IL CASTELLO ESTENSE DI FERRARA PARTE I

A cura di Mirco Guarnieri

Introduzione

In questo articolo si parlerà dell'edificio simbolo di Ferrara e del potere degli Este: il Castello di San Michele, meglio noto come Castello Estense di Ferrara, fatto costruire durante il governo di Niccolò II d’Este, marchese di Ferrara dal 1361 al 1388.

Il Castello Estense di Ferrara: storia

Nel 1385 a Ferrara vi fu una grande sommossa popolare a causa dell’innalzamento delle tasse da parte di Niccolò II d’Este, che portò alla morte di Tommaso da Tortona, consigliere di quest’ultimo e responsabile dell’esazione delle tasse.

Per timore di perdere il controllo della città, il marchese affidò all’architetto Bartolino da Novara il progetto di una fortezza che permettesse la difesa di Ferrara e degli Este dalle rivolte interne e dagli attacchi dei nemici provenienti dall’esterno.

Da Torre-Rocca a Castello Militare

La zona di costruzione del castello si trovava tra il Palazzo Ducale e le mura settentrionali della città, dove erano situati la già esistente Torre (poi divenuta Rocca) dei Leoni, l’omonima porta d’accesso alla città e il piccolo borgo di San Giuliano, che venne raso al suolo dopo che il marchese ebbe acquistato il terreno per la realizzazione della struttura.

Torre dei Leoni e rivellino Nord. Credits: Elisa Catozzi (www.elisacatozzi.com).

I lavori di costruzione iniziarono il 29 settembre 1385, giorno di San Michele, con l’innalzamento di altre tre torri di egual grandezza e altezza (tre piani ciascuna), posizionate a quadrilatero e collegate tra loro attraverso corpi di fabbrica alti due piani: la Torre di Santa Caterina a nord-ovest, la Torre di San Paolo a sud-ovest e la Torre Marchesana a sud-est.

Di fianco ad esse vennero realizzati degli avancorpi di altezza uguale a quella dei corpi di fabbrica, e dei rivellini collegati tra loro con ponti levatoi posti a protezione delle quattro entrate che conducono al cortile interno, mentre a proteggere gli spalti posti agli ultimi piani di torri e corpi fabbricati vennero create delle merlature sporgenti sostenute da beccatelli.

Sotto la Torre dei Leoni erano presenti le carceri, riservate a prigionieri di alto rango sociale (i comuni cittadini venivano imprigionati nelle galere del Palazzo della Ragione). Al loro interno vennero rinchiusi personaggi come gli amanti Ugo Aldobrandino e Parisina Malatesta, figlio e seconda moglie di Niccolò III d’Este fatti poi decapitare nella Torre Marchesana, e Ferrante d’Este assieme a don Giulio per aver congiurato nel 1506 all’assassinio contro i fratelli Alfonso I e Ippolito I d’Este.

Gaetano Previati, Decapitazione di Ugo e Parisina, 1913 ca, Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno.

Tutta la struttura poggia sui sotterranei, realizzati con volte a botte, in funzione di magazzino e approdo delle imbarcazioni, essendo questi in collegamento con il fossato che circondava il castello e il canale oltre le mura settentrionali (attuale Corso Giovecca - Viale Cavour).

Oltre ai magazzini nei sotterranei, vi erano armerie, officine, scuderie e magazzini situati al piano terra e nel cortile, mentre al primo piano erano collocati gli alloggi delle truppe estensi.

Venne anche realizzato un passaggio rialzato, noto come Via Coperta, tra il Palazzo Ducale e il castello, per permettere agli Este di raggiungere quest’ultimo edificio in casi di pericolo.

Per comprendere al meglio com’era l’aspetto del Castello Estense di Ferrara bisogna prendere ad esempio il castello di San Giorgio a Mantova, realizzato dallo stesso Bartolino da Novara nel 1395.

Antonio Frizzi, città antica di Ferrara (acquaforte), da Memorie per la storia di Ferrara, 1787.

Da Castello militare a Residenza degli Este

Il 1° settembre 1476 Niccolò d’Este, nipote di Ercole I d’Este, duca di Ferrara, provò ad occupare il Palazzo Ducale per impadronirsi della città. Eleonora d’Aragona, moglie del duca di Ferrara, riuscì a rifugiarsi con i figli Alfonso, Isabella e Beatrice all’interno del castello di San Michele attraverso il passaggio rialzato, rendendo ogni tentativo di Niccolò vano.

Dopo questo episodio, la residenza degli Este si spostò dal Palazzo Ducale al Castello di San Michele.

L’arrivo di Biagio Rossetti nel 1483 presso la corte estense portò una ventata di innovazione e sviluppo urbanistico in tutta la città. Con l’espansione urbana rivolta a nord (Addizione Erculea), il Castello Estense di Ferrara divenne il centro della città, subendo modifiche esterne ed interne: venne raddoppiato il corpo di fabbrica tra la Torre dei leoni e quella Marchesana, le sale della fortezza divennero appartamenti per la gli Este e la loro corte, in particolare si lavorò alla decorazione dell’appartamento di Eleonora d’Aragona. Sempre per la duchessa vennero iniziati i lavori del Giardino e Loggia degli Aranci, completati sotto il governo del figlio Alfonso I. Nel cortile interno venne realizzato un loggiato, trasferendo scuderie, officine e armerie all’esterno dell’edificio, mentre iniziarono i lavori di ampliamento della Via Coperta, che portarono alla realizzazione degli appartamenti del duca, dove si trovano i più famosi Camerini d’Alabastro.

Con la morte del padre nel 1505, Alfonso I d’Este, divenne signore di Ferrara. Sotto il suo governo vennero rimodernati gli appartamenti della madre e delle sue due mogli, Anna Sforza e Lucrezia Borgia, oltre al riallestimento di altre sale per la realizzazione di un’armeria, un’oreficeria e una spezieria; si completò infine l’ampliamento dei Camerini d’Alabastro, facendoli diventare un importante scrigno ricolmo di opere inestimabili realizzate dai più grandi pittori del tempo come Battista e Dosso Dossi, Tiziano, Giovanni Bellini e tanti altri.

Ercole II, figlio di Alfonso I si occupò della decorazione delle sale del Castello Estense, facendo realizzare affreschi di assoluta bellezza da pittori del calibro di Girolamo da Carpi, Benvenuto Tisi detto “il Garofalo”, Battista Dossi e Camillo Lippi. In particolare dopo l’incendio del 1554 assieme al suo architetto di corte intervennero sulla ristrutturazione dei solai e sull’aspetto esteriore, rendendo il castello molto simile a quello che si può ammirare ora.

Castello Estense. Primo piano: Torre dei Leoni. Secondo piano: Torre Marchesana (sx) e Torre Santa Caterina (dx). Credits: Elisa Catozzi (www.elisacatozzi.com).

Durante l’ultimo governo estense, esercitato da Alfonso II, assieme all'architetto di corte si dovette lavorare alla riparazione dei danni dovuti al terremoto che colpì la città nel 1570. Vi furono rinnovamenti presso i Camerini d’Alabastro e la Sala del Governo, realizzata in precedenza dal padre, oltre alle decorazioni per la stanza dello Specchio, nonché appartamento del duca e la Cappella Ducale tra il 1590-91 .

Il Castello Estense di Ferrara dalla Devoluzione ai giorni nostri

La morte di Alfonso II nel 1597 e la mancanza di eredi diretti portarono papa Clemente VIII ad inglobare il Ducato di Ferrara allo Stato Pontificio, cacciando gli Este dalla città.

Da quel momento il Castello Estense assunse il ruolo di sede dei Cardinali legati. Non vennero apportate molte modifiche dal punto di vista architettonico, se non un balcone ligneo di piccole dimensioni, realizzato nel 1773, che permetteva la vista della Porta degli Angeli alla fine dell’attuale corso Ercole I d’Este, la Porta ad est alla fine di Corso Giovecca e la Porta Ovest alla fine del canale Panfilio (ora Viale Cavour).

Con l’arrivo dei francesi, alla fine del XVIII secolo, alcune aree del Castello Estense di Ferrara assunsero la funzione di residenze private, mentre con gli austriaci la dimora tornò ad avere il ruolo che aveva avuto sotto lo Stato Pontificio.

Con l’annessione di Ferrara al Regno d’Italia il Castello Estense venne utilizzato come sedi di uffici di enti locali e statali, per poi ricevere interventi di restauro e assumere una funzione museale dagli anni '80 del Novecento per mano della Provincia di Ferrara.

Dal 1995 il Castello Estense di Ferrara e la città fanno parte della lista UNESCO dei siti patrimonio mondiale dell’umanità.

 

Bibliografia

Marco Borella, Il Castello di Ferrara, 1987, Patrocinio Amministrazione Provinciale di Ferrara.

 

Sitografia

https://www.castelloestense.it/it/il-castello/la-storia

https://www.informagiovani-italia.com/castello_estense_ferrara.htm

 

Per le foto del Castello Estense e del cortile interno si ringrazia Elisa Catozzi


LA COSTRUZIONE DEI GENERI NELLE SOCIETA'

A cura di Veronica Pacini

La prospettiva antropologica sulle forme di conservazione e trasformazione nella riproduzione dell'ordine sociale

In Maschio e Femmina l'antropologa Margaret Mead si chiede:

Cosa debbono pensare gli uomini e le donne della loro mascolinità e della loro femminilità in questo ventesimo secolo nel quale tante delle nostre vecchie idee hanno bisogno di essere rinnovate? Abbiamo forse addomesticato troppo gli uomini e negato il loro naturale spirito d'avventura, vincolandoli a macchine le quali dopo tutto non sono che fusi e telai, mortai e pestelli, un tempo esclusiva preoccupazione delle donne, oggi perfezionati a ingigantiti? Abbiamo forse sviato le donne dalla vicinanza ai loro figli, insegnando loro a cercare un'occupazione invece che la carezza di un bimbo, una carriera sociale in un mondo che lotta per strada piuttosto che un posto sempre uguale presso un focolare acceso? [1]

Mead pone queste questioni negli Stati Uniti della prima metà del Novecento, quando la vita delle donne era notevolmente cambiata rispetto a cento anni prima e andavano pertanto riconfigurandosi i ruoli e i significati del maschile e del femminile nella società. Per rispondere a queste domande Mead conduce un'ampia ricerca etnografica presso sette diverse comunità indigene del Pacifico, compie cioè un movimento laterale: per vedere meglio, per capire qualcosa della sua cultura di appartenenza, sposta il campo di ricerca su altre culture. È questo che fa l'antropologia attraverso il lavoro etnografico: decentrare, sdoppiare, moltiplicare lo sguardo, perché non resti intrappolato in una sola prospettiva e non confonda una porzione di realtà con la realtà intera, una realtà possibile con una realtà necessaria.

Mead scopre che ogni civiltà studiata ha un suo modo di concepire il maschile e il femminile, e cioè che a partire da un dato biologico – la differenza tra i sessi – le caratteristiche attribuite all'uno o all'altro sono diverse nei diversi gruppi umani. Ogni cultura - intesa nel suo senso antropologico di sistema di significazione della realtà - prodotta da un gruppo umano è arbitraria, cioè frutto di scelte più o meno consapevoli che non hanno niente a che fare col dato biologico. Una caratteristica che in una società è attribuita alle femmine in un'altra può essere attribuita ai maschi, ad esempio la forza della testa, o la capacità di mantenere un segreto. Scrive Mead:

Nessuna civiltà ha pensato che tutte le caratteristiche conosciute: stupidità e intelligenza, bellezza e bruttezza, amicizia e ostilità, iniziativa e prontezza, coraggio, pazienza e attività, siano semplicemente qualità umane. Sebbene queste qualità siano state attribuite a un sesso o all'altro e qualcuna a entrambi, e per quanto arbitrarie esse ci possano sembrare (perché certamente non può essere vero che il capo della donna sia sempre più debole o più forte – per portare pesi – di quello dell'uomo), la divisione, per discutibile che ci possa apparire, è sempre esistita in ogni società.[2]

Nessuna società sfugge alla categorizzazione della realtà. È il modo che l'essere umano ha a disposizione per poter interagire con tutto quanto è altro da sé. A partire da dicotomie fondamentali – maschile e femminile, caldo e freddo, crudo e cotto, umido e secco, puro e impuro, sporco e pulito ecc. – la realtà viene frammentata, dotata di un valore, organizzata secondo gerarchie.

L’incompletezza biologica e le sovrascritture socio-culturali

I dati biologici sono investiti di significati culturali e questo avviene perché l'uomo è un animale biologicamente incompleto e per completarsi ha bisogno della società:

Noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari: dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale.[3]

A differenza di altri animali non umani, l'essere umano al momento della nascita ha davanti a sé un lungo apprendistato prima di poter raggiungere uno stadio psico-fisico che gli permetta di provvedere alla propria sopravvivenza in autonomia. Da un punto di vista evolutivo il lento passaggio dalla quadrupedia alla postura eretta avrebbe influito su questo: il restringimento del canale del parto avrebbe portato a sopravvivere i bambini meno sviluppati e le loro madri[4]. Il cervello di un neonato è pressoché formato dallo stesso numero di neuroni di un cervello adulto, ma pesa quattro volte meno. Ciò che cresce è il numero di connessioni tra neuroni: alla nascita un neurone ha circa 2500 sinapsi; a tre anni 15000 (poi seguiranno delle fasi di potature neuronali)[5]. In questo periodo tutto ciò che apprendiamo, tutte le esperienze che viviamo, si trasformano in connessioni, in memoria implicita, non episodica-semantica, ma sistemica. Le neuroscienze sembrano andare incontro a quanto osservato nel campo della ricerca antropologica: nel rapporto tra biologia (o natura) umana e cultura, ciò che vi è di mezzo è il cervello[6]. La costruzione della rete neuronale non si verifica in condizioni neutre, cioè il cervello non si sviluppa prima di entrare in relazione con la realtà ma mentre interagisce con essa, in un continuo e imprescindibile scambio interno-esterno. In questo senso la cultura interviene nella costruzione dell'individuo tanto quanto la natura, attraverso un'esposizione costante agli atteggiamenti culturali della società di appartenenza e attraverso specifici cambiamenti di stato, segnalati da riti di passaggio, che ne andranno a definire la versione completa in età adulta, riti che sono spesso diversi a seconda del sesso biologico. Ogni gruppo umano, cioè, stabilisce processi caratteristici di andro-poiesi e gineco-poiesi. Possiamo dire quindi che:

La costruzione della personalità secondo il genere è dunque il risultato di un impegno attivo delle culture, inteso a integrare, completare e interpretare differenze biologiche che non sono in grado di produrre di per sé alcun modello comportamentale. Ciascuna società persegue dunque specifici modelli di donne e di uomini le cui caratteristiche di femminilità e mascolinità sono il risultato di complesse e pervasive costruzioni culturali, che trapelano dall'analisi delle pratiche sociali e delle categorie semantiche con cui la società e l'universo vengono descritti e ordinati.[7]

Il corpo come centro dei processi di significazione e normazione nelle società

In questo processo il corpo è centrale e viene costantemente investito di significati culturali. Studiando i significati dei corpi nei sistemi religiosi, l'antropologa Adriana Destro afferma:

nel corpo si iscrivono, in modo conciso ma influente, molte leggi (una sigla identitaria, una alleanza indelebile con la divinità). Esiste dunque una scrittura normativa depositata sul corpo. Le culture, in altri termini, trattano il corpo come un luogo in cui si può depositare buona parte del proprio sapere, delle proprie convinzioni o aspirazioni.[8] 

L'appartenenza sociale, sia nelle sue espressioni religiose che laiche, stabilisce le norme legate al corpo, cosa cioè ciascun individuo può o non può fare del proprio corpo, ciò che è permesso e ciò che è proibito. In particolare la regolazione della corporalità della donna è parte di una visione della costruzione societaria[9] e questo avviene perché l'intera vita delle donne – a differenza di quella degli uomini – è infatti segnata da tappe biologiche (il menarca e poi il ripetersi regolare dei cicli mestruali e infine la menopausa) che ricordano e consolidano la consapevolezza delle potenzialità riproduttive insite nel loro corpo. In assenza di analoghe funzioni biologiche, i maschi vengono spesso sottoposti a prove intese ad accrescere culturalmente e socialmente una virilità che ha bisogno di essere costantemente ribadita e confermata.[10]

I tratti biologici che contraddistinguono il sesso femminile sono un potere che il maschile deve arginare:

Proprio per questo, Mead legge gran parte delle istruzioni e delle pratiche sociali che, nei diversi contesti, costruiscono la mascolinità e le sue prerogative come un tentativo di controbilanciare il potere riproduttivo delle donne. In questa prospettiva si comprende come la sessualità delle donne possa essere vissuta come un pericolo per le società, le quali mettono in atto complesse strategie che mirano al controllo del potere riproduttivo e dei suoi prodotti.[11]

Le società hanno inventato diversi modi per controllare la sessualità della donna, addomesticarla e socializzarla. Adriana Destro, nel solco degli studi di Francoise Héritier, individua un problema ulteriore legato alla riproduzione:

La donna, per di più, non dà vita solo a ciò che è uguale a lei, cioè non riproduce solo il proprio sesso (figlie femmine), ma esattamente e in egual modo anche l'altro sesso (figli maschi). Al centro di molti problemi di genere e di appartenenze sessuali non c'è la emulazione dell'uomo da parte della donna (o la famigerata invidia del pene), ma il dato inconfutabile che le donne danno corpo all'identico e al diverso. Cosicché sul piano culturale generale, una disparità notevole sarebbe alla base di molte strategie di dominio maschile.[12]

La riproduzione dell’ordine sociale

Il dominio di un genere sull'altro è un dato culturale che viene riprodotto da tutti i membri di un gruppo sociale, indipendentemente dal posto occupato nella gerarchia e questo perché le strutture cognitive che permettono agli individui di pensare la realtà sono determinate dalla società stessa in cui si trovano ad agire. In termini generali è ciò che il sociologo Pierre Bourdieu definisce come habitus, ovvero sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto princìpi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni.[13]

Cioè: le strutture attraverso le quali pensiamo la realtà sono desunte dall'interpretazione della realtà che un certo gruppo sociale ha prodotto (ricordate quanto detto prima a proposito dello sviluppo delle connessioni neuronali?) e quindi sono esse stesse prodotti socialmente determinati. In questo senso Bourdieu definisce senso pratico il sapere pragmatico e preriflessivo che ogni individuo interpella ogni volta che agisce nel suo campo, quindi una seconda natura di tipo socio-culturale che si sovrappone alla natura biologica. Far parte di un gruppo umano significa allora aderire in modo inconsapevole a una doxa, cioè all'insieme delle evidenze che permettono a ogni membro di un gruppo sociale di avere esperienze coerenti con gli altri membri del gruppo. Se la doxa di un gruppo umano prevede la dominazione di un genere sull'altro, i membri del gruppo tenderanno a riprodurla attraverso il senso pratico appreso con l'habitus.

Ricapitolando: un dato naturale e universale, la differenza di sesso, viene sovrascritto dal dato culturale e particolare, il genere; il significato e il valore di ogni genere e il loro rapporto (spesso gerarchico) strutturano la società (spesso gerarchica); la capacità legata al sesso femminile di mettere al mondo viene spesso compensata da una certa costruzione della mascolinità; ogni membro della società, sia esso di genere maschile o femminile, tende ad assimilare queste costruzioni sociali come naturali e a riprodurle.

Ma se ogni individuo è plasmato dalla società in cui nasce, nel bene e nel male, e diventa lui stesso riproduttore del sistema che lo ha prodotto, si può davvero cambiare la società? Certo che sì: la riproduzione sociale è un fenomeno umano, e in quanto tale risente delle scelte che gli esseri umani fanno. Nell'articolo precedente abbiamo accennato ai movimenti femministi, in questo abbiamo osservato come gli sguardi decentrati dell'antropologia e della sociologia possono permetterci di smascherare i processi sociali conservativi e posizionarci in una postura riflessiva che generi una trasformazione contemporaneamente individuale e sociale. Gli esseri umani, lo abbiamo visto, completano il patrimonio biologico con quello socio-culturale; e se è vero che non abbiamo potuto scegliere i nostri geni né la società in cui siamo nati, è altrettanto vero che possiamo sempre decidere che tipo di persone vogliamo diventare, che tipi di società vogliamo costruire.

 

Note

[1]   Margaret Mead, Maschio e Femmina, Il Saggiatore, 1962, p. 13

[2]   Ibidem p. 17

[3]   Clifford Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 64

[4]   Il riferimento è alle teorie riportate in Dean Falk, Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio, Bollati-Boringhieri, 2015

[5]   Alison Gopnik, Andrew N. Meltzoff, Patricia K. Kuhl, Tuo figlio è un genio. Le straordinarie scoperte sulla mente infantile. Dalai Editore, 2008

[6]   Francesco Remotti, Contro l'identità, Laterza, 1996, p. 12

[7]   Silvia Forni, Cecilia Pennancini, Chiara Pussetti, Antropologia Genere Riproduzione. La costruzione culturale della femminilità, Carocci, 2006, p. 13

[8]   Adriana Destro, Antropologia e religioni. Sistemi e strategie, Morcelliana 2005, p. 152

[9]   Ibidem, p. 153

[10]  Antropologia Genere Riproduzione, op. cit., p. 15

[11]  Ibidem

[12]  Antropologia e religioni, op. cit., p. 154

[13]  Pierre Bourdieu, Il senso pratico, Armando editore, p. 84

 

VERONICA PACINI

Sono nata nel 1987, nelle Marche. Sono laureata in Antropologia - Scienze delle religioni presso l'università di Bologna e in Ethnologie et anthropologie sociale presso l'EHESS di Parigi. Mi interesso di letteratura, antropologia, femminismo e infanzia.


LA CERTOSA DI PADULA PARTE III: LA CHIESA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Nei precedenti articoli sulla certosa di Padula si sono tratteggiati la corte esterna, ossia il primo luogo che si offre allo sguardo del visitatore, e il Chiostro della Foresteria, uno dei primi ambienti da cui parte il percorso all’interno del monumento, ovvero un insieme di chiostro e soprastante loggiato con funzioni di accoglienza di ospiti illustri e rappresentanza del potere certosino. Nel corso del presente articolo si parlerà invece del fulcro spirituale del complesso cenobitico: la chiesa.

La porta della chiesa

Come detto in precedenza, la porta della chiesa affaccia sul Chiostro della Foresteria, ed è una delle pochissime parti originali trecentesche giunte fino a noi. Si tratta di un ampio portone a due battenti realizzato in cedro del Libano, legno molto utilizzato per il suo significato biblico di maestà e bellezza, datato 1374 e decorato da un complesso sistema di formelle, con cornici a rilievo, che corrono lungo tutta la superficie; le scene al loro interno spesso presentano motivi fitoformi, che continuano in maniera ininterrotta da una formella all’altra. All’interno delle cornici sono presenti delle lettere gotiche, che su di un battente compongono la scritta Ave Maria Gratia Plena, mentre sull’altro Cartusiensis Ordinis. Alle lettere sono abbinate le rappresentazioni di episodi mariani ed episodi della vita e del martirio di San Lorenzo. La porta secondo alcuni è opera di Antonio Baboccio da Piperno, abate scultore e orafo attivo nel Meridione in quel periodo, anche se la prima opera certamente attribuibile a lui è datata 1407 ed è il portale maggiore della cattedrale di Napoli. La porta è inserita in un portale marmoreo che reca gli stemmi della famiglia Sanseverino, databile tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500, e che ai lati presenta una decorazione a candelabri mentre alla sommità una scritta recita “GLORIA IN EXCELSIS DEO ET IN TERRA PAX HMNB”. Tale portale si inserisce nel clima generale di rinnovamento artistico che investe Napoli e che, grazie ai rapporti di potere dei certosini con il mondo esterno, arriva fino a Padula: la realizzazione del portale infatti sembrerebbe opera della bottega di Tommaso Malvito, scultore comasco allievo del Laurana attivo dal 1484 a Napoli e autore di varie opere nella capitale partenopea, oltre che direttore dei lavori della cappella Carafa del duomo napoletano, la più importante di tutte in quanto destinata ad accogliere le reliquie di San Gennaro. La decorazione a candelabre presente nella cappella sembra infatti stilisticamente affine a quella del portale certosino.

La chiesa

Una forte scenografia barocca su un impianto gotico è la prima cosa che si nota entrando in chiesa, insieme alla presenza di un muro esattamente di fronte all’ingresso, con al centro una porta-grata, che divide in due l’aula e separa il primo ambiente da un altro situato al di là di essa.

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La costruzione della chiesa della Certosa prende avvio dopo il 1321, anno in cui il nipote del fondatore della Certosa, Tommaso III, scrive al priore della Certosa, donandogli 12 once d’oro per la realizzazione della nuova chiesa in memoria del padre e del nonno. Sempre Tommaso III sarà colui che fonderà la chiesa di San Francesco a Padula nel 1380. Sono anni in cui si assiste, nel Vallo di Diano e nella vicina Napoli, ad una fiorente attività culturale testimoniata dalla circolazione di artisti tra province richiamati da committenze prestigiose; Tommaso Malvito citato in precedenza ne è un esempio, ma in questi anni il “nome di grido” è quello di Tino da Camaino, uno dei massimo scultori senesi, allievo di Giovanni Pisano e ideatore del progetto della Certosa di S. Martino e Castel Sant’Elmo, la cui attività è documentata a Napoli a partire dal 1323. Nel 1336 è autore, su commissione diretta dei Sanseverino, della tomba di Enrico Sanseverino (figlio del fondatore della Certosa Tommaso) a Teggiano, poco distante da Padula: è lecito quindi supporre una sua presenza anche nel vicino cantiere della Certosa, altro feudo dei Sanseverino, dove proprio in quegli anni si stava costruendo o terminando la chiesa. Cosa certa è che grazie a questa committenza illustre anche nel Vallo di Diano arriva il gotico, così fortemente voluto da Roberto D’Angiò, che prenderà appunto il nome di gotico angioino.

L’impianto della chiesa della Certosa di San Lorenzo è ad aula unica rettangolare con volte a crociera (un’altra delle rare testimonianze originali della struttura trecentesca giunte fino a noi) costolonate che si appoggiano su robusti pilastri laterali, mentre sul lato destro si aprono quattro cappelle a infilata. Il muro centrale succitato, coronato da una statua di San Lorenzo in gloria, divide l’ambiente in due zone: la prima, entrando, più piccola, che era riservata ai conversi, ossia coloro che si incamminavano sul sentiero della clausura, mentre la seconda, molto più grande, era riservata ai Padri, ossia i monaci a tutti gli effetti.

L’ultima parte è quella contenente l’altare, quindi si può dire che tutto l’ambiente sia suddiviso in tre aree quadrate.

Sulla struttura gotica si innesta un ammodernamento barocco che si esplica in precise scelte decorative: un ciclo veterotestamentario nel primo ambiente, caratterizzato da scene di Profeti e santi che si affidano a Dio o muoiono per Lui, contrappunta il ciclo del Nuovo Testamento nella parte riservata ai Padri, laddove emergono con chiarezza la bontà e la misericordia divine. Il ciclo pittorico è opera del palermitano Michele Ragolìa, pittore tardo cinquecentista attivo in costiera amalfitana, a Napoli e nel salernitano, come provano le 40 tele dipinte per il convento di Sant’Antonio a Polla, distante pochi chilometri da Padula.

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Tale scelta iconografica deriva dalla volontà di rappresentare lo status delle due condizioni: quella dei conversi, ai quali bisogna rammentare che soltanto affidandosi pienamente a Dio saranno degni della loro scelta, e quella dei Padri, che a scelta compiuta godono della pienezza dell’amore divino. Ad ulteriore sottolineatura di questo concetto concorrono le scene raffigurate sui cori lignei dei due ambienti, databili ai primi anni del Cinquecento, rispettivamente 1503 quello dei Padri e 1507 quello dei conversi, fatti eseguire probabilmente sotto il priorato di Pietro Paolo Lumbolo da Gaeta (1493-1507) da tale Giovanni Gallo, artista interno all’ordine certosino. Sul coro dei Padri, formato da 36 stalli e dal programma iconografico più articolato, sono presenti infatti scene tratte dal Nuovo Testamento raffiguranti episodi della vita di Cristo dall’Annunciazione alla Pentecoste (sui dossali), scene di martirio di santi e apostoli (sugli inginocchiatoi) e le vite dei padri del deserto (sulla fascia mediana dei dossali), il tutto intervallato da iscrizioni, mentre sul coro dei conversi, più semplice, sono presenti scene di Santi, ritratti all’interno di architetture o paesaggi, e figure di Padri della Chiesa.

By IlSistemone - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41904039, coro dei Padri.

Nella parte della Chiesa riservata ai conversi trovano posto anche due altari addossati al muro divisorio (una simile scelta compositiva si ritrova nella Reale Certosa dell’Assunzione a Granada) sormontati da due busti di santi.

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Questi due altari sono simili a quello, molto più imponente e maestoso, a doppia faccia con putti ed animali aggettanti alle estremità, che si trova nella parte riservata ai Padri, opera di Gian Domenico Vinaccia della seconda metà del 600. Gli altari sono stati eseguiti con la tecnica della scagliola, ossia un impasto di gesso unito a pigmenti naturali che imitava il marmo: la particolarità di questi altari, che ne testimonia la preziosità, risiede invece nell’utilizzo di pietre dure e madreperla al posto dei coloranti naturali, che danno vita a preziosi effetti virtuosistici di grande impatto.

Il pavimento presenta un motivo tridimensionale sui toni del bianco, del grigio e del nero tranne che nella parte riservata ai Padri, ove trova posto un ammattonato maiolicato settecentesco della bottega dei Massa, gli stessi che hanno realizzato le maioliche del chiostro di Santa Chiara a Napoli. Secondo Giovan Battista Pacichelli sul fondo della chiesa si trovavano un’ancona dipinta da Luca Giordano e vari dipinti del Farelli, oggi purtroppo andati perduti a causa delle spoliazioni napoleoniche, come si nota dai grandi riquadri tristemente bianchi delle pareti. Ai lati dell’altare due dipinti ottocenteschi rappresentano uno La morte di San Brunone e l’altro Il martirio di San Lorenzo, mentre dietro l’altare trova posto la tela con San Lorenzo e San Bruno ai piedi della Vergine con Bambino.

Accanto alla chiesa vi sono quattro cappelle laterali: il capitolo dei conversi, la cappella dell’Ecce Homo, la cappella del Crocifisso e la cappella delle reliquie, che conserva al suo interno un reliquiario a parete ove il Pacichelli attesta la presenza di “[…] un braccio di San Lorenzo, una spina della Corona del Redentore, la camicia intiera di San Carlo Borromeo e altre”. Sempre in questa cappella è presente un affresco a figura intera di San Giovanni Battista che però, a causa delle trasformazioni della chiesa successive al Trecento che hanno portato all’ampliamento della finestra posta in essa, risulta oggi letteralmente decapitato.

Di DaianaDiRella - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=81833222 cappella del Crocifisso.

Dietro l’altare maggiore si colloca infine la Sacrestia, caratterizzata da grandi armadi in legno di noce e acero, che contenevano sia i paramenti sacri e sia le sculture di San Bruno, San Lorenzo, di San Michele Arcangelo e di una Madonna con Bambino, tutte opere di un certo Fra Stefano, converso della Certosa di Trisulti che pare le abbia realizzate nel 1686. La Sacrestia contiene un maestoso ciborio in bronzo, opera di Jacopo o Giacomo del Duca, che inizialmente si credeva fosse stato eseguito su disegno di Michelangelo Buonarroti, mentre studi successivi hanno smentito questa ipotesi. Il ciborio è situato su un altare che presenta un paliotto finemente decorato a scagliola.

Di Lucamato - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73040967 Sacrestia della chiesa di San Lorenzo con ciborio su altare con paliotto in scagliola.

 

Bibliografia

Braca A., Storia, arte e medicina nella Certosa di Padula: 1306-2006, pag. 155, in C. Carlone, Atti del convegno di studi, Padula, Monte San Giacomo, 28-29/01/ 2006

D’Anzilio M, Il monumento funebre Sanseverino nella pieve di Santa Maria Maggiore di Diano: alcune considerazioni, pp. 201-216, in Le Diocesi dell'Italia meridionale nel Medioevo. Ricerche di storia, archeologia, storia dell'arte, in Atti del Convegno, Benevento, Cerro al Volturno, Volturnia Edizioni 2019

Capano A, Il desertum vitae. Tra spiritualità, economia e ricerca della bellezza, pag. 189, in A. Baldini e A. La Greca, Uno scrigno per l’UNESCO. I siti, la cultura immateriale e le aree di interesse comunitario nel Cilento e nel Vallo di Diano. aspetti storico-antropologici, Torre Orsaia 2019

Restaino C, Le tarsie lignee della Certosa di Padula. Rapporti tra immagini e testi nel coro dei padri

ll Regno di Napoli in prospettiva, Volume 1, Arnaldo Forni editore

Redin G., Jacopo Del Duca, Il Ciborio Della Certosa Di Padula El Il Ciborio Di Michelangelo Per Santa Maria Degli Angeli

 

Sitografia

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https://www.treccani.it/enciclopedia/tino-di-camaino_%28Dizionario-Biografico%29/

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http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/amministrazione/amministrazione-trasparente/35-certosa-di-san-lorenzo-padula-gli-ambienti

http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/percorsi/percorso139/index.html

http://www.academia.eu


DODICI ARTISTE TRENTINE DEL '900

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

Nella settimana dedicata alla violenza contro le donne è interessante porre l’attenzione sulla produzione artistica femminile nel mondo della storia dell’arte, un tema molto spesso poco trattato e vittima di forti pregiudizi. In particolare, questo contributo pone l’attenzione su alcune pittrici del Novecento: dodici artiste trentine formatesi in Italia e all’estero, alle quali, più di un anno fa, è stata dedicata una mostra in regione che ha cercato di fare luce sull’argomento.

La mostra Arte Donna a Canale di Tenno (Tn)

La mostra “Arte Donna” è stata organizzata presso la Casa degli Artisti “Giacomo Vittone” a Canale di Tenno, nell’Alto Garda, dal 02 marzo al 16 giugno 2020. Una mostra interessante che ha posto l’attenzione sull’operato di dodici artiste trentine del Novecento e sulla loro emancipazione femminile nell’arte, nella cultura e nel sociale. La mostra è stata accompagnata dal catalogo “Arte Donna. L’altra metà del ‘900 in Trentino”, curato dagli studiosi e responsabili del museo Roberta Bonazza e Roberto Pancheri. Un catalogo notevole, non solo per la rassegna delle pittrici e delle opere esposte, ma soprattutto perché per la prima volta è stato dedicato un corposo paragrafo alle pittrici femminili trentine attive fra la fine del XIX secolo e il XX secolo. Un contributo importante e totalmente inedito che non poteva passare inosservato in occasione della settimana dedicata alle donne e alle violenze da esse subite.

Dodici artiste trentine simbolo dellemancipazione femminile

Come anticipato, in Trentino non è mai stato affrontato uno studio approfondito sul contributo offerto dalle donne nell’evoluzione delle arti figurative del Novecento. Per la prima volta la mostra di Canale di Tenno del 2019 ha posto l’attenzione su dodici donne di diversa formazione ed estrazione sociale, attive dal tardo Ottocento all’età contemporanea. Tutte furono in stretto rapporto con il Trentino ed ebbero alle spalle una formazione alquanto variegata, divisa tra importanti città europee ed italiane.

Pia Buffa (Telve, 20 settembre 1866 – Borgo Valsugana 18 settembre 1942)

Formatasi presso l’atelier di Eugenio Prati[1], espose in importanti città come Verona, Venezia e Vienna. La sua fu una pittura “tardo impressionista” molto legata ai paesaggi del suo paese in Trentino e ai ritratti ad olio e pastello.

Fig. 1 - Contrasto di vita, Pia Buffa, olio su tela. La tela mostra uno scorcio del Palazzo Buffa di Telve in Trentino (Bonazza, Pancheri 2019).

Erminia Bruni Menin (Borgo Valsugana, 20 marzo 1870 – Trento, 14 febbraio 1940)
Si formò a Monaco di Baviera presso la Scuola Reale per le arti applicate, visse a Trieste e poi tornò in Trentino. Ebbe la fortuna di esporre in importanti esposizioni nazionali della Belle Époque e in mostre regionali del primo dopoguerra. La sua produzione artistica non risentì della pittura liberty e dell’Art Nouveau, ma rimase sempre legata alla raffigurazione di nature morte e oggetti di vario genere, semplici ma carichi di poesia.

Fig. 2 - Natura morta con mele e zucche, Erminia Bruni Menin, 1910, olio su tela (Bonazza, Pancheri 2019).

Giuseppina Bresadola (Rovereto, 4 aprile 1875 – Rovereto, 24 giugno 1963)
Giunse alla pittura da autodidatta, in età matura, dedicandosi al genere della natura morta. Giuseppina predilesse il tema floreale e le composizioni di frutta e stoviglie, un tema classico che penalizzò il riconoscimento della sua opera e la recluse nella pittura dilettantistica. Solo negli ultimi anni i collezionisti hanno riconosciuto la sua bravura, distinguendola dalla pittura dilettantistica legata al genere delle nature morte floreali.

Fig. 3 - Natura morta (frutta), Giuseppina Bresadola, 1932, olio su tela (Bonazza, Pancheri 2019).

Regina Philippona Disertori (Amsterdam, 4 settembre 1886 – Milano, 14 ottobre 1977)
Nata e cresciuta ad Amsterdam da famiglia borghese, sposò il musicologo e incisore trentino Benvenuto Disertori e con lui visse tra Firenze, Trento e Milano. Regina Disertori si dedicò alla pittura per diletto personale, esponendo raramente in pubblico, nonostante ciò, la sua pittura si distinse per la padronanza nell’uso degli strumenti e per la grande armonia cromatica e stilistica. I soggetti dei suoi dipinti furono legati al tema del floreale e ai ritratti di amici e familiari, anche in questo caso soggetti classici, ma interpretati in uno stile unico e moderno per il quale fu definita “la regina dei fiori”.

Fig. 4 - Vaso di fiori in un giardino, Regina Philippona Disertori, olio su tela (Bonazza, Pancheri 2019).

Thea Casalbore Rasini (Milano, 8 marzo 1893 – Parigi, 16 aprile 1939)

Fu la scultrice del gruppo. Nata a Milano, da nobile famiglia benestante, sposò il conte Giovanni Rasini con il quale visse a Castel Campo, nelle Valli Giudicarie in Trentino, dove oggi sono conservate alcune sue sculture. Si avvicinò alla scultura da autodidatta ed esordì come scultrice all’Accademia di Brera con grande entusiasmo della critica. Le sue opere si avvicinavano al verismo che apprese dallo scultore Riccardo Ripamonti[2], primo maestro di Casalbore, ed erano caratterizzate da un gusto per la perfezione, il non finito e una cura dei particolari. I suoi soggetti erano legati ai ritratti familiari e alla scultura funeraria. L’attività artistica fu da lei quasi abbandonata, una volta divenuta madre, per dedicarsi all’educazione dei figli e alla beneficenza.

Fig. 5 - Busto di Cesare Rasini, Thea Casalbore Rasini, 1922, bronzo. L’effigiato era il suocero dell’artista (Bonazza, Pancheri 2019).

Maria Giacomoni (Trento, 24 settembre 1896 – Roma, 24 febbraio 1937)
Figlia del negoziante di colori della città di Trento, Giacomoni mostrò fin da piccola una grande passione per la pittura. Fu una pittrice talentuosa che però non ottenne riconoscimento dalla critica, probabilmente per la sua prematura scomparsa. Decisa a vivere di arte, si trasferì a Roma dove aprì un atelier e dove ebbe modo di proseguire la sua formazione artistica. Si dedicò ai ritratti e al tema dei nudi e delle nature morte. La sua pittura si inserì nel clima pittorico degli anni Venti e Trenta che puntava al ritorno del realismo e del plasticismo.

Lea Botteri (Creto, 7 settembre 1903 – Trento, 25 luglio 1986)
Botteri fu l’artista delle incisioni e delle xilografie per le quali divenne famosa in Trentino. Come molte altre colleghe della sua epoca, si avvicinò all’arte incisoria da autodidatta e poi sotto la guida dell’artista trentino Bruno Colorio[3]. Sono oltre 150 le xilografie create da Lea Botteri, conservate per la maggior parte al Museo Diocesano Tridentino. I temi sono molto vari: monumenti della città di Trento e dei luoghi da lei visitati in varie località d’Italia, soggetti religiosi e naturalistici e soggetti dedicati alla condizione femminile dei suoi anni. Infine si dedicò all’illustrazione libraria, seguita da alcune opere di ex-libris.

Fig. 8 - San Lorenzo – Trento, Lea Botteri, 1941, xilografia (Bonazza, Pancheri 2019).

Elena Parolini (Trento, 12 maggio 1908 – Padova, 26 maggio 1972)
Nacque a Trento e dedicò l’intera vita alla pittura. Amava la pittura “dal vero” e dipingere en plein air vedute della città di Trento e delle montagne che immortalava durante i suoi soggiorni estivi nelle Valli Giudicarie. Le piaceva ritrarre la gente comune, riuscendo a coglierne i sentimenti umani, ma amava anche dipingere soggetti religiosi per le chiese di Trento e delle Valli Giudicarie esteriori nel Trentino occidentale. Elena Parolini era una donna molto generosa, infatti era solita dipingere quadri da donare alle missioni per la raccolta di fondi.

Rosetta Bracchetti Gadler (Trento, 14 agosto 1912 – Trento, 17 aprile 1995)
Rispetto ad altre artiste dell’epoca, la Bracchetti ebbe modo di vedere le sue opere esposte in grandi mostre nazionali e regionali. Allieva di Gino Pancheri[4], la sua carriera subì un’importante evoluzione artistica: le opere dei primi anni erano caratterizzate da nature morte e paesaggi resi con pennellate corpose e pastose, vicine alla lezione del suo maestro, mentre con il passare del tempo, la sua pittura si fece più delicata e intimista e dalla tavolozza schiarita; per poi negli ultimi anni avvicinarsi alla stilizzazione geometrica, senza però abbandonare la figurazione.

Fig. 14 - La carità, Rosetta Bracchetti Gadler, 1934, olio su tavola (Bonazza, Pancheri 2019).

Cesarina Seppi (Trento, 20 maggio 1919 – Trento, 29 dicembre 2006)
Tra le artiste trentine, Cesarina Seppi conseguì i maggiori riconoscimenti e le più importanti commissioni pubbliche. La sua fu una carriera artistica molto lunga che iniziò negli anni Trenta e proseguì fino alle soglie del millennio, compiendo un’evoluzione alla stregua dei grandi dell’arte. Si dedicò alla pittura, ma anche al mosaico, alla scultura e alla produzione di vetrate. L’ambiente alpino fu grande protagonista delle sue opere caratterizzate da pennellate corpose e colori violenti, anche se a partire dagli anni Sessanta passò a una pittura più astratta. Tra le opere pubbliche più importanti che le vennero commissionate ci fu, nel 1949, la realizzazione di tredici mosaici raffiguranti località turistiche del Trentino per l’atrio della stazione ferroviaria di Trento, seguite dal grande mosaico per la sede INPS di Trento, raffigurante una rievocazione della “città del concilio” racchiusa dalle mura medievali.

Ines Fedrizzi (Cadine, 7 novembre 1919 – Trento, 18 marzo 2005)

Ines, artista e gallerista, ebbe una carriera artistica riconosciuta dalla critica. Espose in diverse città d’Italia e, attraverso la sua galleria di Trento e uno studio d’arte a Milano, entrò in contatto con grandi artisti dell’epoca, da Fortunato Depero a Lucio Fontana. La sua attività artistica poteva inserirsi all’interno della corrente pittorica astratta: una pittura informale denotata da un forte impatto materico. Dagli anni Sessanta si avvicinò alle immagini seriali, così mescolò trame di vecchi tessuti e bordure di merletto per formare quadri dinamici e quasi psichedelici.

Fig. 17 - Mandala, Ines Fedrizzi, olio su tela (Bonazza, Pancheri 2019).

Jole dAgostin (Cles, 24 aprile 1921 – Milano, 24 settembre 1981)
Trentina d’origine, si formò come pittrice a Milano, dove si diplomò al Liceo Artistico di Brera. Qui strinse amicizia con vari artisti ed espose le sue opere in mostre collettive e personali, raggiungendo anche altre città d’Italia. Dagli anni Sessanta si avvicinò alla pittura astratta, che si associò alla sua personale inquietudine esistenziale e ad una visione drammatica della realtà. Si dedicò al paesaggio, al nudo, al ritratto e alle nature morte per poi, nell’ultima fase della sua vita, avvicinarsi a forme vegetali trasfigurate e minimaliste. Gran parte delle sue opere sono oggi disperse in collezioni private ubicate fuori regione.

Fig. 18 - Paesaggio, Jole d’Agostin, olio su cartone (Bonazza, Pancheri 2019).

 

Note

[1] Eugenio Prati (Caldonazzo, 27 gennaio 1842 – Caldonazzo, 8 marzo 1907) fu un pittore trentino attivo nella seconda metà dell’Ottocento.

[2] Riccardo Ripamonti (Milano, 1 ottobre 1849 – Milano, 15 settembre 1930) fu scultore, attivo tra Ottocento e Novecento, che si allontanò dalla scultura accademica di Brera, dove si formò, e si dedicò alla scultura di impegno civile.

[3] Bruno Colorio (Trento, 9 novembre 1911 – Trento, 29 novembre 1997) fu un pittore, disegnatore e incisore trentino.

[4] Gino Pancheri (Trento, 23 agosto 1905 – Trento, 23 dicembre 1943) fu un pittore italiano. Amava i soggetti realistici legati alla sua terra e impegnati nel lavoro dei campi. Ebbe modo di eseguire alcune opere durante l’età fascista in onore del fascio.

 

Bibliografia

- Bonazza Roberta e Roberto Pancheri, Arte donna. L’altra metà del ’900 in Trentino, Trento, Alcione, 2019
- “Dai salotti ai ponteggi: il percorso di ascesa delle donne artiste nel Trentino del Novecento” in: Bonazza Roberta e Roberto Pancheri, Arte donna. L’altra metà del ’900 in Trentino, Trento, Alcione, 2019, pp. 17-38

 

ALESSIA ZENI

Sono Alessia Zeni, abito a Cavedago, un piccolo paese del Trentino Alto-Adige, situato nella bassa valle di Non. La mia passione per la storia dell’arte e le discipline artistiche è iniziata in giovane età conseguendo il diploma di “Maestro d’arte applicata” presso l’Istituto Statale d’Arte Alessandro Vittoria di Trento e successivamente la laurea specialistica in “Storia dell’arte e conservazione dei beni storico-artistici e architettonici” presso l’università degli studi di Udine.
In seguito al conseguimento del diploma di Guida ai Beni Culturali Ecclesiastici rilasciato dall’Associazione Anastasia della Diocesi di Trento, ad oggi mi occupo di visite guidate ad alcune chiese del Trentino. Mi dedico alla redazione di articoli storico-artistici per riviste regionali e collaboro con il FAI - Fondo Ambiente Italiano - Gruppo Val di Sole (delegazione di Trento) per l’organizzazione di visite guidate alle giornate FAI di primavera. Sono redattrice per il quotidiano on line “La voce del Trentino” e ho lavorato come hostess per i gruppi di turisti in visita alla regione Trentino Alto-Adige.
Nel progetto Discovering Italia sono referente del Trentino Alto-Adige.

 


IL PERSEO DI BENVENUTO CELLINI

A cura di Luisa Generali

Introduzione alla vita di Benvenuto Cellini

Un posto d’eccezione nella scultura monumentale fiorentina del Cinquecento è riservato al Perseo e al suo autore Benvenuto Cellini (1500-1571), uno fra gli artisti più abili della corte di Cosimo I e sicuramente per ingegno e stravaganza anche uno dei personaggi più bizzarri dell’epoca, non meno inquieto di certi altri artisti noti per aver condotto una di vita di eccessi. A dispetto del suo talento che raggiunse vette altissime nella scultura, nell’oreficeria ma anche nella musica e nella poesia, Cellini trascorse un’esistenza tormentata a causa del pessimo carattere contraddistinto da un ego spropositato e iracondo, descritto anche da Giorgio Vasari “in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo”. Questa sua spavalda indole, che lo portò a macchiarsi più volte di omicidio, gli costò fin da giovanetto l’esilio a Siena, dove perfezionò le sue competenze come orefice già acquisite in parte a Firenze. Le disavventure con la giustizia precipitarono velocemente quando nel 1523 commise il primo delitto che lo costrinse a fuggire da Firenze e spostarsi a Roma, qui ottenne i favori e l’indulgenza di Papa Clemente VIII, per cui lavorò in qualità di maestro della zecca, e combatté in prima linea durante il sacco di Roma (1527). In seguito ad un incessante catena di accuse legate a litigi, risse, furti e omicidi nel 1537 Cellini si spostò a Parigi alla corte di Francesco I de Valois, dove il suo sogno d’artista libero e indipendente da ogni accademismo sembrò potersi finalmente realizzare, almeno fino al 1544 quando rientrò frettolosamente in patria a Firenze. Qui trovando l’accoglienza del nuovo regnante Cosimo I de’ Medici, lavorò senza sosta per ben nove anni alla commissione ducale del bronzo monumentale raffigurante Perseo, la sua fatica più grande e tormentata (fig.1).

Fig. 1 - Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-1554, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi. Credits: turistipercaso.it.

La personalità di quest’uomo, tipica del binomio che contraddistingue l’artista per eccellenza, geniale ma sregolato, prorompe pagina dopo pagina nella sua Vita dettata ad un garzone di bottega fra il 1558 e il 1566, in un momento di forte declino dopo che tutto l’entusiasmo intorno alla messa in opera del Perseo si spense repentinamente insieme alla richiesta di nuove commissioni. L’intento dell’opera letteraria, che assunse i connotati di un’autobiografia romanzata senza precedenti, è finalizzato alla legittimazione e al riconoscimento del proprio status di artista nella corte medicea, sfociando in una sorta di autocelebrazione personale che trova la sua massima ragion d’essere proprio nell’impresa del Perseo. Dai brani dedicati alla realizzazione dell’opera emerge una costante lotta nel superamento di sé stesso e dei suoi colleghi-rivali, che sprezza con la sua peculiare irriverenza: in particolare, la sfida si fa sempre più competitiva con Baccio Bandinelli (1493-1560), il preferito di Cosimo, che ripetutamente Cellini nella su Vita accusa di “sparlare”, alimentando i dubbi del duca nei suoi confronti e nella concreta possibilità di fusione del grande bronzo. Non mancano a questo proposito episodi macchiettistici nello studio dell’artista in cui lo stesso Cellini e il Duca, poco ottimista, discutono sull’effettiva criticità tecnica della scultura:

 

“[…] e venendo più spesso a casa, ch'ei non soleva, una volta infra l'altre e' mi disse: Benvenuto, questa figura non ti può venire di bronzo, perché l'arte non te lo promette. […] E Or dimmi, Benvenuto, come è egli possibile, che quella bella testa di Medusa, che è lassù in alto in quella mano del Perseo, mai possa venire? Subito io dissi: Or vedete, Signor mio, che se Vostra Eccellenza Illustrissima avessi quella cognizione dell'arte, che lei dice di avere, la non arebbe paura di quella bella testa, che lei dice, che la non venissi; ma sì bene arebbe da aver paura di questo piè diritto, il quale si è quaggiù tanto discosto. A queste mie parole il Duca mezzo adirato, subito si volse a certi Signori, che erano con Sua Eccellenza Illustrissima, e disse: Io credo, che questo Benvenuto lo faccia per saccenteria, il contrapporsi a ogni cosa: e subito voltomisi con mezzo scherno, dove tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e ' cominciò a dire: Io voglio aver teco tanta pazienza di ascoltare che ragione tu ti saprai immaginare di darmi, che io la creda.”

Il pensiero ossessivo intorno all’opera scatenò la furiosa reazione dell’artista nel celebre episodio dell’incendio della fucina durante la fusione della statua, quando, sebbene febbricitante dalla fatica, dopo aver appreso la notizia da un garzone, esplose in tutta la sua rabbia:

“O Benvenuto, la vostra opera si è guasta, e non ci è più un rimedio al mondo. Subito che io sentii le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo del fuoco, e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire, e le serve e il mio ragazzo e ognuno, che mi si accostava per aiutarmi, a tutti io davo o calci, o pugna […]”

Dopo la buona riuscita della fusione, le fasi di cesellatura e rifinitura dell’opera perdurarono per ben cinque anni, fino al momento della “scopertura” sotto la loggia del Lanzi, il giorno 27 aprile 1554, evento tanto atteso che sancì in un tripudio di lodi ed encomi la vittoria personale di Cellini e il proprio primato sul panorama artistico fiorentino:

“Or come piacque al mio glorioso Signore ed immortale Iddio, io la finii del tutto, e un Giovedì mattina io la scopersi tutta. Subito, che e ' non era ancora chiaro il giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popol, che e ' saria impossibile il dirlo; e tutti a una voce facevano a gara a chi meglio ne diceva […].”

 

Il Perseo sotto la Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria

 

L’interpretazione in chiave allegorica del mito classico fu il tema più ricorrente nelle corti rinascimentali scelto per l’autocelebrazione delle casate, proprio come avvenne anche a Firenze con il Perseo, l’eroe figlio di Danae e Zeus che riuscì ad uccidere Medusa, l’unica sorella mortale delle Gorgoni. Secondo la mitologia greca il giovane eroe si offrì di portare la testa del mostro come dono nuziale al tiranno Polidette, regnante dell’isola di Serifo, dove era prigioniero insieme alla madre Danae. Perseo quindi partì per la sua impresa supportato da Atena ed Ermes, che gli donarono una serie di oggetti magici: i sandali alati per volare, un copricapo per diventare invisibile, una borsa di pelle per nascondere la testa del mostro, e un falcetto. Dopo varie peripezie il giovane riuscì a scovare il nascondiglio di Medusa, la terribile creatura dalla chioma di serpenti che pietrificava chiunque incrociasse il suo sguardo, frutto di una punizione scagliata da Atena che ingelosita dalle attenzioni di Poseidone per la ragazza decise di trasformarla in un mostro. Arrivato al nascondiglio delle Gorgoni, Perseo attaccò di spalle Medusa servendosi dell’immagine del mostro riflessa sullo scudo di Atena e sferrando così il colpo decisivo alla testa.

 

La lettura allegorica del mito in questo caso si riferisce alla nuova reggenza medicea, detentrice delle virtù morali che demolirono i nemici repubblicani, visti come mostri e personificati nella testa decapitata di Medusa, alzata trionfalmente dall’eroe. Pensata in un dialogo visivo e metaforico con La Giuditta e Oloferne di Donatello, l’esaltazione plateale della sconfitta degli avversari soggiogati e decapitati, diventa anche un monito intimidatorio dell’egemonia medicea. Le virtù civiche del regno mediceo sono invece pronunciate nell’integrità morale e fisica di Perseo, che Cellini interpreta in un nudo snello e vibrante, mosso dagli effetti epidermici delle masse muscolari (fig.2). La testa di Medusa esanime, di una bellezza ermafrodita, ricorda gli stessi tratti dell’eroe che mentre sfoggia il suo trofeo non si scompone, rimanendo severo e integerrimo (fig.3): questa similitudine fra i volti della vittima e del carnefice, secondo parte della critica, sarebbe interpretabile alla luce delle teorie neoplatoniche per cui l’eroe greco diverrebbe metafora dell’uomo virtuoso, chiamato a sconfiggere le sue stesse pulsioni primitive per innalzarsi verso la perfezione. Oltre l’impressionante precisione con cui è definita la muscolatura dell’addome, colpisce la perizia da orefice con cui sono trattati alcuni dettagli come l’estrema ricercatezza nella definizione dei boccoli dell’eroe, piuttosto che i capillari particolari dell’elmetto a forma di drago, oppure la cesta di serpenti che copre la testa di Medusa (fig.4).

Fig. 4 - Benvenuto Cellini, Perseo, dettaglio, 1545-1554, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi.

Non manca inoltre un po' del protagonismo di Cellini nella sua firma incisa in bella vista sulla tracolla, mentre guardando alla nuca dell’eroe, fra le insenature del casco e dei capelli si vede affiorare una maschera dalle fattezze umane, forse identificabile con lo stesso artista che attraverso questo strambo espediente manierista avrebbe lasciato celatamente una traccia immortale di sé sulla scultura (fig.5-6).

Il basamento

La grandiosità di questo monumento non è circoscritta al solo bronzo monumentale ma si estende secondo un orientamento verticale anche nel basamento e nella lastra bronzea sottostante, affrontando nelle varie componenti diverse tipologie di scultura: dall’opera a tutto tondo, alla lavorazione del marmo, passando per i bronzetti all’antica fino al basso e alto rilievo. Con il gruppo del Perseo Cellini affermava così la padronanza totale dell’arte scultorea in tutte le sue sfaccettature.

La base, di cui l’originale è conservato al Museo Nazionale del Bargello, si presenta come un elaboratissimo ricamo marmoreo, prova del virtuosismo tecnico dell’artista anche nella lavorazione della pietra (fig.7). L’opera si compone di immagini di varia natura, che spaziano da figure grottesche e macabre a un repertorio antichizzante e simbolico come avviene per le teste di capricorno, emblema assunto dal duca Cosimo I. Immagini inquietanti unite a elementi rigogliosi di vita, come le ghirlande di frutta e l’erme di Diana Efesia Polymastos (dai molti seni), simbolo per eccellenza di fertilità, vogliono forse richiamare il ciclo di morte e rinascita inaugurato da una rinnovata età dell’oro sotto il ducato cosimiano. Nelle quattro nicchie che si aprono su tutti i lati della base sono inserite “le belle figurine”, ovvero i bronzetti all’antica dedicati alle benevole presenze che intervennero nelle vicende di Perseo, a partire dalla madre Danae qui ritratta insieme al figlio fanciullo avuto con Zeus che si unì a lei sotto forma di pioggia d’oro. L’artista interpreta Danae come una Venere classica, dal nudo pingue e morbido, affiancata dal bambinetto che per attirare la sua attenzione solleva le braccia allungando l’esile corpicino (fig.8). Fra gli attori del mito si trova anche Zeus, padre di Perseo, restituito attraverso la tipica effige classica del dio severo e barbuto, avvolto in un ampio panneggio, mentre si prepara a scagliare una saetta (fig.9): l’impetuosa forza in potenza generata da Zeus sembra creare un turbine vorticoso che smuove realisticamente anche la sua chioma. Indispensabile al racconto mitico sono le due divinità amiche Atena, dea della guerra e della saggezza interpretata attraverso un nudo classico estremamente lineare e polito (fig.10), e lo scattante Ermes, fermato in uno curioso movimento ginnico, nel momento appena prima di elevarsi per spiccare il volo mentre alza le mani e piega una gamba, restando sulla punta di un unico piede (fig.11). Anche in questo caso il nudo mostra una gracilità che epidermicamente nasconde una complessa tensione muscolare.

Fig. 11 - Benvenuto Cellini, Ermes, 1552, Firenze, Museo del Bargello. Credits: Pinterest.

 

Secondo la testimonianza di Cellini nemmeno la duchessa Eleonora di Toledo rimase impassibile difronte la magnificenza dei quattro bronzetti, tanto che si oppose alla loro fruizione pubblica, volendoli per sé, al sicuro nelle sue stanze: una decisione ripudiata dallo stesso artista che di nascosto approfittò dell’assenza dei duchi per “impiombare” le statuette nella base per la quale erano nate, pronto a tutto pur di portare a termine il suo progetto. Con il consueto tono irriverente Cellini raccontò l’episodio:

 

[…] per più di dua ore non ragionorno mai d'altro che delle belle figurine; di sorte che e' n'era venuta una tanto smisurata voglia alla Duchessa, che la mi disse all ora: Io non voglio, che queste belle figurine si vadino a perdere in quella basa giù in Piazza, dove elle porteriano pericolo di esser guaste; anzi voglio, che tu me le acconci in una mia stanza, dove le saranno tenute con quella reverenza, che merita le loro rarissime virtuti. A queste parole, io mi contrapposi con molte infinite ragioni; e veduto che ella s’era risoluta, che io non le mettessi in nella basa, dove le sono, aspettai il giorno seguente, me ne andai in Palazzo alle ventidue ore, e trovando che il Duca e la Duchessa erano cavalcati, avendo di già messo in ordine la mia basa, feci portare giù le dette figurine, e subito le impiombai, come le avevano a stare. Oh! quando la Duchessa lo intese, e gli crebbe tanta stizza, che se e' non fussi stato il Duca, che virtuosamente mi aiutò, io l'arei fatta molto male.”

 

Chiude infine il complesso programma iconografico del Perseo il rilievo bronzeo raffigurante La liberazione di Andromeda, l’ultima parte del mito che viene narrata e incastonata nel parapetto della stessa loggia, attualmente sostituita da una copia mentre l’originale si trova Bargello (fig.12). Sempre secondo la leggenda, una volta che Perseo uccise Medusa scappò con la sua testa per tornare verso l’isola di Serifo, con l’intento di vendicarsi del tiranno che teneva prigionieri lui e sua madre Danae. Mentre sorvolava il paese degli Etiopi l’eroe s’imbatté in una fanciulla bisognosa di aiuto, Andromeda figlia di Cefeo e di Cassiopea, legata ad una roccia e data in sacrificio ad un mostro marino per placare la collera di Poseidone: a quel punto Perseo, forte del suo equipaggiamento, si precipitò ad uccidere il mostro liberando Andromeda che in seguito divenne sua sposa. La vicenda, narrata con l’ausilio del rilievo che passa da un grado di aggetto molto alto all’incisone, è costruita intorno alla figura centrale della fanciulla, ritratta nuda con i lunghi capelli sciolti e mossi dal vento, stretta fra il pericolo del mostro che sta per divorarla e il capannello di astanti disperati. La cifra stilistica adottata da Cellini fa riferimento alla drammaticità di certi rilievi di Donatello, da cui trae l’intensità espressiva di alcuni personaggi (sconcertante è il grido lanciato dall’uomo in fondo la scena) e la tagliente incisività del modellato. Giocando sull’alternanza tra i repentini passaggi di aggetto mossi dalla contrastante alternanza di luce e ombre, il rilievo acquista profondità e una vena narrativa nuova, molto vicina alla pittura.

Fig. 12 - Benvenuto Cellini, Liberazione di Andromeda, 1553, Firenze, Museo del Bargello.

 

Bibliografia

Cellini, Vita di Benvenuto Cellini orefice e scultore fiorentino scritta da lui medesimo, pubblicata dal Dottor Francesco Tassi, Tomi 3, Firenze 1829.

Vasari - Degl'accademici del disegno, pittori, scultori et architetti e dell'opere loro e prima del Bronzino, 1568, in Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, edizione Giunti-Newton Compton Editori 1997.

Testo digitalizzato

https://it.wikisource.org/wiki/Le_vite_de%27_pi%C3%B9_eccellenti_pittori,_scultori_e_architettori_(1568)/Accademici_del_Disegno_e_il_Bronzino

Pegazzano, Cellini e la scultura francese del Cinquecento, Firenze 2008.

Mariucci; C. Sirigatti, L. Spano, G. Uzzani, P. Zanieri, Toscana da non perdere. Guida ai 100 capolavori, Firenze 2008, pp. 32-33.

Capriotti, L alibi del mito: unaltra autobiografia di Benvenuto Cellini, Genova 2013.

Palumbo, “Un tema narrativo nella "Vita" di Benvenuto Cellini: "l’impresa" del Perseo”, in Biblioteca dell"Archivum Romanicum", 375,1 – 2011, pp. 305-317.

 

Sitografia

Camesasca, CELLINI, Benvenuto, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979). Testo online: https://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-cellini_(Dizionario-Biografico)/

www.polomuseale.firenze.it - http://www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/53185184f1c3bc7c07000000/02%20SALA%20MICHE_PDF.pdf


ANNA MARIA LUISA E IL DESTINO DI FIRENZE

A cura di Luisa Generali

La storia dei Medici, condotta per secoli secondo una successione dinastica maschile, si concluse nel XVIII secolo con la reggenza di una donna di acuta intelligenza e lungimiranza al cui nome è legato il destino di Firenze: Anna Maria Luisa de' Medici (Firenze, 11 agosto 1667-Firenze, 18 febbraio 1743).

Andando per gradi proviamo a tracciare il profilo della “principessa saggia”, così celebre e amata dai fiorentini e non solo.

Anna Maria Luisa fu la seconda figlia di Cosimo III de’ Medici e Margherita Luisa d'Orléans, uniti secondo la prassi dell’epoca da un matrimonio combinato per rinforzare il legame politico tra il granducato di Firenze e la Francia di Luigi XIV. Oltre ad Anna Maria Luisa la coppia ebbe anche due figli maschi, eredi diretti della discendenza: il fratello maggiore Ferdinando Maria (1663-1713) che si sposò con Violante Beatrice di Baviera da cui però non ebbe nessun erede e Gian Gastone (1671-1737), il fratello minore, che fu ripudiato dalla moglie Anna Maria Francesca di Sassonia-Lauenburg e quindi non ebbe figli.

I tre fratelli vennero cresciuti nella corte di Palazzo Pitti e nella Villa di Poggio Imperiale, educati dalla nonna Vittoria della Rovere costretta a subentrare alla capricciosa Margherita d'Orléans che, non essendosi inserita nel contesto toscano, lasciò la famiglia nel 1675. La giovane Medici cresciuta tra i fasti di corte, l’arte e la cultura si apprestò fin da piccola a diventare degna erede della casata, accompagnata dalla ferma guida dell’amato padre Cosimo III a cui si ispirò sia come modello di vita che per la gestione degli affari di stato. Nello squisito ritratto di Giusto Sustermans (1597-1681) vediamo Anna Maria Luisa bambina, forse all’età di tre anni, già abbigliata con un importante vestito da signora, in un portamento che poco ha a che vedere con la fanciullezza ma che indica già una preparazione morale rivolta fin da subito ai doveri (fig.1).

Fig. 1 - Giusto Suttermans, Ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici bambina, 1670 c., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Di Anna Maria Luisa, che si impose come cultrice delle arti e collezionista di gioielli, si conservano moltissime immagini grazie al suo spiccato senso estetico e all’autocompiacimento nel farsi ritrarre. Risale ancora alla giovinezza a Firenze il ritratto ufficiale dipinto da Antonio Franchi (1638- 1709), che vede Anna Maria Luisa all’età di circa venti anni, già pienamente consapevole delle sue responsabilità politiche, esibire un aspetto distinto e regale da giovane donna virtuosa (fig.2). Più seducente e idealizzato è invece il ritratto della principessa come “Flora interpretata da Pier Dandini (1646-1712), autore ancora pienamente seicentesco che conferisce all’immagine caratteri barocchi, ostentati nella meravigliosa veste e nel tripudio di fiori (fig.3).

All’età di ventitré anni, nel 1690, Anna Maria Luisa sposò, sempre secondo i matrimoni combinati dell’epoca e su consiglio del padre, il tedesco Giovanni Guglielmo II di Wittelsbach-Neuburg, Elettore Palatino (1658-1716), detto anche Giovanni del Palatinato-Neuburg. L’Elettrice Palatina, titolo acquisito in seguito alle nozze, si trasferì dunque a Düsseldorf dove creò intorno a sé un ambiente dinamico volto all’erudizione in tutte le sue forme, continuando a mantenere costantemente un filo diretto con la sua Firenze e gli artisti più fidati che spesso si recavano su sua richiesta alla corte tedesca. È del pittore olandese Jan Frans van Douven (1656-1727) il maestoso ritratto della coppia reale (1708 c.), orientato sulle forme grandiose e auliche del barocco francese, che nel XVIII secolo divenne il linguaggio di rappresentanza di tutte le più grandi dinastie europee (fig.4). Nel dipinto vediamo come la coppia sia esaltata fino a divenire monumentale, ingigantita dalle sfarzose vesti: questa importante fisicità allude materialmente alla dimostrazione del potere e della ricchezza posseduta, ma è anche allusiva alla fermezza e all’integrità morale quali doti necessariamente richieste a un buon sovrano.

Fig. 4 - Jan Frans van Douven, Gli Elettori Palatini, 1708 c., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Sebbene la nostalgia di casa, Anna Maria Luisa si adattò presto alla vita a Düsseldorf come raccontano certi vivaci quadretti che ritraggono marito e moglie durante gli eventi mondani della corte, all’insegna di feste, balli, musica e travestimenti. In particolare, in un altro dipinto attribuito al pittore di corte Jan Frans van Douven la coppia reale, vestita in abiti della tradizione spagnola, appare danzare in un salone a scacchi, incorniciato dal consueto drappo rosso che teatralmente sembra aprire il sipario, mentre alle loro spalle si scorge un’orchestra di archi (fig.5). Questa simpatica operetta racconta il clima goliardico che si doveva respirare in certe occasioni e in particolare durante la ricorrenza del Carnevale, una festa amata da Anna Maria Luisa a cui partecipava attivamente nella preparazione dei costumi e degli spettacoli di commedia.

Fig. 5 - Jan Frans van Douven, Gli Elettori Palatini in atto di danzare vestiti alla spagnola, 1695, Firenze, Palazzo Pitti.

Dietro questa apparente spensieratezza di regnante si celava però per la donna lo spettro della sterilità che stava minando le sorti della sua dinastia, sempre più vicina alla conclusione. Difatti dopo ventisei anni di matrimonio, nel 1716, l’Elettore Palatino morì e Anna Maria Luisa fece ritorno a Firenze senza figli, perpetrando quindi l’incubo degli ultimi Medici. Questa sorte tanto temuta si verificò al momento della morte di Gian Gastone nel 1737, a cui subentrò la sorella nel sofferto ruolo di dover decidere le sorti del granducato, condizionata dal peso della sua secolare dinastia. Dopo un complesso accordo internazionale fu deciso a tavolino che lo stato toscano passasse al principe Francesco Stefano di Lorena (1708-1765) con il celebre accordo denominato “Patto di famiglia” firmato a Vienna lo stesso anno, in questo modo Anna Maria Luisa concedeva interamente la Toscana agli Asburgo-Lorena. Possiamo solo immaginare quanto dovesse essere grande la responsabilità di questa donna nel prendere tale decisione, la sovrana si ritrovò a concludere le sorti della sua famiglia che aveva saputo fare di Firenze e la Toscana un potente Stato, affidandole a mani sconosciute con il rischio reale di una completa dispersione del patrimonio. Furono forse tali premesse che stimolarono l’intuizione della sovrana nella decisione, travagliata e al contempo lucida, di concedere tutto ai Lorena se pur con la seguente condizione riportata dall’articolo terzo del Patto di Famiglia:

 

LElettrice Palatina cede, da e trasferisce al presente a Sua Altezza Reale ... tutti i mobili, effetti e rarità della successione del Serenissimo Gran Duca suo fratello come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le sante reliquie ... a condizione espressa che di quello [che] è per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri, non ne sarà nulla trasportato e levato fuori dalla Capitale e dallo Stato del Gran Ducato.

 

Grazie a tale clausola Anna Maria Luisa assicurava a Firenze e ai fiorentini la salvaguardia del patrimonio mediceo pensando in modo straordinariamente moderno al decoro della città, all’utilità pubblica e agli interessi dei visitatori perché tutta questa ricchezza non andasse dissolta o si confinasse, ma continuasse ad essere godibile e ad espandersi generando altra arte. Dopo questo delicato passaggio di consegne Anna Maria Luisa si avviò lentamente verso gli ultimi anni della sua vita che trascorse tra le stanze di Palazzo Pitti e Villa La Quiete, occupata nelle ultime commissioni e soprattutto nella guida dei lavori di ristrutturazione della Basilica di San Lorenzo, dove nel mese di febbraio dell’anno 1743 vennero celebrati i suoi funerali solenni.

In onore dell’“ultima dei Medici” solo nel secolo scorso (1945) venne indetto dall’architetto fiorentino Adolfo Coppedè il concorso per l’esecuzione di un monumento commemorativo dedicato alla sua immagine, di cui si conservano diversi modelli tutti impostati sulla figura seduta della donna in abiti settecenteschi. L’opera vincitrice di Raffaello Salimbeni (1914-1991), conservata presso il Canto de’ Nelli ai piedi del campanile di San Lorenzo, offre un’interpretazione molto vanitosa del personaggio di Anna Maria Luisa ispirandosi alle leggerezze rococò dell’epoca (fig.6), mentre il gesso di Ivo Barbaresi (1915-1996), posto nel 2012 nell’area prospiciente allo scalone Poccianti a Palazzo Pitti, restituisce con forme pure l’eterea e virtuosa bellezza della donna (fig.7). È invece del 2004 la fusione in bronzo del modello di Alfonso Boninsegni (1910-2003) collocato nella cripta vicino al sepolcro della stessa sovrana (fig.8): l’opera, contraddistinta da una vigorosa forza plastica d’ispirazione rinascimentale, si distingue dalle altre per l’intento psicologico-introspettivo che si coglie nel volto della principessa, adombrato di malinconia ma ben cosciente dei propri doveri.

Fig. 8 - Alfonso Boninsegni, Monumento a Anna Maria Luisa de’ Medici, Firenze, San Lorenzo, Cripta. Credits: writtenfyi.com.

Così si chiude la storia dei Medici, con un grande atto di generosità collettiva da parte di una donna colta che legò inseparabilmente tutto il patrimonio di famiglia alla città, determinando così il destino di Firenze rimasto per sempre uno scrigno pieno dei suoi tesori.

 

Bibliografia

Arte e politica: lElettrice Palatina e lultima stagione della committenza medicea in San Lorenzo, Catalogo della mostra a cura di M Bietti, Firenze, Museo delle Cappelle Medicee, 8 aprile - 2 novembre 2014, Livorno 2014.

La principessa saggia: leredità di Anna Maria Luisa deMedici Elettrice Palatina, a cura di Stefano Casciu, Livorno 2006.

 

Sitografia

https://www.civita.it/Sala-stampa/L-Elettrice-Palatina-e-l-ultima-stagione-della-committenza-medicea-in-San-Lorenzo

http://www.polomuseale.firenze.it/dodicimesidarte/?u=sezioni/febbraio13.php

http://www.polomuseale.firenze.it/dodicimesidarte/index.php?u=sezioni/febbraio.php

http://www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/5139ff1ef1c3bc0410000000/Pieghevole.pdf

 

LUISA GENERALI

Sono nata a Empoli (FI) nel 1991, e dopo aver vissuto per qualche anno a Vinci, sono residente da tempo a San Miniato (PI). Ho studiato storia e tutela dei beni culturali per poi proseguire conseguendo la laurea in storia dell'arte all'Università degli di Studi di Firenze con una tesi in arte moderna. La mia passione per le arti figurative e la cultura in senso lato mi porta ad essere spesso curiosa, andando alla ricerca di meraviglie e splendidi capolavori, anche negli angoli meno pensati.
Per storia dell´arte sono la referente della regione Toscana.


IL FORTE DI GAVI SECONDA PARTE

A cura di Simone Rivara

Introduzione

Nel seguente articolo, con cui si intende proseguire la descrizione del Forte di Gavi del mese precedente, ad una prima introduzione sugli interventi di restauro effettuati sul complesso seguirà una descrizione dell’“ecosistema” del forte, dalla strutturazione delle sue gerarchie a questioni di natura manutentiva.

Interventi di restauro

Il Forte di Gavi fu consegnato alla Soprintendenza nel 1946. Essendo una “cava” di materiali, venne depredato nel dopoguerra e al momento dell’intervento di restauro si trovava in evidente stato di degrado. Il restauro vero e proprio fu lungo e complesso, a causa della difficile orografia del luogo (si fece largo utilizzo della manodopera per ovviare all’impossibilità di portare sul posto un numero elevato di mezzi meccanizzati), ma consentì di riportare alla luce fuciliere, cannoniere, proiettili, paramenti murari nascosti nonché la rete idrica di alimentazione delle cisterne.

I primi interventi furono effettuati nella parte seicentesca del Forte, realizzata dal Fiorenzuola: detta anche “Cittadella", al suo interno erano ubicati, oltre agli alloggi dei soldati, una cappella ed un porticato. Di quest’ultimo, chiuso nei primi anni del ‘900 (figura 1) emerse nel corso dei lavori l’antica decorazione pittorica (figura 2). Sui due lati lunghi della Cittadella, poi, per rifare le facciate dei corpi di fabbrica nord e sud, venne utilizzato un intonaco colorato in pasta e lavorato “grezzo", come si usava nel Seicento; all'interno del fabbricato a nord vennero inoltre ricavati alcuni spazi espositivi e una sala convegni, rispettivamente a partire dalle celle e da uno spazio che probabilmente doveva essere un'infermeria, dopo un lungo lavoro sui paramenti murari in pietra, sugli infissi e sulla pavimentazione. Tutti gli interventi sono stati realizzati seguendo i principi del restauro critico.

La vita nel Forte: la struttura gerarchica

"Il bravo storico è come l'orco della fiaba: dove sente odore di carne umana, lì c'è la sua preda"

(Marc Bloch, Apologia della Storia)

A capo della gerarchia nel Forte di Gavi c’era il castellano, il quale, in base ai poteri conferitigli dalla Repubblica di Genova, aveva facoltà di vita e di morte sui soldati percependo uno stipendio che, nel 1529, ammontava a quaranta lire al mese. La carica era di durata annuale: durante questo periodo il castellano doveva risiedere all'interno del Castello e solo eccezionalmente (nel caso di problemi di salute) poteva ricevere il permesso di assentarsi. Quando nel 1528 i genovesi, dopo aver preso possesso del Forte di Gavi, lo posero sotto il comando di Ettore Fieschi, diedero a quest’ultimo ordini ben precisi:

La principal cura vostra è che guardate quel loco da nemici, che vi sono pur troppo propinqui, et per salvarlo bisogna che siate molto avertente, et facciate che le guardie siano fidatissime […] voi stesso dormirete in Castello ¹

La Repubblica di Genova, dal canto suo, si impegnava ad emanare i Capituli et ordini da observare in lo Castello di Gavi, una serie di procedure (destinate al gestore del Castello) da osservare per una corretta amministrazione. Per prima cosa i Capituli imponevano ai soldati un comportamento da “homini e non da bestie", con specifici riferimenti alla creanza religiosa. Nello specifico, qualsiasi forma di bestemmia era severamente vietata e punita: in caso di trasgressione, infatti, la pena (un'ammenda in denaro di 5 soldi) poteva, nei casi di recidiva, condurre il colpevole alla pubblica fustigazione.

I Capituli regolamentavano con precisione anche il tempo libero dei soldati, i quali, in numero massimo di quattro alla volta e per un’ora sola al giorno, erano liberi dalle loro mansioni dovendo tuttavia portare sempre le armi con loro. La vendita delle armi, infatti, era addirittura punita con la prigionia. Per ciò che riguarda l’introduzione delle donne all’interno del forte, essa era subordinata non solo al benestare del castellano, ma addirittura al placet del governo genovese. Erano puniti molto severamente (talvolta anche con la morte) anche i litigi e le violenze reciproche tra commilitoni. Vietata, ovviamente, anche l’appropriazione indebita dei beni in dotazione al castello, punita con pene sia pecuniarie che corporali (sempre nei casi di recidiva).

La guardia e il sistema di sicurezza

La vita nel Forte, documentata dalle poche carte d’archivio superstiti, era fortemente regolamentata e decisamente dura. Le epidemie, come quelle di vaiolo, erano frequenti, e favorite dalle precarie condizioni igieniche a cui erano sottoposti i soldati (i quali dormivano, spesso condividendoli, in austeri giacigli riempiti con semplice paglia). Questi ultimi erano costretti a turni di guardia durissimi. Gruppi di sentinelle, selezionati con il lancio dei dadi - e il cui numero raddoppiava nelle ore notturne – presidiavano i due bastioni di vedetta (figura 4). Le guardie si aiutavano reciprocamente a mantenere un costante stato di veglia percuotendo delle tavole di legno e ripetendo queste operazioni dalle dodici alle quindici volte all’ora. Compito del capo turno, estratto anch’esso a sorte, era mantenere sveglie le guardie fino ai tre rintocchi della campana del torrione che sancivano il cambio della guardia.

Fig. 4 - Planimetria del Forte di Gavi dopo gli interventi del Fiorenzuola. Da http:/www.gavi.info/prospetto.htm.

Un aspetto curioso circa le guarnigioni militari di Gavi è costituito dal fatto che esse, fino alla fine del XVII secolo, poi, non possedevano neanche una vera e propria divisa. Fu solo nel 1654, infatti, che alle sentinelle venne fornito un cappotto rudimentale (cabano) per permettere loro di affrontare meglio le temperature più rigide. La mancanza di uniformi rendeva difficoltoso anche il riconoscimento dei soldati, che erano divisi in gruppi in base agli incarichi loro affidati. Per ovviare a questo problema i comandanti inizialmente facevano portare ai vari gruppi di soldati dei ramoscelli, collocati sul cappello o nella cinta, o una banda colorata sugli abiti. Il difficile riconoscimento dei soldati poteva causare gravi inconvenienti di gestione, o addirittura incidenti mortali, specialmente durante le battaglie. I soldati della Repubblica di Genova furono dotati di divise solo a partire dal 1721 (figura 6).

Fig. 6 - Uniforme dei soldati “scelti” di Gavi. Da Pinterest.it.

L’accesso alle risorse idriche

Il rifornimento d’acqua era un problema primario nel Forte che, data la posizione, non poteva accedere alle risorse idriche di fiumi o ruscelli. Vennero perciò predisposte grandi cisterne adibite alla raccolta dell’acqua piovana, alimentate da un complesso sistema di canali di scolo e grondaie. Le cisterne nel Forte erano quattro: la più grande, collocata nella Cittadella, poteva contenere quasi due milioni di litri d’acqua (figura 5).

Fig. 5 - Progetto per la cisterna della Cittadella.

La frequente fuoriuscita di acqua dalle cisterne rese necessaria, nel 1595, la costruzione di un nuovo sistema di condutture idriche, completata grazie all’intervento di una squadra di tre massacani (muratori), coadiuvata da diversi garzoni e manovali che comprendevano anche alcune donne. I lavoratori realizzavano i canali di scolo venivano costruiti dall’assemblaggio di prefabbricati, a loro volta realizzati dagli scalpellini della vicina cava della pedrera, trasportati fino al forte per mezzo di carri. Una volta assemblati, i condotti venivano verniciati con una speciale sostanza a base di uova, olio, vernice e ossido di ferro (molto simile a quella utilizzata nella pittura a tempera), impiegata per impermeabilizzare e facilitare lo scorrimento dell’acqua.

Note

¹Armando Di Raimondo, Il forte di Gavi (1528-1797), p. 21.

Bibliografia

Francesco Pernice, Il Forte di Gavi, Torino, Celid, 1997;

Armando Di Raimondo, Il Forte di Gavi (1528-1797), Genova, Erga, 2008;

Arturo Dellepiane, Polcevera-Lemme-Scrivia-Borbera. Itinerari di arte e di storia, Genova, Tolozzi, 1966.


MARIA MADDALENA LA DONNA DELL'ARTE CRISTIANA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Da sempre le istituzioni dimostrano la propria forza e il proprio potere servendosi del linguaggio dell’arte. La Chiesa Cristiana, in tal senso, è stata la massima esponente di un simile modus operandi, rivolgendosi in ogni tempo al talento dei migliori artisti per la creazione di opere dal grande impatto visivo ed emotivo. Tra i soggetti iconografici più cari all’arte cristiana di ogni epoca spicca indubbiamente la figura biblica di Maria di Magdala, più nota come Maria Maddalena.

Sulla figura della Maddalena è innanzitutto necessario fare una serie di precisazioni. Fu a causa di un errore nelle sue omelie, infatti, che papa Gregorio I confuse la figura di Maria di Magdala con quella di altre due donne apparse nei Vangeli, una delle quali era una prostituta. Da questo grossolano errore nacque la fortuna e la sfortuna di questo personaggio, che, oltre a divenire l’emblema del pentimento di una peccatrice, alimentò una concezione della donna fortemente discriminante.

Solo con il Concilio Vaticano II nel 1969 la Chiesa rettificò un errore perpetrato da 1500 anni prima: rettifica dovuta, ma non praticata, tanto che la credenza popolare continuò a vedere in Maria Maddalena la prostituta pentita che seguì Gesù in ogni sua dimostrazione dopo che egli scacciò da lei sette spiriti malvagi.

Ad oggi un atteggiamento simile verrebbe con ogni probabilità considerato come viziato da pregiudizio di genere, come un’azione volta a mettere alla gogna un solo individuo, ergendolo a emblema totalizzante di un’intera categoria e favorendo direttamente il sistema fondamentalmente patriarcale su cui la Chiesa si è sempre fondata.

Le rappresentazioni di Maria Maddalena

Cercando di entrare nella psicologia degli artisti impegnati, volta per volta, a raffigurare la figura della Maddalena, dalle infinite rappresentazioni del Noli me tangere (episodio che sottolinea maggiormente questo senso di distacco nei confronti di una figura del genere) alle numerosissime rappresentazioni (non solo pittoriche ma anche scultoree) della Maddalena penitente in solitaria, ogni autore cimentatosi nella rappresentazione di questo personaggio ha da sempre seguito schemi iconografici precisi: Maddalena doveva sfoggiare, nei momenti precedenti la conversione, un abbigliamento ricco e un cofanetto di gioie rovesciato; al contrario, nei pressi del santo sepolcro gli abiti si mostravano consunti e ai piedi un mantello logoro sostituiva lo scrigno; nel periodo di ritiro spirituale che segue la morte di Cristo Maddalena è ritratta sola, all’interno di una grotta, ancora ricoperta da pochi stracci con il volto incorniciato da una disadorna massa di capelli. All’interno di un campionario iconografico più o meno vasto, i simboli che la accompagnano frequentemente sono la croce, il teschio, la corona di spine, la frusta e il libro.

Quella di Maddalena è una figura enigmatica, a tal punto da mettere a dura prova le capacità interpretative di molti artisti alle prese con la sua rappresentazione. Questo accadeva poiché, pur trattandosi di una santa, le mistificazioni perpetrate per secoli dalla stessa chiesa Cattolica ai suoi danno contribuirono in maniera decisiva a creare un’immagine umanizzata a tal punto da avvicinarla pericolosamente al popolo peccatore e da renderla una martire reale, sia nel corpo che nello spirito.

Assente in ogni rappresentazione dell’Ultima Cena (la sua presenza è solo ipotizzata per la celeberrima versione dell’episodio narrata a fresco da Leonardo Da Vinci), a Maddalena dedicarono i loro sforzi artisti illustri da Giotto a Giovanni Bellini, da Donatello a Correggio, passando per Guido Reni, Canova, Caravaggio e Luca Giordano, solo per citare i più noti.

Fig. 1 – La figura di Maria Maddalena nella storia dell’arte (breve selezione di alcune opere).

Luca Giordano, Maddalena col Crocifisso, Galleria Nazionale di Cosenza

Esposta tra le sale della Galleria Nazionale di Palazzo Arnone a Cosenza, la Maddalena con Crocifisso di Luca Giordano è sicuramente una delle opere più suggestive della raccolta.

Il dipinto, prima di entrare a far parte della pinacoteca cosentina, si trovava presso una collezione privata. La prima attribuzione a Luca Giordano venne avanzata da John T. Spike.

Fig. 2 - Luca Giordano, Maddalena con Crocifisso, 1660 ca., olio su tela, 127 x 178,5 cm.

La figura della santa, distesa sul fianco sinistro, le nudità coperte da un grezzo panno, occupa l’intera lunghezza della tela. Il braccio sinistro, appoggiato su una roccia, cinge un crocifisso ligneo la cui visione prospettica indirizza lo sguardo dell’osservatore verso l’alto, proiettandolo al di fuori dei limiti fisici della tela. La mano destra invece, rivolta al cuore, cerca di arginare il profondo sentimento di estasi che pervade la santa, assorta nella contemplazione del Crocifisso. Il volto, rivolto alla croce, è segnato dal rigolo di una lacrima di penitenza e avvolto da una massa di lunghi capelli sciolti. L’intera scena si svolge all’interno di una grotta, sulla cui nuda roccia sono riposti i nobili abiti e i ricchi gioielli che simboleggiano l’abbandono della vita peccaminosa e al contempo la proiezione verso il pentimento e la contemplazione di Cristo. Nella parte superiore del dipinto, una coppia di putti si scambia un cenno d’intesa, facendo intravedere tra l’altro un terzo putto, immerso tuttavia nella luce ambrata che pervade l’intera scena. In primo piano invece è pienamente individuabile uno degli elementi iconografici tipici della santa, il teschio rovesciato.

Da un punto di vista iconografico l’episodio narrato da Giordano si rifa alla Legenda Sanctorum (più nota come Legenda Aurea) di Jacopo da Varazze, un testo, originariamente redatto in latino e successivamente trasposto in volgare (seconda metà del XIII secolo), che ha costituito il punto di riferimento essenziale per la letteratura agiografica medievale. Nel proporre la vicenda della santa Jacopo ci restituisce un’immagine che attinge sia dalla vicenda della Maria peccatrice di papa Gregorio sia da quella di Maria di Betania, in cui il villaggio di Magdala era situato. Sempre secondo Jacopo da Varazze, Maria, circa un decennio dopo l’Ascensione di Cristo, dopo essere stata catturata dai pagani insieme ad altri cristiani, approdò miracolosamente in Francia dove iniziò la sua opera di divulgazione del Verbo per poi ritirarsi come eremita in una grotta, all’interno della quale si dedicò interamente alla preghiera.

Da un punto di vista stilistico, invece, chiare rimangono le cifre del linguaggio giordanesco, dall’incarnato ambrato alla posa del soggetto, riconducibile a quella della Bella Afrodite (spesso ritratta nella stessa posizione) e più in generale a quella delle divinità muliebri nelle frequenti scene a carattere mitologico dipinte dall’artista partenopeo. Chiaro è, nell’uso della luce, il riferimento a Tiziano, mentre l’impianto strutturale dell’opera tradisce una certa impronta rubensiana.  Questi particolari tratti stilistici ostacolano una datazione certa; l’ipotesi più accreditata, tuttavia, colloca la Maddalena di Cosenza poco dopo la metà del Seicento (1660 ca.).

Maddalena fu una donna la cui vita, spesso oggetto di confusioni fatali, impresse da subito una direzione molto forte alla spiritualità cristiana. Un soggetto fortemente compromesso nella sua dignità come Maddalena fu tuttavia capace, sfruttando proprio la sua natura fortemente umanizzata, di riservare agli artisti di ogni epoca un margine di interpretazione abbastanza ampio in un ambito, quello dell’iconografia sacra, da sempre connotato da vincoli molto stringenti.

 

Bibliografia

Vodret (a cura di), Anteprima della Galleria nazionale di Cosenza, Milano, Silvana, 2003

 

Sitografia

https://sites.google.com/site/centrostudismmaddalena/home/maddalena-nella-leggenda-aurea

https://www.biblistica.it/wordpress/?page_id=3436

 

FELICIA VILLELLA

Nata calabrese classe ‘88, si laurea prima in Scienze e tecniche per il restauro e la conservazione dei Beni Culturali nel 2009 e poi con lode in Scienze e tecnologie per la conservazione e il restauro per i Beni Culturali (LM11) nel 2011 presso l’Università della Calabria.
Prosegue gli studi nel settore, terminando un corso di perfezionamento in Restauro applicato all’archeologia subacquea. All’interno dell’equipe del Grande Progetto Pompei collabora alla redazione del documento di VAS, oltre alla realizzazione di Tavole Tecniche Progettuali in riferimento al Piano strategico UNESCO per i Comuni di Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Pompei, Trecase, Boscotrecase, Boscoreale e Castellammare di Stabia.
Attualmente svolge attività di tirocinio presso il Museo Archeologico Lametino.
Pubblica articoli relativi al patrimonio culturale calabrese su riviste scientifiche accreditate sia come ricercatrice autonoma che in collaborazione con il dipartimento DiBEST dell’Università della Calabria.
È coautrice del volume La conoscenza per il restauro e la conservazione – Il Ninfeo di Vadue a Carolei e la Fontana Nuova di Lamezia Terme (FrancoAngeli Edizioni, 2012).
Scrive come freelance blogger per il sito internet www.progettostoriadellarte.it, nella sezione Discovering Italia, come referente della regione Calabria dal settembre del 2015.
Matura parallelamente una propensione per le arti figurative e la fotografia digitale, e realizza l’immagine di copertina del romanzo Quando fioriscono le mimose (Amazon, 2017) e le illustrazioni dei libri per bambini Mirta e la Polvere d’Oro (Amazon, 2018) e Mirta e i Fiorincanto: Acanto (Scatole Parlanti, 2019).

 


ANTONIO CANOVA: IL MUSEO E LA GIPSOTECA

A cura di Alice Casanova De Marco

Introduzione

Antonio Canova nacque il primo novembre del 1757 a Possagno, un piccolo paesino alle falde del massiccio del Monte Grappa, in provincia di Treviso. Oggi la città di Possagno conserva e valorizza un notevole patrimonio artistico, costituito da dipinti, gessi, calchi, ma anche scorci di quella che era la vita quotidiana del Canova, come l’arredamento e i numerosi libri da lui consultati. Tutto ciò è racchiuso e visitabile all’interno del “Museo e Gipsoteca di Antonio Canova”, uno dei primi musei del Veneto, che vede la sua sede proprio nella Casa Natale dell’artista. Oltre alla dimora natia - divenuta ora Pinacoteca - il complesso del Museo è costituito anche da un’Ala Ottocentesca - la Gypsotheca - e da un’Ala Novecentesca, progettata dall’architetto Carlo Scarpa.

Fig.1 - Interno della Casa Natale.

La Casa dell’artista si presenta come un’abitazione tipicamente veneta, costituita da un corpo centrale che si sviluppa su più piani e da vari annessi come la cantina, i lunghi portici per il deposito dei materiali da lavoro e la stalla per gli animali da traino. L’edificio che vediamo oggi è il risultato di alcune ristrutturazioni messe in atto dopo il terremoto del 1695 - che provocò crolli e danni in gran parte della città - e le modifiche apportate dal Canova stesso tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Tra queste modifiche è ad esempio la realizzazione della Sala degli Specchi e la costruzione della Torretta, sala un tempo adibita allo studio e ad uso biblioteca (2.575 volumi), ora utilizzata come archivio per i busti di gesso realizzati dall’artista. In generale, la casa natia risulta essere di grande importanza per l’arte veneta, non solo perché conserva gli arredi originali Ottocenteschi, ma soprattutto perché ospita al suo interno una ricca raccolta di tempere e oli realizzati dall’artista. Nonostante Antonio Canova sia per lo più conosciuto come uno dei più grandi scultori neoclassici, ci furono due momenti specifici della sua vita durante i quali egli scelse di allontanarsi temporaneamente dal terreno della scultura per dedicarsi a quello della pittura. Il primo momento pittorico risale al soggiorno a Roma, avvenuto tra il 1783 e il 1790, durante il quale l’artista realizzò ad esempio Venere con lo specchio, (1785) [fig.2] una delle sue prime opere pittoriche, nella quale si nota l’ispirazione ai modelli veneziani o a Guido Reni. Rimandi al classicismo romano sono invece presenti nella seconda Venere dipinta dallo stesso, la Venere con Fauno (1792) [fig.3], la cui figura allungata ed innaturale denota la volontà dell’artista di porvi una nota personale.

Del secondo periodo, 1798-99, fanno invece parte le cosiddette “Tempere di Possagno”, una raccolta di tempere e disegni i cui soggetti traggono ispirazione dalle pitture parietali di Ercolano e vedono come protagoniste Ninfe con amorini, Muse con filosofi e poeti, e Danzatrici [Figg. 4-5]. La danza, motivo emblematico dell’arte canoviana, è il denominatore comune di queste tempere nelle quali emerge «una visione del corpo umano che si sublima nello slancio e nel ritmo» (1). Particolarmente interessante inoltre, è la tecnica e l’insieme di materiali utilizzati dall’artista per la realizzazione di queste opere, ovvero la “tempera all’uovo su tavola”, un miscuglio di pigmenti naturali, tuorlo d’uovo, qualche goccia d’acqua, aceto, alcol o latte di fico.

La Gipsoteca

La costruzione della Gipsoteca – termine che deriva dal greco e significa “raccolta di gessi” - fu voluta dal fratellastro di Antonio Canova, Gian Battista Sartori Canova (1775 - 1858), che divenuto legittimo proprietario di tutti i beni alla morte del fratello, volle raccogliere i gessi presenti nello studio dell’artista a Roma e collocarli a Possagno. Lo spostamento delle opere, iniziato nel 1829, fu un evento inusuale per l’epoca; un’operazione delicatissima e molto costosa, resa possibile soprattutto grazie alla posizione di vescovo del Sartori. Nei mesi di giugno e luglio, 103 casse sezionate e numerate dal bassanese Pietro Stecchini, contenenti gessi, dipinti e marmi lasciarono Roma per essere prima trainati da cavalli e buoi fino a Civitavecchia e poi essere imbarcati in direzione del porto di Marghera. Da qui, le opere furono stipate a Possagno, in attesa della costruzione della Gipsoteca.

I lavori di progettazione della cosiddetta “Nuova Fabbrica a uso Galleria” (2), ebbero inizio nel 1834 e furono affidati a Francesco Lazzari (1791-1891), professore di architettura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e già attivo nella sistemazione delle Gallerie dell’Accademia. Nonostante i pesanti bombardamenti del Primo conflitto Mondiale (3) [Figg. 8-9], la Gipsoteca rispecchia tuttora l’iniziale progetto di Lazzari: una grande aula basilicale composta da tre moduli quadrati di uguali dimensioni ed un maestoso abside a conclusione della sala. Il soffitto, alto e solenne, è a botte cassettonato, intervallato da tre lucernari che fungono da unica fonte di illuminazione. L’idea di voler realizzare un’illuminazione zenitale fu particolarmente originale, in quanto permise di sfruttare l'integrità delle pareti per esporre bassorilievi e busti evitando dunque di dover sacrificare dei tratti di superficie per aprire le finestre. In generale, la conformazione architettonica della struttura è di grande fascino e tende a condurre naturalmente lo sguardo dell’osservatore verso il fondo della galleria, in direzione dell’abside.

Quest’ultima, ingegnosamente rialzata, dava un tempo ulteriore spicco alla statua della Religione Cristiana (1813) [Fig. 10], mentre ora, in seguito agli spostamenti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale, mette in risalto l’imponente gruppo di Ercole e Lica (1795-1815).

Fig. 10 - Gipsoteca prima del Secondo Conflitto Mondiale. All'interno dell'abside vi è la statua della Religione Cristiana.

Nel 1836 i lavori furono finalmente completati e nel 1844 il Museo fu accuratamente allestito da Sartori il quale suddivise i gessi per soggetti e dimensioni, separando le statue sacre dalle Ninfe, dalle Veneri e dalle Danzatrici, ed organizzò l’itinerario secondo un unico percorso longitudinale.

Negli anni 1953-1957 la costruzione Ottocentesca di Lazzari fu affiancata da un nuovo spazio, la cui progettazione venne questa volta affidata al celebre architetto Carlo Scarpa (1906 - 1978). La nuova struttura nacque dall’esigenza di voler valorizzare il patrimonio canoviano che giaceva nel deposito, ed esporre in modo adeguato i modellini in gesso e in terracotta. L’ala è composta da un’alta sala a torre e da un corpo allungato che si restringe fino a condurre lo sguardo in direzione di una piscina, davanti alla quale sta il gruppo de Le Grazie. L’ambiente appare fortemente illuminato grazie alla presenza di ampie vetrate e finestre angolari, una soluzione di grande effetto scenografico, ma anche funzionale, in quanto trattandosi di statue in gesso, vi era la necessità di uno spazio molto luminoso.

Fig.13 - Aula Scarpa con dettaglio delle finestre a prisma.

Il Tempio

Fig.14 - Il Tempio di Possagno.

Da qualsiasi direzione si provenga, giunti nelle prossimità di Possagno è impossibile non notare il maestoso Tempio che si erge in cima alla collina a nord della città. Dedicato alla Trinità, come riporta l’incisione latina DEO OPT MAX UNI AC TRINO (4), il tempio è stato realizzato dove un tempo sorgeva la chiesa del paese. Antonio Canova infatti, desiderava che il tempio stesso divenisse la chiesa principale e che fosse un dono da lui offerto alla religione Cristiana. Sebbene pianificato dall’artista stesso, il disegno del progetto fu opera di Pietro Bosio con alcuni suggerimenti dell’architetto Antonio Selva, ed è caratterizzato da un insieme di tre componenti architettoniche. Nonostante sia complessivamente neoclassica, la struttura presenta un colonnato dorico – due file di otto colonne che richiamano il Pantheon di Atene – una parte centrale di forma cilindrica simile al Pantheon di Roma ed infine un’abside rialzata come quelle delle antiche Basiliche Cristiane.

 

Note

(1) M. PRAZ, G. PAVANELLO (a cura di), L'opera completa del Canova, Milano, Rizzoli, 1976, p.139

(2) Come si legge nel Libro mastro della Fondazione Canova datato 1829-36.

(3) Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1917, una granata austriaca cadde e devastò gran parte dei gessi presenti all’interno della Gipsoteca.

(4) Dio ottimo e massimo, uno e trino.

 

Bibliografia

BASSI (a cura di), Antonio Canova, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1943.

CUNIAL, M. PAVAN, Antonio Canova. Museum and Gipsoteca, Grafiche V. Bernardi, Pieve di Soligo (TV)

GUDERZO, Gipsoteche. Realtà e Storia. Atti del convegno internazionale di studi, Treviso, Edizioni Canova, 2008

PASTRO, Le fondazioni per i beni culturali in Italia: qualche esempio dalla Marca Trevigiana, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Facoltà di Scienze Economiche per l’ambiente e la cultura, Anno Accademico 2011/2012.

PRAZ, G. PAVANELLO (a cura di), L'opera completa del Canova, Milano, Rizzoli, 1976.

ROSSI (a cura di), Catalogo Illustato delle opere di Antonio Canova: Gipsoteca e Tempio di Posagno, Libreria Editrice Canova, Treviso.

 

Sitografia

www.museocanova.it

 

Immagini

www.museocanova.it

Pagina Facebook del Museo e Gypsotheca Antonio Canova


MARIETTA ROBUSTI: LA “TINTORETTA”

A cura di Mattia Tridello

Marietta Robusti alla Madonna dell'orto

Se ci apprestassimo a visitare la cosiddetta chiesa della Madonna dell’Orto nel sestiere di Cannareggio a Venezia, rimarremmo stupiti dalla quantità di incredibili opere d’arte e fede che vi sono custodite. In particolare il nostro occhio ricadrebbe sulla notevole presenza di tele e pale d’altare che potrebbero far pensare a una scuola di esecuzione comune, oppure ad un artista unitario. Ebbene, quest’ultime, si rivelano come splendide e prolifiche testimonianze dell’arte di uno dei più geniali e innovativi maestri del XVI secolo, un veneziano che seppe mutare con il suo vibrante pennello la concezione pittorica lagunare e imprimere nella storia dell’arte uno stile del tutto unico e distintivo. Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, riposa tra le pareti dell’edificio sacro, sulle quali sono infissi alcuni dei suoi più noti capolavori, insieme ai famigliari che gli stettero vicino. Tra questi figurano alcuni componenti della numerosa prole: i figli maschi, Domenico e Marco, insieme all’adorata Marietta, la primogenita e per di più illegittima figlia del maestro. Quest’ultima, denominata la “Tintoretta”, nacque presumibilmente attorno al 1554 da una relazione del pittore, precedente al matrimonio con Faustina Episcopi, con una donna tedesca della quale non si conosce il nome ma che per alcuni storici potrebbe esser stata ritratta, insieme alla piccola fanciulla, nella “Presentazione al Tempio di Maria” (Fig. 1). Quest’ultima è collocata nelle immediate vicinanze della cappella della tomba di Jacopo, in una posizione contigua e visibile dalla lapide del Robusti, quasi a voler essere vicina all’artista che ha voluto dipingerla, secondo alcuni, per rimediare in qualche modo all’atto del passato, secondo altri, per ricordare e imprimere nel tempo il volto dell’amata e benvoluta figlia. Tali parole vogliono ribadire come, a differenza dei diffusi costumi sociali della seconda metà del ’500, Tintoretto ebbe sempre un occhio di riguardo nei confronti di Marietta. Anche se illegittima, dopo la morte della madre naturale, venne accolta in casa Robusti per ricevere un’adeguata istruzione che non si limitava solamente ai precetti dell’educazione cinquecentesca, ma spaziava dalla musica alla pittura, dalla grazia al portamento e dal sapere all’arte. La giovane condusse un’esistenza volta a coltivare il suo talento nel dipingere e nel farsi riconoscere, non solo come donna, ma anche come valente artista in un mondo artistico dominato prevalentemente dal genere maschile.

Proprio Marietta, l’ultima componente della famiglia a cui si poteva pensare, ereditò il  notevole talento del padre tanto da affermarsi come valente pittrice più del fratello Domenico che, una volta prese le redini della bottega paterna, non seppe continuarne il prestigio artistico nella laguna. La “Tintoretta” invece, portata e incline a tutto ciò che comunicava bellezza, seppe far valere la propria personalità arrivando addirittura ad essere richiesta per la sua bravura nelle corti europee. Tuttavia ad oggi sono pochissime le opere autografe e a lei certamente attribuibili, mentre un’immane schiera di altri capolavori attende ancora il riconoscimento della sua mano che per troppo tempo venne sottovalutata. Il suo stile e la vicenda parentale riemersero nell’Ottocento rivestiti e caricati di una notevole patina romanzesca, che contribuì ad accrescerne il mito e ad affermarne progressivamente l’importanza, tramandando ai posteri le vicende di una delle poche donne artiste che influenzarono la pittura veneziana del XVI secolo. Ripercorrendo e rileggendo le scarse notizie autobiografiche di quest’ultima si cercherà dunque, tramite un itinerario dei luoghi che la videro maggiormente attiva, di delinearne il veritiero profilo sociale, artistico e familiare. Si cercherà di ricostruirne cronologicamente il racconto, in stretto contatto con le pitture da lei lasciate, basandosi sulle testimonianze scritte, non romanzate, di valenti biografi cinquecenteschi e seicenteschi. Passeggiando tra le calli della città lagunare ci si insedierà tra i palazzi per rintracciare la sua casa natale, la bottega del padre e infine la chiesa, dove oggi riposa, che ne conserva e tramanda il mito.

Fig. 1 – La “Presentazione al Tempio” di Jacopo Robusti detto il “Tintoretto” con evidenziato il presunto ritratto della figlia con la madre, Santa Maria dell’orto, Venezia.

Marietta Robusti: la vita

Le principali testimonianze scritte riguardanti la figura storica di Marietta Robusti, sebbene non numerose, permettono di delineare alcuni tratti caratteristici della sua vita come figlia del Tintoretto e pittrice di fama. La prima citazione di questa si deve al cosiddetto “Cieco d’Adria”, Luigi Groto, che nella prima parte delle sue “Rime” (1577) ne descrisse la bellezza mentre ella era ancora in vita. Il legame tra quest’ultimo e la famiglia Robusti si protrasse nel tempo tanto che, nel 1582, Jacopo lo ritrasse in un dipinto attualmente collocato presso il Municipio di Adria (RO) (Fig. 2). L’altra testimonianza che maggiormente permette un’osservazione accurata sulle prime vicende della sua esistenza, si può rintracciare ne “Le meraviglie dell’arte” (1648), il volume composto dal pittore e scrittore Carlo Ridolfi. In quest’ultimo egli, all’interno della descrizione della vita di Tintoretto (Fig. 3), non dimentica di inserire una piccola parte dedicata alla figlia e con queste parole ne tramandò la memoria nel XVII secolo:

“Visse dunque in Venetia Marietta Tintoretta, figliola del famoso Tintoretto, e delitie più care del genio suo, da lui allevata nel disegno e nel colorire, onde poscia fece opere tali, che n’hebbero gli Huomini a meravigliiarsi del vivace suo ingegno; ed essendo piccoletta vestiva da fanciullo, e conducevala seco il Padre dovunque andava, onde era tenuta da tutti un maschio”

Carlo Ridolfi, “Le meraviglie dell’arte”, 1648.

 

Come si evince dalla descrizione fornita dal Ridolfi e dall’esito degli ultimi studi avanzati da M. G. Mazzucco, Marietta venne accudita nella casa paterna dove ricevette un’educazione convenzionale per l’epoca, ma con anche un occhio di riguardo per il mondo artistico e pittorico tanto amato dal Robusti. Secondo le parole dello storico seicentesco, quest’ultima già dall’età di sette anni era solita frequentare, vestita con abiti maschili, la bottega del padre: in questo modo raggirò le rigide restrizioni rinascimentali dell’educazione femminile, che impedivano lo sviluppo della carriera artistica per le donne in un panorama prettamente maschile. Superate le prime difficoltà e restrizioni, Marietta Robusti riuscì ben presto a guadagnarsi la fama di abile pittrice. Ella risultò sia assidua collaboratrice per la pittura dei teleri del padre o dei fratelli, sia abile ed esperta consigliera circa i modelli iconografici e le disposizioni delle figure durante il processo di composizione in bottega. Secondo alcuni resoconti sembra che desse svariati consigli e correzioni anche allo stesso Jacopo che, per ringraziarla e darle il giusto spazio, spesso la rendeva partecipe del completamento o della stesura pittorica di alcune parti delle sue commesse. Per tale motivo, ad oggi, risulta veramente arduo rintracciare ogni singola parte autografa della sua mano nel panorama delle opere tintorettiane.

Fig. 2 – Il “Cieco d’Adria”, Tintoretto, 1582, Municipio di Adria (RO).

L’eco della crescente carriera della “Tintoretta” non tardò a farsi udire anche all’estero e nei regni vicini. Fu così che la sua fama di valente pittrice iniziò ad essere conosciuta e largamente richiesta da numerosi sovrani europei, basti citare Massimiliano II, Ferdinando II d’Asburgo e Filippo II di Spagna. Tuttavia, anche per volere di Jacopo, ella dovette rinunciare a trasferirsi in una delle corti che trepidamente l’aspettava per dedicarsi completamente al matrimonio, preferendo una vita più confacente ai suoi interessi nel coltivare la pittura, nel creare un solido nido famigliare e nel restare, se possibile, vicino alla casa paterna. Nel 1578 Marietta Robusti sposò infatti il gioielliere tedesco Marco Augusta, dal quale ebbe la figlia Orsola Benvenuta battezzata il 9 Aprile 1580. Le scarse informazioni riguardanti i dati biografici di Marietta sembrano interrompersi bruscamente dopo la nascita della figlia, per poi riapparire improvvisamente nel descriverne la morte e la relativa sepoltura. Quest’ultima avvenne, presumibilmente nel 1590 all’età di trent’anni, per via di un parto o a causa di un cancro che la colpì mentre si trovava a Mantova con Tintoretto. La sua morte segnò indelebilmente la fine terrena di una figura senz’altro unica nel suo genere, straordinaria nel far valere i sani valori del lavoro e della famiglia anche difronte ad opportunità allettanti, ma forse distanti dal personale desiderio del cuore.

Le opere

Come si accennava in precedenza, la difficoltà nel riconoscere le singole personalità all’interno della bottega del Robusti, ha comportato per secoli l’identificazione della “Tintoretta” come “l’artista senza opere”. Tuttavia, anche grazie al contributo recente di alcuni storici dell’arte e studiosi, sono state tratte alcune ipotesi interpretative che le riconoscerebbero la paternità di alcuni teleri della bottega paterna e altri quadri, perlopiù ritratti, del tutto autografi. Secondo le teorie avanzate da Adolfo Venturi, oltre ad altre numerose interpretazioni, ella realizzò quasi certamente alcune parti del “Miracolo di Sant’Agnese” (Fig. 4), la pala d’altare collocata nella Cappella Contarini (Fig. 5) in Santa Maria dell’Orto a Venezia che venne commissionata al padre nel 1575.

I numerosi studiosi che si sono posti il problema dell’attribuzione sono tuttavia unanimi nel definire il quadro “Autoritratto con madrigale”, conservato alla Galleria degli Uffizi, come l’unica, se non la più certa, opera senz’altro autografa della pittrice veneziana (Fig. 6).

Le tela, ritenuta il caposaldo della ricostruzione interpretativa della carriera pittorica dell’artista, fu acquistata dal Cardinale Leopoldo de’ Medici nel 1675. La rappresentazione per tre quarti, il corpo leggermente ruotato e gli occhi indirizzati sulla sinistra del campo visivo, alludono al fatto che probabilmente l’opera venne dipinta allo specchio e che quindi si tratterebbe, come narrato storicamente, del vero e forse unico certo autoritratto della giovane donna. Quest’ultima, vestita con un raffinato abito bianco decorato con un tessuto egregiamente plissettato, regge nella mano sinistra uno spartito mentre la sinistra si appoggia sul retrostante clavicembalo. La dettagliata e accurata resa del foglio musicale permette di poterlo identificare come la ventiquattresima pagina del cosiddetto Cantus del madrigale di Philippe Verdelot, pubblicato a Venezia nel 1533.

Fig. 6 – Marietta Robusti, “Autoritratto con il madrigale”, 1578, Galleria degli Uffizi.

I luoghi di Marietta a Venezia

Dopo aver delineato le vicende, le opere e le caratteristiche che formarono la giovane “Tintoretta”, è più che necessario ora cercare di analizzarne la figura in stretto contatto con i luoghi che frequentò e ai quali fu sempre legata da un sentimento d’affetto e gratitudine. Immaginando di giungere al sestiere di Cannareggio a Venezia, percorrendo le calli, i canali e i ponti, si arriva in prossimità delle Fondamenta dei Turchi dove, sulla sinistra, si scorgono una serie di caseggiati nei quali spicca un palazzo che fu la piccola dimora di Jacopo Robusti e della rispettiva prole (Fig. 7). La casa natale di Marietta, colorata esternamente e ricca di numerose decorazioni a bassorilievo in pietra d’Istria, si staglia tra le mura delle altre case riflettendo il suo fascino nel canale antistante e regalando intramontabili scorci del tempo che videro il maestro, la figlia e i figli, lavorare sotto un unico tetto, ed aprire e chiudere porte e finestre per affacciarsi al nuovo giorno. L’abitazione, attualmente non visitabile, permette al visitatore di assaporare una piccola rarità del tempo e invita a proseguire l’itinerario sui passi di Marietta. Non distante da quest’ultima infatti, a circa due minuti, si trova la Chiesa della Madonna dell’Orto, l’edificio sacro lungamente frequentato dai membri della famiglia di Tintoretto, nonché sede di numerose commissioni della sua bottega (Fig. 8). L’impianto trecentesco della costruzione, non a caso, costituì nel corso del tempo il principale memoriale dell’opera tintorettiana, tanto da essere più volte definito “la chiesa del Tintoretto”. All’interno di quest’ultima sono collocati alcuni dei capolavori pittorici che hanno instaurato un rapporto diretto con Marietta. Da una parte si trova la “Presentazione al Tempio”, sulla parete opposta si staglia la Cappella Contarini con il “Miracolo di Sant’Agnese” e infine, accanto al presbiterio sulla sinistra, si trova la cappella che ospita le spoglie di alcuni componenti della famiglia Robusti: Jacopo, Marietta, Domenico e il suocero materno (Fig. 9). Quest’ultima era ubicata al di sotto della cantoria dell’organo nella controfacciata dell’edificio, proprio nel piano di calpestio più prossimo all’entrata principale. La lunga storia della lapide, visibile ancora oggi, è profondamente legata alla scomparsa di Marietta avvenuta nel 1590. Alla morte di quest’ultima il padre decise di seppellirla al di sotto di quella stessa lapide che, da lì a pochi anni, nel 1594, avrebbe visto riposarvici lo stesso Jacopo insieme al figlio Domenico. La volontà di ripristinare un luogo legato esclusivamente alla memoria di uno dei più importanti geni della pittura veneziana, fece sì che iniziassero una serie di lavori di restauro che si conclusero, raggiungendo l’odierna forma, nel 1930.

Arrivando dunque alla fine di questo itinerario alla scoperta della figura di Marietta, si può facilmente denotare che, sebbene all’ombra del padre, quest’ultima seppe farsi valere grazie a un innato e spiccato talento nella pittura, in un mondo artistico principalmente maschile. Tramite il sapiente uso del pennello riuscì a far propri gli insegnamenti del padre, replicandoli, riproponendoli e senz’altro acquisendoli con disinvoltura ed eleganza. Ella non fu solo un’abile figlia, bensì la figlia amata da Tintoretto, la primogenita della quale conosciamo purtroppo ancora molto poco ma che, grazie a ciò che ci è stato tramandato, potrà essere nuovamente studiata e amata come suo padre fece per tutta al vita. La sua personalità di certo non poté essere tale senza la presenza di un padre fortemente ancorato ai valori etici come Jacopo. Basti pensare che quest’ultimo non fece mai alcuna distinzione tra figli maschi e femmine, anzi, trattandoli con pari dignità, li rese tutti beneficiari del suo testamento senza alcuna esclusione. Una rarità per l’epoca. Un’eccezione che conferma la regola e che chiarisce, quasi in anticipo sui tempi, il valore di una donna forte e valente ma anche salda negli affetti: Marietta seppe fare della sua vita un tempo ben speso, ereditando egregiamente il talento del padre, per assumere con dignità l’appellativo di “Tintoretta”.

 

Bibliografia

Marsel Grosso, “Dizionario Biografico degli Italiani”, Treccani

Jonglez, P. Zoffoli, “Venezia insolita e segreta”, JonGlez, 2016

Toso Fei. “I tesori nascosti di Venezia”, Newton Compton Editori, 2016

D’Agostino, “Il ruolo delle donne nell’arte”, 2020

Firenze Musei, “Gli Uffizi, la guida ufficiale”, Giunti, 2018

Mameli, “Ti presento Venezia”, Editoriale Programma, 2016

Vasari, “Le vite…”, Firenze, 1550

Foscari, “Elements of Veneice”, Lars Muller Publishers, 2014

 

Sitografia

Sito Ufficiale della Galleria degli Uffzi

Sito ufficiale Treccani, Dizionario Bibliografico degli Italiani

Sito internet Comune di Venezia

Sito internet della Scuola Grande di San Rocco di Venezia

 

Fonti delle immagini

Immagini tratte da Google immagini, Google Maps

Immagini tratte dal sito internet della Galleria degli Uffizi

Immagini tratte da: G. Foscari, “Elements of Veneice”, Lars Muller Publishers, 2014

Immagini e fotografie tratte da Wikipedia

 

Rielaborazioni

Tutte le rielaborazioni grafiche delle piante della Chiesa, delle cartine e dei percorsi sono state realizzate dall’autore dell’articolo, Mattia Tridello.

 

MATTIA TRIDELLO

Sono nato a Rovigo (RO) in Veneto nel 2001.
Ho frequentato il Liceo Artistico di Rovigo con indirizzo Architettura e ambiente conseguendo la maturità artistica con votazione di 100/100. Spinto nel coltivare il mio interesse artistico e architettonico sto proseguendo gli studi presso la facoltà di Architettura nell’università I.U.A.V di Venezia presso la quale ho partecipato a numerosi seminari riguardanti la storia dell’architettura medievale e moderna e realizzato un saggio di approfondimento in merito alla Cupola e il Baldacchino della Basilica di San Pietro in Vaticano. Volendo approfondire ulteriormente la mia conoscenza della storia  dell’arte frequento seminari e corsi intensivi, in particolare di storia dell’arte moderna, presso la facoltà di Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Frequento inoltre il Conservatorio di Rovigo nel quale ho ultimato gli studi pre-accademici di Pianoforte, ho conseguito la licenza in solfeggio e, ad oggi, ho iniziato lo studio dell’ Organo e della composizione organistica.
All’interno di Storia dell’Arte copro il ruolo di referente per la regione Veneto.