IL MONASTERO DI CAMALDOLI – PARTE II

A cura di Alessandra Becattini

Introduzione

Scendendo a valle, a circa 3 km di distanza dal sacro Eremo, si erge maestoso il monastero (o cenobio) di Camaldoli, protetto dalla preziosa foresta casentinese, di cui i camaldolesi sono da sempre fedeli custodi (fig. 1). Nato fin dalle origini in stretta simbiosi con la comunità eremitica, la sua fondazione avvenne probabilmente poco dopo l’edificazione della prima laura dell’Eremo; per quest’ultimo la presenza di un secondo insediamento fu fondamentale quale diaframma per filtrare i rapporti degli anacoreti con il resto del mondo.

Fig. 1 – Veduta del Monastero di Camaldoli.

Eretto nella località denominata “Fontebono”, il monastero fu inizialmente adibito ad ospizio per l’accoglienza di pellegrini e viandanti[1]. A supporto della foresteria fu costruito nel 1046 l’ospedale, che accoglieva anche i bisognosi provenienti dalle località vicine e che rimase in uso fino alle soppressioni napoleoniche. Dell’antico ospedale oggi rimangono i locali della Spezieria, nata per la produzione diretta dei medicinali e medicamenti. L’attuale struttura, oggi divenuta una bottega per la vendita di prodotti cosmetici e alimentari sviluppati sulle ricette camaldolesi originarie, fu edificata nel XVI secolo, ma la presenza dell’antica farmacia risale al XII secolo ed è attestata dalle Costituzioni del priore Rodolfo II. Una prima testimonianza scritta sulla presenza di una spezieria ben sviluppata risale al 1331, quando questa venne ricostruita a seguito di un incendio che nel 1276 aveva devastato la vecchia struttura e l’ospedale. Oggi la vediamo nella sua veste cinquecentesca, decorata da un grande soffitto a cassettoni e adornata da imponenti armadi in noce intagliato realizzati nel XVII secolo dagli intagliatori fiorentini Boncinelli e Montini (fig. 2) [2]. Qui dentro si conservavano preziosi vasi di vetro e ceramica, ancora visibili nella farmacia, databili tra il XVI e il XIX secolo e realizzati da celebri manifatture italiane, come quelle della vetreria Granducale e delle ceramiche di Faenza, Montelupo Fiorentino e Ginori. Annesso alla farmacia si colloca l’antico laboratorio galenico (fig. 3) dove ancora si trovano alcuni originari dispositivi e utensili utilizzati dai monaci nelle preparazioni officinali. Giunta a noi quasi nella sua totalità è poi la biblioteca della Spezieria, che raccoglie oltre 200 volumi, datati tra il XVI-XIX secolo, tra erbari, ricettari e trattati di medicina, chirurgia e botanica[3].

L’ospizio di Fontebono fu destinato a cenobio solo in un secondo momento, probabilmente verso la fine dell’XI secolo, anche se l’edificio viene indicato per la prima volta come monasterium nella bolla papale del 23 marzo 1105. L’articolata e massiccia fabbrica che vediamo oggi, frutto di ristrutturazioni e ampliamenti succedutisi nel tempo, è sostanzialmente divisa in due parti: il monastero e la foresteria. L’elemento separatore è la chiesa, che divide i due chiostri più antichi da quello del ‘600, il chiostro della Clausura (fig. 4), sopra al quale si collocano le celle dei monaci; a nord del monastero si trovano poi l’antica farmacia, la cucina e il refettorio dei monaci. Quest’ultimo, completato nel 1609, è decorato da sobri stalli in noce e da un soffitto con cassettoni intagliati. La parete di fondo accoglie la grande tela (circa 6 m di larghezza) raffigurante Gesù Cristo servito dagli angeli (fig. 5), eseguita appositamente per questo ambiente nel 1611 da Cristoforo Roncalli, conosciuto come il Pomarancio[4]. Alle pareti si conservano due tele di Lorenzo Lippi, provenienti dal monastero camaldolese fiorentino di Santa Maria degli Angeli Nuova ed eseguite in coppia: il Trionfo di David e Giacobbe e Rachele (figg. 6-7). Le due opere sono state datate dalla critica al 1640 ca. sulla base delle due tele, con il medesimo soggetto, conservate a Palazzo Pitti e considerate il prototipo di quelle camaldolesi [5]. Sempre nel refettorio si trovano il Compianto sul Cristo morto e la Resurrezione, due tele assegnate alla mano di Giovanni Camillo Sagrestani e datate intorno 1720 [6].

Nella parte del complesso monastico destinata al pubblico si trovano gli ambienti dedicati alla foresteria, la biblioteca e le sale conferenze, che si sviluppano, invece, attorno ai due chiostri più antichi.

Quello di Maldolo (fig. 8), datato tra le fine del Duecento e gli inizi Trecento, ha mantenuto sostanzialmente la sua struttura antica a pianta quadrata, con colonne e pilastri che sorreggono un piano eseguito intorno alla metà del XV secolo[7]. Durante il periodo rinascimentale, gli ideali dell’umanesimo investirono anche l’ordine camaldolese. Accogliendo appieno la riforma culturale avviata da Ambrogio Traversari, il priore dell’eremo Mariotto Allegri decise di aggiornare le strutture del monastero, dedicando una particolare attenzione all’aspetto culturale e formativo per i novizi. Per accogliere questi ultimi, furono ampliate le strutture del cenobio attorno ad un nuovo chiostro, detto dei Fanciulli (fig. 9), edificato nel 1431. Nel 1453 Allegri avviò poi la ristrutturazione degli organismi attorno al chiostro di Maldolo e l’edificazione del piano sovrastante con nuove sale, tra cui la Sala delle Accademie, dove il priore accolse i più illuminati umanisti dell’epoca riunitisi per discutere di argomenti filosofici e teologici[8]. I dibattiti che animarono il cenacolo culturale di Camaldoli, ai quali parteciparono tra i tanti Lorenzo e Giuliano de’ Medici, Marsilio Ficino e Leon Battista Alberti, furono raccontati da Cristoforo Landino nelle sue Disputationes camaldulenses, un’opera in quattro volumi, sotto forma di dialoghi, dedicata a Federico di Montefeltro [9].

La piccola chiesa originaria dell’XI secolo, probabilmente con una struttura a navata unica mono absidale e copertura a capanna, fu dedicata ai santi Donato e Ilariano e consacrata dal vescovo Teodaldo nel 1033 [10]. Gravemente danneggiata da due incedi durante il XII secolo, la chiesa fu ricostruita più ampia sulla precedente e affrescata nel 1361 da Spinello Aretino. Di questa decorazione oggi non resta traccia poiché tra il 1509 e il 1524 la chiesa fu riedificata dalle fondamenta per volere del priore Pietro Delfino e consacrata nuovamente. In questo periodo la struttura si presentava come un’aula a navata unica, con l’altare collocato al centro per dividere la zona absidale dall’aula chiesastica e con un tramezzo a tre arcate, costruito nel 1532 a separare la zona dedicata ai monaci da quella per i conversi[11]. Tra il 1537 e il 1540 il giovane Giorgio Vasari, che per i camaldolesi lavorò profusamente, si occupò della decorazione della chiesa rinnovata. I suoi affreschi, andati perduti nei rifacimenti settecenteschi, impreziosirono la controfacciata, la parete dietro l’altare e il tramezzo. Tuttora conservate nella chiesa sono invece le numerose tavole eseguite per i monaci dal pittore aretino. Oggi collocate nelle cappelle vicino al presbiterio, ma originariamente realizzate ad ornamento del tramezzo, sono la Madonna con Bambino e i santi Giovanni Battista e Girolamo (1537) (fig. 10) e la notturna Natività di Gesù (fig. 11), firmata e datata 1538 nel cartiglio in basso arrotolato al bastone del pastore inginocchiato [12]. Tra il 1539 e il 1540 Vasari portò a compimento la pala d’altare, un trittico che è stato smembrato nel ‘700. Sull’altare maggiore si trova la grande tavola centrale con la Deposizione (fig. 12), firmata in basso a destra, che in origine era accompagnata da due scomparti laterali con coppie di santi, attualmente appesi alle pareti della navata, raffiguranti i Santi Donato ed Ilariano e Romualdo e Benedetto. Completava l’opera una grande predella con storie riguardanti l’Eucarestia, composta da tredici tavolette di cui oggi se ne conservano solo dieci, variamente collocate tra il coro e l’aula chiesastica [13].

Tra il 1770 e il 1775 la chiesa venne completamente ristrutturata in stile barocco (fig. 13) su disegno dell’architetto fiorentino Giuseppe Ruggieri, noto per i lavori eseguiti a Palazzo Pitti per il granduca Pietro Leopoldo e per il restauro della chiesa del Carmine a Firenze. Il tramezzo cinquecentesco venne abbattuto per creare una navata più ariosa, quest’ultima voltata a botte. Dietro l’altare, il presbiterio della vecchia chiesa venne suddiviso in due piani per collocare la sacrestia al livello della navata ed il coro su un piano superiore [14]. Le pareti laterali, sulle quali furono aperte sei piccole cappelle, vennero decorate con paraste di finto marmo con capitelli corinzi a sostegno della trabeazione d’imposta della nuova volta [15]. Quest’ultima fu decorata dal pittore fiorentino Sante Pacini, nel 1776 circa, con un motivo illusionistico a finti cassettoni e stucchi, con al centro l’Incoronazione della Vergine (fig. 14), immersa tra le nuvole, alla quale presenziano i santi Romualdo e Benedetto [16]. Al medesimo pittore sono riferite poi le tele che decorano gli altari laterali della chiesa, tra le quali si ricorda quella con Romualdo riceve dal conte Maldolo la donazione della terra e S. Romualdo accoglie i nobili discepoli Placido e Mauro (fig. 15)[17]. Realizzate da un quadraturista tuttora ignoto sono invece le architetture illusionistiche eseguite sulla controfacciata della chiesa e sulle pareti del coro.

Ancora oggi il monastero di Camaldoli, fin dalle origini luogo dedito all’accoglienza e alla cultura, è un attivo centro educativo: nell’antica sala delle Accademie, oggi intitolata al Landino, si svolgono incontri, dibattiti e convegni di interesse internazionale, aperti a tutti.

 

 

Note

[1] F. Di Pietro-R. Romano, Eremo del Santo Salvatore di Camaldoli e Monastero dei Santi Donato e Ilariano di Fontebono, in Nuovo atlante storico geografico camaldolese, a cura di F. Di Pietro-R. Romano, Roma, 2012, pp. 153-154.

[2] C.U. Cortoni, La Spezieria di Camaldoli, in Dall’Eremo all’Europa. Camaldoli a colloquio con la storia, Firenze, 2013, pp. 75-76.

[3] Ibidem.

[4] C. Mori, L’arte e l’architettura, in Camaldoli, sacro eremo e monastero, a cura di M. Vivarelli, Firenze, 2000, pp. 41-42.

[5] M. Boschi-L. Verdelli, catt. 39-40, in Il Seicento in Casentino: dalla Controriforma al Tardo Barocco, catalogo della mostra (Poppi, Castello dei Conti Guidi, 23 giugno- 31 ottobre 2001), a cura di L. Fornasari, Firenze, 2001, pp. 288-291.

[6] F. Fornasari, catt. 67-68, in Il Seicento in Casentino …cit., pp. 344-345.

[7] S. Bertocci, Le chiese dell’Eremo e del Monastero di Camaldoli: il rilievo e la documentazione per la costruzione di un “sistema” delle conoscenze, in Architettura eremitica: sistemi progettuali e paesaggi culturali, atti del III convegno internazionale di studi, a cura di S. Bertocci-S. Parrinello, Firenze, 2012, p. 61.

[8] U. Fossa, Camaldoli e Camaldolesi dall’XI al XV secolo. Appunti di storia, in Dall’Eremo all’Europa … cit., pp. 40-41.

[9] C.U. Cortoni, Camaldoli da cenacolo umanistico a luogo di incontro, in Dall’Eremo all’Europa … cit., pp. 110-111.

[10] F. Di Pietro-R. Romano, Eremo del Santo Salvatore di Camaldoli … cit., pp. 153-154.

[11] S. Bua-R. Ceccarelli-S. Parrinello, Il rilievo per l’indagine storico-evolutiva della chiesa dei SS. martiri Donato e Ilarino a Camaldoli, in Architettura eremitica …cit., 2012, pp. 353-357.

[12] A. Cecchi, Vasari e la maniera moderna, in Arte in terra d’Arezzo: il Cinquecento, a cura di L. Fornasari-A. Giannotti, Firenze, 2004, pp. 123-127.

[13] Ibidem.

[14] S. Bertocci, Le chiese dell’Eremo e del Monastero di Camaldoli …cit., pp. 54-63.

[15] S. Bertocci, La documentazione delle decorazioni delle chiese monastiche in epoca barocca: Monte Senario, Vallombrosa e Camaldoli, in Architettura eremitica: sistemi progettuali e paesaggi culturali, atti del convegno internazionale di studi, a cura di S. Bertocci-S. Parrinello, Firenze, 2010, pp. 80-81.

[16] F. Farneti, Le decorazioni delle chiese del Monastero e dell’Eremo di Camaldoli, in Architettura eremitica …cit., 2012, pp. 236-243.

[17] https://www.treccani.it/enciclopedia/sante-pacini_%28Dizionario-Biografico%29/ .

 

Bibliografia

Camaldoli, sacro eremo e monastero, a cura di M. Vivarelli, Firenze, 2000.

Il Seicento in Casentino: dalla Controriforma al Tardo Barocco, catalogo della mostra (Poppi, Castello dei Conti Guidi, 23 giugno- 31 ottobre 2001), a cura di L. Fornasari, Firenze, 2001.

Arte in terra d’Arezzo: il Cinquecento, a cura di L. Fornasari-A. Giannotti, Firenze, 2004.

Architettura eremitica: sistemi progettuali e paesaggi culturali, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Monte Senario 19-20 giugno 2010), a cura di S. Bertocci-S. Parrinello, Firenze, 2010.

Architettura eremitica: sistemi progettuali e paesaggi culturali, Atti del III Convegno Internazionale di Studi (Camaldoli 21-23 settembre 2012), a cura di S. Bertocci-S. Parrinello, Firenze, 2012.

Nuovo atlante storico geografico camaldolese, a cura di F. Di Pietro-R. Romano, Roma, 2012.

Dall’Eremo all’Europa. Camaldoli a colloquio con la storia, Firenze, 2013.


GENOVA RAZIONALISTA

A cura di Irene Scovero

Genova razionalista: tra architettura e scultura

Piazza Rossetti e Piazza della Vittoria

Grazie al suo sviluppo urbanistico, anche il volto moderno di Genova, come quello della maggior parte delle grandi città italiane, è frutto della coesistenza di stili architettonici diversi tra i quali va menzionato il Razionalismo che, nelle molteplici opere architettoniche e scultoree realizzate negli anni Venti e Trenta, ha conferito alla città una struttura moderna influenzando i cambiamenti stilistici di alcuni quartieri[1], dando vita ad una Genova razionalista.

Con la “Grande Genova” voluta da Mussolini si crearono le condizioni favorevoli per il rinnovamento urbano di una Genova razionalista. Con la copertura dell’ultimo tratto del torrente Bisagno, nell’area tra il centro storico e il levante genovese, si crearono buone condizioni per dar vita ad un progetto monumentale di rivalutazione di un’area nuova e fortemente rappresentativa (1932). Statue e monumenti come Il Navigatore, o aree come Piazza della Vittoria e Piazza Rossetti alla Foce, si collocano all’interno di quei progetti di edilizia fascista (nonché di riqualificazione di specifiche aree cittadine) coordinati da importanti architetti dell’epoca. Fu proprio la copertura del Bisagno[2], negli anni Trenta, a richiedere l’apertura di un’ampia direttrice a mare e l’assegnazione di nuovi spazi edificabili nei dintorni. L’immagine monumentale, ma allo stesso tempo modernista, con la quale la città intendeva qualificarsi, attraverso quest’imponente intervento urbanistico, influenzò in larga misura le scelte progettuali degli edifici di rappresentanza e dei complessi residenziali sorti in seguito al nuovo piano regolatore dell’area. Tra i nuovi edifici, nell’attuale zona fieristica della Foce, sorse ad esempio Ristorante San Pietro, realizzato su progetto di Mario Labò tra il 1935 e il 1938. L’architetto Genovese era collaboratore della rivista “Casabella” e aderì negli anni Trenta al MIAR[3].

La nuova rete stradale via mare, Corso Italia, creata agli inizi del secolo aveva conferito alla zona della Foce un rinnovato pregio con l’edificazione di un quartiere residenziale. Fu soprattutto con PIAZZA ROSSETTI (Fig.1) che l’intera area assunse l’assetto definitivo grazie al lavoro dell’architetto Carlo Daneri[4] col sostegno di Marcello Piacentini. Il complesso Genova-Foce sorse in seguito ad un concorso bandito dal Comune nel 1934 nel quale Daneri arrivò secondo, ma, proprio grazie all’intervento di Piacentini, venne scelto per l’attuazione del progetto. Quest’ultimo prevedeva una piazza quadrangolare circondata su tre lati da un portico continuo su cui si levano gli 8 edifici che ancora oggi si affacciano sul mare e sono arricchiti da un ampio giardino pubblico centrale. I lavori iniziarono nel 1936, si interruppero per la guerra e, una volta ripresi, si conclusero nel 1958. L’intero complesso residenziale, sin dalle prime edificazioni, fu celebrato in riviste come “Architettura” e “Casabella” poiché si trattava di un complesso intervento di architettura residenziale per il quale Daneri, prendendo spunto dal complesso di Le Corbusier a Marsiglia, rimodernava e creva un lotto residenziale rimarcando al contempo l’idea di unità abitativa. Questo schema concettuale, cui si ispirò anche nelle palazzine del Lido di Albaro in Corso Italia (1952-55), caratterizzò gran parte della sua attività architettonica. Luigi Carlo Daneri viene ricordato a Genova anche per altri cantieri architettonici tra cui il quartiere Bernabò Brea, il complesso di Mura degli Angeli, il quartiere Forte Quezzi denominato Biscione e il Monoblocco San Martino.

Fig. 1.

Tra i nuovi progetti urbani per una Genova razionalista, PIAZZA DELLA VITTORIA (Fig.2), considerata la più grande piazza della città, è così denominata per celebrare la fine della Prima Guerra Mondiale. La piazza fu progettata da Marcello Piacentini[5] tra il 1922 e il1938 insieme alla collaborazione di artisti locali e fu creata in modo da formare una pianta rettangolare con al centro il Monumento ai Caduti eretto negli anni ‘30 in onore delle vittime della Grande Guerra. L’architetto romano realizzò la piazza pensandola come un gioco prospettico dove, intorno allo spazio quadrangolare, trovarono spazio eleganti edifici in marmo travertino, l’arco della Vittoria al centro e di fronte la scalinata del Milite Ignoto, meglio conosciuta come scalinata delle Caravelle per l’immagine floreale che riprende le tre navi di Colombo. In basso alla scenografica scalinata, sullo sfondo della piazza, il Liceo Andrea Doria e il Palazzo della Questura. Prima della sistemazione in stile razionalista questo spazio, a lato del torrente Bisagno, era un’area pianeggiante e verde dove si tenevano manifestazioni e giochi. Al centro della Piazza, circondato da imponenti edifici, spicca l’Arco della Vittoria (Fig.3) o Arco ai Caduti, un imponente arco di trionfo inaugurato il 31 maggio del 1931. Vincitore del concorso per la realizzazione di un monumento celebrativo nella piazza, Marcello Piacentini, insieme allo scultore Arturo Dazzi, realizzò un monumento commemorativo e trionfale pienamente in accordo con il volto di una Genova razionalista. Tra immagini simboliche della città di Genova si trovano anche statue dello scultore Giovanni Prini raffiguranti le Vittorie e le allegorie del Dazzi che ricordano i caduti della Grande Guerra. Nel fregio dello stesso scultore sono rappresentati i corpi dell’esercito italiano tra cui alpini, mitraglieri, l’aviazione e la marina e sono rievocate le battaglie dell’Isonzo e del Piave.

 

Note

[1] RAZIONALISMO è un linguaggio architettonico diffuso in Europa e Stati Uniti a partire dagli anni venti del Novecento e coinvolge personaggi come Le Corbusier, Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright, Giuseppe Terragni. Non si tratta di un progetto unitario, ma i monumenti sono caratterizzati da forme essenziali senza orpelli decorativi, più aderenti alle reali necessità sociali ed economiche del paese che mirano a soluzioni architettoniche più razionali tentando di eliminare ogni parte emotiva ed estetica per una forma pura. Il movimento in Italia ha assunto la sua forma più vitale nel Gruppo 7 e nel MIAR. Nel 1926, un gruppo formato da sette architetti tra cui Terragni, Figini e Pollini formarono il Gruppo 7 che aderirà al MIAR- movimento italiano architettura razionale- nel 1928.

[2] La delibera dell’amministrazione comunale risale al 1919

[3] Movimento italiano per l’architettura razionale

[4] Luigi Carlo Daneri (Borgo Fornari, 1900 - Genova, 1972) architetto genovese, fu interprete dell’evoluzione architettonica della seconda metà del Novecento aderendo ad un sobrio razionalismo internazionale. Le sue opere si caratterizzano per una grande nitidezza volumetrica e inventiva funzionale. Fu attivo soprattutto nel capoluogo ligure.

[5] Marcello Piacentini (Roma,1881-1960) architetto romano, fu il principale interprete dell’architettura italiana del primo trentennio del Novecento. Architetto, professore e urbanista, aggiornato sulle esperienze internazionali, viaggiò soprattutto nell’Europa del Nord per assimilare i nuovi etimi del moderno, abbandonando l’eclettismo ottocentesco. Rivoluzionò il volto della Roma degli anni ‘10 e ‘20 e successivamente, grazie ai numerosi concorsi pubblici, anche quello di tante altre città in Italia cercando di coniugare le nuove costruzioni architettoniche con la cultura del luogo. La sua figura, nel tempo, è stata assimilata a quello di massimo interprete dell’arte di regime. Proprio per i suoi legami con il fascismo fu molto criticato e le sue opere messe in discussione. Negli ultimi tempi, la sua figura di grande urbanista e architetto è stata rivalutata e il giudizio pessimo in cui veniva ricordato come uomo e architetto è ormai sorpassato.

 

Bibliografia

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), Genova moderna percorsi tra il Levante e il centro città, Genova, Sagep, 2014.

Fabrizio Bottini, Dalla periferia al centro: idee per la città e la city, in Giorgio Ciucci, Giorgio Muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana - il primo Novecento, Milano, Electa, 2004, pp. 346 - 371.

Franco Sborgi (a cura di), La scultura a Genova e in Liguria, Il Novecento, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1989.

Matteo Fochessati, Gianni Franzone (a cura di), La memoria della guerra, Antonio G.Santagata e la pittura murale del Novecento, Genova, Sagep, 2019.

Silvia Barisione, Ville in Riviera tra eclettismo e razionalismo, Genova, Sagep, 2015.

 

Sitogragia

www.anmig.it www.fondoambiente.it

www.treccani.it


GLI AFFRESCHI DI VILLA EMO A FANZOLO-PARTE I

A cura di Alice Casanova

Introduzione: gli affreschi di Battista Zelotti a Villa Emo

All’interno della splendida cornice Palladiana di Villa Emo a Fanzolo (TV), si trovano gli affreschi di Giovan Battista Zelotti (1526 - 1578) un pittore manierista attivo nell’area della Repubblica Veneta durante il tardo Rinascimento. L’abilità dello Zelotti come affreschista è stata sottolineata da Boschini nel suo Carta del Navegar Pitoresco (1), mentre Vasari loda la sua ammirevole padronanza del disegno e della raffigurazione del corpo umano. Oltre a tali doti, a Villa Emo l’artista mette in scena anche la sua competenza architettonica, scandendo i vari ambienti con scorci prospettici, all’interno dei quali un tripudio di figure emerge in modo scenografico. Il tema oggetto del ciclo è quello della fecondità della terra e dell’unione coniugale - due elementi chiave per la famiglia Emo – rappresentati da figure tratte da Le Metamorfosi di Ovidio, dai testi cristiani e dalla storia romana.

Fig. 1 - Ritratto di Giovan Battista Zelotti - Giacomo Piccini, 1648, British Museum, Londra.

Brevi cenni sulla formazione di Zelotti e rapporti con Palladio

La formazione artistica del Zelotti matura accanto a quella di Paolo Caliari, detto il Veronese, presso la bottega di Antonio Badile. Dopo la formazione a Verona, Zelotti si distacca dall’ambiente locale per arricchire la propria pittura con i nuovi modi del manierismo del centro Italia, le cui novità stilistiche erano giunte a Venezia tramite il soggiorno di Salviati e Vasari. Ben presto l’artista si cimenta in interventi pittorici complessi, che lo vedono attivo per lo più all’interno delle ville Venete di Andrea Palladio, in quanto molto in accordo con i suoi valori e ideali. Tuttavia, tale legame con il Palladio può essere considerato a posteriori ambivalente. Da un lato infatti, nonostante la bravura pittorica dello Zelotti, la fama di cui il Palladio godeva e tuttora gode non può che aver reso il pittore ancor più celebre. Dall’altro però, se si necessita di approfondire maggiormente la figura dello Zelotti, le fonti sono scarne, quasi assenti e forse questo lo si deve proprio al Palladio.

«Egli [Il Palladio] manifesta un costante distacco nei confronti dei decoratori attivi nelle sue fabbriche. […] Complessivamente i commenti dell’architetto non oltrepassano mai la soglia dell’apprezzamento generico. Tale distacco potrebbe spiegarsi plausibilmente con una certa perplessità di fronte alla volontà dei committenti di completare con “razon de pittura” le sue alte volte intonacate.» (2).

Leggendo attentamente le parole di Carlo Ridolfi, che ha incentrato la sua ricerca sulle ragioni del silenzio sull’opera dello Zelotti (3), pare proprio che l’attività di frescante di villa abbia penalizzato l’opera dell’artista mettendola in ombra, mentre avrebbe potuto avere maggiore visibilità in un’altra sede. (4)

Il corpo padronale di Villa Emo e la Loggia

Fig. 2 - Pianta del Corpo centrale.

Il ciclo di affreschi che orna Villa Emo a Fanzolo non è distribuito lungo l’interno edificio, ma si concentra principalmente nel corpo padronale. Le barchesse e le colombaie, infatti [fig.3], sono pulite e prive di ornamenti sia perché destinate per lo più all’attività agricola sia per enfatizzare e portare l’attenzione sull’elemento centrale [fig.2]. Come si evince dalla figura 2, il corpo padronale è suddiviso verticalmente in tre sezioni: due laterali a loro volta tripartite, ed una centrale, costituita dalla Loggia, dal Vestibolo e dal Salone che si affaccia verso la campagna retrostante.

Fig. 3 - Corpo centrale e colombaie.

Come si è detto nell’introduzione, l’intervento decorativo di Villa Emo si incentra sui temi del trionfo dell’amore sul vizio e dell’unione coniugale. Due elementi che sicuramente vedono un collegamento con le nozze di Leonardo Emo di Alvise - il committente - e Cornelia Grimani, anche perché il matrimonio ebbe luogo poco dopo il periodo di realizzazione degli affreschi, intorno al 1565. Tuttavia, come afferma Giuseppe Barbieri, tale lettura, incentrata esclusivamente sul tema dell’amore tra i coniugi, «mi è sempre apparsa, anche ad una primissima verifica, riduttiva» (5). Vi sarebbero dunque, altri significati che, avendo noi smarrito la dimestichezza con le logiche rinascimentali, non appaiono subito scoperti.

Fig. 4 - Dettaglio della loggia e del timpano con le due Vittorie alate opera di Alessandro Vittoria.

I primi affreschi che si incontrano durante la visita a Villa Emo sono quelli della Loggia, il cui esterno è descrivibile come un “tempio greco” per via delle quattro colonne doriche che sostengono una trabeazione a fregio ligio ed un timpano triangolare, in questo caso ornato con lo stemma della famiglia Emo.

La Loggia presenta già da subito un dualismo che si ritroverà poi nell’intera decorazione dell’edificio, ovvero quello della seduzione/punizione. Le due pareti laterali della Loggia sono interamente dedicate al mito Ovidiano di Giove e Callisto; da un lato, Giove, nelle vesti di Diana – ma ancora riconoscibile dall’aquila con il fulmine nel becco -, amoreggia con la ninfa Callisto [figg. 5-6]; sulla parete opposta invece, Giunone, scoperto il tradimento, cerca di punire Callisto trasformandola in un’orsa, come si denota dalla mano che si sta già tramutando in una zampa [figg.7-8]. Tuttavia, come è ben noto, il mito non si conclude con la punizione di Callisto, bensì con il suo salvataggio da parte di Giove, il quale la salva trasformando lei ed il figlio Arcade – frutto del tradimento – in due costellazioni.

Sembrerebbe dunque che il tema del ciclo si allontani dal messaggio di concordia coniugale e che si focalizzi invece sulle incerte evenienze dell’infedeltà e del tradimento. La punizione di Giunone, infatti, non viene mai attuata del tutto e l’amante riesce sempre a salvarsi. Lo stesso finale lo si ritrova anche in una delle stanze che affiancano la Loggia, la Stanza di Giove ed Io.

Fig. 9 - Giove seduce Io, Giove dona la giovenca a Giunone.

La Stanza di Giove ed Io a Villa Emo

La narrazione del mito Ovidiano ha inizio nella parete settentrionale, con la scena di Giove che tenta di sedurre e conquistare Io. Ovviamente anche in questo mito Giunone scopre il tradimento, la si nota in alto a destra tra le nuvole che Giove aveva invano creato per nascondersi. Nella seconda scena Giove si trova costretto a tramutare Io in una giovenca, nella speranza che Giunone non se ne accorga. Tuttavia, la dea, astuta, costringe Giove a darle in dono l’animale e la affida alla vigilanza di Argo. A questo punto parrebbe dunque che il lieto fine a favore della coppia coniugale si attui, ma questa è solo una metà degli affreschi della stanza.

Sulla parete meridionale infatti Giove, commosso dalla disperazione di Io, invia il dio Mercurio per addormentare Argo con il suono del suo flauto, ucciderlo e liberare l’amante. L’ultima scena vede Giunone avvolta da una nube luminosa seduta su un carro trainato da due pavoni, ai quali però manca il caratteristico piumaggio. Secondo il mito infatti, la dea raccoglierà i cento occhi dalla testa decapitata di Argo e li cospargerà sulla coda del volatile, prendendo da quel momento l’animale come simbolo. (6)

Nel sovraporta della Stanza, lo Zelotti raffigura un Cristo punito, l’Ecce Homo, un’immagine cristiana che forse si pone in relazione con il mito pagano. Una prima motivazione che potrebbe aver spinto l’artista alla realizzazione di un soggetto cristiano infatti, è che così come Dio con la sua Passione salva l’uomo dal peccato, anche Io è stata salvata, riprendendo sembianze umane, dopo l’intervento divino. Il secondo motivo potrebbe invece essere connesso al fatto che nel 1565 ci si trova in pieno periodo di Controriforma e che quindi il committente abbia voluto mostrarsi un perfetto cristiano.

In conclusione, si vuole far notare la presenza di due allegorie che alludono al tema della vita nella villa fattoria, quello della coltivazione dei campi. Sopra la porta che conduce alla loggia, vi è l’allegoria dell’Autunno, rappresentata da un giovane Bacco con grappoli d’uva e tralci di vite tra i capelli. Sopra il caminetto invece, vi è l’allegoria della Primavera coperta da numerosi fiori.

 

 

Note

(1) La Carta del Navegar Pitoresco è un testo di Marco Boschini (1602 - 1681) che tratta delle bellezze di Venezia e delle vite di quegli artisti che non erano state molto approfondite o per nulla considerate nelle Vite del Vasari. Il testo di Boschini, è uno dei tanti testi che nascono in risposta alle Vite del Vasari, giudicate troppo toscano-centriche.

(2) LOTTO A., Aspetti della committenza veneziana in riferimento all’opera di Battista Zelotti, Dottorato di Ricerca, Università Ca’ Foscari Venezia, Storia Antica e Archeologia. Storia dell’Arte, Anno Accademico 2006/2007 -2008/2009, 21-23.

(3) È tenuto il Zelotti valoroso ed eccellente pittore, più per il giuditio fatto da quegli intendenti che han veduto le opere, che per aver sortito dal mondo quel grido che si conviene alla sua virtù, perchè non seppe profittare di quel volgato proverbio, che l'uomo divien fabro della propria fortuna; non bastando al pittore l'esser valoroso, se ancora nelle grandi cittadi a vista de'popoli non espone le opere, si che venga conosciuto, e dove concorrendo l'applauso comune si fonda la fortuna dello artefice. (Ridolfi, 1648, (1914), I, p.364)

(4) D’altra parte, sembra che la scelta dello Zelotti di dedicarsi solo all’attività di decoratore di villa, sia stata dettata da una precisa motivazione; il più serrato confronto con i colleghi in uno scenario suburbano infatti, sembra averlo indirizzato verso la pittura nelle ville, le quali stavano divenendo dei laboratori di non trascurabile rilevanza.

(5) BARBIERI G., Decor e decorazione, in GASPARINI D., PUPPI L., (a cura di) Villa Emo, Terra Ferma Antico Brolo, (Vedelago e Vicenza), 2009, p.58.

(6) La presenza costante della figura di Giunone negli affreschi di Villa Emo è stata spiegata dagli storici con il fatto che il pavone si ritrova anche nelle insegne araldiche della famiglia Emo.

 

Immagini scattate dall’autrice, tratte da il testo G. GIACONI, Villas of Palladio, Princeton Architectural Press, New York, 2003 e dal sito web di Villa Emo.

 

 

Bibliografia

GASPARINI D., PUPPI L., (a cura di) Villa Emo, Terra Ferma Antico Brolo, (Vedelago e Vicenza), 2009.

LOTTO A., Aspetti della committenza veneziana in riferimento all’opera di Battista Zelotti, Dottorato di Ricerca, Università Ca’ Foscari Venezia, Storia Antica e Archeologia. Storia dell’Arte, Anno Accademico 2006/2007 -2008/2009.

PEDROCCO F., RUGOLO R., FAVILLA M., Gli Affreschi nei Palazzi e nelle Ville Venete, Sassi Editore, Schio (Vicenza), 2008

RIDOLFI G. C., Le meraviglie dell’arte, ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello stato. Volume II, Tipografia e Fonderia Cartallier, Padova, 1837.

 

Sitografia

https://www.villaemo.org/la-pittura

www.iconos.it


LA GALLERIA BORGHESE

A cura di Federica Comito

 

Galleria Borghese.

Galleria Borghese: un'introduzione

La Galleria Borghese è allestita nel Casino Nobile, che rappresenta il punto centrale dell’intera Villa Borghese già dal momento in cui venne progettata. Lo scopo era quello di costruire uno “scrigno” che contenesse le opere d’arte appartenenti alla famiglia Borghese. il Casino, acquistato dallo Stato italiano e divenuto museo pubblico nel 1902, può vantare il primato di ospitare il maggior numero di opere di Caravaggio e Bernini.

L’edificio

L’idea iniziale di spazio espositivo doveva essere già suggerita dall’esterno. Il palazzo fu costruito dagli architetti Flaminio Ponzio e Giovanni Vasanzio e circondato da statue in marmo, busti e bassorilievi ospitati in nicchie poste su tutta la facciata. Prevedeva un ingresso con doppia scalinata, due torri a completare la facciata anteriore, una loggia con cinque arcate e una terrazza ornata da statue. Il loggiato venne dipinto da Lanfranco e arricchito da opere che venivano inviate al Cardinale Scipione come omaggio. Quasi tutti gli artisti e i committenti più importanti del periodo parteciparono con le loro opere ad abbellire la “casa dell’arte” voluta da Scipione.

Gian Lorenzo Bernini, Busto di Scipione Borghese, marmo di carrara, 1632.

Alla fine del Settecento il Casino Nobile fu modificato per volere di Marcantonio IV Borghese. Incaricò l’architetto Asprucci del restauro che, tra il 1770 e il 1780 progettò un arredamento su misura coinvolgendo le stesse opere d’arte posizionandole in maniera scenografica, in un equilibrio perfetto tra antico e moderno. Anche i camini fanno parte dell’arredamento raffinato: realizzati dalla collaborazione di più artisti, dai bronzisti agli scultori, si riconoscono per la decorazione a maioliche. A fare da cornice le sale ricoperte di marmi ricchissimi. A questo punto torna anche di moda un’arte scomparsa da 150 anni, il mosaico romano tradizionale che viene rivalutato e rimesso in voga tra 500 e 600 grazie agli scavi archeologi effettuati in quel periodo.

Galleria Borghese: la collezione

La collezione Borghese fu voluta dal Cardinale Scipione, grande collezionista e amatore d’arte che riunì un gran numero di opere di inestimabile valore antiche e moderne tra il 1605 e il 1620. In particolare si legò ai grandi nomi del suo tempo come Bernini e Caravaggio dei quali collezionò i lavori. In poco più di 50 anni Scipione Borghese creò un’immensa collezione, ammirata ancora oggi. Tale era la bramosia di acquisire opere d’arte da spingerlo a ricorrere ad ogni mezzo, incluso incarcerare il Cavalier d'Arpino per impossessarsi delle sue oltre cento tele e far arrestare il Domenichino per sottrargli la “Caccia di Diana”

La prima raccolta risale al 1607, composta dalle opere acquistate da Tiberio Ceoli. Negli anni successivi il Cardinale Borghese incrementò la sua collezione privata fino alla sua morte, avvenuta nel 1633. Dopo Scipione toccò a Marcantonio IV Borghese che acquistò nuove opere e aggiunse i tesori archeologici rinvenuti durante gli scavi sulla via Prenestina. Modificò anche l’allestimento originario voluto dal suo antenato scegliendo di collocare le statue al piano terra dell’edificio.

A seguito del matrimonio di Camillo Borghese e Paolina Bonaparte nel 1803, ben 695 dei pezzi più importanti vennero vendute al fratello di lei Napoleone Bonaparte che le fece immediatamente trasferire in Francia.

Le sale espositive all’interno della Galleria sono 20, suddivise tra il piano terra e il primo piano.

Le sale del piano terra

Il “salone Mariano Rossi” funge da ingresso al percorso museale. Prende il nome dalla decorazione sul soffitto eseguita tra il 1775 e il 1779 ad opera di Mariano Rossi. Si tratta di un salone di grandi dimensioni decorato con sculture monumentali e affrescato sul soffitto con la scena di Romolo accolto nell’Olimpo. Il pavimento è in battuto alla veneziana, un tipo di pavimento realizzato con frammenti di pietra e marmo incastonati nella malta. Questa tipologia si alterna a fasce di marmo e arricchito da inserti di mosaici antichi, tra i quali spicca il famosissimo mosaico con Scene di caccia e lotta di gladiatori e fiere datato circa al IV sec d.C. Sulle pareti si alternano cammei in succo e dipinti con motivi vegetali e animali, mentre nella fascia alta delle pareti delle nicchie ospitano i busti degli imperatori romani.

Mosaico dei gladiatori, particolare della lotta con fiere, IV sec. d.C.

La “sala della Paolina” ospita l’opera Paolina Borghese come Venere Vincitrice realizzata da Antonio Canova. Inizialmente denominata sala “del vaso” per un antico cratere neoattico, oggi non esibisce più il suo aspetto settecentesco, ma quello datogli da Luigi Canina nell’Ottocento.

La “sala del David” contiene la scultura omonima di Gian Lorenzo Bernini. Inizialmente era detta “del Sole” per la Caduta di Fetonte rappresentata sulla volta. All’interno vi sono esposte nature morte e a tele di vario genere. In passato erano anche presenti alcune statue di Eracle, poi spostate nella terrazza. Alle pareti sono addossate alcune sculture antiche e i resti del sarcofago a colonne con le Fatiche di Ercole, datato intorno al 160 d.C.

Al centro della volta della “sala di Apollo e Dafne” vi è la tela di Pietro Angeletti in cui Amore colpisce i due protagonisti con le frecce, collegata tematicamente al gruppo scultoreo di Bernini al centro della stanza.  È presente un’altra tela dello stesso soggetto realizzata, questa volta, da Dosso Dossi.

La “sala degli imperatori” deve il suo nome ai busti ottocenteschi dei Dodici Cesari in porfido e alabastro. Sulle pareti spiccano i cammei in stucco a contrasto con i mosaici e i marmi. Al centro della sala spicca il gruppo berniniano del Ratto di Proserpina.

La “sala dell’ermafrodito” prende il nome dall’omonima scultura del II secolo d.C., copia dell’originale di Policleto. Il soggetto della statua è ripreso anche nei dipinti della volta.

La “sala di Enea e Anchise” ospita al centro il gruppo scultore omonimo del Bernini, che ha sostituito la statua del Gladiatore dal quale la sala prendeva il nome in origine.

Le opere di provenienza egizia sono invece collocate nella sala seguente, progettata da Antonio Asprucci allo scopo di contenere proprio questo gruppo della collezione. Le statue egizie sono addossate lungo il perimetro della sala ad anticipare la moda dell’egittomania esplosa in Europa.

L’ultima sala del piano terra è la “sala del sileno”, dedicata alla scultura del Sileno e Bacco bambino, oggi però conservata al Louvre. Si distingue per la presenza di ben sei dipinti di Caravaggio, oltre a tele del Cigoli, Giovanni Baglione ed altri artisti. Anche in questo caso troviamo statue e busti di epoca romana a decorare le pareti.

Le sale al primo piano

Al primo piano si trova la “sala di Didone”, che ospita dipinti di artisti del calibro di Raffaello, Perugino, Pinturicchio e Fra’ Bartolomeo. Tra gli arredamenti spicca un tavolo di marmo intarsiato del XVIII secolo.

La “sala di Ercole” è così chiamata per i cinque dipinti resenti sulla volta, un ciclo interamente dedicato all’eroe e commissionato da Marcantonio IV Borghese. Anticamente era collocato nella sala un letto a baldacchino e per questo la sala era in origine conosciuta come la “Stanza del Sonno”.

Le tele della scuola Ferrarese sono collocate nella “sala della Pittura Ferrarese” e spiccano per i temi naturali e paesaggistici.

La “sala delle Baccanti” deve il nome all’affresco centrale sulla volta, eseguito da Felice Giani con chiari rimandi alle decorazioni presenti nella Villa Adriana e alle grottesche della Domus Aurea.

La stanza di piccole dimensioni che prende il nome di “Sala della Fama” venne decorata da Felice Giani con l’Allegoria della Fama con putti e aquile. La decorazione è geometrica e presenta cornici ed ornamenti vegetali tipici degli ornati delle ville romane.

La “loggia di Lanfranco” è così chiamata per l’affresco del Concilio degli Dei, eseguito dal maestro tra il 1624 e il 1625. Il loggiato era originariamente aperto sui giardini segreti attraverso cinque arcate, poi chiuse durante i lavori del Settecento per proteggere gli affreschi stessi. In questa sala sono conservate le due versioni del busto berniniano raffigurante il cardinale Scipione Borghese.

Il ciclo del tempo, opera di Domenico Corvi, è il protagonista della “Sala dell’Aurora” e descrive il mutare del giorno e della notte, delle stagioni e le loro divinità. Le pareti sono decorate a grottesche e medaglioni raffiguranti uomini antichi. All’interno vi si trovano esposti dipinti di artisti provenienti dal nord Italia quali Dosso Dossi, Jacopo Bassano e altri. Al centro della sala è esposta l’allegoria de Il Sonno, scultura in marmo nero opera di Alessandro Algardi.

La “sala della Flora” ospita sulla volta l’opera di Domenico De Angelis raffigurante Flora circondata da decorazioni vegetali, realizzate da Giovan Battista Marchetti. I quadri esibiti in questa sala, risalenti alla seconda metà del Cinquecento, sono di ispirazione michelangiolesca.

Il riconoscimento di Gualtiero conte di Angers, realizzato nel XVIII secolo da Giuseppe Cades, decora la volta della sala dedicata all’omonimo personaggio del Decameron. Nella stanza sono presenti dipinti di provenienza principalmente fiamminga e acquistati da Marcantonio IV.

La “sala di Giove e Antiope” è dominata la tela, dal medesimo soggetto, eseguito da Benigne Gagneraux. Tra le opere di scuola fiamminga e italiana esposte in questa sala, si annoverano anche lavori di Pietro da Cortona e Pieter Paul Rubens.

La “sala di Enea e Paride” è ricca di arredamenti e decorazioni tipiche della rielaborazione romana dell’antico. Anche in questo caso la sala prende il nome dalla decorazione della volta.

La “sala di Psiche” è caratterizzata da una decorazione illusionistica di Giovan Battista Marchetti con le storie di Amore e Psiche. In quest’ultima stanza si trovano opere di Tiziano, Antonello da Messina, Lorenzo Lotto e Paolo Veronese. Inoltre, vi è collocato anche il più antico dei camini che si trovano nel museo, insieme ad una coppia di tavolini in stile Luigi XVI.

I depositi di Galleria Borghese

Il deposito collocato sopra la Pinacoteca di Galleria Borghese ospita circa 260 opere esposte come in una quadreria e perciò visitabile. I dipinti esposti, ordinati per scuole pittoriche e aree tematiche, si trovano qui perché il nuovo assetto delle sale inferiori, avvenuto nel ‘700, non permetteva più l’esposizione dell’intera collezione.

Deposito della quadreria, Galleria Borghese.

Dal 2015 è possibile visitare anche il “Deposito delle sculture di Villa Borghese”, ospitato all’interno del Museo Pietro Canonica, dove sono esposte le opere della collezione Borghese che un tempo arricchivano le vie del parco.

Deposito delle sculture, museo Pietro Canonica.

Conclusione

Questo museo, nato dalla passione dei Borghese per l’arte moderna e antica, è l’esempio perfetto della volontà di affermare il prestigio familiare tramite il collezionismo. In questo, certamente i Borghese hanno centrato il loro obiettivo perché anche chi non è appassionato o conoscitore di storia dell’arte si rende conto della straordinaria bellezza della Galleria.

 

 

Bibliografia

Venturi, Il Museo e la galleria Borghese, 1893, Roma

I giardini storici di Roma, Villa Borghese, De Luca editori d’arte, 2000, Roma.

 

Sitografia

https://galleriaborghese.beniculturali.it/

https://www.youtube.com/watch?v=QBrqev9rzlk&ab_channel=arte%26pittura


LUIGI LANZI E LA STORIA PITTORICA DELL’ITALIA

A cura di Matilde Lanciani

Introduzione: Lanzi e la nascita della storiografia artistica moderna

Luigi Antonio Lanzi nacque il 14 giugno 1732 a Montecchio, attuale Treia, nelle Marche. Le sue attività di archeologo e storico dell’arte lo portarono a diventare una delle figure culturali più importanti del suo tempo: a lui dobbiamo il metodo di suddivisione per “scuole” che adottò in seno alla sua attività di vicedirettore ed antiquario della Galleria degli Uffizi a Firenze, dopo la nomina del Granduca Pietro Leopoldo nel 1775. La strutturazione “campanilistica” era già stata teorizzata da Lanzi nell’opera La Storia pittorica dellItalia (Fig.1): nella prima parte, pubblicata nel 1792, venne infatti designata la suddivisione fra scuola senese, fiorentina, napoletana e romana. La seconda parte dell’opera, uscita nel 1796, lo consacrò come padre della moderna storiografia artistica. Un’ultima edizione è da riferirsi all’anno 1809. La peculiarità del suo lavoro risiede nel fatto che, oltre alle vite dei grandi e rinomati artisti elencate e descritte a livello “regionale”, Lanzi indagò a fondo le vite dei cosiddetti artisti “minori” fornendo un quadro molto più ampio di quello che erano stati in grado di fornire i suoi predecessori.

1.

Luigi Lanzi era secondogenito del medico Gaetano e di Bartolomea Firmani, la sua famiglia si spostò in diversi territori limitrofi, come per esempio Montolmo (attuale Corridonia) che lo storico considerò da sempre la sua patria. A partire dal 1744 e fino al 1749 studiò a Fermo presso il collegio dei gesuiti, educato per divenire sacerdote (che divenne solo il 28 ottobre 1761), ricevette la tonsura il 27 maggio 1747 e nel 1749 entrò nella Compagnia di Gesù a Roma. Qui si dedicò agli studi di retorica con il padre grecista Raimondo Cunich, sua guida e maestro, che lo condusse alla laurea in teologia e filosofia presso il Collegio romano nel 1763.

2. Iscrizione dedicata a Luigi Lanzi, Corridonia.

In seguito si dedicò all’insegnamento presso il Collegio di Fabriano e conseguì la seconda pronazione nel giorno del 15 agosto 1765, così si trasferì nella casa professa di S. Andrea al Quirinale sino al 1772 come insegnante di retorica. Fu allora che pubblicò il ciclo Le lodi della S. Teologia (1762), ispirato alla Divina Commedia dantesca, e l’oratorio Il trasporto dellarca in Sion (1762) con lo pseudonimo Argilio Celerio. Nel mentre componeva traduzioni catulliane (Idilli) e di altri autori classici quali Teocrito (Zampogna) e Callimaco (Chioma di Berenice), iniziò anche I lavori e le giornate di Esiodo dal greco in terza rima, di cui rimangono preziose note manoscritte, ed inoltre scrisse epigrafi e liriche raccolte in Iscriptionum et carminum libri tres (1807).

Nel 1789 compose il Saggio di lingua etrusca e di altre antiche dItalia e nel 1806 Dei vasi antichi dipinti volgarmente chiamati Etruschi in cui identificava alcune lettere dell’alfabeto etrusco (Fig.3) e ne ribadiva la discendenza greca, aprendo la strada alla stessa disciplina dell’etruscologia. I suoi studi derivavano dall’attenta osservazione della collezione medicea di Villa Medici a Roma, trasferita in quegli anni a Firenze (Fig.4), ed in più coglievano i vari influssi che connotavano la “maniera” etrusca: romani, umbri e osci. Corossen riferì che Lanzi anticipò l’opera Die Etrusker di Karl Otfried Müller. In relazione alla sua produzione letteraria di fondamentale importanza fu la sua nomina a presidente dell’Accademia della Crusca, fondata dai Medici.

Quando nel 1773 la Compagnia di Gesù fu soppressa, Lanzi si recò a Siena per motivi di salute e, dopo l’intercessione di monsignor A. Fabroni, conosciuto negli anni romani, il 17 aprile 1775 divenne aiuto custode e antiquario della Galleria fiorentina degli Uffizi (Fig. 5 e 6): qui provvide alla sistemazione delle sale dei bronzi antichi (1777), alla catalogazione delle ceramiche antiche e al riordinamento della sala con opere rinascimentali. Dopo un altro breve soggiorno romano nel quale conobbe E. Q. Visconti, illustratore del facoltoso museo Pio Clementino, fu incaricato di stilare l’annuale relazione delle attività degli Uffizi diventando reale antiquario nel 1790. Pietro Leopoldo voleva incentivare la Galleria come istituzione di pubblica utilità e così Lanzi, insieme alla commissione Pelli e Piombanti, compose la guida divulgativa La real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata in merito alle nuove acquisizioni e ai nuovi percorsi espositivi ideati. Seguì il saggio Notizie preliminari circa la scoltura degli antichi e vari suoi stili in riferimento all’entrata della collezione Bucelli di Montepulciano.

Inoltre Luigi Lanzi viaggiò molto per motivi di studio: fu in Umbria, a Savignano, nelle Marche, ad Arezzo e Sansepolcro, così come a Roma dove poté avere visione diretta delle rovine classiche.

Negli anni della stesura de La storia pittorica della Italia inferiore (1792), prima parte dell’opera completa Storia pittorica della Italia, fu a Padova e Venezia, ma anche in Piemonte e nella Repubblica di Genova. In Veneto soggiornò anche nel 1794 per fare delle cure termali ad Abano a causa di un colpo apoplettico.

La pubblicazione dell’opera sopra citata, presso l’editore Remondini, si avvalse di una serie di collaboratori come G. De Lazara e B. Gamba e manifestò una linea di pensiero che vedeva una sorta di evoluzionismo artistico che dalla classicità culminava nel periodo Rinascimentale e continuava fino alla contemporaneità, proponendo un vastissimo repertorio valido fino alle spoliazioni napoleoniche.

Importanti furono anche i suoi taccuini di viaggio, pubblicati nella seconda metà del ‘900, come Viaggio nel Veneto a cura di Donata Levi (Fig.7), Viaggio del 1793 pel Genovesato e il Piemontese di G. C. Sciolla e poi altre testimonianze quali Taccuino di Roma e di Toscana, Il taccuino lombardo o Viaggio del 1783 per la Toscana superiore, per lUmbria, per la Marca, per la Romagna.

7.

Con l’avvento di Napoleone Bonaparte lo studioso si trattenne a Treviso e a Udine (1797) al collegio dei barnabiti e presso il canonico C. Belgrado, per poi ritornare definitivamente a Firenze nel novembre del 1801 dove morì il 31 marzo 1810. Le sue spoglie si trovano nella chiesa di Santa Croce a Firenze (Fig.8).

8.

 

Bibliografia

Gauna, C. (2003). La Storia pittorica di Luigi Lanzi: arti, storia e musei nel Settecento. LS Olschki.

Lanzi, L. (1809). Storia Pittorica Della Italia Dal risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del XVIII Secolo Dell'ab. Luigi Lanzi Antiquario IER in Firenze, Giuseppe Remondini e Figli.

Rossi, M. (2006). Le fila del tempo: il sistema storico di Luigi LanziLe fila del tempo, 1-393.

 

Sitografia

https://www.memofonte.it/ricerche/luigi-lanzi/

Voce “Luigi Lanzi”, Enciclopedia Treccani.


VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI MERANO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

Merano è bella oltre ogni immaginazione; può essere superata forse solo da Merano stessa in primavera, nel pieno della fioritura” così scriveva della città lo scrittore austriaco Stefan Zweig nel 1910. Una citazione che lascia intendere la bellezza di una città situata ai piedi delle Alpi, in provincia di Bolzano, immersa in un contesto naturalistico unico e costellata da monumenti che custodiscono la sua storia. Una località così particolare che è sempre stata riconosciuta come “città di cura”, per le proprietà terapeutiche delle sue acque, la particolare condizione climatica e i prodotti coltivati nel suo circondario, come l’uva e il latte che venivano consumati dai nobili della famiglia reale asburgica che qui veniva a cercare benessere psicofisico[1]. Questi non sono gli unici elementi che caratterizzano la cittadina, infatti Merano è costellata di monumenti storici che meritano una particolare attenzione. Qui si porrà l’attenzione al centro storico per ripercorrere gli anni cruciali della città, dalla Belle Époque alla Seconda guerra mondiale, e le peculiarità artistiche degli edifici in stile Art Nouveau.

Viaggio nel centro storico di Merano

Il viaggio nel centro storico di Merano parte dalle Terme che, situate lungo il fiume Passirio che lambisce il centro, costituiscono il simbolo della città e sono considerate tra le più belle delle Alpi. Il nuovo edificio è stato inaugurato nel 2005, ma le proprietà curative delle sue acque sono note da molti secoli, tanto che nel 1966 sono state riconosciute dal Ministero della Salute. Le acque termali nascono nel vicino Monte di San Vigilio dove, per infiltrazione, l’acqua raccoglie il fluoro, lo iodio e il gas Radon.

Fig. 3 – Merano, il Centro Termale (destra) e il viale di accesso. Credits: commons.wikimedia.org.

Dal centro termale attraverso la suggestiva “Passeggiata Lungopassirio” si arriva al primo “Kurhaus” (“Casa dell’ospite di cura”) di Merano. Un edificio suggestivo in stile Jugendstil del 1874, come indicato dalla data apportata a caratteri dorati sulla facciata principale. Quest’ultima è di gusto classico, dal colore bianco candido con una grande terrazza circolare che richiama l’imponente rotonda interna e il grande salone con il tetto a botte, progettato dall’architetto viennese Friedrich Ohmann. Domina la facciata una suggestiva e raffinata scultura di tre giovani donne abbracciate e legate da un festone che ballano in una danza circolare. Oggi l’edificio è utilizzato per i grandi eventi, come le convention europee e le rassegne musicali, infatti da molti anni ospita le “Settimane Musicali Meranesi” per la particolare acustica delle sua sale.

Proseguendo il percorso verso il cuore della città, si arriva al “Ponte della Posta” (“Postbrücke”) che congiunge il quartiere di Maia Alta con il centro della città: un meraviglioso ponte del 1909 ad ampie arcate decorate da tessere in mosaico color oro e un parapetto decorato con elementi floreali tipici dello stile Liberty.

Dal ponte iniziano le passeggiate meranesi, ovvero la “Passeggiata d’Inverno” e la “Passeggiata d’Estate” che seguono il tracciato del fiume e che in passato hanno contribuito a determinare la fama della città. La “Passeggiata d’Inverno”, che prosegue la “Passeggiata Lungopassirio”, fu realizzata nel 1855 per i nobili del casato asburgico che soggiornavano a Merano. Lungo questo sentiero i nobili cercavano benessere psicofisico grazie alla particolare posizione del percorso, protetta dal vento ed esposta al sole; inoltre nel padiglione (Wandelhalle), al termine della Passeggiata, i nobili bevevano siero di latte e mangiavano l’uva curativa. La “Passeggiata d’Estate” fu realizzata nel 1870, sulla sponda opposta del Passirio, all’interno di un parco ombreggiato da piante e arbusti unici, come i pini dell’Himalaya, i cedri del Libano e i cedri della catena montuosa dell’Atlante. All’ingresso della “Passeggiata” una statua in marmo riproduce l’imperatrice Elisabetta d’Austria: la statua fu realizzata nel 1903 dallo scultore Hermann Klotz per ricordare la sovrana che spesso e volentieri soggiornava nella città meranese, dando fama e notorietà alla città di cura.

Per raggiungere il centro storico della città, una volta terminata la “Passeggiata Lungopassirio”, si raggiunge “Piazza della Rena” e si arriva alla porta della città. Le porte della città sono testimonianza della cinta muraria e delle opere di fortificazione realizzate nel Trecento a Merano. Tre sono le porte sopravvissute: Porta Venosta, Porta Bolzano e Porta Passiria. La porta per raggiungere il centro storico è “Porta Bolzano” e come le altre è in pietra a vista con feritoie e sulla facciata porta lo stemma dell’Austria del Tirolo e di Merano.

Una volta varcata “Porta Bolzano” si raggiunge il cuore della città, ovvero “Piazza Duomo” con la sua Parrocchiale dedicata a San Nicolò. Il Duomo fu costruito a partire dal 1302 e i lavori proseguirono a lungo nel tempo, terminarono nel 1465 con la consacrazione della chiesa, mentre il campanile venne terminato più tardi solo nel XVII secolo. Per la chiesa fu costruita un Hallenkirche a tre navate in stile gotico d’oltralpe e fu consacrata a San Nicola di Mira, protettore di commercianti e naviganti, per proteggere la città dalle inondazioni causate dal fiume Passirio - all’epoca il santo veniva invocato contro le inondazioni – ed infatti la statua gotica del XIV secolo, sistemata sulla facciata meridionale verso il fiume, lo raffigura mentre con la mano benedice il Passirio. Il Duomo di Merano ha raffigurato sul portale laterale meridionale un gigantesco San Cristoforo, protettore di viandanti e pellegrini, e sulla volta del vano di passaggio, al di sotto del campanile, un paesaggio notturno con la croce dei Trinitari, attribuito al maestro boemo Venceslao, lo stesso che realizzò gli affreschi di Torre Aquila a Trento.

Da “Piazza Duomo” dipartono i portici della città, i più lunghi del Tirolo con i suoi oltre 200 negozi, caffè e ristoranti. I portici di Merano hanno inoltre la particolarità di essere cento passi più lunghi di quelli di Bolzano, così voluti nel Trecento per ricordare la superiorità del Tirolo, sul principato vescovile di Bolzano e Trento, loro eterni avversari.

Fig. 12 – Merano, i portici della città.

A metà di Via Portici (“Laubengasse”) si innalza il Municipio, un’architettura italiana novecentesca costruita durante il fascismo. Quest’ultima è dominata da una torretta con un grande orologio, al di sotto del quale, in una lapide, è ricordato il 1929, anno VII dell’era fascista meranese.

Fig. 13 – Merano, il Municipio con la torretta.

In questo punto, in una laterale di Via Portici, dietro al Municipio, si innalza un vero e proprio gioiello architettonico, ovvero il “Castello Principesco”. Esso venne fatto costruire intorno al 1470 dal duca d’Austria e Conte del Tirolo, Sigismondo (1439-1490) il Danaroso, per le sue periodiche visite alla città di Merano. Egli fece costruire una dimora cittadina, simile ad un castello di gusto tardogotico con porte riccamente intagliate e rivestimenti in legno alle pareti, mura merlate e feritoie con sola funzione ornamentale. Nel 1875 il castelletto rischiò di essere demolito per lasciare posto ad una scuola, solo all’ultimo momento, grazie all’iniziativa di alcuni cittadini, fu salvato e restaurato mantenendo la sua connotazione di Castello Principesco cinquecentesco. Oggi il Castello è aperto al pubblico e conserva armamenti, arredi dell’epoca e sontuose stanze con pavimenti e pareti rivestiti in legno, nonché la cappella di famiglia con affreschi del Cinquecento.

Proseguendo Via Portici si arriva a “Piazza del Grano” e poi a “Via delle Corse”, per poi raggiungere “Piazza del Teatro” con il suo storico “Teatro Puccini”. Un’architettura che ricorda in parte il Palazzo della Secessione viennese e tutto il mondo artistico legato a quell’ambiente e a quel periodo; venne inaugurato nel 1900 e fu il primo teatro in stile Jugendstil dell’Europa centrale. É un’architettura che colpisce per le decorazioni della sua facciata, un alternarsi di superfici levigate e superfici grezze, decorate con motivi floreali e festoni in stucco bianco e dorato, tipici dello stile Liberty. A colpire è anche l’interno per la cura dei dettagli e dei decori che richiamano il mondo artistico della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Il teatro venne costruito in soli 14 mesi su progetto dell’architetto di Monaco di Baviera, Martin Dülfer, e il primo dicembre del 1900 venne inaugurato. Oggi è il più importante edificio storico di Merano, ma anche dell’Alto Adige e ospita rappresentazioni teatrali sia in lingua italiana che in lingua tedesca.

L’anello del centro storico di Merano si conclude in “Corso Libertà”, una via parallela a Lungopassirio che conduce a “Porta Bolzano”. “Corso Libertà” merita una particolare considerazione perché il tracciato segue l’antico percorso delle mura cittadine che, proteggendo la città dalle esondazioni del fiume Passirio, collegavano Porta Bolzano a Porta Ultimo. Le mura della città e le porte di accesso furono costruite in epoca medievale quando Merano era un centro mercantile del Tirolo, quando questo ruolo venne meno nel corso dei secoli, le mura vennero manomesse e nell’Ottocento abbattute definitivamente. Alla fine della Prima guerra mondiale, in seguito all’annessione dell’Alto Adige al Regno d’Italia, questa strada venne sistemata e ottenne il titolo di Corso Principe Umberto, in omaggio al principe ereditario della casa di Savoia. Al termine della Seconda guerra mondiale fu invece ribattezzata in “Corso Libertà” per commemorare la liberazione dal fascismo e dal nazismo.

Si conclude qui il percorso attraverso il centro storico di Merano. Un tragitto breve, ma ricco di monumenti e di storia locale che ricordano il ruolo di città commerciale del Tirolo e di città curativa della famiglia reale asburgica. I monumenti di interesse storico-artistico di Merano non si fermano al centro storico, molti altri che arricchiscono la città nei quartieri e nella periferia meriterebbero ulteriori contributi.

 

Note

[1] Merano è situata a 325 metri sul livello del mare, una quota piuttosto bassa se pensiamo a dove sorge la città, ai piedi delle Alpi Venoste. Merano è situata in una conca protetta dalle montagne che le permette di aver un clima del tutto particolare: un clima che ritarda l’inverno e anticipa la primavera rispetto ad altre località poste alla stessa latitudine. (Rohrer 2011)

 

Bibliografia

Valente Paolo, Merano. Breve storia della città sul confine, Bolzano, Rætia, 2008.

Rohrer Josef, Merano in tasca. La città e i suoi dintorni, Vienna-Bolzano, Folio Editore, 2011.

Dal Lago Veneri Brunamaria, Alto Adige Südtirol. Una guida curiosa, Bolzano, Rætia, 2014.


SAVONA: LE TRACCE DI UN PASSATO (QUASI) SCOMPARSO

A cura di Gabriele Cordì

 

Premessa storica

Prima di analizzare nello specifico il “grandioso piano urbanistico della metà dell’Ottocento” e le modifiche causate dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale, è più che dovuto parlare di com’è nata e come si è sviluppata urbanisticamente la città di Savona dalla preistoria sino al XVIII secolo. I primi insediamenti sono documentati sulla collina del Priamar durante la media età del bronzo. La protourbana Savona era un vetusto centro del gruppo etnico dei Liguri Sabazi. Inizialmente alleato di Cartagine, il centro fu conquistato dai Romani in età medio-tardorepubblicana, intorno al 180 a.C. In seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., il centro ligure fu devastato dagli Eruli e dai Goti, passò sotto il dominio dei Bizantini, dei Longobardi e dei Franchi di Carlo Magno ed , infine, divenne libero comune nel 1191. La golden age di Savona va di pari passo con l’elezione al soglio pontificio di Francesco Della Rovere, papa Sisto IV, e Giuliano della Rovere, papa Giulio II. I due, appartenenti ad una prestigiosa famiglia nobile, si occuparono di sostenere economicamente la loro città natale. I rapporti con Genova, già da tempo corrotti, si deteriorano definitivamente nel 1528 con la sottomissione di Savona, a seguito della quale ci furono violente devastazioni, l’interramento del porto, il taglio delle torri e l’abbattimento dell’antichissima cattedrale, in stile gotico italiano, distrutta definitivamente nel 1595. Sull’antico centro urbano del Priamar, Genova costruì la sua immensa fortezza.

La città, il clero, le corporazioni e altri vari istituti si spostarono nella valle del Letimbro, cercando una nuova sede per la cattedrale e molte delle confraternite ancora oggi esistenti. Nel XVII secolo Savona riprese a praticare il commercio via mare, provocando così una rifioritura economica e edilizia. Nel 1815, dieci anni dopo l’annessione di Savona all’impero francese, il congresso di Vienna stabilì la sua appartenenza al Regno di Sardegna, con il quale subentrò poi, nel 1861, nel Regno d’Italia. Dal 1946 fa parte della Repubblica Italiana.

Ricostruzione topografica della città di Savona sul finire del Settecento.

Il grandioso piano urbanistico ottocentesco e i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale

All’alba del XVIII secolo Savona era ancora rinchiusa nel suo piccolo pomerium medievale, delimitato dalle mura e dalle lizie. I primi interventi urbanistici vengono registrati già nei primi decenni dell’Ottocento con l’abbattimento delle mura lungo la darsena, della porta di Sant’Agostino, nell’attuale piazza Leon Pancaldo, e della porta di San Giovanni con la realizzazione dell’odierna piazza Diaz. Nonostante queste corpose modifiche, bisogna aspettare la seconda metà del secolo per assistere al vero e proprio sviluppo urbanistico savonese. Nel 1832 un “piano di abbellimento” prevede la costruzione di una strada extra moenia per collegare il Borgo Superiore con quello Inferiore e la copertura del fosso per la formazione della passeggiata sopraelevata delle lizie. Nel decennio successivo, il Comune avvia lo studio di varie pratiche e piani di rinnovamento urbanistico.

Pianta topografica del centro abitato alla metà dell’Ottocento.

La necessità di un piano regolatore era indispensabile in quanto le strade e gli alloggi erano in pessime condizioni igieniche e strutturali. Finalmente, con regio decreto del 23 novembre 1856, viene approvato il primo progetto a cui, tuttavia, bisognava apportare ancora alcune modifiche. Il piano regolatore definitivo fu quello successivo, il cosiddetto “Piano Corsi”, dal nome del sindaco dell’epoca Luigi Corsi, deliberato dal consiglio comunale nel 1865. Venne posizionata la stazione di Savona Letimbro nei pressi di Piazza Umberto, l’attuale piazza del Popolo, e tra il vecchio centro urbano e il torrente Letimbro la nuova città venne sistemata a scacchiera, su modello della Torino sabauda.

Nel XX secolo fu invece un tragico evento a cambiare la faccia della città. Quando alle 11:47 del 30 ottobre 1943 suonò il preallarme aereo, i cittadini si recarono nei rifugi per porsi in salvo. Dato che il segnale era stato emanato in molto anticipo, i savonesi, pensando ad un “falso allarme”, si recarono nelle loro abitazioni. Tuttavia, poco dopo sopraggiunsero gli aerei bombardieri nemici che colpirono ampiamente il centro storico medievale ed anche, in minima parte, gli obiettivi dell’attacco: il porto e lo stabilimento siderurgico dell’Ilva. In questa terribile tragedia morirono 116 persone e successivamente, nell’imminente dopoguerra, furono quasi completamente demolite le principali piazze danneggiate, in parte, dai bombardamenti: piazza Colombo, piazza delle Erbe e piazza Caricamento.

Il centro urbano nel 1895: particolare della pianta della città di Savona disegnata dall’ingegnere G.D. Antonj.

Nel XX secolo fu invece un tragico evento a cambiare la faccia della città. Quando alle 11:47 del 30 ottobre 1943 suonò il preallarme aereo, i cittadini si recarono nei rifugi per porsi in salvo. Dato che il segnale era stato emanato in molto anticipo, i savonesi, pensando ad un “falso allarme”, si recarono nelle loro abitazioni. Tuttavia, poco dopo sopraggiunsero gli aerei bombardieri nemici che colpirono ampiamente il centro storico medievale ed anche, in minima parte, gli obiettivi dell’attacco: il porto e lo stabilimento siderurgico dell’Ilva. In questa terribile tragedia morirono 116 persone e successivamente, nell’imminente dopoguerra, furono quasi completamente demolite le principali piazze danneggiate, in parte, dai bombardamenti: piazza Colombo, piazza delle Erbe e piazza Caricamento.

Cosa ci resta oggi

“Una città cambia aspetto, anche se impercettibilmente, quasi ogni giorno. Esistono poi lunghi periodi di stasi ed altri di repentini mutamenti”[1].

Oggi possiamo ancora ammirare le tracce di quel passato (quasi) scomparso, ma occorre avere un occhio attento ai dettagli e tanta immaginazione per ricostruire quella parte del nostro patrimonio artistico che ora, per diversi motivi, non esiste più. La strada che oggi porta da piazza Diaz in via Famagosta ricalca l’antico percorso delle lizie e le sue tracce sono visibili ancora oggi.

Un tratto della cinta muraria delle lizie, ancora oggi visibile. Foto presa da Google Maps.

In via Mistrangelo, a pochi passi da piazza Diaz e all’interno dell’antico perimetro delle lizie, troviamo ancora oggi i resti della chiesa di San Giovanni Battista, distrutta nel 1962. Di questa struttura si sono conservate, in particolar modo, alcune tracce della navata sinistra, tra cui una bellissima porzione di affresco ritraente la Vergine con il Bambino tra due santi, databile tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento.

In via Torino è tuttora presente, addossata ad un palazzo, la navata destra della chiesa seicentesca di San Francesco da Paola, distrutta a metà del XX secolo. Gli interni erano stati affrescati da Raffaello Resio e alcune tracce si intravedono ancora oggi sul muro che chiude la navata superstite.

Confronto fotografico tra una foto antica della Chiesa di San Francesco da Paola, in via Torino, e una fotografia odierna, dopo la distruzione della chiesa avvenuta negli anni Cinquanta, in cui sono ancora ben visibili i resti della navata destra.

 

Si ringrazia il gruppo facebook “Savona Scomparsa” e Mariano Bosco e Estelle Santini per la documentazione fotografica.

 

Note

[1] Nello Cerisola, Savona tra Ottocento e Novecento, Editrice Liguria, 1986.

 

Bibliografia

Nello Cerisola, Savona tra Ottocento e Novecento, Editrice Liguria, 1986.


SAN GIOVANNI BATTISTA A VIETRI SUL MARE

A cura di Rossella Di Lascio

 

Il Duomo di Vietri sul Mare, dedicato a San Giovanni Battista, è situato nel punto più alto del centro storico della cittadina. Fondato nel X secolo come chiesa privata, fu poi ricostruito dopo essere stato distrutto dai Saraceni, e, nel corso dei secoli, è stato rimaneggiato secondo più stili, in particolare romanico, rinascimentale e barocco. 

Veduta panoramica di Vietri sul Mare e del Duomo di San Giovanni Battista.

 Gli esterni del Duomo di Vietri sul Mare

La facciata, in stile tardorinascimentale, opera del cavense Matteo Vitale, si ispira all’area toscana della scuola di Giovanni Donadio, detto “il Mormando”.

Presenta un aspetto plastico, dovuto sia al gioco di chiaroscuro creato dall’uso di pietre chiare (come il piperno della base della chiesa) e della pietra di tufo nero di Fiano (usato per i timpani, le cornici e le lesene) sia alla scansione delle superfici mediante l’impiego di lesene, sormontate da capitelli ionici nella parte inferiore e corinzi in quella superiore, di cornicioni aggettanti e dentellati che separano e delimitano le superfici e di nicchie laterali.

Nella parte inferiore si apre il grande portale centrale sormontato da timpano e inquadrato da due colonne con capitelli corinzi, mentre la parte superiore ospita una cornice centrale e quadrangolare entro cui si dispone un pannello di ceramica dalla gamma cromatica vivace, di cui spiccano soprattutto l’azzurro e il giallo intenso. Risalente al 1946, raffigura San Giovanni Battista, alle cui spalle risalta il panorama della cittadina di Vietri, di cui è patrono, e che sostituisce un rosone distrutto da una granata della Seconda Guerra Mondiale.

La facciata è completata da un timpano con al centro un bassorilievo tondeggiante che rappresenta l’Agnello, simbolo di Cristo.

Sul lato sinistro della facciata svetta l’alto campanile, di circa 36,5 m, composto da sei ordini dalle delicate tonalità cromatiche, i quattro inferiori di pianta quadrata e i due superiori di pianta esagonale, sopra i quali si imposta una piccola cupola a sesto rialzato, in maiolica, i cui colori rimandano a quelli della cupola.

La cupola.

 

Certamente l’elemento distintivo della chiesa e uno dei principali simboli di Vietri è l’imponente, luminosa e colorata cupola. Innalzata agli inizi del XVII sulla crociera del transetto, è stata poi ricoperta nel 1902 con embrici maiolicati di produzione locale, di colore verde, giallo e azzurro. Si tratta di elementi di tipica influenza araba, introdotti in Europa attraverso la conquista della Spagna, e comuni a tutta l’area del Mediterraneo. A partire dal Cinquecento, infatti, si diffonde l’uso di maioliche policrome nei rivestimenti delle cupole delle chiese, per le loro caratteristiche di brillantezza, di resistenza nel corso del tempo e di elevato valore estetico, in quanto capaci di creare un effetto di slancio verso l’alto, di leggerezza e di eleganza.

Gli interni di San Giovanni Battista

La chiesa presenta una pianta a croce latina e a una navata, un profondo transetto e cappelle laterali.

La navata, rivestita da eleganti stucchi, è scandita ritmicamente da un’alternanza di paraste e arcate a tutto sesto, entro le quali si inserisce una serie di statue sacre ed opere di pregio, ed è sormontata da una slanciata trabeazione. La parte superiore, invece, presenta una successione di finestre rettangolari inquadrate da paraste addossate alla muratura. Il pavimento, risalente agli anni ‘50 del Novecento, sostituisce il più antico pavimento ottocentesco in ceramica, ed è a quadroni di marmo bianco e nero disposti in forma romboidale.

Particolare del soffitto a cassettoni in oro zecchino.

Il soffitto a cassettoni in oro zecchino, datato al XVII secolo, è costituito da quindici cornici decorate con motivi floreali dorati su fondo azzurro che, originariamente, racchiudevano quindici quadri ad olio riguardanti i principali episodi della vita di San Giovanni Battista, purtroppo persi. Attualmente sono poste alcune copie, in attesa della realizzazione di nuove tele sulla vita del Battista.

La cantoria.

In controfacciata, è presente la cantoria con balaustra finemente lavorata, i cui colori, azzurro ed oro, e i motivi decorativi rinviano al soffitto a cassettoni.

Sull’altare maggiore, realizzato in raffinate tarsie marmoree e alle cui estremità si dispongono due candidi e teneri putti alati, si innalza il busto reliquiario di San Giovanni Battista. Alle sue spalle, la pala d’altare raffigura, in alto, la Vergine con il Bambino, immersa in una calda atmosfera dorata ed adorata dai Santi Giovanni ed Irene, avvolti da ampie vesti e panneggi, opera del pittore vietrese Pietro De Rosa del 1732. Il busto di San Giovanni, portato in processione per le vie della cittadina il 21 Giugno e il 29 Agosto di ogni anno[1], è fatto di legno ricoperto di foglie d’argento ed è datato al 1808. Di autore ignoto, è un rifacimento del primo busto della fine del Settecento, trafugato dai soldati francesi.

Nel basamento riccamente lavorato, è ricavato un piccolo oculo centrale che custodisce una reliquia del Santo.

Polittico della Madonna del latte.

Una delle opere più preziose presenti nella chiesa è sicuramente un polittico attribuito ad Andrea Sabatini da Salerno, risalente al XVI secolo e raffigurante “La Madonna del Latte”. Si tratta di una tempera su tavola costituita da una pala centrale e due pannelli laterali, sormontati da una cimasa e due lunette laterali, e completati da una predella nella parte inferiore. La pala centrale mostra la Madonna in trono che allatta il Bambino, mentre nei due pannelli laterali si dispongono San Giovanni Battista e Sant’Andrea, riconoscibili dai loro attributi icnografici, che, per il Battista, corrispondono ad una croce lunga ed esile e al tipico cartiglio con la scritta evangelica “Ecce Agnus Dei” (“Ecco l’Agnello di Dio”) che si ricollega alla figura dell’agnello che lo accompagna, simbolo del sacrificio di Cristo, mentre la croce ad X è lo strumento di martirio di Sant’Andrea.

Sopra i due Santi si collocano, rispettivamente, i busti di San Pietro e di San Paolo, anch’essi riconoscibili dalla loro tipica iconografia (le chiavi e la spada).

Nella cimasa è raffigurata una deposizione dalla croce, nelle due lunette l’arcangelo Gabriele annunciante e la Vergine. Nella predella sottostante spicca, al centro, il volto di Cristo impresso sul velo della Veronica, intorno al quale si distribuiscono gli Apostoli. Di notevole interesse sono lo sfondo dorato, la gamma cromatica dei blu e dei rossi, e le decorazioni architettoniche a rilievo, con lesene, capitelli corinzi e cornicioni aggettanti che incorniciano e separano i vari comparti.

Particolare dell’interno della cupola e pennacchi dipinti.

Nei pennacchi interni della cupola sono invece dipinti i quattro Evangelisti, rifatti nel 1873 dal pittore Gaetano D’Agostino.

San Giovanni Battista a Vietri sul Mare: stato attuale

La chiesa è stata riaperta con una solenne celebrazione il 24 settembre 2020, dopo circa un anno di chiusura dovuto ad un’importante opera di restauro. Si è innanzitutto provveduto all’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua, presenti intorno alla cupola e alle finestre, alla realizzazione di un nuovo accesso alla chiesa per i disabili e di un nuovo impianto di illuminazione che mette in risalto la struttura architettonica e le opere custodite. Inoltre, gli interni sono stati ridipinti con un nuovo colore, di un giallo intenso, recuperando quello dell’ultimo restauro del ‘700, che conferisce loro una calda luminosità. I lavori, diretti dall’architetto Domenico Pergola, sono stati finanziati per il 70% dalla Conferenza Episcopale Italiana e per la restante percentuale dalla generosità della comunità vietrese.

 

Note

[1] Il 21 Giugno è il giorno della festa patronale; il 29 Agosto si commemora la decollazione del Battista.

 

Sitografia

Pagina Fb rtc Quarta Rete Cerimonia di riapertura al culto della Chiesa di San Giovanni battista di Vietri sul Mare

Duomo di Vietri sul Mare: ecco la storia di questo piccolo gioiello in www.amalfinotizie.it

Le cupole maiolicate in ilblogdelbrigantelobonero.wordpress.com

www.chieseitaliane.chiesacattolica.it

www.comune.vietri-sul-mare.sa.it

www.italiavirtualtour.it

www.viverevietri.it


IL VITTORIALE DEGLI ITALIANI. PARTE II

A cura di Silvia Piffaretti

Questo articolo rappresenta la seconda parte dell'approfondimento sul Vittoriale degli Italiani di Gabriele D'Annunzio a Gardone Rivera.

Il Vittoriale degli Italiani: il parco

“Ho trovato qui sul Garda una vecchia villa appartenuta al defunto dottor Thode. È piena di bei libri... Il giardino è dolce, con le sue pergole e le sue terrazze in declivio. E la luce calda mi fa sospirare verso quella di Roma. Rimarrò qui qualche mese, per licenziare finalmente il Notturno”, con queste parole nel febbraio 1921 d’Annunzio comunica a Maria Hardouin della sua temporanea permanenza a Gardone Riviera, dove poi si stabilirà fino alla fine dei suoi giorni.

Fig. 1 - Il Vittoriale degli Italiani.

Il Vittoriale degli Italiani qui eretto è un complesso dal carattere monumentale ed eclettico, secondo il tipico gusto d’annunziano, che si estende per nove ettari su una collina dominante il lago che egli aveva predisposto di regalare al popolo italiano attraverso un atto di donazione. Il complesso sorge in un enorme parco all’interno del quale il visitatore si aggira, tra un estro e l’altro, per cercare di ricostruire l’inimitabile vita del vate. Oltre agli edifici e monumenti di cui ci si occuperà, il parco ospita ben tre piccole zone museali: il Museo d’Annunzio eroe che celebra l’eroismo e le imprese italiane della Prima Guerra Mondiale, il Museo d’Annunzio Segreto in cui sono esposti il vestiario e gli oggetti del vate, ed infine il Museo l’automobile è femmina che mostra il suo amore per le macchine, emblema della velocità e del progresso. Dell’automobile disse “ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice” e inoltre ha una virtù sconosciuta alle donne, la perfetta obbedienza.

Il visitatore viene accolto nel complesso per mezzo di un ingresso monumentale, disegnato dall’architetto Maroni, costituito da una porta con una coppia di arcate ospitante una fontana che riporta in lettere bronzee una citazione del “Libro segreto” di d'Annunzio: “Dentro da questa triplice cerchia di mura, ove tradotto è già in pietre vive quel libro religioso ch'io mi pensai preposto ai riti della patria e dei vincitori latini chiamato Il Vittoriale”, sopra la scritta tra due cornucopie vi è un elmo che protegge lo stemma del Principe di Montenevoso, titolo dato al vate per l’annessione di Fiume, e il noto motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”, sorta di monito per il visitatore.

Fig. 6 - Ingresso del Vittoriale. 

Una volta entrato la prima cosa che il visitatore incontra è il Parlaggio, ovvero l’incompiuto anfiteatro all’aperto, terminato da poco, che era ispirato al modello classico del Teatro Grande di Pompei e godeva di una suggestiva vista del lago con il monte Baldo, la rocca di Manerba, l’isola del Garda e la penisola di Sirmione. Né d’Annunzio né l’architetto Maroni videro l’opera ultimata; per il poeta essa doveva essere realizzata con lastre veronesi di marmo rosso, che dovevano ricoprire il cemento armato impiegato per la platea e le gradinate. In tempi recenti nella cornice dell’anfiteatro è stato collocato il suggestivo “Cavallo Blu” di Mimmo Paladino.

Il percorso di visita prosegue raggiungendo la piazzetta Dalmata dove sono collocate la Prioria, ovvero l’abitazione di d'Annunzio, lo Schifamondo e il tempietto della Vittoria di cui ci si occuperà nel prossimo articolo di questa serie. Ma d’Annunzio qui non fu l’unico ad avere una propria zona abitativa: infatti egli, in ogni residenza in cui visse, aveva fatto creare un canile attrezzato per i suoi levrieri che “sono liberi, forti, indipendenti, pugnaci, audaci, volubili; hanno la grazia dei serpenti e la terribilità dei felini”. A loro nel Vittoriale dedicò perfino un componimento scritto su una lapide, datato 1935, che si può ammirare nel cimitero dei cani nel giardino della Prioria.

Dal canile il visitatore può continuare il suo percorso accingendosi a raggiungere a piedi la Nave Puglia, nascosta tra la folta vegetazione. Quest’ultima è probabilmente l’elemento più insolito e spettacolare dell’intero complesso, dimostrante l’estro e l’amore per la monumentalità del vate. Il dono, ricevuto dalla Marina Militare, arrivò al Vittoriale trasportato su ben venti vagoni ferroviari per poi essere alacremente rimontato sulla collina. Quando arrivò il poeta fu serrato “fra i gloriosi ricordi e le fertili malinconie”, infatti quella era la nave su cui Tommaso Gulli trovò la morte nelle acque di Spalato. La sua prua era rivolta verso l’Adriatico e la Dalmazia ed era adornata da una Vittoria dello scultore Renato Brozzi posta sopra un fascio di frecce dove era riportato il motto “Così ferisco. Nella parte sottostante dell’imbarcazione vi è il Museo di Bordo dove sono conservati alcuni modelli d’epoca di navi da guerra.

Dalla nave dipartono poi due rigagnoli d’acqua cristallina, l’acqua Pazza e l’acqua Savia, che conducono al laghetto delle danze: questo prende la forma di un violino, in memoria del suo inventore Gasparo di Salò. La zona fu creata dallo stesso d’Annunzio, devoto della musica, che aveva fatto erigere una piattaforma circolare per ospitare i concerti del Quartetto del Vittoriale (di cui faceva parte la pianista Luisa Baccara), o gli incontri con gli ospiti, oppure gli spettacoli di danzatrici che fondevano i loro leggiadri movimenti al guizzo delle dolci acque.

Fig. 13 - Laghetto delle danze.

Ritornando indietro alla Nave Puglia, il visitatore può salire a piedi sino alla parte più alta del Vittoriale dove è collocato il solenne mausoleo, realizzato dall’architetto Maroni, in cui ha trovato posto la salma di d’Annunzio. Il monumento, costruito sul modello dei tumuli funerari di tradizione etrusco-romana, con tre gironi in pietra che rappresentano le vittorie degli umili, degli artieri e degli eroi, fu eretto sul Mastio per volere dello stesso poeta. La salma di quest’ultimo fu deposta al centro, mentre intorno a lui furono depositate le arche, in marmo Botticino, donate dalla città di Vicenza conservanti le spoglie di dieci eroi e legionari fiumani amici del poeta, tra i quali compare anche l’architetto Gian Carlo Maroni. Alla zona sono stati aggiunte, in epoca recente, delle sculture in cemento e ferro di cani realizzati dall’artista bellanese Velasco Vitali.

Quando d’Annunzio si ritirò a Gardone Riviera per la prima volta, lontano dai disturbatori, era un uomo “avido di silenzio dopo tanto rumore, e di pace dopo tanta guerra”, che qui trovò una fissa dimora rimanendo incantato dal pudico lago dall’indicibile e improvvisa bellezza, avvolto in velo argentino. Egli nell’atto di donazione definì il Vittoriale il suo “testamento d’anima e di pietra, immune per sempre da ogni manomissione e da ogni intrusione volgare”.

 

Bibliografia

La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele d’Annunzio, Giordano Bruno Guerri, Mondadori, Milano, 2013.

 

Sitografia

www.vittoriale.it


IL CASTELLO DEL CATAJO PARTE I

A cura di Mattia Tridello

 

La storia del Castello del Catajo, la reggia dei Colli Euganei

Incastonato tra i verdeggianti Colli Euganei, in uno dei paesaggi più suggestivi del Veneto, sorge il Castello del Catajo, la costruzione quattrocentesca che, attraverso i secoli, mutò fino a trasformarsi nella splendida reggia monumentale che, ancora oggi, costituisce un luogo sospeso tra storia e natura, arte e bellezza.

La genesi del castello iniziò grazie a una famiglia di origini francesi, gli Obizzi. Quest’ultima arrivò nei territori italiani attorno al 1007 all’interno del gruppo di coloro che seguirono l’imperatore Arrigo II. Giunto nei colli Euganei attratto dalla bellezza del paesaggio naturale, Pio Enea degli Obizzi (Fig. 1) (colui che diede il nome al cannone d’assedio, “obice”), ampliando la preesistente dimora materna cinquecentesca, la piccola “casa di Beatrice”, volle trasformare il possedimento in una reggia adeguata alla fama raggiunta dalla famiglia nel corso del tempo.

Così facendo egli, insieme alla consulenza dell’architetto Andrea Da Valle, tra il 1570 e il 1573, diede avvio alla costruzione di gran parte dell’ala vecchia che ancora oggi costituisce il nucleo più vasto e antico del palazzo. Quest’ultimo subì numerosi interventi nel corso dei secoli: nel Seicento, ad esempio, venne ingrandito da parte di Pio Enea II Obizzi, il marito della tristemente nota Lucrezia Obizzi, tramite la costruzione del Cortile dei Giganti e di un teatro coperto a sedici palchi.

A cavallo tra il XVIII e XIX secolo, con Tommaso Obizzi, venne realizzata una galleria per ospitare le collezioni di famiglia e fungere da uno dei primi prototipi di museo pubblico. La storia della proprietà del castello rimase immutata fino al 1803 quando, il marchese Tommaso destinò il complesso agli Arciduchi di Modena, eredi della Casa d’Austria-Este. Con il passaggio di proprietà a Francesco IV e Maria Beatrice di Savoia, la dimora visse un periodo fiorente e costellato da numerosi interventi, primo fra tutti la costruzione di una nuova ala a Nord chiamata “castel nuovo” per ospitarvi, durante le visite ufficiali o di villeggiatura, i parenti della casa imperiale austriaca. Nel 1838, per 4 giorni, le sale della tenuta accolsero Ferdinando I e la moglie Maria Anna di Savoia, gli imperatori austriaci con tutto il loro seguito, compreso il compositore Franz Liszt che si esibì durante le feste nella cornice della reggia.

Ai due coniugi modenesi succedette il figlio, Francesco V (Fig. 2). Dopo la morte di quest’ultimo, tuttavia, non avendo avuto figli dal matrimonio con Adelgonda di Baviera (cugina di Elisabetta di Baviera, la famosa “Sissi”) e essendo avvenuta l’annessione del ducato modenese al Regno di Sardegna, l’eredità della tenuta passò di conseguenza all’erede al trono dell’Impero Austro Ungarico, Francesco Ferdinando d’Asburgo (Fig. 3). Furono proprio gli ultimi due proprietari a volere il trasferimento delle ricche raccolte artistiche, musicali e belliche custodite nella reggia, dalla località padovana ai possedimenti austriaci. Il Catajo deteneva una delle più vaste armerie d’Europa e possedeva innumerevoli reperti archeologici, basti citare una piccola parte del fregio del Partenone di Atene. I beni trasferiti vennero inviati essenzialmente in due località: al castello di Konopiste a Praga, al palazzo imperiale austriaco dell’Hofburg e all’attuale Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Tra in numerosi personaggi che soggiornarono nella tenuta, di certo, non si può non citare l’erede al trono austriaco, Francesco Ferdinando. Egli, infatti, amava recarsi nel castello per le battute di caccia che venivano organizzate data la disponibilità di un paesaggio collinare e boschivo unico in tutta la pianura padana. L’ultimo suo soggiorno risale al 1914. Dopo vari giorni dedicati alla caccia ai daini, egli partì alla volta di Vienna per intraprendere il viaggio ufficiale a Sarajevo. Tuttavia, dopo il suo assassinio e quello della moglie, avvenuto il 28 Giugno 1914 (una delle cause che scatenarono la Prima guerra mondiale), la reggia passò all’ultimo imperatore asburgico Beato Carlo I e alla moglie Zita di Borbone-Parma.

Terminato il conflitto il castello passò di proprietà al governo italiano, come atto di riparazione ai danni di guerra. Quest’ultimo, a seguito della crisi del 1929, messo in vendita all’asta, venne acquistato dalla famiglia Della Francesca che lo rivendette nel 2015 all’attuale proprietario.

 

I giardini 

I giardini della tenuta, riportati al loro antico splendore grazie a recenti restauri, si organizzano in diverse aree, basti citare le peschiere (Fig. 4), le fontane gemelle che costituiscono l’ingresso al castello, il giardino “delle delizie” nel quale è conservata una vasta collezione di rose antiche dal XVI al XX secolo e infine numerosi alberi secolari quali le magnolie e le sequoie, di cui alcune varietà furono addirittura le prime importate dall’America.

Fig. 4 – Peschiera del giardino del castello.

 

Bibliografia

Corradini, “Gli Estensi e il Catajo”, Modena-Milano, 2007.

L. Fantelli e P.A. Maccarini, “Il castello del Catajo”, Battaglia Terme, 1994.

Antonio Mazzarosa, “Storia di Lucca”, vol. 1, Giusti, Lucca, 1833.

 

Sitografia

Sito internet ufficiale del Castello del Catajo;

Sito internet “BATTAGLIATERMESTORIA.it”

Dizionario bibliografico degli italiani;

 

Immagini

Tutte le immagini dell’articolo sono state tratte da:

Immagini di dominio pubblico tratte da Google immagini, Google maps, dalla sezione immagini del sito ufficiale del Castello del Catajo ©, da Wikipedia e dal sito internet “BATTAGLIATERMESTORIA.it”.