioevo non era mai lasciata al caso e ogni raffigurazione aveva un preciso scopo. Gli arredi liturgici non facevano differenza. In questo caso, la decorazione pensata per l’altare maggiore della basilica ambrosiana rimanda prima di tutto alla presenza all’interno della chiesa delle reliquie dei martiri Gervasio e Protasio, a cui la basilica era inizialmente intitolata, e a quelle di Ambrogio stesso, fondatore del primo nucleo della chiesa e patrono di Milano. Come si nota a prima vista, la forma quadrangolare dell’altare rimanda a quella di un enorme sarcofago, ma in realtà non conteneva davvero le reliquie. Esse erano poste al di sotto dell’altare e visibili attraverso un “fenestrella” sul lato posteriore dell’altare stesso.

L’eccezionalità di quest’opera è presto detta. Nel Medioevo generalmente l’altare veniva decorato con drappi, facili da trasportare, oppure con quelli che vengono definiti paliotti o antependia. Nell’accezione più propria del termine, un antependium è un pannello decorativo di varia natura che viene apposto sul solo fronte d’altare, cioè sul lato lungo dell’altare visibile ai fedeli durante la liturgia. Nel caso di Sant’Ambrogio, invece, le lastre di metallo prezioso rivestono tutta l’anima lignea dell’altare, con una profusione di ricchezza e una densità di immagini religiose che forse non ha pari. Il lato anteriore è interamente d’oro, mentre gli altri tre sono di argento parzialmente dorato. Alcuni motivi presentano risalti a smalto cloisonné, una tecnica che prevede di saldare alcuni sottili filamenti metallici al fondo di supporto, al fine di creare delle celle che possano ospitare gli smalti colorati. Perle e gemme completano un’iconografia estremamente elaborata, che merita di essere indagata più da vicino.

Fig. 1 - Fronte anteriore dell’altare di Sant'Ambrogio.

Il prospetto anteriore, verso la navata, illustra i valori fondamentali del dogma cattolico. Questa faccia è divisa in tre comparti rettangolari. Quello centrale presenta una croce con Cristo al centro e i simboli dei quattro evangelisti nei bracci. Negli angoli, invece, stanno i dodici apostoli, divisi in gruppi di tre, che osservano Cristo in trono al centro. Nei riquadri laterali, suddivisi a loro volta in sei scene, vengono raffigurate le storie del Nuovo Testamento. Il senso di lettura prevede che si legga prima il riquadro di sinistra e poi quello di destra e che si proceda sempre dal basso verso l’alto e dall’esterno verso l’interno. L’occhio dello spettatore, così, è sempre ricondotto verso la croce centrale con Cristo al centro. In questo modo si riprendeva la tradizione decorativa paleocristina, che prevedeva che al centro dell’abside si collocasse una teofania, mentre sui muri della navata si sviluppassero le serie narrative, che avrebbero accompagnato il fedele fino alla visione teofanica absidale.

Fig. 2 - Uno dei pannelli laterali dell'altare di Sant'Ambrogio.

I due lati minori riaffermano il tema del trionfo di Cristo, ma presentano anche una transizione verso il discorso che si articola sul lato posteriore dell’altare. Infatti, qui gli angeli della corte si mischiano a varie figure di santi, tra cui anche Gervasio, Protasio e Ambrogio. Sul lato posteriore, infatti, si sviluppa pienamente un’iconografia agiografica, ovvero relativa alle vite dei santi. Qui il ruolo di Ambrogio, di cui Angilberto poteva sentirsi legittimo erede, viene messo in evidenza. Viene ripresa la tripartizione del fronte, ma dove prima era rappresentata la croce adesso ci sono due ante che formano la “fenestrella”, attraverso la quale era possibile vedere le reliquie conservate nella basilica. Le due ante sono decorate da tondi entro i quali sono raffigurati gli arcangeli Michele e Gabriele e poi due scene di assoluta eccezionalità: Angilberto che presenta ad Ambrogio il modello dell’altare e Ambrogio che incorona l’orafo Vuolvinius. La scena del vescovo committente che offre al santo titolare della basilica il modello dell’altare stesso è una manifestazione dell’importanza che Angilberto II attribuisce al suo stesso ruolo. Questa scena ricorda quindi il ruolo di Angilberto nel promuovere la realizzazione di un oggetto cultuale il cui splendore glorifichi il santo titolare e contemporaneamente assicuri la commemorazione del sacrificio del Salvatore. L’altra scena, invece, rappresenta un carattere di eccezionalità perché è una delle pochissime volte in cui il Medioevo ci tramanda il nome del maestro che ha realizzato l’opera. Qui Sant’Ambrogio incorona un personaggio che l’iscrizione rivela chiamarsi Vuolvino e che viene indicato come magister phaber, cioè maestro della lavorazione dei metalli. Un così alto onore riservato all’orafo che ha realizzato l’opera si spiega solo tenendo presente che Vuolvino doveva avere anche un’alta dignità monastica, tant’è che i suoi abiti sono certamente quelli di un monaco.

Lateralmente, i due scomparti rettangolari esapartiti illustrano le storie relative alla vita di Ambrogio. Il senso di lettura prevede di partire sempre dal basso, ma questa volta procedendo da sinistra a destra per tutta l’ampiezza dell’altare. È qui che la personalità di Ambrogio viene esaltata e messa in forte evidenza. Due scene vedono il patrono di Milano durante la celebrazione della messa, in accordo con l’uso liturgico dell’altare. Si deve sempre ricordare, infatti, che spesso per le immagini medievali è possibile un’interpretazione che tenga conto della liturgia e del tipo di funzioni cultuali che si svolgono nel luogo in cui l’immagine stessa era collocata. Essendo questo un altare, compaiono logicamente due rimandi al momento dell’eucarestia, in stretta relazione con l’abside in cui il vescovo adempie alle sue funzioni liturgiche. Nondimeno, una scena del ciclo di Ambrogio, quella in cui il santo vescovo battezza un ariano, riprende con forza la polemica antiariana, con lo scopo di riaffermare la superiorità della liturgia cattolica. Inoltre, si ribadisce il diritto del vescovo a detenere il potere e l’autorità sulla città. La scena con Ambrogio che parte per governare l’Emilia e la Liguria mostra il santo nelle vesti di governatore, come prototipo cioè del missus dominicus, il vescovo che rappresenta anche il potere imperiale. Anche la dimensione politica entra quindi in maniera apparentemente innocente all’interno dell’altare, sostenendo l’autorità di Angilberto II sul piano politico, oltre che su quello religioso.

L’altare d’oro di Sant’Ambrogio si configura quindi come un’opera unitaria, la cui iconografia è stata messa a punto in maniera precisa, studiando le suddivisioni dei pannelli e dispiegando una serie di immagini che riescono a sintetizzare con coerenza una moltitudine di temi religiosi, liturgici e politici.

 

 

Bibliografia

Caillet, L’arredo dell’altare, in Piva (a cura di), L’arte medievale nel contesto. Funzioni, iconografia, tecniche, Jaca Book, Milano 2015.

Cerchiari - De Vecchi, Arte nel tempo. Il Medioevo, vol. 1, tomo II, Bompiani, Milano 2016.


L’ARCA DI SAN DOMENICO A BOLOGNA – PARTE III

A cura di Anna Storniello

 

La decorazione scultorea dell'Arca di San Domenico: Niccolò dell’Arca

A seguito della campagna decorativa della bottega del Pisano sull'Arca di San Domenico, presentata nella parte seconda di questa serie di articoli, il senato bolognese decise di realizzare una cappella all’altezza dello sfarzo dell’Arca e nel 1377 il padre generale dell’Ordine, frate Elia di Tolosa, pose la prima pietra dando inizio ai lavori. Tuttavia, l’Arca vi fu collocata soltanto nel 1411. Diversamente, la testa del santo fu destinata a un preziosissimo reliquiario appositamente realizzato da Jacopo Roseto nel 1383 (Fig. 1, 1a). Composto da 3000 pezzi di argento cesellato e in parte smaltato, il reliquiario costituisce un autentico e raro esemplare di oreficeria bolognese del XIV secolo, oggi collocato in una nicchia sul retro del monumento.

 

 

Con la costruzione della nuova cappella però, ci si rese conto che la tomba ne risultava sminuita, e pertanto, nel 1469, venne ingaggiato Niccolò da Bari (1435 c. – 1494), detto appunto Niccolò dell’Arca per il suo contributo a quest’opera, per realizzare un coronamento compatibile con il monumento e con l’ambiente. L’artista fu in grado di creare una cimasa ambiziosa e di grande verticalità che allo stesso tempo non sminuisse il sarcofago duecentesco (Fig. 2).

Fig. 2 - Cimasa dell'Arca a opera di Niccolò dell'Arca.

Iniziando la lettura dall’alto, si trova il Padre Eterno che si erge sul mondo mentre ne stringe uno più piccolo in mano, quindi raffigurato come signore e creatore dell’universo (Fig. 3). Più in basso, ai lati di una sorta di grande vaso all’antica, due putti sorreggono festoni di frutta che scendono fino a toccare una coppia di delfini, accompagnati da altri due più in basso (Fig. 4). Non si tratta di elementi puramente decorativi, bensì di una rappresentazione simbolica della Creazione, nella quale i putti equivalgono al cielo, i festoni alla terra e i delfini al mare. Sul più alto cornicione della cimasa, alle spalle di una lastra tombale, è collocato un Cristo Morto affiancato dall’angelo della Passione a sinistra e da quello dell’Annunciazione a destra. Un piccolo gruppo scultoreo che sintetizza gli eventi salienti della vita di Cristo (Fig. 5).

 

Ai quattro angoli della trabeazione, sulle volute a decorazione vegetale, si stagliano i quattro Evangelisti, messaggeri della Redenzione già rappresentata dal Cristo Morto (Fig. 6).

Fig. 6 - Evangelista della cimasa.

Sul secondo cornicione, quello che delimita il coperchio della tomba, svettano le statue dei santi protettori di Bologna, appoggiati su cartigli che si arrotolano mollemente come se non fossero scolpiti nel marmo, di cui soltanto cinque sono opera di Niccolò dell’Arca. A lui si devono, sul lato frontale, a partire da sinistra, un riflessivo San Francesco, un San Domenico reso con lo stesso spiccato realismo che l’artista infonderà anche nel più tardo busto in terracotta, un San Floriano che indossa copricapo e mantello bordati di pelliccia, mentre sul retro, un San Vitale con stivali resi piega per piega con grande maestria e un Sant’Agricola abbigliato alla moda del gotico internazionale (Figg. 7 – 11). Infine, sempre attribuito a Niccolò, collocato a sinistra della predella del monumento, in corrispondenza dell’altare, si trova lo splendido angelo ceroforo di sinistra, che attesta il virtuosismo assoluto dell’artista nella resa delicata e morbida delle forme, modellate come se si trattasse di terracotta e non di duro marmo (Fig. 12).

Ciò appare tanto più inspiegabile quanto il fatto che a Niccolò dell’Arca si attribuiscono pochissime opere e di queste solo un ristrettissimo gruppo è realizzato in marmo. Tuttora gli storici dell’arte si interrogano su come abbia potuto un artista rinomato per opere in terracotta raggiungere tali livelli di eccellenza nella lavorazione del marmo senza aver lasciato dietro di sé un più consistente numero di opere in questo materiale.

Della produzione di Niccolò dell’Arca si conosce ancora troppo poco e ancora meno della sua formazione, cosicché la sua rimane una figura enigmatica e allo stesso tempo affascinante. È appurato invece che l’espressività e l’eleganza delle sue sculture abbiano fortemente influenzato la pittura bolognese contemporanea, in particolare quella di Ercole de Roberti e di Francesco del Cossa.

 

L’intervento di Michelangelo

A pochi mesi dalla morte di Niccolò dell’Arca, che nel 1494 non aveva ancora portato a termine tutte le statue della cimasa, giunse a Bologna un giovanissimo Michelangelo che fuggiva dalla Firenze del Savonarola e che fu coinvolto, grazie all’intercessione del patrizio bolognese Gianfrancesco Aldrovandi, nel prestigioso cantiere. Per il completamento della cimasa Michelangelo realizzò due dei santi protettori, il solenne San Petronio che sorregge la città di Bologna e il San Procolo, la cui audacia nella posa e nello sguardo presagisce lo spirito del David (Fig 13 e 14). Infine, il secondo angelo ceroforo, quello di destra, una figura forte e tornita, potentemente classica, che ben si distingue da quella longilinea ed elegante di Niccolò dell’Arca (Fig. 15).

Tuttavia, la permanenza di Michelangelo nella città rossa fu breve e nel 1495, con la fine del governo savonaroliano, fece ritorno a Firenze.

Infine, l’ultima statua degli otto santi protettori, il San Giovanni Battista, si deve all’isolato intervento di Girolamo Cortellini.

Fig. 15 - Angelo ceroforo, Michelangelo.

La predella del Lombardi

Il cantiere dell’Arca, però, non si concluse col prestigioso apporto del Buonarroti. Nel 1532, infatti, il consiglio cittadino commissionò ad Alfonso Lombardi (1497 c. – 1537) e ai suoi collaboratori lo scabellum marmoreum, la predella del monumento, ossia la stele decorativa che funge da base del sarcofago. In questa campagna il Lombardi era all’apice della propria maturità artistica e la padronanza eccellente del marmo gli permise di infondere ai rilievi una tale leggerezza da dare l’impressione che fossero stati plasmati nella creta.

La scena principale, al centro, è l’Adorazione dei Magi (Figura 16), scelta insolita in una narrazione dedicata a San Domenico e probabilmente giustificabile con un’affermazione del santo riportata da Giordano di Sassonia nel suo libello[1]: «I Magi, questi devoti re, entrando nella casa, trovarono il Bambino con la Madre, e prostratisi lo adorarono. Ora, anche noi abbiamo trovato l’Uomo Dio con Maria, sua ancella». San Domenico esortava così i suoi frati affinché adottassero i re Magi come modelli di ardore nella contemplazione e, soprattutto, nella predicazione del Vangelo. La composizione estremamente dinamica e affollata che caratterizza la scena sembra suggerire che il Lombardi conoscesse un disegno di Baldassarre Peruzzi con il medesimo soggetto (Figura 17), che gli era stato commissionato dal conte bolognese Giovanni Battista Bentivoglio nel 1522, e che ne abbia tratto ispirazione per questo rilievo.

Curiosa la presenza, a sinistra dello sfondo, di un elefante, un animale esotico ed estraneo all’episodio evangelico, oltre che all’imaginario dell’epoca, di cui, però, il duca Alfonso d’Este possedeva un esemplare e che forse l’artista ebbe occasione di ammirare.

Il rilievo di sinistra presenta tre episodi dell’infanzia del santo, di cui il primo rievoca la Nascita di S. Domenico, che appena dopo il parto viene lavato dalla nutrice. Quello centrale raffigura Domenico fanciullo che si sdraia sul pavimento, che, spinto dal desiderio di sobrietà, preferiva dormire sul freddo pavimento che nel proprio letto. La presenza di un cane che stringe tra i denti una torcia, si rifà alle fonti agiografiche sulla vita di San Domenico. Esse riportano che la madre del santo lo sognò come premonizione della fervida predicazione operata da Domenico che avrebbe avvampato nel mondo.

La terza piccola scena è quella che vede il santo impegnato nella Vendita dei libri, i beni più costosi che possedeva, di cui tuttavia si volle privare per sfamare dei mendicanti.

Infine, l’ultimo rilievo allude alla Morte di San Domenico (Fig. 19) secondo la visione che ne ebbe il priore domenicano di Brescia, Fra Guala. In uno spicchio nel cielo San Domenico, subito dopo aver spirato, si trova seduto dinanzi a una scala che conduce al paradiso, affiancato da Cristo e dalla Madonna, insieme a uno stuolo di putti, mentre assistono alla scena domenicani sconvolti e laici in contemplazione.

 

L’ultima fase decorativa dell'Arca di San Domenico

L’ultima fase decorativa dell’Arca è quella portava avanti da Jean-Baptiste Boudard (1710 - 1768) che nel 1768 realizzò per l’altare la Morte di San Domenico, privilegiando stavolta il momento del seppellimento.

L’intero monumento, risultato della stratificazione di ben cinque fasi decorative lungo altrettanti secoli, rappresenta un compendio sia dell’eccellenza scultorea italiana che della concezione teologica dell’ordine che si dipana a partire dagli episodi della vita di San Domenico nel sarcofago dei Pisano e nella predella del Lombardi, fino a concludersi nella gerarchia celeste della cimasa, con Dio Padre all’apice, il creato Sua emanazione, seguito dal Mistero della Redenzione, dagli evangelisti in quanto suoi messaggeri e infine dai santi protettori, gli intermediari fra l’ordine celeste e l’ordine domenicano.

 

 

Fotografie da 2 a 14 prese dal testo di B. Borghi, San Domenico. Un patrimonio secolare di arte, fede e cultura.

 

Note

[1] Beato Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum, 1234.

 

Bibliografia

D. DODSWORTH, The Arca di San Domenico, P. Lang, New York 1995.

BORGHI, San Domenico: un patrimonio secolare di arte, fede e cultura - A millenary heritage of art, faith and culture, Minerva, Argelato 2012.

BOTTARI, L’arca di s. Domenico in Bologna, L’arte in Emilia; 1, Patron, Bologna 1964.

CAMPANINI, D. SINIGALLIESI (a cura di), Alfonso Lombardi. Lo scultore a Bologna, Compositori, Bologna 2007.

SETTIS, T. MONTANARI, Arte. Una Storia Naturale e civile. Vol. 3 Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi Scuola, Città di Castello 2019.

DE VECCHI, E. CERCHIARI, Arte nel tempo. Dal Gotico Internazionale alla Maniera Moderna. Tomo I, Rizzoli Libri, Città di Castello 2018.


IL DUOMO DI SASSARI

A cura di Alice Oggiano

 

 

Il centro abitativo medievale di Sassari cominciò ad assumere forme dichiaratamente urbane tra la fine del XII e l’inizio del XIV secolo, sviluppandosi all’interno di un’ampia cinta muraria ancora parzialmente visibile. L’area di cui andiamo discorrendo dovette comprendere già all’epoca il centro storico, cuore pulsante della cittadina isolana e tutt’oggi considerato il nucleo più autentico e originale del capoluogo. In questa parte della città venne fatto edificare il Duomo di Sassari, intitolato a San Nicola da Bari.

Menzionato nell’antico Condaghe di San Pietro di Silki, il Duomo di Sassari, risalente al XII secolo e sorto su un preesistente edificio paleocristiano, venne costruito secondo un’impostazione architettonica romanica. Nonostante non fosse progettato inizialmente come cattedrale, fu la prima parrocchia cittadina ad essere eretta prima che nel 1278 ne venissero concepite altre quattro.

Al fine di renderla chiesa cattedrale (1441) fu ritenuta necessaria una ricostruzione quasi totale dell’impianto, il quale venne perciò ristrutturato nel corso del 1480. Il progetto prevedeva la riqualificazione degli ambienti interni, la costruzione della cupola emisferica e di otto cappelle poste nelle navatelle. I lavori, protrattisi per circa un secolo, videro la collaborazione e il supporto del clero locale e degli arcivescovi, i quali finanziarono l’abnorme impresa. Ben poco fu mantenuto dell’impianto originario, tra cui si contano il campanile a canna quadrata e i muri che ne evidenziavano il perimetro areale strutturale esterno. L’interno a navata unica assunse stilemi tipici del gotico catalano, sintomatici della lunga dominazione, avvenuta nell’isola a partire dal 1323 e che vide una strenua opposizione da parte dei cittadini sassaresi.

La facciata del Duomo di Sassari, aggiornata in senso internazionale nella partitura architettura, assunse maestose forme gotiche. Pochi, purtroppo, sono gli elementi superstiti di tale fase – tra i quali spiccano i gargoyle, posti accanto a vocaboli del cinque e seicento – e questo poiché il fronte della chiesa, demolito parzialmente in seguito ad ulteriori rimaneggiamenti attuati nel XVIII secolo, venne sostituito dal prospetto attuale, di ben 30 metri d’altezza, in cui convive uno straordinario eclettismo connotato da una dominante spiccatamente barocca e classicheggiante.

Inserita in un corpo porticato con volte a crociera stellata e demarcate da costoloni, due cornici marcapiano dentellate con foglie d’acanto separano le tre fasce architettoniche che si sovrappongono. Nella fascia inferiore, tre arcate a tutto sesto – le laterali di un modulo pari alla metà rispetto alla centrale – si impostano su poderosi pilastri scanditi da lesene a capitelli corinzi. A coronare l’arcata centrale, due putti sorreggono con vigore lo stemma turritano, sormontato da una croce e figurante perciò il Duomo di Sassari stesso, impreziosito da motivi floreali e antropomorfi.

Al di sopra della dentellatura, una fascia abitata pare essere un inno alla vita e prepara la vista alle nicchie sovrastanti separate tra loro da paraste scanalate ospitanti i tre martiri turritani del IV secolo: Gavino, Proto e Gianuario. Al di sopra dei santi si ergono altre figure celesti entro clipei elegantemente decorati, tra i quali è chiaramente identificabile una Madonna con Bambino. A culminare la facciata una nicchia con San Nicola, al quale è intitolata la basilica. All’apice del sontuoso fastigio curvilineo si coglie la scultura del Padre Celeste.

La navata unica del Duomo di Sassari si staglia in un ampio e profondo ambiente, in cui lo sguardo dello spettatore si perde tra le maestose arcate ogivali, sulle quali si impostano volte a crociera demarcate da costoloni curvilinei. Ogni due campate e lungo l’intera superficie della cattedrale si snodano otto splendide cappelle, accessibili da archi a tutto sesto.

Lo sguardo si rivolge poi alla splendida cupola che, raccordata mediante pennacchi angolari, è posta nel transetto quadrangolare che conferisce immediatamente una grande luminosità all’ambiente - contrastando così la neutralità dei materiali costruttivi utilizzati, come pietra e marmi – utilizzando come espediente una teoria di bifore d’impianto gotico-catalano poste nel tamburo. Ogni bifora presenta una colonnina che la suddivide in due specchi.

Nel transetto trova luogo il presbiterio in cui una balaustra marmorea separa l’ambiente sacro dal resto della navata riservata ai fedeli. Posti su entrambi i lati della scala d’accesso all’altare marmoreo, poderosi e fieri leoni, anch’essi realizzati con lo stesso materiale.

L’altare del Duomo di Sassari è posto in evidenza da una coppia di colonnine corinzie sulle quali corre una trabeazione che sorregge un timpano spezzato, ospitante un’edicola entro la quale è posta una colomba a prefigurare l’ascesa dello Spirito Santo il cui significato si riverbera nella magnifica tavola sottostante, una Madonna del Bosco.

L’opera, realizzata da abili maestranze senesi, è custodita entro un’edicola lignea. Nello spazio delimitato da due colonnine tortili, si staglia la figura a mezzobusto della Vergine Maria, nell’atto di sorreggere amorevolmente il figlio Gesù, che al tempo stesso si identifica con la Madonna Odigitria: la delicata mano sinistra di Maria indica nel figlio la via della salvezza. L’artista si ricollega ad una lunga tradizione iconografica cristiana, molto in voga nell’arte medievale bizantina e russa, mostrandosi inoltre vicino alla pittura del genovese Nicolò da Voltri. La finezza e la qualità della tavola si dimostrano eccellenti nonostante la resa dello spazio sia irrealistica, la dimensione delle figure inesatta ed inconsistente, i canoni perfettamente ascrivibili entro il quadro artistico e geografico dell’epoca. Il Salvatore, dalle dimensioni nettamente minori rispetto alla Vergine, è posto di scorcio e custodisce con la mano sinistra un cartiglio, mentre benedice con la mano destra il committente dell’opera, raffigurato in un angolo in basso a sinistra con le mani giunte in preghiera e lo sguardo supplicante. Mentre la Vergine, posta frontalmente, volge intensamente lo sguardo allo spettatore, Gesù pare aver gli occhi indirizzati verso il basso, ricolmi di pietà nei confronti del fedele.

Lungo l’abside del Duomo di Sassari, a seguire un profilo semicircolare, trova posto un coro ligneo ad opera di botteghe artigiane locali. Qui è custodito un sacello che in passato custodiva le reliquie del santo martire Antioco di Torres, al quale è titolata una delle più importanti basiliche romaniche isolane, Sant’Antioco di Bisarcio, per non parlare della chiesa omonima, ma meno nota, presso la diocesi bizantina di Iglesias.

Il Duomo di Sassari rimane di capitale importanza, oltre che per un’evidente importanza simbolica, soprattutto per alcune peculiarità storico-artistiche che lo caratterizzano: non solo le grandiose forme architettoniche e ornamentali che lo rendono un unicum impeccabile, ma anche i monumenti scultorei, le tele e i retabli di grande pregio, posti nelle otto cappelle laterali dal gusto rinascimentale. È importante almeno ricordare il battesimo del Cristo del torinese Vittorio Amedeo Rapous, l’altare marmoreo ai Santi Cosma e Damiano con la pala del marchigiano Carlo Maratta, la Coena Domini del cagliaritano Marghinotti e lo sfarzoso gruppo scultoreo del mausoleo, commissionato dal principe Giuseppe Benedetto di Savoia la cui salma è ancora oggi ivi custodita.

Di particolare interesse artistico anche il pulpito, opera del genovese Giuseppe II Gaggini, attivo nella prima metà del XIX secolo. Realizzato attorno al 1840 e scolpito a bassorilievo, è composto da una fascia semicircolare in cui compaiono gli Evangelisti secondo i tipici stilemi della tradizione.

Il Duomo di Sassari è attualmente visitabile ed è possibile essere affiancati da guide durante il percorso. Gli orari sono consultabili presso il sito di TurismoSassari.it

 

Bibliografia

Francesco Floris, La grande Enciclopedia della Sardegna, Cagliari, Della Torre, 2002.

Nicoletta Usai, La pittura nella Sardegna del Trecento, Perugia, Morlacchi, 2018.

 

Sitografia

TurismoSassari.it

SardegnaTurismo.it