LE OPERE DI VASARI A BOSCO MARENGO PARTE II

A cura di Francesco Surfaro

Introduzione

In questa seconda parte dedicata alle opere realizzate, tra 1566 e 1569, da Giorgio Vasari su commissione di papa Pio V Ghislieri per la chiesa conventuale di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo (AL) verranno arontate le problematiche legate alla genesi e alle ipotesi ricostruttive del perduto altare maggiore vasariano.

Giorgio Vasari: una nuova commissione per Santa Croce

Il 25 febbraio del 1567 Giorgio Vasari si recò alla volta della Città Eterna per sottoporre all'intransigente giudizio del papa regnante, Pio V Ghislieri, l'opera che quest'ultimo gli aveva commissionato all'inizio dell'estate precedente per una delle cappelle laterali dell'edificanda chiesa conventuale dei Padri Domenicani di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo: l'Adorazione dei Magi. Evidentemente soddisfatto del superbo lavoro eseguito il pontefice, approfittando della presenza del suo artista ufficiale nell'Urbe, gli richiese l'elaborazione di un progetto molto più articolato e ambizioso rispetto al precedente, stavolta non per una cappella laterale, ma per l'altare maggiore della medesima chiesa boschese il quale, con ogni probabilità, doveva essere stato meditato già da diverso tempo. È noto infatti che, già dal 1562, Ghislieri - all'epoca ancora porporato - aveva in mente di far innalzare un complesso monastico nel proprio borgo natio, pensato in origine non come una sorta di "cattedrale nel deserto" (sorge infatti fuori le mura civiche), quale poi rimase effettivamente al momento della sua dipartita, ma come il cuore pulsante di un nucleo cittadino di nuova fondazione che avrebbe dovuto inglobare i centri di Bosco e della non lontana Frugarolo.

Domìnikos Theotokòpoulos detto "El Greco": Ritratto di Pio V. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

 

Come nel caso dell'Adorazione dei Magi è Vasari stesso, nella sua autobiografia e nel suo fitto carteggio intrattenuto col tesoriere segreto e Primo Cameriere pontificio Monsignor Guglielmo Sangalletti, a fornire puntualmente informazioni precise su questa nuova onerosa commissione papale, la quale andava a sommarsi alla già insostenibile mole di impegni a cui doveva far fronte in questo periodo frenetico e convulso della sua carriera:

«[...] (Il Papa) mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una macchina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte […].»

'Le Vite de' più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori', Autobiografia (ed.1568).

Jacopo Zucchi: Ritratto di Giorgio Vasari, 1571-74. Firenze, Galleria degli Uffizi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

In alcune missive indirizzate allo storico Vincenzo Borghini, suo caro amico, e a Francesco de' Medici, figlio di Cosimo I e futuro Granduca di Toscana, Vasari illustrò certe sue idee per la grande macchina di Santa Croce, accostando questo progetto ad analoghi altari lignei da lui realizzati in patria: l'altare dell'Eremo di Camaldoli (1540), l'altare della Badia Fiorentina (1568) e quello della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo (1564). Dei tre menzionati soltanto l'ultimo, trasferito nella seconda metà del XIX secolo presso la Badia aretina delle Sante Flora e Lucilla, è sopravvissuto - seppur con qualche sensibile rimodulazione relativa perlopiù al basamento - alle ingiurie dei secoli.

Pio V concesse a Vasari di poter lavorare al polittico presso la propria bottega fiorentina, all'interno della quale avrebbe potuto contare sull'aiuto dei suoi più fidati allievi e collaboratori. Una volta portata a compimento la commissione, i vari scomparti sarebbero stati imbarcati da Pisa alla volta di Genova e da lì inviati a Bosco via terra. Giunto a Firenze all'inizio della primavera del 1567, Vasari si mise subito all'opera disegnando studi preparatori da inviare a Roma per ottenere un parere da Sua Santità. Di questi rimangono soltanto due, entrambi relativi alla tavola centinata raffigurante il Giudizio Universale che, in origine, campeggiava sulla faccia anteriore del polittico. Il primo si conserva a Parigi, presso il Cabinet des Dessins del Musée du Louvre, l'altro invece trova la propria collocazione alla Fondazione Ratjen di Vaduz, in Liechtenstein. La bozza parigina riveste un'importanza straordinaria in quanto, assieme ad un particolare visibile sullo sfondo di una pala collocata sull'altare della Cappella di Sant'Antonino in Santa Croce, costituisce l'unica testimonianza grafica nota in grado di restituire un'idea di come doveva presentarsi la Macchina Vasariana prima dello scellerato smantellamento settecentesco.

Giorgio Vasari (e Jacopo Zucchi?): Studio preparatorio per la macchina d'altare di Bosco Marengo, 1567, inchiostro su carta. Parigi, Musée du Louvre - Cabinet des Dessins.

 

In una lettera datata 28 giugno 1567 Monsignor Sangalletti informava Vasari che il disegno preparatorio per l'altare di Bosco, identificabile forse proprio con quello del Louvre, era arrivato a destinazione con un messo d'eccezione: Battista di Bartolomeo di Filippo Botticelli. Nativo come Vasari di Arezzo, Botticelli era, oltre che un talentuoso maestro d'ascia, anche uno dei più stimati pupilli dell'artista. Fu proprio grazie all'autore de 'Le Vite' che questi si aggiudicò, con una procedura tutt'altro che trasparente, la commissione del nuovo soffitto alla veneziana del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Vasari avrebbe voluto fargli affidare anche la realizzazione dell'apparato ligneo della grande macchina di Bosco ma, per problemi di natura logistica, Pio V ignorò le pressioni esercitate dal proprio artista ufficiale volte a favorire in maniera alquanto spudorata il suo protetto e decise di conferire l'incarico ad una bottega di maestri legnaiuoli che si trovava già in loco, ovvero quella capeggiata dal fivizzanese Giovanni Gargiolli, attivo in quel tempo anche nel coro del Duomo di Santa Maria Assunta a Siena.

Per dare corpo all'altare più grande mai delineato dalla china vasariana Gargiolli si avvalse di alcuni aiuti per quanto concerneva la parte strettamente figurativa, fra questi emerge il nome di Giovanni Angelo Marini detto "il Siciliano", uno degli scultori operanti nel cantiere della Certosa di Pavia e alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Santa Maria Nascente a Milano, la cui mano fu abile nel coniugare i modi tipici della Maniera centroitaliana ad un linguaggio inequivocabilmente legato al gusto degli ambienti meneghini.

Le ipotesi ricostruttive della Macchina Vasariana

Prima che, tra 1709 e 1710, nel corso dei lavori di rifacimento decisi in vista dell'imminente canonizzazione di Pio V, i domenicani ne decretassero lo smembramento e la parziale dispersione, la monumentale Macchina Vasariana di Bosco Marengo, capolavoro della carpenteria, della scultura e della pittura tardo-cinquecentesche, con i suoi 10,50 metri di altezza e 6,40 di larghezza si ergeva maestosa presso la crociera dell'ampia struttura longitudinale a croce latina, al di sotto della cupola ottagonale, in posizione leggermente avanzata rispetto all'arco trionfale.

Pur essendoci alcune discordanze fra le uniche attestazioni visive dell'opera antecedenti allo smontaggio (la proposta progettuale del Louvre e la Pala di Sant'Antonino), grazie ad un raffronto fra esse e alle notizie desumibili dagli scritti di Vasari e dalla "Istoria del convento di Santa Croce e Tutti i Santi della Terra del Bosco" (1783) di fra' Guglielmo della Valle, primo storico del complesso monastico di Bosco, è possibile avanzare delle ipotesi di ricostruzione non troppo lontane dalla realtà.

L'altare bifronte in legno di pioppo dorato a foglia, andato completamente distrutto nella sua parte architettonica, si presentava con un impianto prismatico a base rettangolare riccamente ornato con le già citate pitture su tavola dipinte da Vasari e dalla sua bottega, bassorilievi in noce, emblemi e sculture.

Giovanni Gargiolli (o bottega di): Emblema dell'Ordine Domenicano, 1567-69, legno di noce. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Ai lati della mensa, rialzata dal piano di calpestio mediante tre scalini, erano disposti due stemmi, uno riferito all'Ordine dei Frati Predicatori (scudo cappato di bianco e nero con una stella a sei punte, un cane pezzato che tiene una fiaccola accesa tra le fauci, un ramo di palma e uno stelo di giglio incrociati), già nel transetto sinistro, sulla porta d'accesso alla Cappella delle Reliquie ed oggi collocato presso il Museo Vasariano, e l'altro appartenente a Pio V (tre bande rosse su campo dorato), ora posizionato a mo' di fastigio sull'altare della Madonna del Rosario, nell'omonima cappella a sinistra della navata. Osservando in modo analitico lo studio preparatorio del Louvre si nota che, nella mente del progettista, entrambi gli emblemi araldici intagliati sul basamento dovevano riferirsi al pontefice committente ma, in fieri, si decise di aggiungere il blasone domenicano per omaggiare l'ordine che aveva in custodia l'intero complesso conventuale e di cui, peraltro, lo stesso Ghislieri era membro. Nel livello architettonico successivo si innestava la predella, ornata da vari scomparti raffiguranti episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento volti ad esaltare il Mistero del Sacrificio Eucaristico, accostati fra loro secondo una retorica tipologica derivante dall'esegesi patristica che consiste nel rintracciare in episodi biblici la prefigurazione di eventi narrati nei quattro Vangeli sinottici. Riguardo il tabernacolo eucaristico che costituiva il fulcro della predella non vi è certezza su quale fosse la sua reale conformazione: nel disegno del Cabinet des Dessins appare come una struttura tripartita, costituita da un corpo centrale aggettante sovrastato da un timpano centinato e affiancato da due nicchie abitate da figurine in atteggiamento orante; volgendo invece lo sguardo alla pala d'altare del tardo Cinquecento custodita presso la Cappella di Sant'Antonino si noterà che il ciborio riproduce la forma di un tempietto a base rettangolare, sostenuto da esili colonnine binate, coronato da un timpano con sommità aperta e sovrastato da un cupolino su cui svetta un piccolo globo crociato. Su un plinto con girali di foglie acantacee inframmezzati da elementi ornamentali (forse mascheroni) poggiavano coppie di semicolonne di ordine tuscanico. Lungo la trabeazione si snodava un fregio ritmicamente scandito dal susseguirsi di triglifi e metope. Completavano la decorazione del penultimo livello architettonico quattro scomparti ovoidali raffiguranti i Dottori della Chiesa. A coronamento della Macchina era posto un attico sormontato dal Crocifisso ligneo dipinto e impreziosito da inserti dorati opera di Giovanni Angelo Marini, che attualmente domina l'altare maggiore settecentesco in marmi policromi del genovese Gaetano Quadri, e da tre o forse quattro sculture di Profeti, disperse nel corso del XIX secolo. Dalla testimonianza di fra' Guglielmo della Valle si apprende l'esistenza di due porticine laterali tramite le quali i frati, attraversando delle anguste rampe di scale interne al polittico, potevano accedere al fastigio. Il domenicano aggiunge inoltre che queste porte erano provviste di «intaglij bellissimi» riferibili a Giovanni Gargiolli ritraenti un "Noli me Tangere", conservato tuttora nel Museo Vasariano di Santa Croce, e "l'Ingresso di Cristo a Gerusalemme", oggi ubicato a Castellazzo Bormida presso la Chiesa di Santa Maria della Corte. Oltre a questi due bassorilievi in legno di noce espressamente citati da della Valle, gli studiosi ne hanno individuati altri due: uno, collocato accanto al sopracitato Noli me Tangere di Santa Croce, rappresenta Cristo e la Samaritana al pozzo, l'altro, recentemente rinvenuto a Roma nei depositi del Museo Nazionale di Palazzo Venezia, ritrae la Cena a casa di Simone il Fariseo.

Il prospetto principale del fastoso apparato liturgico mostrava, come già anticipato in precedenza, la grande tavola centinata del Giudizio Universale; sul verso trovava posto una pala uguale per forma e dimensioni alla prima raffigurante il Martirio di San Pietro da Verona; i fianchi accoglievano due tavole rettangolari con coppie di Santi Domenicani, accompagnate da quattro scomparti ritraenti episodi tratti dalle vite dei medesimi santi. Presumibilmente sul fianco sinistro dovevano essere ubicati i Santi Vincenzo Ferrer e Tommaso d'Aquino con le tavolette rappresentanti "San Vincenzo che resuscita che un morto" e "La Visione di San Tommaso", mentre sul fianco destro avrebbero potuto esserci i Santi Domenico di Guzmán e Antonino da Firenze attorniati dai riquadri con "San Domenico che resuscita di Napoleone Orsini" e "L'elemosina di Sant'Antonino".

Poco chiara rimane l'esatta disposizione sulla predella dell'altare delle formelle con episodi vetero e neotestamentari che alludono al Sacramento dell'Eucaristia. Se si sceglie di attenersi alla ricostruzione offerta dalla bozza parigina pare che, sul fronte, fossero presenti quattro scomparti. Plausibilmente questi avrebbero potuto essere: "L'incontro tra Abramo e il Sommo Sacerdote Melchisedec", "La Caduta della Manna", "L'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica". A questo punto, ragionando per esclusione, il retro avrebbe dovuto accogliere "Il Sacrificio di Caino e Abele" e "Il Sacrificio di Isacco".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sul disegno del Louvre, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Se, di contro, si prende in considerazione la veduta dell'altare sullo sfondo della pala raffigurante "Sant'Antonino che libera un'ossessa", opera di un anonimo pittore di ambito lombardo, sembra che i pannelli sul recto fossero soltanto due, verosimilmente: "l'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sulla Pala di Sant'Antonino, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Dei quattro ovali con i Dottori della Chiesa e dei quattro pennacchi con i Profeti posti a completamento del vertice della macchina d'altare non si conosce la sorte, meno che per un busto di vescovo variamente identificato con Sant'Ambrogio o con San Donato, rinvenuto a Tatton Park, nella Contea del Cheshire in Inghilterra.

Giorgio Vasari: Busto di Santo Vescovo (Sant'Ambrogio o San Donato?), 1569, olio su tavola. Tatton Park, National Trust. Fonte: Wikimedia Commons. Copyright fotografico: National Trust - Tatton Park.

 

La corrispondenza epistolare tra Sangalletti e Vasari proseguì fino al 10 luglio del 1569, data indicata da lui stesso ne "Le Ricordanze" come la conclusione dei lavori relativi alla sola parte pittorica. Le tavole, tuttavia, non furono inviate a Bosco prima dell'anno seguente, in quanto era necessario attendere che Gargiolli portasse a compimento i singoli elementi lignei della struttura architettonica e che venisse ultimata la copertura della crociera. Pio V avrebbe voluto che Vasari in persona sovrintendesse all'assemblaggio della macchina d'altare, ma l'artista contravvenne al volere del pontefice non seguendo i dipinti, che vennero imbarcati a Pisa per Genova nel luglio del 1570 ed arrivarono a destinazione a settembre. Né l'autore del progetto né il committente videro mai l'opera ultimata in tutte le sue componenti.

Giorgio Vasari: "Il Giudizio Universale", 1568, olio su tavola di pioppo. Cornice settecentesca di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo (1712-13). Bosco Marengo, Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti - abside della chiesa. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

A seguito dello smembramento della «macchina grandissima» il Giudizio Universale - unico fra gli scomparti a riportare la firma di Vasari e la data del 1568 - venne arricchito da una sontuosa cornice tardo-barocca in legno dorato, opera di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo, percorsa da tralci di foglie acantacee e affiancata da quattro putti (dei quali due, collocati sulla sommità, sorreggono una ferula papale, un pastorale e lo stemma di Pio V coronato da un triregno) e collocato nell'emiciclo absidale, sopra il coro gargiolliano. La Pala del Martirio di San Pietro da Verona - eseguita da Vasari in collaborazione con Jacopo Zucchi - fu collocata nel braccio destro del transetto, accanto al Mausoleo di Pio V. Le coppie di Santi Domenicani vennero posizionate ai lati dell'arco trionfale mentre le varie formelle furono dislocate fra la chiesa e il convento. Attualmente "Il Martirio di San Pietro da Verona" e gli scomparti minori del polittico sono esposti al Museo Vasariano, allestito nell'ottobre del 2011 all'interno del Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti nei locali della Sala Capitolare e della Sacrestia.

Giorgio Vasari: "Martirio di San Pietro da Verona", 1569, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Si noti la cornice, che è ancora quella originale eseguita dal Gargiolli. Fonte: Sito ufficiale del Museo Vasariano.

La Macchina di Vasari: commissione devozionale o manifesto politico?

Nel tardo Cinquecento l'utilizzo di tavole lignee anziché di tele come supporto per la pittura suonava già anacronistico, così come appariva ormai antiquata la commissione di un polittico invece di una singola pala d'altare. Questo intento revivalistico, espresso anche nella scelta dei temi iconografici accostati fra loro secondo uno schema assai caro alla filosofia patristica, inquadra benissimo il Magistero reazionario del papa committente che, in sostanza, si prefiggeva di rinnovare la Chiesa, fronteggiare l'avanzata ottomana ed arginare la minaccia protestante ribadendo con veemenza la tradizione e applicando strumenti di feroce repressione. La Macchina Vasariana, al pari dell'Adorazione dei Magi, costituisce un manifesto politico e dottrinale del nuovo Cattolicesimo post tridentino. Se però con il tema dell'Epifania Pio V intendeva alludere sottilmente alla supremazia del potere spirituale su quello temporale, con il programma iconografico ideato per le tavole dell'altare maggiore di Bosco questi mirava ad esaltare il dogma della Transustanziazione e la dottrina della Communio Sanctorum, i quali erano stati messi in discussione dai Riformati. Non era casuale neppure che la faccia retrostante del mastodontico apparato liturgico fosse imperniata intorno alla figura di San Pietro da Verona: il santo domenicano aveva infatti combattuto strenuamente l'eresia catara sia con l'attività di predicazione sia ricoprendo la carica di inquisitore.

 

Bibliografia

GIORGIO ETTORE CAREDDU: Vasari a Bosco Marengo. Indagini diagnostiche e problematiche di restauro, tratto da "Giorgio Vasari tra parola e immagine", Aracne editrice, 2013.

ALESSANDRO CECCHI: Battista Botticelli, "Maestro di Legname" di Vasari , 2017.

MARIA CARLA VISCONTI: La Chiesa di Santa Croce a Bosco Marengo: Problemi di tutela e scelte di restauro.

GRAZIA MARIA FACHECHI: Sculture in legno: Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Gangemi editore.

FULVIO CERVINI, CARLENRICA SPANTIGATI: Santa Croce di Bosco Marengo, Cassa di Risparmio di Alessandria, 2002.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/pio-v-papa-santo_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-gargiolli_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/marini-angelo-detto-il-siciliano/

https://www.treccani.it/enciclopedia/complesso-monumentale-di-santa-croce-e-ognissanti-di-bosco-marengo

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

http://archiviovasari.beniculturali.it/

http://www.nationaltrustcollections.org.uk/object/1298175


PLAUTILLA BRICCI: RITRATTO DI UNA RINNEGATA

A cura di Francesco Surfaro

Estremamente scarse sono le notizie biografiche che si hanno a disposizione su Plautilla Bricci, pittrice, accademica di San Luca, progettista di apparati effimeri nonché unica architetta del XVII secolo di cui ancora si conservi il ricordo. Buona parte di ciò che conosciamo sul suo conto proviene perlopiù da evidenze documentali, anche quelle non particolarmente numerose. Di lei non si è conservato neppure un ritratto o una descrizione fisica. Al pari di chissà quante altre artiste della prima Età Moderna subì una vera e propria damnatio memoriae, decretata da una storiografia artistica fallocentrica scritta da uomini su altri uomini, che preferì dimenticarla condannandola ad un ingiusto oblio plurisecolare.

Fortunatamente la coltre che per oltre 300 anni ha celato la sua figura è stata recentemente scostata dagli studiosi, i quali stanno ancora cercando di far luce su quel glorioso operato che la rese agli occhi dei contemporanei celebre «pel valore nell’arte della pittura e architettura» (Baldinucci).

Precorritrice di quel lungo, tortuoso e - per molti versi e su molti fronti - ancora irrisolto cammino di emancipazione femminile che avrebbe iniziato a dare i propri frutti soltanto a distanza di secoli dalla sua quasi nonagenaria esistenza terrena, Plautilla Bricci, faticando il quadruplo rispetto ai suoi colleghi e ricevendo compensi nettamente inferiori rispetto a questi ultimi, riuscì ad imporsi con le soli armi del talento e della caparbietà in un campo, quello dell'architettura, tutt'oggi profondamente maschilista, non senza subire resistenze e umiliazioni. Se volessimo restituire un'immagine esplicativa di ciò che il suo exemplum rappresenta, la si potrebbe definire, senza remore alcuna, una femme forte che riuscì a scalfire, pur senza romperlo, quel soffitto di cristallo che, ancora oggi, impedisce alle categorie tradizionalmente e sistematicamente discriminate il raggiungimento di livelli apicali e riconoscimenti sociali.

Plautilla Bricci: la Vita

Figlia terzogenita di Giovanni Francesco Bricci e Chiara Recupito Plautilla nacque a Roma il 13 agosto 1616 nella casa dei coniugi Bricci ubicata "in strada del babuino", più precisamente in Via dei Greci. Al momento del battesimo, celebratosi nella Basilica di San Lorenzo in Lucina tre giorni dopo la sua nascita, le venne imposto il nome della zia paterna, una personalità sicuramente anticonvenzionale per l'epoca. Plautilla senior e Plautilla junior furono legate, oltre che dall'omonimia e dal vincolo di parentela, anche dalla stessa forza d'animo profusa nell'affrontare controversie legali volte a limitare l'esercizio della loro libertà. Musicista di talento, Plautilla senior conviveva more uxorio con lo scultore fiesolano Pompeo Ferruccio a Rione Monti. Alla morte del compagno, i figli di lui intentarono una causa contro la donna per impedirle di usufruire dei beni mobili e immobili che, per disposizione testamentaria dello stesso Ferruccio, le spettavano di diritto. La contesa durò fino alla morte di Bricci maior, sopraggiunta nel 1640.

Come la stragrande maggioranza delle colleghe Plautilla era figlia d'arte. Il padre, Giovanni Francesco Bricci, di umili origini (proveniva infatti da una famiglia di fabbricanti di materassi genovesi giunti nella Città Eterna a metà degli anni '70 del Cinquecento), era allievo e amico di Giuseppe Cesari detto "il Cavalier d'Arpino" (il legame che si era instaurato tra i due pittori doveva essere molto stretto dal momento che l'Arpino fece da padrino a Virginia, la primogenita dei coniugi Bricci, nata il 25 ottobre 1609). Erudito voracissimo, rivolgeva i propri interessi verso ogni campo dello scibile umano e si dilettava nell'arte della recitazione, nel suonare vari strumenti musicali, nel comporre testi poetici, commedie e melodie e nel redigere cronache mondane. Era inoltre membro delle Accademie degli Affumicati e dei Divisi nonché della Congrega dei Taciturni. La madre, Chiara Recupito, originaria di Napoli, era la cugina del celebre soprano Ippolita Recupito, colei che, tra la fine del 1603 e il 1604, assieme al marito Cesare Marotta - noto compositore e clavicembalista - iniziò a prestare i suoi servigi presso il cardinale Alessandro Peretti Montalto. Un ambiente familiare così fecondo di stimoli culturali, dove veniva incoraggiato l'amore per le Scienze e le Artes Liberales, non poteva che influenzare inevitabilmente la formazione sia di Plautilla che del fratello minore Basilio, divenuto, come la sorella, pittore, architetto e accademico di San Luca oltre che matematico, musicista e membro della Congrega dei Virtuosi al Pantheon (di cui fu pure rettore nel 1658).

La formazione e l'esordio

Fu certamente l'eclettico Giovanni Francesco Bricci ad insegnare alla figlia i primi rudimenti del disegno e della pittura e a fornirle un'educazione improntata alle Humanae Litterae. Le influenze arpinesche riscontrabili sin dagli esordi nelle opere di Plautilla denunciano un verosimile apprendistato svolto dalla pittrice presso la bottega del Cesari, ove fu, con ogni probabilità, introdotta dal padre. Giovanni Francesco, assiduo frequentatore dei circoli artistici, letterari e musicali della Roma dotta, si fece promotore della carriera di Plautilla presentandola a quella fitta rete di amicizie prestigiose che aveva faticosamente intessuto nelle cerchie barberiniane filo-francesi, dove anche le donne erano benvenute. Nella Francia seicentesca, grazie agli scritti della filosofa protofemminista Marie De Gournay e ai romanzi di Madeleine de Scudéry si stava facendo strada un nuovo ideale, quello della femme forte, incarnato perfettamente dalle sovrane Maria de' Medici e Anna d'Austria. Fino alla soglia del trentacinquesimo anno di età la Bricci praticò, come avevano fatto ad inizio carriera tante altre colleghe della generazione precedente alla sua,  generi artistici minori  tradizionalmente ritenuti appannaggio femminile quali la miniatura, la pittura devozionale e il ricamo (il 15 novembre 1644, nel libro dei conti del cardinale Francesco Barberini il versamento di un compenso di 30 scudi dovuto all'artista per "panno da tavola" ornato a "fiori e fogliami" raffigurante un San Francesco e l'Angelo).

 

Giovanni Francesco aveva scelto di avviarla ad un’attività pittorica estremamente redditizia ma del tutto marginale nel panorama artistico romano, che egli stesso aveva praticato con risultati non particolarmente eclatanti: si trattava della produzione – spesso seriale – delle cosiddette “capocce”, dipinti solitamente di piccolo formato raffiguranti teste o busti di Madonne, Sante e Martiri tratti non di rado dalle tele che campeggiavano sugli altari delle grandi basiliche dell'Urbe. Questo tipo di pittura, destinata evidentemente alla devozione privata, a Roma riscuoteva un ampio successo e rappresentava una buona percentuale delle

 

vendite all'interno del mercato dell'arte. Non essendo praticata dalle prestigiose botteghe rette dagli artisti più in voga, l'arte devozionale avrebbe permesso a Plautilla di emergere facilmente visto il suo talento e, nell'immediato, le avrebbe assicurato il pane a tavola, visto e considerato che, senza il supporto di un mecenate, mai le sarebbe stata concessa la possibilità di competere con i colleghi più affermati nei generi maggiori della pittura.

 

Bricci padre aveva quindi deciso per la figlia una strada meno tortuosa rispetto a quella imboccata da Orazio Lomi Gentileschi con Artemisia. Plautilla, difatti, non venne in alcun modo incoraggiata allo studio dell’anatomia umana e all'osservazione dei soggetti “dal vero”, fu piuttosto indirizzata a seguire costumi esemplari e ad ostentare un'immagine pubblica di sé di donna dai saldi principi morali, ulteriormente corroborata dalla produzione sacra.

 

Al fine di sponsorizzare il nome della figlia in un mercato tanto inflazionato, “il Circospetto” (così era noto presso la Congrega dei Taciturni), che era un teatrante smaliziato, mise in atto – forse di comune accordo con i Carmelitani della provincia siciliana di Monte Santo, i quali reggevano una chiesuola al Campo Marzio poi abbattuta e sostituita con l’attuale Santa Maria in Montesanto eretta da Carlo Fontana e Mattia de' Rossi sotto la direzione del Bernini nella seconda metà del Seicento – una peculiare messinscena. Questi iniziò a spargere per le borgate romane una voce, secondo cui Plautilla, mentre dipingeva per pura devozione una tela raffigurante la Madonna del Carmine, sarebbe stata protagonista di un evento prodigioso, e, in seguito all’accaduto, i Bricci avrebbero deciso di donare l'icona alla chiesina carmelitana poco lontana dalla loro abitazione. Il presunto miracolo viene narrato da Pietro Bombelli in una raccolta enciclopedica di tutte quelle effigi della Vergine Maria ritenute miracolose, e per questo insignite di una corona d'oro su concessione del Capitolo Vaticano. Nella prosa si legge che la giovane Plautilla, qualificata come una «giovinetta di buoni costumi» pratica nell’arte della pittura «per una tal’attività naturale», essendo avvezza a dipingere in piccolo, quando si ritrovò a ritrarre la Madonna in una tela di grandi dimensioni riscontrò non poche difficoltà nel delineare i tratti del viso. Presa dallo sconforto, dopo vari tentativi decise assopirsi e, al suo risveglio, trovò con sua grande sorpresa il volto della Vergine «compiuto e ridotto da altra mano invisibile alla ultima perfezione».

Plautilla Bricci: "Madonna col Bambino", 1640, olio su tela. Roma, Chiesa di Santa Maria in Montesanto.

La Madonna di Montesanto, in realtà, fu interamente eseguita dall'artista all'età di ventiquattro anni, nel 1640. Si tratta dell’opera più antica che si conosca del suo lacunosissimo corpus, ancora tutto da ricostruire. Nel corso del restauro dell’icona "achiropita" (dal greco: α privativo + χείρ "mano", traducibile come "non fatta da mano"), condotto nel 2016 dall'impresa Pantone, sul retro della stessa sono stati rinvenuti un cartiglio incollato sul supporto ligneo inchiodato alla tela – al di sopra del quale è riportata un'iscrizione dattilografa che narra l'evento miracoloso di cui fu, secondo la tradizione, protagonista Plautilla, lì erroneamente detta «zitella d'anni 13» – e la firma della pittrice («Plautilla Bricci Romana ping.»).

A detta di Primarosa, la Madonna del Carmine della Chiesa di Montesanto «mostra delle vistose ingenuità nella resa fisionomica delle figure e qualche impaccio stilistico, anche se la cifra dell’artista risulta evidente nella conduzione dei volti.»

L'incontro tra Plautilla Bricci e Flavia Benedetti

Questo singolare accaduto, che segnò il debutto della Bricci nel panorama artistico della Città Eterna, dovette farle guadagnare un occhio di riguardo da parte dell’Ordine Carmelitano. Fu proprio nel convento delle monache carmelitane di San Giuseppe a Capo le Case che Plautilla conobbe suor Maria Eufrasia della Croce, al secolo Flavia Benedetti, stringendo con lei un legame di profonda amicizia. Suor Maria Eufrasia, anche lei pittrice per diletto, era figlia del ricamatore papale Andrea Benedetti e sorella dell'abbas nullius Elpidio, segretario del cardinale Giulio Mazzarino, sovrintendente delle relazioni artistiche fra Roma e la Corona di Francia nonché futuro principale committente della Bricci. Secondo Pompilio Totti fu proprio la carmelitana a mettere in contatto, prima del 1663, l'artista col Benedetti. Non è dello stesso avviso la storica dell'arte Consuelo Lollobrigida, che invece vede nella persona del potente avvocato concistoriale Teofilo Sartori, legato a Mazzarino già dagli anni '50 del Seicento, l'artefice dell’incontro fra i due.

Se, in qualche modo, è possibile ricostruire la formazione pittorica di Plautilla, resta estremamente problematico rintracciare le modalità con le quali apprese l'arte dell'architettura, visto e considerato che, per una donna del XVII secolo, l'accesso agli studi in questo ambito rappresentava un'impresa quasi impossibile. Lollobrigida è del parere che i cantieri romani presieduti dalle maestranze ticinesi, frequentati sia dall’architetta che dal fratello Basilio, siano stati fondamentali dal punto di vista pratico per l'apprendimento delle tecniche di edificazione. La studiosa ipotizza inoltre che la principale fonte del sapere teorico della Bricci sull'ars aedificandi sia stato il Thaumaturgus opticus, opera di Jean- François Nicéron pubblicata a Roma nel 1646 e dedicata al cardinal Mazzarino.

È verosimile che possa aver frequentato l'Accademia di Cassiano del Pozzo, la quale aveva sede presso il di lui palazzo in Via dei Chiavari, non lontano da Sant'Andrea della Valle.

Accostandosi alla nutrita biblioteca dell'eminente erudito la Bricci non avrebbe avuto certo alcuna difficoltà nel reperire dei tomi di architettura (l'inventario ne documenta molti).

Per mezzo di due documenti, uno riportante la data del 1655 e l'altro risalente al 1671, gli studiosi sono stati in grado di stabilire che la Bricci fu ammessa all'Accademia di San Luca solo in veste di pittrice. Rimane tuttavia ignota l'esatta data in cui vi entrò. La prestigiosa istituzione romana dedicata al patrono dei pittori, prima fra tutte le accademie d'arte, aveva iniziato ad includere le donne a partire dal 1607, precludendo loro la possibilità di studiare il nudo.

Nel 1660 Plautilla dipinse una monumentale pala d'altare raffigurante la Natività della Vergine per una delle cappelle laterali della chiesa attigua al convento delle Benedettine di Santa Maria in Campo Marzio, probabilmente su commissione della madre badessa Anna Maria Mazzarino, nipote del noto cardinale. L'opera è chiaramente debitrice dello stile arpinesco e ricorda molto da vicino una tela eseguita dal Cesari per la Chiesa di Santa Maria di Loreto.

Plautilla Bricci (attribuito a): "Natività della Vergine",1660, olio su tela. Roma, Chiesa di Santa Maria in Campo Marzio. Fonte: artherstory.net

Villa Benedetti detta "Il Vascello"

Prospetti sud e nord di Villa Benedetti, tratto dal Villa Benedicta literaria, Matteo Mayer alias Elpidio Benedetti, 1676.

A 47 anni anni Plautilla era già un'artista affermata quando, nell'ottobre del 1663, l'abate Benedetti le affidò l'ambizioso progetto per l'edificazione della sua lussuosa villa suburbana fuori Porta San Pancrazio, sulla Via Aurelia. Durante i lavori "l'architettrice" si scontrò più volte con il capocantiere Marc'Antonio Bergiola, perché questi si rifiutava categoricamente di sottostare agli ordini di una donna. La controversia si risolse soltanto con la mediazione del committente, il quale trascinò Bergiola difronte ad un notaio e lo obbligò a ratificare un documento che riservava alla Bricci la piena facoltà di agire e dare disposizioni all'interno del cantiere.

Plautilla volle dare a questa maison de plaisance la bizzarra «forma di un gran vascello di guerra» arenato su uno scoglio, «di cui rappresenta perfettamente tutte le parti esterne, che non vi mancano che gli alberi e le vele». Proprio per le sue stravaganti forme architettoniche Villa Benedetti fu ribattezzata "Il Vascello". La dimora dell'intendente di Mazzarino costituiva un unicum all'interno del contesto urbanistico romano, dal momento che faceva riferimento a modelli oltralpini. Plautilla non lavorò soltanto alla parte architettonica ma curò, al fianco dell'ormai anziano Pietro da Cortona, di Giovan Francesco Grimaldi e di Francesco Allegrini, l'esecuzione dell'ornato pittorico interno, dipingendo a fresco la personificazione della Felicità attorniata da altre figure allegoriche, e ad olio una tela per la cappella del palazzo rappresentante l'Assunzione della Vergine. Le pitture realizzate nella villa gianicolense fecero meritare all'artista «gl’applausi da ognuno e la stima da i più intendenti» per le ardite composizioni che presentavano iconografie del tutto inedite, di sua personale invenzione. Il capolavoro architettonico della Bricci fu quasi totalmente raso al suolo durante l'assedio francese del 1848 che pose fine alla Repubblica Romana. Di questo curioso edificio non resta che "lo scoglio" ove era incagliata "la carena" dello strepitoso veliero in muratura.

Nel 1676 Elpidio Benedetti diede alle stampe sotto lo pseudonimo di Matteo Mayer un volumetto di poco più di cento pagine dedicato alla sua residenza al Gianicolo, Villa Benedicta literaria, dove, di fatto, rinnegava l'autrice del progetto, sostituendo il suo nome con quello del fratello Basilio Bricci. Fu questa l'origine di una lunghissima tradizione di attribuzioni volutamente errate.

La Cappella di San Luigi

Plautilla Bricci: Cappella di san Luigi, 1671-80. Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi. Fonte: Pinterest.

Tra il 1671 e il 25 agosto 1680 l'architetta sovrintese alla costruzione "a fundamentis" della Cappella di San Luigi IX, la terza della navata sinistra della Chiesa di San Luigi dei Francesi. A finanziare interamente le spese di questo sacello - il più grande e sfarzoso di tutto il luogo di culto - fu ancora una volta Elpidio Benedetti. L'architetta progettò l'impianto della cappella, scelse con cura e di persona i pregiati marmi policromi da utilizzare per l'altare, disegnò il turbinio di angeli in candido stucco della cupola e i motivi dorati che ornano i pennacchi.

Abbracciando la poetica del "bel composto" di ascendenza berniniana, Plautilla seppe coniugare sapientemente architettura, scultura, ornato e pittura in un insieme armonico. In alto, ai lati dell'archivolto, sovrastato da una mastodontica corona e da un emblema della monarchia francese sorretti a stento da putti, le allegorie della Fede e della Chiesa militante che assoggetta l'Eresia trattengono un ampio tendaggio blu svolazzante plasmato in stucco, impreziosito da gigli di Francia dorati. Ai lati dell'altare un altro sipario foderato da esili lamine in metallo, questa volta scostato dai due candidi putti che "svelano" la pala centrale, ripropone fedelmente la superficie del cuoio lavorato, simulando un raffinato apparato effimero. Questa continua ambiguità tra realtà e finzione ha come fine ultimo quello di disorientare il fedele e di proiettarlo in una dimensione di metateatro. Nella pala d'altare la Bricci reinventò ex novo l'iconografia del Re Santo, effigiato stante al centro della composizione, con lo scettro nella mano destra e la croce nella sinistra, fra le personificazioni della storia e della fede. In essa all'intento di esaltare la monarchia francese attraverso la raffigurazione del suo santo protettore si coniugava la volontà diplomatica di rinnovare i rapporti di reciproca amicizia tra Roma e Parigi. La Bricci firmò l'opera "PLAUT[ILL]A BR[ICCI] R[OMA]NA IN[VENIT]" rivendicando con fierezza la maternità dell'invenzione.

Plautilla Bricci: "San Luigi tra la Storia e la Fede",1671-80, olio su tela. Roma, San Luigi dei Francesi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Le opere della maturità

Plautilla Bricci: "La Presentazione del Sacro Cuore di Gesù all'Eterno Padre", 1672, tempera su tela. Città del Vaticano, Depositi dei Musei Vaticani.

Nel 1672, su richiesta dei canonici della Basilica Lateranense, dipinse a tempera un lunettone raffigurante "La Presentazione del Sacro Cuore di Gesù all'Eterno Padre" (oggi ai depositi dei Musei Vaticani) per la Sacrestia dell'Oratorio del Santissimo Sacramento al Laterano. Prima di allora nessun artista si era mai accostato a questo tema, perciò Plautilla coraggiosamente inventò dal nulla un'iconografia che fu canonizzata da Pompeo Batoni soltanto nel secolo successivo.

In occasione dell'Anno Santo del 1675 la Compagnia della Misericordia di Poggio Mirteto, paese natale di Andrea Benedetti, padre di Elpidio, commissionò alla Bricci per l'Oratorio di San Giovanni Battista uno stendardo processionale, che mostrava sul recto la Natività del Battista e sul verso la sua decollazione. Per l'opera, che oggi trova la propria collocazione sull'altare maggiore della chiesa per cui fu richiesta, le venne corrisposto un compenso di "soli" 100 scudi, una miseria se comparato alle somme astronomiche percepite dal Bernini, dal Berrettini o dal Gaulli.

Pur non essendoci adeguati riscontri documentali, gli studiosi attribuiscono alla Bricci, sulla base del confronto con la decorazione plastica della Cappella del Re Santo in San Luigi dei Francesi, il progetto di un complesso ciclo di stucchi bianchi e dorati realizzato tra il 1675 e il 1684 all'interno della Collegiata di Santa Maria Assunta sempre a Poggio Mirteto.

Nella stessa Collegiata Primarosa riferisce a Plautilla una "Madonna del Rosario tra i Santi Domenico e Liborio di Le Mans" posta sull'altare di una delle cappelle laterali.

Plautilla Bricci: gli ultimi anni e la morte

Nel 1677 la Bricci, che mai aveva preso marito e mai si era monacata, si trasferì insieme all'amato fratello Basilio presso la dimora trasteverina lasciatale in usufrutto tramite disposizione testamentaria da Elpidio Benedetti. Il testamento del Benedetti, redatto nel settembre del 1690, è l'ultima testimonianza a ricordare l'artista ancora in vita e in «età assai avanzata». Lollobrigida, nella sua recente monografia dedicata all'artista, ha collocato la morte di Plautilla Bricci il 13 dicembre 1705 nel Monastero di Santa Margherita a Trastevere, dove si sarebbe trasferita nel 1692, a seguito della morte di Basilio. Questa datazione fa riferimento ad un atto di morte rinvenuto dalla studiosa nell'Archivio del Vicariato di Roma, dove viene citata una certa «Plautilla Sig.ra q[uondam] nihil». Primarosa ha rigettato la tesi avanzata da Lollobrigida ritenendo l'atto di morte «difficilmente accostabile all’artista, il cui decesso negli stessi registri parrocchiali sarebbe stato accompagnato dal suo cognome o dall’indicazione del nome di suo padre. Del tutto prive di fondamento appaiono le argomentazioni della Lollobrigida: «L’appellativo “Signora”, nel XVII secolo, veniva riservato solo alle donne, non nobili, che si erano distinte per una qualche attività liberale».

 

Bibliografia

CONSUELO LOLLOBRIGIDA: Plautilla Bricci: Pictura et Architectura Celebris. L'Architettrice del Barocco Romano, 2017, Gangemi Editore.

YURI PRIMAROSA: Nuova luce su Plautilla Bricci, Ediart, 2014.

YURI PRIMAROSA: Elpidio Benedetti (1609-1690). Committenze e relazione artistiche di un agente del re di Francia nella Roma del Seicento, 2017.

 

Sitografia:

https://www.treccani.it/enciclopedia/plautilla-bricci_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-bricci_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/ippolita-recupito_(Dizionario-Biografico)/

https://artherstory.net/plautilla-bricci-1616-1705/

http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/plautilla-bricci/

 

 

FRANCESCO SURFARO

Nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 29 marzo 2001, sono cresciuto nella Locride, area geografica calabrese ricchissima di testimonianze storiche, archeologiche ed artistiche risalenti all'epoca della colonizzazione magnogreca. Ciò ha contribuito in maniera non indifferente a suscitare nella mia persona, già in tenera età, l'interesse profondo per la storia, la letteratura antica e le Belle Arti. Dopo aver conseguito la maturità classica, ho deciso di intraprendere la carriera universitaria iscrivendomi al corso di laurea triennale in Lettere e Beni Culturali (classe L-1) con curriculum storico-artistico. Nell'agosto del 2015 ho fondato la pagina Instagram @_arteecultura_, una piattaforma di valorizzazione dei beni artistico-culturali della penisola italiana e non solo, che gestisco tuttora avvalendomi di vari preziosi contributi. All'interno di Progetto Storia dell'Arte svolgo la mansione di redattore per la mia regione d'adozione, il Piemonte.

 


LIZZIE SIDDAL E IL PRERAFFAELLISMO AL FEMMINILE

A cura di Matilde Lanciani

Lizzie Siddal: la biografia e l'incontro con Rossetti

La poetessa Elizabeth, Lizzie Siddal (1829-1862), anche pittrice e modella, fu il soggetto che i Preraffaelliti usarono per la composizione di “Ophelia” e altre opere. Lucinda Hawksley, nella biografia dell’artista, testimonia che Lizzie proveniva da una famiglia modesta e che lavorava in un negozio di Londra dove si fabbricavano cappelli. La particolarità di Lizzie risiedeva nei suoi capelli rossi, che al tempo erano malvisti dalla società, e negli occhi molto grandi che tendevano al grigio. I suoi genitori furono piccoli proprietari terrieri che tentarono di arricchirsi: infatti, dopo essersi trasferiti da Hutton Garden a Southwark, goderono di una limitata stabilità economica.

Millais, Ophelia, 1851-52.

L’incontro fra Lizzie e Dante Gabriel Rossetti avvenne nell’inverno tra il 1849-50 di fronte al negozio di cappelli dove la ragazza lavorava. Il gruppo dei preraffaelliti notò la giovane donna e ne rimase profondamente colpito tanto da andare a chiedere alla madre di poterla assumere come modella. Fare la modella in epoca vittoriana si traduceva in molti casi in un atteggiamento simile alla prostituzione, ma garantita la serietà da parte del gruppo, la madre di Lizzie accettò per il guadagno elevato che avrebbe ottenuto.

Il primo lavoro per cui posò Lizzie, che era molto attratta dalla pittura e nutriva una profonda ammirazione per l’arte, fu “La dodicesima notte” di Walter Deverell, artista col quale inizialmente strinse un grande rapporto di amicizia e con cui condivideva bozzetti e disegni.

Deverell, La dodicesima notte, 1850.

Lizzie costituiva per i preraffaelliti l’ideale per eccellenza di bellezza decadente e particolare: la carnagione chiarissima, le mani esili, il volto scavato, i capelli rossi e gli occhi grandissimi le conferivano un aspetto sublime e tormentato di cui Rossetti presto si innamorò.

Dante Gabriel Rossetti, Proserpina, 1874.

Dante Gabriel Rossetti aveva origini italiane che rivendicava nelle sue opere legate a Dante Alighieri, identificando la musa Beatrice del poeta con la sua Lizzie, ritratta più volte proprio nelle vesti di quest’ultima. La personalità vivace, romantica ed esuberante di Rossetti sarebbe stata poi particolarmente apprezzata dalla modella che iniziò a prendere lezioni di disegno proprio da lui, convinta che un giorno sarebbe diventata una grande artista.

Un altro pittore preraffaellita, Valentine Prinsep (1838-1904) scrisse di Rossetti: “Rossetti era il pianeta attorno al quale ruotavamo….copiavamo il suo modo di parlare, tutte le belle donne erano stunners per noi, i vombati erano divenute le più deliziose tra le creature di Dio. Il medievalismo era il nostro ideale di bellezza e cedemmo la nostra individualità alla forte personalità del nostro amato Gabriel”.[7]

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1872.

Rossetti voleva “migliorare” Lizzie per renderla degna di passare la vita con lui, in quanto la ragazza proveniva da una famiglia di rango inferiore, ragione per cui il pittore le fece cambiare cognome. L’artista era ossessionato da Lizzie tanto che la sorella della stessa, Christine, lasciò una bellissima poesia dopo aver osservato lo studio di Rossetti tappezzato di schizzi con dettagli di Elizabeth.

 

In uno studio d’artista

Un volto si affaccia da tutte le sue tele,

Un’identica figura siede o cammina o si china:

L’abbiamo trovata nascosta dietro quegli schermi,

Quello specchio ha restituito tutta la sua bellezza.

Una regina in opale o in abito rubino,

Una ragazza senza nome nei più freschi prati estivi,

Un santo, un angelo – ogni tela significa

Lo stesso unico significato, né più meno.

Si nutre del suo viso dal giorno alla notte,

E lei con occhi gentili lo guarda a sua volta,

Bella come la luna e gioiosa come la luce:

Non consumata dall’attesa, non offuscata dal dolore;

Non come è, ma com’era quando la speranza splendeva;

Non come è, ma come ora nutre il suo sogno[8].

Gli ultimi versi, composti quattro anni prima che Rossetti sposasse Lizzie, manifestavano già le prime difficoltà dell’ “attesa” che stava “consumando” la ragazza. Christine sapeva bene quale era la condizione e la reputazione di una donna che era solita dormire nella casa di un uomo senza essere sposata, così come Lizzie. Inoltre la famiglia di Rossetti si opponeva alle nozze per via della differenza sociale, così Rossetti iniziò a fare uso di clorario e a frequentare altre donne fino a calare in uno stato di depressione e follia, stesso a cui giunse Lizzie.

Lizzie: il sogno e l'agonia

Lizzie Siddal continuò ad imparare da Rossetti, dipinse moltissime serie con soggetti arturiani e medievali, come ad esempio “Il lamento delle donne” (1857), “Prima della battaglia” (1855-59) e “La dama di Shalott” (1853). Nell’Ottocento l’abilità artistica femminile iniziava ad essere riconosciuta, prima le donne erano considerate brave solo a copiare poiché considerate prive di genio creativo.

Lizzie Siddal, Il lamento delle donne

Rossetti, supportato da Ruskin, spinse Lizzie ad inviare le sue opere e partecipare ad alcune esposizioni dove i suoi soggetti trovarono discreto apprezzamento. Lizzie sembrava soddisfatta ma Rossetti non voleva ancora decidersi a sposarla, la loro relazione oscillava fra momenti di tenera complicità e tormentosi periodi di follia, in quanto Lizzie aveva iniziato a fare uso di laudano, stessa sostanza che la condusse alla morte per overdose.

Insoddisfatta per la sua condizione sociale e per essere considerata una prostituta dalla società, dopo alcune crisi depressive, fu mandata in un centro di cura per giovani donne attanagliate dall’isteria dove ricevette le assidue visite di Rossetti, che però non si decideva a sposarla e continuava la sua vita di eccessi. Dopo una crisi più forte delle altre, accentuata anche dal lavoro come modella per l’opera “Ophelia” di Millais, Rossetti le chiese di sposarlo per riportarla alla vita, ma non durò molto. Infatti poco dopo rimase incinta ma, per via delle sostanze che utilizzava e della debolezza fisica, perse il bambino inducendola a una crisi che non riuscì più a sostenere e che la portò al suicidio nel 1862.

Studio preparatorio per l’Ophelia di Millais.

Studio preparatorio per l’Ophelia di Millais

Lizzie, a livello di critica d’arte, fu sempre oscurata dall’ombra di Rossetti, mito preraffaellita per eccellenza che, dopo la morte della giovane, straziato dal dolore e dal senso di colpa si dedicò alla composizione di alcuni sonetti tra i quali “Senza di lei”:

Cos’è il suo specchio senza di lei?Il grigio vuoto

dove lo stagno è orbo del volto della luna.

E le sue vesti, senza di lei? Lo spazio vuoto e agitato

Della nuvolaglia quando la luna è sparita.

I suoi sentieri, senza di lei? Il proprio dominio

Del giorno, usurpato dalla tetra notte. E il suo letto

Il cuscino, senza di lei? Lacrime, ahi – per buona

Grazia d’amore – e freddo oblio di notte e giorno.

Prima di lasciare la vita Lizzie aveva scritto la lirica Andata:

Per toccare il guanto sulla sua dolce mano,

Per guardare la brillante gemma nel suo anello,

Elevai il mio cuore in un’improvvisa canzone

Come quando cantano gli uccelli selvatici.

Per toccare la sua ombra sull’erba soleggiata,

Per aprire un varco nell’oscura foresta,

Riempire la mia vita con tremori e lacrime

E silenzio dove io ero.

Osservo le ombre ammassate attorno al mio cuore,

Vivo per sapere che lei è andata –

Andata per sempre, come la tenera colomba

Che ha lasciato l’Arca sola.

Rossetti, disegno di Lizzie.

Note

[7] Hawksley L., Lizzie Siddal. Il volto dei preraffaelliti, 2019.,p.33.

[8] Hawksley L., Lizzie Siddal. Il volto dei preraffaelliti, 2019.,p.p.36-37.

 

Bibliografia

Capra C., Storia Moderna, Le Monnier, 2004.

De Ruggiero G., La formazione dellImpero britannico, in L’Europa nel sec. XIX, Padova

Hawksley L., Lizzie Siddal. Il volto dei preraffaelliti, 2019

Himmelfarb G., The idea of poverty: England in the eary industrial age, Faber, Londra 1984.

Landreth H., David C. Colander, Storia del pensiero economico, Il Mulino, 1996.

Smith A.,Beatrice L., Preraffaelliti lutopia della bellezza ,catalogo della mostra (Torino, 19 aprile-13 luglio 2014), 24 Ore Cultura, 2014.

 

MATILDE LANCIANI

Nasce a Macerata nel 1998, dopo la maturità scientifica consegue la laurea triennale in Beni Culturali indirizzo storico-artistico presso l'Università degli Studi di Perugia con una tesi dal titolo "L'alfabeto del secondo preraffaellismo a Roma. Alma Tadema e l'Esposizione Internazionale del 1883", un estratto della quale viene pubblicato a febraio 2020 sulla rivista Archeomatica, dedicata alle nuove tecnologie applicate ai Beni Culturali.
Ha acquisito esperienza nel settore attraverso una serie di tirocini formativi presso Il Labirinto della Masone (Parma), la Fondazione Ranieri di Sorbello (Perugia) e presso la Diocesi di Ascoli Piceno con il progetto "Chiese Aperte: sulle vie del Romanico ad Ascoli" nel 2017.
Ha svolto l'attività di giornalista per un quotidiano online e attualmente è iscritta al corso magistrale di Beni Culturali presso l'Università di Firenze. All'interno di Storia dell'Arte è redattrice e referente per la regione Marche.

I PRERAFFAELLITI E L'EPOCA VITTORIANA

A cura di Matilde Lanciani

Introduzione: il quadro storico e i preraffaelliti

L’epoca vittoriana inglese è l’humus in cui i preraffaelliti affondano e sviluppano le radici. Il periodo compreso fra il 20 giugno 1837, data d’incoronazione della regina Vittoria, e il 22 gennaio 1901, data della sua morte, corrisponde ad un’epoca di pace e di grande splendore culturale segnata dagli accordi presi fra le grandi potenze durante il Congresso di Vienna nel 1815. Questa stagione segue l’era georgiana e precede quella edoardiana, e la critica storica la fa convenzionalmente iniziare con il Reform Act del 1832[1]. La seconda metà di questo periodo coincide con la Belle Époque europea, caratterizzata da una raffinata sensibilità in ambito artistico e dallo sviluppo dell’Art Nouveau che si esprime nell’edilizia, nell’illustrazione e nelle arti applicate con la preponderanza del motivo lineare. Il quadro storico vede un forte incremento demografico di Inghilterra, Galles e Scozia dovuto alla seconda rivoluzione industriale e alle condizioni di rinnovata serenità, ma che accentua in alcuni casi il grande divario fra ricchezza e povertà. Conseguenza della crescita industriale fu l’allontanamento dalle campagne e il costituirsi delle periferie cittadine e dei sobborghi, in cui le condizioni igieniche precarie erano la quotidianità. Nelle fabbriche e nelle miniere il lavoro minorile era largamente diffuso, così come l’analfabetismo e la prostituzione, documentati da una serie di opere letterarie dell’autore Charles Dickens (1812-1870): “David Copperfield” (1849-1850), “Oliver Twist” (1837-39) e “Hard Times” (1854)[2].

La popolazione irlandese, al contrario, subì un forte calo dovuto alle carestie. Tra il 1837 e il 1901 milioni di persone emigrarono negli Stati Uniti, Canada, Sud Africa, Nuova Zelanda e Australia. La realtà dello sfruttamento coloniale, allora molto perseguito, fu mascherata da alcune trattative o compromessi da parte della regina; frequenti erano accordi ed equilibri precari fra classi come i contributi verso gli indigenti in cambio del loro appoggio all’istituzione per mantenere gli antichi privilegi di casta. Ciò nonostante permaneva un’intensa lacerazione sociale alla quale cercarono di far fronte numerosi ministri divisi fra le fazioni wigh e tory[3]. La politica si orientò verso il liberalismo con molte riforme ad opera di Robert Peel (1788-1850) che liberalizzò il commercio dei cereali sulla base della concezione fisiocratica[4], Benjamin Disraeli (1804-1881) che si propose l’obiettivo di tutelare le grandi famiglie agricole e Henry John Temple Palmerston (1784-1865) forte assertore della guerra di Crimea (1853-56) contro la Russia. Questo scontro fu l’unico che interessò la Royal Navy in maniera rilevante oltre alla conquista dell’India e del canale di Suez nel 1875 e accrebbe così l’espansionismo britannico in Asia e Africa ottenendo l’egemonia sul Baltico. Inoltre William Ewart Gladstone (1809-1898) ampliò ulteriormente il suffragio maschile con la Terza legge elettorale nel 1884 e abolì il clientelismo allora dilagante in Parlamento con metodi meritocratici e tramite libero concorso; infine il governo Salisbury (1830-1903) combatté per garantire diritti alle Unioni di Lavoratori e ai Sindacati. Celebre fu lo sciopero in quegli anni delle ragazze impiegate nelle fabbriche di fiammiferi riconducibile al movimento del cartismo. Con questo governo si concluse la stagione liberale del regno con un ritorno alle posizioni conservatrici di Neville Chamberlain (1869-1940), accanito sostenitore dell’Imperialismo. Tali convinzioni furono rafforzate dall’influenza esercitata dal matrimonio della regina Vittoria con il cugino Alberto principe di Sassonia-Coburgo-Gotha (1819-1861), anch’egli conservatore. L’ideologia razionalistica borghese fu il nucleo esistenziale dove si formarono i vari movimenti artistici e culturali dell’età vittoriana: il tentativo di conciliare la fede ed il progresso sfociò nella concezione positivista ereditata dall’Illuminismo che trovava speranza nella scienza e nello sviluppo. Durante la prima Esposizione Universale del 1851 a Londra, l’introduzione di nuovi materiali rese il ferro protagonista nella costruzione del Crystal Palace ad opera dell’architetto Joseph Paxton.

John Ruskin (1819-1900), le cui teorie fecero nascere ed influenzarono profondamente i preraffaelliti, condannò l’architettura dell’Esposizione definendola il vero modello della disumanizzazione meccanica di un progetto. Nel suo libro “The Stones of Venice” (1851) esplicò quello che sarà il motore dell’Aesthetic Movement: una ribellione nei confronti dell’accademismo moraleggiante classico in favore di un’arte libera e piacevole per l’occhio, ma soprattutto l’intento di riportare una raffinata e artigianale concezione dell’arte e della vita stessa in Inghilterra, ove “la vitalità delle sue moltitudini viene sfruttata come carburante per alimentare il fumo delle fabbriche”[5]. La reazione al razionalismo, all’accademismo e all’utilitarismo promulgato da Mill (1806-1873), Bentham (1748-1832) e Malthus (1766-1834), secondo cui la ricchezza e l’utile sono sinonimi di benessere, determinò la nascita del movimento Preraffaellita che può essere inscritto nel clima del Simbolismo.

Gustave Doré, Dudley Street Seven Dials (Slums), 1872.

I preraffaelliti

Il termine Preraffaellismo rinviava ad un determinato rifiuto verso il manierismo e verso la figura di Raffaello, considerato colpevole di aver tradito la verità per realizzare la bellezza. I preraffaelliti infatti prediligevano un ritorno alla natura tout court e al primitivismo, rifugiandosi nelle atmosfere sognanti di un passato permeato di suggestioni mitiche, il Medioevo. La volontà di evadere dalla società moderna e industrializzata ed il senso di malcontento nei confronti dei valori borghesi, portarono a una retrospettiva fuga disperata.

Nel 1848 al n.83 di Gower Street a Londra nacque la Pre-Raphaelite Brotherhood, fondata da William Holman Hunt (1827-1910), John Everett Millais (1829-1896) e Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), ai quali si aggiunsero lo scultore Thomas Woolner (1825-1892), il pittore James Collison (1825-1881) e i letterati Frederick George Stephens (1828-1907) e William Michael Rossetti (1829-1919). Tutti, tranne quest’ultimo, provenivano dall’organizzazione della Royal Academy considerata dagli studenti l’espressione angusta di un linguaggio “sloshy”, cioè “fangoso” ed impregnato della pittura tardo-barocca allora in voga. Dalla loro poetica nacque, in opposizione, una pittura chiara dalle stesure cromatiche brillanti di colori puri su superfici bianche ancora umide, secondo una tecnica che richiamava l’affresco e che era già stata adottata nell’acquerello inglese[6]. I preraffaelliti si riunivano nel piccolo studio di Hunt in Cleveland Street o nella casa dei genitori di Millais, dove erano soliti disquisire su tematiche quali la vera essenza della bellezza e le sue implicazioni sociali; inoltre frequentavano anche il piccolo club di disegnatori “The Cyclographic Society” dove sottoponevano le loro opere al giudizio comune. L’ispirazione preraffaellita derivava anche dalla letteratura, gli esponenti guardavano ai romantici come Keats, Shelley e Byron. Moltissime erano le opere che raffiguravano i componimenti di questo autore, basti citare il soggetto di Ophelia che meglio incarnava l’ideale femminile di bellezza decadente e di femme fatale, interpretato da Millais, Rossetti, Hughes (1832-1915), Collison (1825-1881) e molti altri.

Il ruolo della donna nell'800 prima dei preraffaelliti

La vita delle donne nell’Ottocento era relegata all’ambiente domestico, in quanto “angeli del focolare”, infatti quest’ultime non potevano avere una professione vera e propria o un proprio libretto di risparmio, così come votare e possedere delle proprietà, quindi lavorare era un gesto di emancipazione. Dal punto di vista giuridico la donna non aveva alcun peso, così come i bambini: solo dopo essersi sposata era riconosciuta come una vera e propria identità, unendosi al coniuge maschile e assicurandogli fedeltà e obbedienza.

Emanuel Gottlieb Leutze, The Amber Necklace, 1840.

Il reddito di una eventuale moglie lavoratrice, talvolta insegnante o domestica, apparteneva totalmente al marito così come la sua proprietà personale o dote, che anche in caso di divorzio rimaneva al coniuge. I bambini erano sotto la proprietà del padre che poteva decidere anche di allontanarli dalla madre in maniera definitiva. In compenso, una volta sposata, in caso di reati commessi, la donna non poteva essere punita ma l’accusa ricadeva sul marito. Essa non poteva stipulare, inoltre, alcun tipo di contratto senza l’approvazione di quest’ultimo. Le donne erano praticamente considerate “ornamento della società” e garantivano la continuità della prole dinastica in funzione dell’uomo nella coppia.

I compiti della donna erano l'organizzazione della casa, l'istruzione della servitù e il compito di essere “sollievo ai malati”, quindi prendersi cura della salute dei membri della famiglia. Isabella Beeton nel 1861, all’interno dell’opera “Il manuale della sig.ra Beeton sull'amministrazione della famiglia”, utilizza il termine "generale della famiglia" per descrivere al meglio questi aspetti.

Il corpo della donna doveva tendere ad una condizione di purezza ed era di esclusiva proprietà del marito, inoltre non poteva essere mostrato ad altri uomini, cosa non reciproca per il marito. Infatti padroni di casa potevano dormire con le proprie inservienti o con altre donne in quanto necessità biologica maschile. In età vittoriana la prostituzione era un fenomeno molto diffuso, considerata dagli ecclesiastici la punizione per le donne che non avevano seguito la volontà dei loro mariti. Se l’uomo non avesse ritenuto la donna di proprio gradimento, perché considerata “sporca” o infedele, l’avrebbe potuta cacciare dalla propria casa chiedendo il divorzio.

L’opinione comune intendeva l’istruzione per le donne deleteria in quanto le avrebbe potute far impazzire, facendo sviluppare in loro forme di nevrosi e psicosi, pensiero che derivava dalla convinzione dell’inferiorità psicologica e intellettiva della donna durante l’epoca vittoriana.

Nonostante le ingiustizie questo periodo storico si aprì anche a grandi conquiste per il genere femminile, in particolare per quanto riguarda il divorzio e lo status sociale. L'Atto per la custodia dei minori, nel 1839, consentì alle madri di condotta irreprensibile il contatto con i propri figli in caso separazione e divorzio e l'Atto di causa matrimoniale del 1857 permise alle donne di avviare il divorzio. Nel 1873 l'Atto per la custodia dei minori estese la custodia dei figli a tutte le madri, indipendentemente dal loro comportamento. Nel 1878 con l'Atto di proprietà delle donne sposate e nel 1884 con l’Atto di proprietà delle donne sposate la donna passò dallo status di “proprietà privata” a persona distinta e indipendente.

I preraffaelliti con la loro arte riescono però a sovvertire lo status quo: in un'epoca in cui, come detto, la donna era solo un ornamento, essi riescono ad elevarla, dandole quasi un'aura di sacralità e ridandole un ruolo centrale. Ne celebrano l'armonia, la bellezza e ne fanno il soggetto principe dei loro quadri.

 

Note

[1] Il Reform Act è noto come Legge sulla Rappresentanza del Popolo la quale ha introdotto numerose riforme al sistema elettorale inglese e gallese per evitare e abolire gli abusi ed il clientelismo che vigeva tra i membri del Parlamento e fu promossa da Lord Grey, membro whig. Da C. Capra, Storia Moderna, Le Monnier, 2004.

[2] G. Himmelfarb, The idea of poverty: England in the eary industrial age, Faber, Londra 1984, pp. 376 – 377.

[3] G. De Ruggiero, La formazione dellImpero britannico, in L’Europa nel sec. XIX, Padova, 1934. pp.477-513.

[4] Con il termine fisiocrazia si intende designare una dottrina economica sviluppatasi in Francia negli anni sessanta del settecento in opposizione al preesistente mercantilismo con lo scopo di risollevare le finanze francesi dopo la Guerra dei sette anni (1756-1763) dalla quale uscì sconfitta insieme a Spagna, Russia, Svezia Polonia e Austria subendo la vittoria di Inghilterra e la rafforzata Prussia. Il maggior promotore teorico di questo indirizzo fu Quesnay (1694-1744) che influenzò successivamente Adam Smith (1723-1790) e David Ricardo (1772-1823). Essa si basava sull’idea che l’agricoltura fosse la principale fonte economica di un paese e solo la classe degli agricoltori produceva ricchezza, le altre classi si limitavano a trasformarla. Da H. Landreth, David C. Colander, Storia del pensiero economico, Il Mulino, 1996.

[5] A. Smith, L.Beatrice, Preraffaelliti lutopia della bellezza ,catalogo della mostra (Torino, 19 aprile-13 luglio 2014), 24 Ore Cultura, 2014, p.154.

[6] M. Kitson,G. Arbore Popescu, La pittura in Europa la pittura inglese, Mondadori Electa, 1998, pp.10-11, T. Pugliatti, Il simbolismo nella pittura Europa. Dai preraffaeliti all'Art Nouveau, Magika, Messina, 2015.

 

 

Bibliografia

Capra C., Storia Moderna, Le Monnier, 2004.

De Ruggiero G., La formazione dellImpero britannico, in L’Europa nel sec. XIX, Padova

Hawksley L., Lizzie Siddal. Il volto dei preraffaelliti, 2019

Himmelfarb G., The idea of poverty: England in the eary industrial age, Faber, Londra 1984.

Landreth H., David C. Colander, Storia del pensiero economico, Il Mulino, 1996.

Smith A.,Beatrice L., Preraffaelliti lutopia della bellezza ,catalogo della mostra (Torino, 19 aprile-13 luglio 2014), 24 Ore Cultura, 2014.

 

MATILDE LANCIANI

Nasce a Macerata nel 1998, dopo la maturità scientifica consegue la laurea triennale in Beni Culturali indirizzo storico-artistico presso l'Università degli Studi di Perugia con una tesi dal titolo "L'alfabeto del secondo preraffaellismo a Roma. Alma Tadema e l'Esposizione Internazionale del 1883", un estratto della quale viene pubblicato a febraio 2020 sulla rivista Archeomatica, dedicata alle nuove tecnologie applicate ai Beni Culturali.
Ha acquisito esperienza nel settore attraverso una serie di tirocini formativi presso Ll Labirinto della Masone (Parma), la Fondazione Ranieri di Sorbello (Perugia) e presso la Diocesi di Ascoli Piceno con il progetto "Chiese Aperte: sulle vie del Romanico ad Ascoli" nel 2017.
Ha svolto l'attività di giornalista per un quotidiano online e attualmente è iscritta al corso magistrale di Beni Culturali presso l'Università di Firenze. All'interno di Storia dell'Arte è redattrice e referente per la regione Marche.


IL SANTUARIO DI SAN MICHELE ARCANGELO A MONTE SANT'ANGELO

A cura di Giovanni d'Introno

Il Santuario di San Michele Arcangelo: cenni storici e culto

Il Santuario di San Michele Arcangelo sorge sul Monte Drion (dal greco “quercia”), nel comune di Monte Sant'Angelo in provincia di Foggia; è un luogo intriso di sacralità e meta di pellegrinaggi sin dal Medioevo. La storia di questo santuario, che ancora oggi attira fedeli cristiani da tutto il mondo, è legata ad alcune apparizioni dell'arcangelo Michele in questa zona: le prime tre, secondo la tradizione, risalgono al V secolo e sono ricordate in un manoscritto dell'VIII secolo, il ''Liber de Apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano”.

La prima vicenda che viene raccontata in questo libro, databile al 490, è quella di un ricco signorotto di Siponto, noto con il nome di Elvio Emanuele, il cui toro più prezioso si allontanò dalla mandria pascente. Alla fine l'animale fu ritrovato dall'uomo in una spelonca; questi decise di punire la bestia scagliandogli contro una freccia avvelenata che deviò la sua rotta, colpendo lo stesso uomo. Il signorotto allora chiese l'aiuto del vescovo Lorenzo Maiorano per comprendere questo prodigioso e misterioso evento. Infine l'ecclesiastico ricevette la visita dell'Arcangelo che gli disse che era stato un atto dettato dalla sua volontà, essendo quello un luogo a lui sacro, e lo invitò a realizzare un santuario in quel punto, che già da secoli era antica sede di culti pagani, tra cui quello rivolto al profeta Calcante e al dio Apollo.

Anche la seconda apparizione vede come interlocutore del santo il vescovo Lorenzo Maiorano. Questi, nel 492, invocò l'arcangelo affinché intervenisse in favore della città cristiana di Siponto che resisteva alle violente scorrerie degli Eruli di Odoacre: l'arcangelo gli assicurò la vittoria, che fu conseguita successivamente alle sue parole di conforto. Alcuni storici tuttavia tendono a scontrarsi con la tradizione, facendo risalire questo intervento divino allo scontro avvenuto nel 662-663 tra i Bizantini e i Longobardi, capeggiati dal duca di Benevento Grimoaldo, con la vittoria longobarda conseguita l'8 maggio.

La terza apparizione avvenne nel 493,  ricollegata all'evento bellico poc'anzi citato: il ben noto vescovo, per rendere grazie all'aiuto impartito dal santo nel momento di difficoltà, decise di consacrare, come gli era stato ordinato precedentemente, la grotta nella quale si era rifugiato il toro di Elvio Emanuele. Si ottenne l'assenso di papa Gelasio I e il vescovo di Siponto, con il concorso dei vescovi pugliesi e del popolo, si recò nel luogo mistico che era stato già consacrato dal santo stesso, lasciando inoltre la sua impronta nella roccia. Si diede quindi avvio alla costruzione di un santuario a lui dedicato il 29 settembre dello stesso anno.

Con la discesa dei Longobardi in Italia e la fondazione del ducato di Benevento per mano del duca Zottone nel VI secolo, il santuario ricevette forte considerazione da parte dei dominatori Longobardi, che vedevano nella figura di San Michele quella del santo guerriero che combatte contro le forze demoniache; questi finanziarono perciò i lavori finalizzati a rendere l'ambiente sacro più efficiente ad accogliere i numerosi pellegrini che vi giungevano. Nel IX secolo, durante il periodo delle grandi incursioni, il santuario dovette subire l'occupazione dei Saraceni, debellati da Ludovico II, per poi cadere nelle mani dei Bizantini il secolo successivo. .

Il culto di San Michele Arcangelo ebbe molta risonanza anche tra i normanni, tra cui alcuni, nei primi decenni del XI secolo, iniziarono a risiedere nel Gargano per lavorare come mercenari alla difesa del  luogo sacro. Questi poi furono arruolati da Melo da Bari nella lotta contro il catepano di Bari.

Con gli svevi, anche Federico II rese grande onore al santuario, ma fu durante il periodo angioino, nei secoli XIII e XIV, che si svolsero gran parte dei lavori che portarono l'edificio ad assumere forme nuove.

Mentre nel Mezzogiorno italiano dilagava la peste, nel 1656  il vescovo lucchese Alfonso Puccinelli si rivolse in preghiera a san Michele, il quale si palesò ai suoi occhi il 22 settembre, ordinandogli di benedire le rocce della Celeste Basilica e incidere una croce le lettere M. A. (Michele Arcangelo),  affinché proteggessero i fedeli dal flagello. Così, in seguito alla salvezza della città, fu eretto un monumento nella piazza cittadina recante l'epigrafe: “Al principe degli Angeli Vincitore della peste, patrono e custode. Monumento di eterna gratitudine. Alfonso Puccinelli 1656”. Nel 1872, fu conferito al santuario la nomina di Cappella Palatina, mentre nel 2011 è entrata a far parte del patrimonio dell'UNESCO.

Il Santuario

Come già accennato, il primo nucleo del santuario risale al V secolo, per svilupparsi poi nei secoli successivi.

Ciò che si prospetta all'arrivo del visitatore è il grande piazzale (fig. 1), comunemente chiamato “atrio superiore”. A destra, è la torre angioina (fig. 2), edificata nel 1274 per volontà di Carlo I d'Angiò, in seguito della fine della conquista del Mezzogiorno italiano: egli infatti era stato sollecitato da papa Urbano IV in questa intraprendente impresa per mettere fine all'egemonia della dinastia sveva.

L'architetto Giordano e il fratello Maraldo furono gli artefici di quest'opera, realizzando una struttura a pianta ottagonale, con chiaro richiamo alle torri di Castel del Monte, che nel 1282, anno della fine dei lavori, raggiunse 40 metri d'altezza, di cui 13 deprivati per motivi ancora oggi sconosciuti.

L'edificio che appare ai nostri occhi si presenta con una raffinata decorazione, caratterizzata da una serie di arcate cieche a tutto sesto  che corrono lungo le pareti esterne, mentre i quattro piani sono divisi da cornici marcapiano, tra cui spicca quella che divide il secondo piano dal terzo molto sporgente con delle mensole che sono rifinite con fitte decorazioni. Delle bifore e delle monofore alleggeriscono la struttura.

In asse con il cancello dell'inferriata che delimita i due lati dello slargo. vi è l'ingresso al santuario (fig. 3), al quale vi lavorarono sempre sotto Carlo I, ma subì alcuni rifacimenti sia con i Durazzi del XIV secolo sia nella seconda metà dell'Ottocento.

Fig. 3

La facciata è costituita da due arcate ogivali nelle quali sono inseriti due portali a sesto acuto; il frontone è coronato da archetti pensili e decorato da due piccoli rosoni separati da un' edicola ogivale nella quale è posta la statua del miles Christi (fig. 4). I due portali hanno battenti bronzi realizzati negli anni '90 del secolo scorso da Michele Tiquinio, nei quali , in una serie di riquadri, si ripercorre la storia del santuario, dalle prime apparizioni alla visita di papa Giovanni Paolo II nel 1987. Le lunette di entrambi sono decorate: quella di sinistra del 1865 ripropone il corteo di vescovi che si diressero al grotta consacrata nel 493 ; quella di destra (fig. 5) invece è di gusto prettamente gotico, con la Madonna in trono affiancata da San Pietro e San Paolo, mentre in dimensioni ridotte è collocata nell'angolo in ginocchio la principessa Margherita, madre di Ladislao Durazzo, che commissionò l'opera nel 1395 al maestro Simone ricordato in un'incisione che corre sull'architrave:

AD HONOREM SANCTI MICHAELIS ARCHANGELI MAGISTER SIMEON DE HAC URBE FECIT HOC OPUS D.MCCCVC

(il maestro Simone di questa città compì quest'opera in onore di San Michele Arcangelo nel 1395)*

entrambi i portali sono sovrastati da una epigrafe. Quello di destra riporta le parole che, secondo il ''Liber de Apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano” l'arcangelo emise quando ricevette la visita dei vescovi pugliesi e del popolo sipontino:

NON EST VOBIS OPUS HANC QUAM AEDIFICAVI BASILICAM DEDICARE IPSE ENIM QUI CONDIDI ETIAM CONSECRAVI

(non è necessario che voi dedichiate questa Basilica che ho edificato, poiché io stesso che ne ho posto le fondamenta, l'ho anche consacrata)*

quella di sinistra invece cita la seguente frase:

TERRIBILIS EST LOCUS ISTE HIC DOMUS DEI EST ET PORTA COELI

(impressionante è questo luogo. Qui è  la casa di Dio e la porta del cielo)*

Passando attraverso i due portali, si accede ad un vestibolo dal quale parte la lunga scalinata (fig. 6) che porta alla grotta; anche quest'opera risale  ai tempi di Carlo I. La scalinata è affiancata ai lati da una serie di arcate e dai resti di alcuni affreschi quattrocenteschi. In origine diversi sarcofagi accompagnavano il fedele nella discesa verso la grotta; oggi rimane solo una loggia del XV secolo con arcate a tutto sesto trilobate e colonne tortili, nella quale si trova una splendida Madonna col bambino, posta a sorvegliare i resti del nobile Rinaldo Cantelmo (fig. 7).

Al termine della scalinata di 86 gradini, si giunge a quella che è denominata “La porta del Toro”, opera del 1652 con un affresco, oggi perduto, che ricordava la prima apparizione avvenuta in seguito alla fuga della bestia, sulla quale si erge un maestoso crocifisso e un'iscrizione che recita le seguenti parole:

HAEC EST TOTO ORBE TERRARUM DIVI MICHAELIS ARCHANGELI CELEBERRIMA CRIPTA UBI MORTALIBUS APPARERE DIGNATUS EST HOSPES HUMI PROCUMBENS SAXA VENERARE LOCUS ENIM IN QUO STAS TERRA SANCTA EST

(e' questa la Cripta di San Michele Arcangelo , celeberrima in tutto il mondo , dove egli si degnò di apparire agli uomini. O pellegrino, prostrandoti a terra, venera questi sassi perché il luogo in cui ti trovi è santo)*

L'atrio interno del santuario di San Michele, al quale si accede attraverso la porta di sopra citata, conserva numerosi sarcofagi di periodi diversi, tra cui quello del vescovo Alfonso Puccinelli ( colui che invocò il santo affinché ponesse fine al flagello che stava sterminando la popolazione) del 1658, e un prezioso sarcofago dei primissimi anni del XV secolo del Giudice e Capitano di Monte Sant'Angelo Jacopo Pulderico. Il sarcofago è sostenuto da due colonnine poggianti su dei leoni stilofori; la cassa presenta tre clipei, contenenti rispettivamente le figure della Madonna, dell'Imago Pietatis e di San Giovanni, e sopra è raffigurato il corpo del defunto. Tale struttura è inserita in una sorta di baldacchino formato da due  colonne sulle quali due angeli sollevano le cortine (fig. 8).

Fig. 8

L'atrio si conclude con il maestoso portale bronzeo (fig. 9), commissionato da Pantaleone di Mauro, nobile amalfitano, nel 1076, a maestranze bizantine che lavoravano nella capitale dell'Impero d'Oriente, Costantinopoli, le quale già negli anni Sessanta-Settanta dell'XI secolo avevano prodotto le porte per il Duomo di Amalfi, le chiese di Montecassino e San Paolo a Roma. Le porte sono divise in 24 riquadri, nei quali sono raffigurate scene veterotestamentarie e neotestamentarie con angeli protagonisti (nel primo caso, per esempio (fig. 10)); le figure sono ageminate, cioè sono stati incisi dei solchi sulla lastra di bronzo per poi essere riempiti d'argento.

Attraversando il portale, si accede all'interno della Basilica, venendo così accolti dalla grande navata (fig. 11),divisa in tre campate sormontate da volte a crociera costolonate, opera che rientra nel programma di restauro di Carlo I d'Angiò, commissionato ai fratelli Giordano e Maraldo negli ultimi decenni del XIII secolo.

Fig. 11

In questo ambiente vi sono alcuni altari del XVII secolo. Nell'abside vi è quello che custodisce il Santissimo Sacramento: è una preziosa opera in marmo del 1690, ornata da alte colonne tortili che inquadrano tre nicchie, in cui sono collocate le statue di Sant'Antonio, San Giuseppe con il Bambino, e San Nicola, mentre alla sommità, un'edicola delimitata da due volute, fa da sfondo a due statue raffiguranti l'Annunciazione (fig. 12). Un altro altare molto importane è quello di San Francesco, voluto dal Cardinale Orsini nel 1675-1677, per commemorare la memorabile visita di San Francesco che si tenne nel 1216 (fig. 13).

Una splendida cappella settecentesca si affaccia sulla navata: in essa sono custodite antiche reliquie come il pezzo di Croce donato da Federico II, dopo la sua crociata in Terra Santa.

Si entra in seguito alla grotta vera e propria consacrata direttamente dal milite divino (fig. 14). Anche in questo ambiente sono dislocati alcuni oggetti dal valore sia sacro sia soprattutto artistico. Si tratta principalmente di statue, tra le quali primeggia la statua di San Michele in marmo di Carrara, opera dell'artista toscano Andrea Sansovino, del 1507 (fig. 15): ritroviamo la classica rappresentazione del santo che brandisce la spada, intento ad uccidere quella figura demoniaca che schiaccia con il piede sinistro; vi sono inoltre una statua di San Sebastiano del XV secolo, la piccola statua coeva di San Michele detta del Pozzetto, perché situata nel punto in cui si raccoglieva l'acqua (anche in questo cosa è costruita secondo i canoni dello schema iconografico)  e la Madonna di Costantinopoli del XII-XIII secolo. La cattedra episcopale (fig. 16) invece risale all'XI secolo, è in marmo, poggiante su due leoni, con uno schienale dal disegno cuspidato e traforato, con il bracciolo che reca la lastra in bassorilievo del santo. Una serie di altari sono collocati all'interno di questo ambiente, di gusto prettamente Barocco: uno si erge nei pressi del presbiterio, sotto ad una struttura in legno e con colonne di marmo: un bellissimo frammento di affresco del XVII secolo raffigurante la madonna del Perpetuo Soccorso, alla quale è dedicato l'altare, intenta a salvare i fedeli dalle fiamme dell'Inferno, fra Santo Stefano e san Carlo Borromeo, è coperta da questo baldacchino; altri e due invece si trovano lungo le pareti rocciose, e si tratta dell'altare della Crocifissione, affiancata da due bassorilievi con San Giuseppe e San Domenico, e quello di San Pietro, con un altorilievo del santo del XII- XIII secolo.

Infine, coronano la decorazione del santuario di San Michele i bassorilievi distribuiti lungo le pareti rocciose della spelonca, come quella della Santissima Trinità composta di tre teste in unico corpo (Padre, Figlio e Spirito Santo), e quello di San Matteo facente parte di un altare distrutto (fig. 17).

Fig. 17

 

Bibliografia

Jan Bogacki, Guida al Santuario di San Michele sul Gargano, 1997, Edizioni del Santuario

 

Sitografia

https://www.santuariosanmichele.it/

http://www.ildiariomontanaro.it/home/20-attualita/1675-monte-santangelo-tra-magia-mistero-e-sacralita

http://www.abbazie.com/sanmichelearcangelo/apparizioni_it.html

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/monte-sant-angelo-santuario-di-san-michele-arcangelo-gargano

* le scritte latine e le rispettive traduzioni sono tratte dal libro di Bogacki.


IL NUDO FEMMINILE: OPERE A CONFRONTO

A cura di Maria Anna Chiatti

La pittura è discorso mentale

Leonardo da Vinci

La rappresentazione del nudo femminile nella storia ha significato molte cose, diverse tra loro. Uso “significato” non a caso, giacché il nudo è un segno portatore di senso (si può certamente dire che è semioforo). Questo vuol dire che ogni volta che noi vediamo un nudo femminile dipinto su una tela, una tavola, un vaso, quel soggetto ci comunica una specifica intenzione. E noi, spettatori, lettori, interpreti delle opere ne leggiamo il messaggio, a volte senza neanche prestarvi particolare attenzione.

In occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne questo contributo intende stimolare un’interpretazione più attenta e consapevole di ciò che guardiamo, per cominciare dall’arte a finire al mondo che ci circonda.

Il nudo femminile dagli Egizi al Medioevo

Fig. 1 – La dea dell’Occidente, Imentet, rappresenta la terra che accoglie le spoglie del defunto. Interno del coperchio del Sarcofago di Peftjauauyaset, pittura su legno di cedro, VII sec. a.C., Museo Archeologico – Sezione Egizia, Milano. Credits: https://www.milanocastello.it/it.

Se la nascita della pittura è legata all’utilizzo come mezzo di comunicazione con la divinità, assumendo un valore propiziatorio o evocatorio, in un tempo relativamente recente della propria storia l’uomo ha cominciato a considerare l’arte come linguaggio impiegabile per diverse finalità. Possiamo ritrovare alcuni esempi di nudo femminile, sebbene stilizzati, nella pittura egizia (fig. 1), con valore prevalentemente religioso. I Greci cominciarono poi a dipingere senza scopi magici ciò che accendeva l’immaginazione dell’artista: è interessante notare come la stragrande maggioranza dei nudi dipinti in Grecia (almeno quelli giunti fino ai nostri giorni) fosse di genere maschile: a ben guardare il nudo femminile non è che la fredda riproduzione di quello maschile, con l’aggiunta di una certa eleganza e, naturalmente, dei seni (fig. 2).

Fig. 2 – Due figure femminili con busto nudo e mantello drappeggiato dalla vita in giù. Lekythos in ceramica a figure rosse, prima metà del IV sec. a.C., Museo Civico Archeologico di Bologna. Credits: http://www.museibologna.it/archeologico.

La pittura etrusca, di contro, raffigurava nudi di uomini e donne indistintamente, e questo è ben visibile sia nella decorazione delle tombe[1] che in quella di vasellame di vario genere (molti esempi di pittura a soggetto erotico sono conservati in una sala dedicata nel Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia). L’attenzione all’anatomia dei corpi che gli Etruschi dedicarono alle rappresentazioni di nudo è un unicum nel panorama artistico occidentale fino al Rinascimento (figg. 3-4), ed è dovuta con estrema probabilità ai costumi sessuali dei Tirreni, particolarmente liberi e condannati sia dai Greci che dai Romani.

 

Nella pittura dei Romani tuttavia il nudo femminile ebbe un certo successo, e soprattutto fu un soggetto particolarmente valorizzato dalle modalità di esecuzione che prevedevano forti contrasti di luci e ombre; modalità che si prestavano molto bene a riprodurre la vita della carne (fig. 5). Nella figura 5 sta una donna che danza, probabilmente a conclusione di un rito di iniziazione a Dioniso: le forme sono sinuose, il volto girato, il panneggio acuisce il movimento del corpo. Quale che fosse il contesto entro cui si inseriva questa scena, ci troviamo di fronte ad un nudo del tutto consapevole della propria finalità: essere osservato.

In seguito, la cultura religiosa cristiana tese a stilizzare nuovamente le linee dei corpi. Per secoli il nudo femminile fu praticamente bandito dalle rappresentazioni pittoriche, con l’unica eccezione della Progenitrice (fig. 6). Eva era di fatto solo una donna svestita, e veniva raffigurata sempre come monito al peccatore, con fattezze spesso imbruttite a causa della propria colpa.

Il distacco tra il nudo femminile e i pittori non si colmò se non agli albori del secolo XV; con le tendenze artistiche tardomedievali (che vanno sotto la dicitura di Gotico Internazionale), infatti, assistiamo allo sviluppo di corpi allungati e molto eleganti, tuttavia l’unico esempio di nudità furono ancora i Progenitori (fig. 7).

Fig. 7 – Hubert e Jan van Eyck, Eva, Polittico dell’Agnello Mistico, olio su tavola, 1426-1432, Cattedrale di San Bavone, Gand. Credits: Wikimedia Commons.

La donna nuda dal Rinascimento al Barocco

Il Rinascimento italiano fu un momento di importante rivoluzione in tutto il mondo occidentale per il modo di concepire l’arte (e di farla). La riscoperta della bellezza del nudo femminile ne fece parte, ragion per cui fiorì una grande quantità di rappresentazioni di Venere (fig. 8), delle Grazie (fig. 9) e di Leda (fig. 10). La gamma dei soggetti quindi si ampliò, dischiudendosi dal solo ambito religioso alla miriade di possibilità di rappresentazioni mitiche, che ebbero grande successo.

Si aprì così una fase estremamente feconda del rapporto artistico con il nudo femminile, con corpi casti ma molto sensuali, dalle forme opulente o scultoree. Un’era del nudo, in cui quasi ogni dipinto che non fosse a soggetto religioso raffigurava una donna senza veli.

Fig. 10 – Cesare da Sesto (?) copia da Leonardo da Vinci (originale perduto), Leda col cigno, tempera grassa su tavola, 1510-1520, Galleria Borghese, Roma. Credis: Wikimedia Commons.

Si rende necessaria, a questo punto, una precisazione. L’esperienza estetica del nudo d’arte si situa nella maggior parte dei casi (a patto da non essere sovrastati dalla sindrome di Stendhal o da quella di Pigmalione) su un piano rappresentazionale, che sta altrove rispetto a quello reale. Questo perché ovviamente un nudo femminile dipinto non provoca le stesse reazioni di uno in carne ed ossa, ma anche perché ogni opera è diversa dall’altra, quindi noi percepiamo ogni nudo in maniera differente: se la Venere di Botticelli fonde in sé la proporzione pagana e un certo misticismo cristiano, le Grazie di Raffaello rappresentano l’ideale formale della pittura italiana di inizio secolo. Per quanto riguarda i nudi di Leonardo, il realismo delle carni è talmente vivo da risultare nient’altro che meraviglioso. Un’altra Leda di sconvolgente bellezza è raffigurata da Rubens in uno stile che è già barocco (fig. 11); è altamente probabile che il dipinto sia stato derivato dalla perduta opera di Michelangelo. Come che sia, le membra della donna creano linee così sinuose da rendere impossibile distogliere lo sguardo dal dipinto; resta impressionante l’accuratezza dei tratti del bel volto e dell’acconciatura.

Fig. 11 – Pieter Paul Rubens, Leda e il cigno, olio su tavola, 1598-1600, Pinacoteca, Dresda. Credits: Wikimedia Commons.

Chiaramente di diversa intenzione è la Maddalena penitente del Cagnacci (fig. 12), senza dubbio un’opera di grande impatto. Rappresenta Maria Maddalena con i classici attributi della sua vita eremitica[2], tuttavia la santa è languida e in deliquio. Per questo lo sguardo dello spettatore non ne coglie l’ascesi e né la penitenza, ma la sensualità dichiaratamente esposta.

Fig. 12 – Guido Cagnacci, Maddalena penitente, olio su tela, 1626-1627, Gallerie Nazionali d’Arte Antica - Palazzo Barberini, Roma. Credits: https://www.finestresullarte.info.

Vent’anni dopo, ironica, una vezzosa Venere di Velázquez (fig. 13) comunica un certo languore mentre si guarda allo specchio, in una pura espressione di vanità.

Fig. 13 – Diego Velázquez, Venere Rokeby, olio su tela, 1648, National Gallery, Londra. Credits: Wikimedia Commons.

Verso la nudità contemporanea

L’ultimo dipinto di questa breve, personalissima (e certamente non esaustiva) storia del nudo femminile è la Nuda di Subleyras (fig. 14). Un’opera tanto bella quanto enigmatica. Il pittore era un celebre ritrattista, e in certo senso questa tela è il rovescio di un ritratto. In quanto osservatori ci è negato il volto, un fatto che di per sé basta a contravvenire tutte le convenzioni sociali e iconografiche della ritrattistica (la stessa Venere Rokeby è ritratta di schiena, ma ci mostra il volto riflesso nello specchio). Oltre a ciò, ci ritroviamo nella imbarazzante condizione del voyeur: la donna ritratta (una modella? Un’amante? La moglie dell’autore?) non sa quale sia il nostro sguardo proprio come noi non sappiamo quale sia il suo.

L’enigma dell’opera infatti non sta tanto nella nudità esposta, o nella posizione della modella, quanto nel fatto che questa è stata spogliata di ogni attributo iconografico. Potrebbe essere chiunque, eppure non potrebbe essere che lei. Non c’è stilizzazione o semplificazione; il corpo è precisamente descritto dalla curva del collo ai piedi. Stiamo guardando questa donna e non un’ideale di donna.

Questo aspetto rende la Nuda un’opera unica non per la bellezza della sua nudità; d’altronde molte ninfe e Veneri erano già state ritratte in pose discinte e seducenti. Ma solo perché ci aspettiamo che possa girarsi da un momento all’altro e rivelarsi completamente.

Fig. 14 – Pierre Subleyras, Nudo femminile di schiena, olio su tela, 1740 ca, Gallerie Nazionali d’Arte Antica - Palazzo Barberini, Roma. Credits: https://www.artribune.com.

Un secolo dopo Édouard Manet utilizzò questo stesso espediente, che potremmo dire di agnizione, per realizzazione l’opera che ha cambiato definitivamente il modo di dipingere il nudo femminile: Olympia (fig. 15).

Fig. 15 - Édouard Manet, Olympia, olio su tela, 1863, Museé d’Orsay, Parigi. Credits: Wikimedia Commons.

 

Note

[1] Per un approfondimento su questo tema: https://www.progettostoriadellarte.it/2020/04/21/tarquinia-citta-etrusca/

[2] Gli attributi tipici dell’iconografia di Maddalena sono la croce, il vasetto di nardo con cui ha unto i piedi di Gesù, il teschio (simbolo di memento mori) e la disciplina con cui castiga le carni.

 

Bibliografia

Di Monte M., Il reato del corpo. Il nudo femminile tra canone ed effrazione, in Tomassi B. (a cura di) La forma della seduzione. Il corpo femminile nell’arte del ‘900, Milano 2014, pp. 20-29

Marin L., Della Rappresentazione, Roma 2002

Gennari Santori F., Pietromarchi B. (a cura di), Eco e Narciso, Electa, Milano 2018

Cinotti M., La Donna Nuda nella Pittura, Novara 1951

 

MARIA ANNA CHIATTI

Sono nata a Tarquinia (VT) nel 1991. Ho frequentato il Dipartimento di Beni Culturali all’Università degli Studi della Tuscia, a Viterbo, laureandomi in storia moderna nel 2015 con la tesi “Vizi e virtù del cioccolato. Analisi di un documento toscano del Settecento”, e successivamente nel 2018 con una tesi dal titolo “Diversi modi di consumare il cacao: il discorso dei gesuiti sulla cioccolata dall’America all’Europa in età moderna”. Nel 2019 ho frequentato il Master of Art alla Luiss Business School, e, nell’ambito del master, sono stata cocuratrice della mostra “Habitat. Relazioni Trasversali”, che si è tenuta nella splendida cornice borrominiana della Casa delle Letterature. Attualmente sono stagista alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, a Palazzo Barberini.
Sono innamorata della bellezza, che per me si traduce in arte e buon cibo, e spero di riuscire a rendere questo mio amore nei miei articoli. All’interno di Storia dell’Arte sono caporedattrice per il Lazio.


LA "PITTORA" ARTEMISIA GENTILESCHI

A cura di Ornella Amato
Fig. 1 - Autoritratto come allegoria della pittura 1638/39, Londra, Kensington Palace. Credits: arteworld.it.

«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne»

Dichiarazione di Artemisia Gentileschi dagli atti del processo per stupro. 

Roma 1612.

Con la Lg. Nr .66 del 15 febbraio 1996 lo stupro non è più un reato contro la morale, ma viene riconosciuto al pari di un crimine contro la persona.

Note biografiche

Artemisia Gentileschi nasce a Roma l’8 Luglio 1593, e muore a Napoli nel 1653. Figlia di Prudentia Montone e Orazio Gentileschi, è proprio dal padre che “eredita” l’arte pittorica e, grazie allo stesso padre, viene avviata all’arte della pittura, nel momento in cui Orazio intuisce il talento della figlia che, dentro le mura di casa, copiava le opere di altri artisti.

Quella di Orazio Gentileschi è un’intuizione “geniale” per quegli anni: la società seicentesca romana in cui viveva, infatti, costringeva la donna ad una “sottomissione” silenziosa all’interno di una società patriarcale, dove alle donne era regalato esclusivamente il ruolo di “educatrici” della casa, ossia la crescita dei figli; Artemisia però era dovuta crescere in fretta, a causa della morte della madre quando era appena dodicenne.

Ciononostante Orazio Gentileschi si rivela un uomo “ante litteram”, non nega alla figlia di esprimere la sua arte, come probabilmente avrebbe voluto la società del tempo, un tempo durante il quale una donna in un atelier era impensabile, ma la manda a bottega da un suo amico, Agostino Tassi, ma proprio questo è l’incontro che cambia e segna la vita e le opere di Artemisia.

Artemisia Gentileschi: l’arte e lo stupro

Stando alla datazione di Susanna e i Vecchioni (1610), l’opera sarebbe antecedente la violenza (ma sulle sue opere, spesso si discorda sulle datazioni), sebbene nel volto di Susanna molti critici leggano, uno sdegno, una qualsivoglia forma di rigetto alle attenzioni, ma di certo si tratta di un’opera giovanile e non deve sfuggire allo sguardo la delicatezza delle forme del corpo sinuoso di Susanna che è in totale armonia con la perfezione di esecuzione che - volutamente - contrasta coi volti scuri dei due uomini.

Fig. 2 - Susanna e i vecchioni (1610), Germania, Pommersfelden - Collezione Graf von Schonborn. Credits: arteword.it.

Eppure lo stupro è certo all’anno 1611, data la presenza di date nei documenti processuali, tutt’oggi conservati all’Archivio Vaticano. Dopo la violenza subita, secondo la consuetudine del tempo, colui che l’aveva presa con violenza avrebbe dovuto procedere con un “matrimonio riparatore”, cosa che il Tassi rifiutò; fu per questo che Orazio Gentileschi procedette per le vie legali, portando il Tassi ad un inevitabile processo, sebbene non ne sarebbe stata certa la condanna; infatti si tentò con la forza di estorcere ad Artemisia una confessione nella quale ammettesse che si era concessa volutamente al Tassi e che non c’era stata violenza alcuna. Per costringerla a testimoniare il falso fu sottoposta alla terribile tortura della “sibilla”, la peggiore per un pittore, ovvero le legarono con delle corde le dita fino a fargliele sanguinare; Artemisia però non cedette, e confermò tutto.

Per “il reato a lui ascritto” Tassi fu condannato all’esilio il 27 novembre 1612. Per la prima volta nella storia, si condannava un uomo per stupro.

Gli anni dopo i “fatti di Roma”

Due giorni dopo la sentenza, Artemisia Gentileschi sposò il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, un matrimonio combinato dal padre, ma necessario per riabilitare il nome della figlia, ma la rabbia di quanto subito, nonostante avesse avuto giustizia, non l’aveva abbandonata e, probabilmente, è sulla scia di questi sentimenti che nasce una delle sue opere più note: Giuditta che decapita Oloferne

Fig. 3 - Giuditta che decapita Oloferne 1612/13, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Credits: museocapodimonte.beniculturali.it.

La critica concorda che è proprio in questa tela che Artemisia esprime tutta la rabbia per quanto subito: la mano di Giuditta che stringe i capelli della testa di Oloferne perché non si muova (lei stessa aveva dichiarato al processo di aver tentato di liberarsi dal suo aggressore tirandogli i capelli), la lama che si infila nelle carni per decapitarlo, il sangue che scorre lungo le lenzuola, il tutto ha il sapore di una rabbia sfogata attraverso la tela. Questa non sarà però l'unica tela nella quale Artemisia darà sfogo alla sua rabbia attraverso la rappresentazione di soggetti dalla morte  cruenta: quasi sempre prediligerà racconti di violenze per mano di una donna, o soggetti come la Lucrezia, che aveva subito la sua stessa violenza e a seguito della quale si pugnala.

Fig. 4 - Lucrezia, collezione privata. Credits: cinquecosebelle.it.

Col matrimonio Artemisia lasciò Roma alla volta di Firenze, dove divenne la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno e, da qui, da questi avvenimenti, si alza, senza mai fermarsi, la parabola artistica della “pittora”, come la chiameranno a Napoli.

 

Realizzerà anche una seconda versione di Giuditta e Oloferne.

 

Gli anni che seguirono quelli fiorentini, durante i quali si era avvicinata a Galileo Galilei e al giovane Buonarroti, furono anni di viaggi in Italia, compiuti prevalentemente a Genova, a Venezia e poi a Napoli, dove è vicina ai caravaggeschi, ma soprattutto ricchi di opere.

 

Dopo una breve parentesi alla corte di Carlo d'Inghilterra, torna a Napoli per restarci fino alla fine dei suoi giorni. Correva l'anno 1653.

La parabola storico - artistica di Artemisia Gentileschi è la parabola della vita di una donna che, al di là del suo tempo, non si piega alle convenzioni. E’ la prima pittrice della storia, è la prima donna che ha il coraggio di imporre la sua arte, andando “a bottega” , si piega ma non si spezza dopo essere stata stuprata dal suo stesso maestro, ha il coraggio della “denuncia” per quanto subito, sotto tortura non cede, cade, si rialza e vince sul suo aggressore; ciononostante un senso di rabbia e di dolore farà da filo conduttore alle sue opere, nonostante usi colori cangianti che quasi contrastano coi volti dorati dei suoi personaggi  nei quali, attraverso colpi di pennello, è scritto il  dolore che l’ha segnata per la vita.

 

Bibliografia

V. Pacelli - La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano - Cap II pag. 64

Ed. scientifiche Italiane

C. Lachi (testi di) -  La Grande storia dell’arte Vol. 7- Il Seicento parte prima

Artemisia Gentileschi - un’eroina nella vita e nell’arte - pag. 95

 

Sitografia

http://storiedinapoli.it/2017/07/08artemisia-gentileschi-pittora

http://terredicampania.it/cultura/artemisia-gentileschi-l-arte-lo-stupro

http://enciclopediadelledonn.it/biografie/artemisia-gentileschi

digilander.libero.it

diritto.it

 

ORNELLA AMATO

Laureata nel 2006 presso l’università di Napoli “Federico II” con 100/110 in storia * indirizzo storico-artistico.
Durante gli anni universitari ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.
Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it


SOFONISBA ANGUISSOLA: UNA DAMIGELLA PITTRICE

A cura di Silvia Piffaretti

Introduzione

Nel Cinquecento, tra le vie della tranquilla e superba Cremona, si aggiravano alcuni tra i più grandi spiriti innovatori della pittura, ma il più raffinato fu senza dubbio quello della giovane Sofonisba Anguissola. Quest’ultima non fu la prima donna a prendere in mano un pennello, ma sicuramente fu una delle prime ad ottenere riconoscimento come pittrice in una professione prettamente maschile. Nonostante ciò, a differenza dei colleghi uomini, non ottenne mai diretti compensi in denaro ma doni o rendite che giungevano per mezzo del padre. La giovane nacque nel 1535 a Cremona da Amilcare Anguissola, uomo di grande cultura, e da Bianca Ponzone. I genitori scelsero per lei il nome di Sofonisba in onore della coraggiosa figlia del cartaginese Asdrubale che, per non cadere preda dei Romani, si tolse la vita. Quella degli Anguissola era una famiglia numerosa, ella aveva infatti ben cinque sorelle minori e un fratello. Fu proprio in quella casa che Vasari definì albergo, non solo della pittura, ma di tutte le virtù che la giovane ricevette una formazione classica accompagnata allo studio della musica e della pittura.

Cremona: lintimità famigliare e la formazione

L'esperienza pittorica di Sofonisba Anguissola ebbe inizio grazie all'interesse del padre Amilcare che, insieme alla sorella Lucia, la mandò a formarsi presso l’abitazione del pittore Bernardino Campi. Le due giovani furono mandate presso l’abitazione e non la bottega, poiché all’epoca essa era ritenuta un luogo moralmente non frequentabile dalle donne. Dopo Campi Sofonisba passò al maestro Bernardino Gatti, detto il Sojaro, grazie al quale assimilò lo stile di Correggio e iniziò a dedicarsi ai ritratti “dal naturale”. La sua lezione si avverte chiaramente in Partita a scacchi, una delle prime tele realizzate in cui le protagoniste sono le sorelle Lucia, Minerva ed Europa, osservate dall’anziana domestica, intente all'intellettuale gioco degli scacchi. La tela per il Vasari, che la vide quando si recò in visita a casa Anguissola, era realizzata con tanta diligenza e prontezza, che [le figure] paiono veramente vive, e che non manchi loro altro che la parola.

Fig. 1 - “Partita a scacchi”, Sofonisba Anguissola, 1555, colore ad olio su tela, 70x94 cm, Narodowe Muzeum, Poznań.

Nell’intimità famigliare prese piede la sua indagine attorno alle emozioni, un chiaro esempio è il disegno di una fanciulla che ride di un’anziana inviato da Tommaso Cavalieri a Cosimo I insieme a un disegno di Michelangelo, il quale definì il disegno non solo bello ma di notevole invenzione. Michelangelo fu colui che introdusse Sofonisba all’arte pittorica, a testimoniarlo è una lettera del padre Amilcare in cui lo ringrazia per l’onorevole e premuroso affetto. Infatti dopo aver visto il disegno espresse il desiderio di poterne vedere uno di sentimento opposto, così Sofonisba realizzò quello di un bambino dolorante in volto, il fratellino Asdrubale, la cui mano era stata morsa da un granchio. Disegno che, con molta probabilità, poco tempo dopo ispirerà il Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio.

Poco tempo dopo Sofonisba Anguissola iniziò a dedicarsi ai suoi intensi e introspettivi autoritratti, quando ancora tale genere non era in voga tra i pittori. Nell’autoritratto degli Uffizi, datato 1552-53, si dipinge come una giovane compunta e senza sorriso avvolta in un abito nero per suggerire l’immagine di una donna colta e nobile. Inoltre il suo presentarsi con la tavolozza, il pennello e lo stilo in mano dimostra la consapevolezza di essere un’artista di valore. Mentre nel dipinto del Kunsthistorisches di Vienna, dove i suoi occhi sono più intensi e profondi, tiene in mano un libretto ed è accompagnata dall’iscrizione “La vergine Sofonisba Anguissola lo fece nel 1554” per connotarsi come l’ideale donna virtuosa di corte.

Il successivo autoritratto di Boston è un medaglione in cui, su fondo verde, regge nelle mani un monogramma con le lettere che compongono il nome del padre, nella cornice di quest’ultimo invece è l’iscrizione latina "La fanciulla Sofonisba Anguissola, raffigurata dalla sua stessa mano, da uno specchio, a Cremona”. Mentre in Autoritratto con cavalletto si rappresenta intenta a dipingere una tela della Vergine e il Bambino, forse per identificarsi con quest’ultima e costruirsi ancora una volta un’immagine di donna virtuosa.

Madrid: una damigella che dipinge a corte

Grazie all’apprezzamento di grandi personalità, e soprattutto all’impegno del padre, la sua fama dilagò e nel 1559 fu invitata da Filippo II alla corte di Madrid come dama di corte della regina francese Isabella di Valois, alla quale insegnò a disegnare dal vero. Sofonisba aveva belle doti di cuore e di mente, per questo la regina le si mostrava come a una tenera amica, tant’è che dopo la morte della sovrana restò al seguito delle due infante. I due sovrani le erano talmente legati che nel 1571 favorirono il suo matrimonio con il palermitano Fabrizio Moncada, fratello del viceré di Sicilia Francesco II. La regina, che le aveva fatto più volte ricchi doni, le regalò per l’occasione un abito decorato di perle ed il re le stabilì un censo di mille scudi all’anno sulla dogana di Palermo.

La giovane rientrò in Italia a Palermo nel 1580, già vedova del primo marito e pronta a tornare nella sua Cremona. Nel viaggio di ritorno per mare conobbe il nobile capitano genovese Orazio Lomellini, convolò così a seconde nozze e si trasferì a Genova, dove ricevette artisti e letterati da ogni dove. Anche questo matrimonio rimase infecondo, così ella che sapeva figurar col pennello bambini con tanta grazia non ebbe la consolazione di averne di vivi. Negli ultimi anni della sua vita si trasferì a Palermo dove nel 1623 ricevette Van Dyck, a cui consigliò di realizzare i ritratti facendo cadere la luce dallalto, perché dal basso si vedono le rughe. Quest’ultimo la ritrasse in un dipinto, accompagnato da una postilla, in cui dichiarava di aver imparato più da questa novantenne cieca che dai suoi contemporanei.

Fig. 9 - “Sofonisba Anguissola", Van Dyck, 1624, olio su tela, 41,6x33,7 cm, Knole, Kant.

Anche il Vasari, come già anticipato, rimase colpito dalla sua bravura poiché ella dimostrò un’applicazione e grazia nel disegno migliore di qualsiasi altra donna della sua epoca, da sola riuscì a creare dipinti rari e molto belli. La pittrice si spense nel 1625, ma per fortuna la sua arte non fece altrettanto e continuò ad emozionare con la sua intimità e intensità nei secoli a venire, dando la forza anche ad altre donne di intraprendere la stessa strada.

 

Bibliografia

Anna Banti, Quando le donne si misero a dipingere, Abscondita, 2017.

Giorgio Vasari, Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori, edizione 1568.

Vincenzo Lancetti, Biografia Cremonese, vol. 1, Milano, Borsani, 1819, 250-60.

 

Sitografia

www.treccani.it

 

SILVIA PIFFARETTI

Sono nata a Lecco, piccola provincia lombarda sul lago di Como tra le montagne.
Attualmente studio “Scienze dei Beni Culturali” presso l’Università degli Studi di Milano, in seguito vorrei proseguire il percorso specializzandomi in “Storia e Critica dell’Arte”. Ho da sempre avuto una forte passione per l’arte, in particolare per quella contemporanea e la fotografia, in quanto mezzo d’interpretazione della realtà. Un altro mio interesse è quello per la letteratura, che mi piace pensare in un dialogo parallelo con l’arte.
All’interno di Storia dell’Arte sono referente per la regione Lombardia.


LA CHIESA DI SANT’APOLLINARE A PRABI DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Camminando sulle rive del fiume Sarca, sulla strada che conduce da Arco alla località di Prabi, potrebbe passare inosservata una piccola chiesa che, nonostante le sue dimensioni, è una delle più antiche ed importanti della zona dell’Alto Garda e del Trentino (fig. 1). Si tratta della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi di Arco.

Fig. 1 – Esterno della chiesa di Sant’Apollinare a Prabi.

La storia dell’edificio

Le prime notizie certe riguardo la costruzione della chiesa risalgono al XIV secolo ma per svariati motivi, tra cui la dedicazione a Sant’Apollinare (vescovo di Ravenna) e la collocazione all’esterno delle mura di Arco, la probabile origine della chiesa, luogo di culto ariano, può essere ragionevolmente anticipata all’VIII secolo[i].

Ciò che è certo è che nel Trecento la chiesa era officiata da alcuni monaci che risiedevano in un monastero nei suoi pressi e che a fine Quattrocento l’edificio liturgico divenne priorato dell’arcipretura di Arco. Nel XVIII secolo alcuni eremiti presero in affidamento la custodia fino a quando, nel 1782, la chiesa venne soppressa. Nel corso dell’Ottocento S. Apollinare riacquistò la sua dignità e tornò ad essere edificio di culto: evidentemente, però, non era molto frequentata dai fedeli, dato che nel 1866 la Curia arcivescovile di Trento diede l’ordine di demolirla[ii]. Fortunatamente, l’ordine non venne seguito, così oggi possiamo ancora ammirare questo meraviglioso edificio. L’aspetto della chiesa, ad oggi, non rispecchia tuttavia la sua conformazione ottocentesca; le sue sventure, infatti, non si erano ancora concluse. Durante la Prima Guerra Mondiale, a causa delle schegge di una granata che danneggiarono il tetto e parte dell’abside, parte degli affreschi che la decoravano andò perduta. In seguito a vari interventi di restauro, la chiesa è stata definitivamente restituita al culto nel 1983[iii].

L’edificio

La chiesa di Sant'Apollinare a Prabi è a pianta rettangolare, con l’aggiunta, sul lato destro, di un porticato esterno, utilizzato come riparo per pellegrini e viandanti. La presenza del porticato esterno è una testimonianza eloquente dell’importanza dell’edificio per la zona dell’Alto Garda e non solo. Dietro l’altare di pietra presente nel porticato (utilizzato anche come pronao in caso di grande affluenza di fedeli) è presente la decorazione a fresco dell’Ultima Cena (fig. 2)[iv].

Lo sguardo è immediatamente catturato da Cristo che si rivolge allo spettatore mentre tocca con la sua mano destra la spalla di S. Giovanni che, come da consuetudine, è addormentato sul tavolo. Gli altri apostoli, cinque per parte, sono rappresentati ai lati di Gesù, intenti a discutere tra loro; tra le mani, alcuni di essi reggono dei bicchieri di vino o dei coltelli appena presi da una tavola imbandita di leccornie. L’unico apostolo a non trovarsi sullo stesso lato di Cristo è Giuda, che il pittore dipinge senza aureola, di dimensioni minori e accovacciato sotto il tavolo in prossimità di S. Giovanni; scelte formali, queste ultime, portate avanti dal pittore per sottolineare il ruolo di traditore ricoperto dall’Iscariota. L’Ultima cena non è, tuttavia, l’unico affresco che decora la parete esterna dell’edificio; in basso rispetto all’opera sopracitata è infatti presente un lacerto pittorico ospitante un’Adorazione dei Magi mentre, più sulla destra, è presente un santo vescovo, individuabile come il frammento più antico della decorazione (fig. 2)[v].

Se già gli affreschi all’esterno della chiesa potrebbero stupire, quelli che si vedono una volta  varcata la soglia d’ingresso non possono che meravigliare. Anche le pareti della navata e dell’abside sono affrescate, rivelando brani pittorici che sono il frutto di campagne decorative risalenti a momenti storici diversi.

Fig. 2 – Affreschi nel protiro esterno.

La parete nord della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi ospita gli affreschi più antichi; partendo da sinistra è presente un Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni e un santo vescovo; al centro della parete si vede una Madonna col Bambino in trono, affiancata a sinistra da S. Margherita, riconoscibile dal drago ai suoi piedi, e da S. Antonio abate, in abiti da monaco, con la campanella e il bastone a tau nelle mani[vi]. Proseguendo sulla medesima parete troviamo una raffigurazione del martirio di S. Lorenzo: si narra che il santo diacono distribuì ai poveri tutte le sostanze della Chiesa, suscitando così l’ira del prefetto Cornelio Secolare, che fece arrestare Lorenzo martirizzandolo poi su una graticola rovente. Seguono, poi, due figure di santi vescovi e una santa (fig. 3)[vii].

Fig. 3 – Parete nord.

Nel registro inferiore della medesima parete è invece presente una schiera di santi, posizionati uno accanto all’altro e con lo sguardo rivolto verso noi spettatori. Partendo da sinistra si riconoscono S. Leonardo (fig. 4), in abiti da diacono; S. Apollinare benedicente; S. Antonio abate, riconoscibile dal saio marrone e dal bastone a tau nella mano sinistra; vicino a lui, S. Caterina d’Alessandria, con la palma del martirio nella mano sinistra e la ruota dentata nella destra; S. Paolo, con la spada e il libro; un santo vescovo e un evangelista, non identificabili in quanto carenti di attributi iconografici specifici.  È poi presente una Madonna col Bambino, affiancata da una S. Elena (riconoscibile dalla croce) e probabilmente da un S. Giovanni Evangelista (vicino a lui è infatti raffigurato S. Giovanni Battista, con il consueto cartiglio in mano che in origine quasi certamente recava le parole “Ecce agnus dei”). Le ultime due figure sulla parete sono di nuovo un santo vescovo (anche questo non identificabile) e S. Antonio abate, abbigliato da monaco, ancora una volta accompagnato dal tipico bastone a tau e dalla campanella (fig. 3)[viii].

Fig. 4 – S. Leonardo.

Anche sulla parete opposta a quella appena analizzata sono presenti decorazioni a fresco su due registri: nella parte alta è presente una Madonna col Bambino tra due apostoli e i Ss. Antonio abate e Lucia (quest’ultima riconoscibile dalla ciotolina contente i suoi occhi). La figurazione prosegue con due scene sacre: la Deposizione del corpo di Cristo e la Natività[ix]. Il registro inferiore è invece occupato dalla scena del Martirio di S. Agata: si narra che la santa venne legata e i suoi seni recisi e strappati, come vediamo proprio nell’affresco di Prabi[x]. Proseguendo verso destra sono presenti nove santi, non tutti riconoscibili. Tra i santi identificati troviamo S. Martino, in abiti eleganti e con la spada in mano; S. Dorotea, con i fiori nella mano destra; S. Nicola da Bari, in abiti vescovili; S. Francesco, con il saio e il crocifisso; con i lunghi capelli, che le coprono tutto il corpo, S. Maria Maddalena; vicino a lei,  un probabile S. Bartolomeo con il coltello nella mano destra; chiudono il corteo S. Giovanni evangelista e S. Antonio Abate (fig. 5).

Fig. 5 – Parete sud.

Come anticipato all’inizio di questo articolo, a causa delle schegge di una granata, gli affreschi della zona absidale con un Cristo in mandorla e i simboli dei quattro Evangelisti sono andati perduti. Fortunatamente si possono ancora ammirare parte degli affreschi dell’arco santo, con il lacerto dell’Annunciazione nella parte alta e due coppie di santi nella parte sottostante: S. Lorenzo e S. Apollinare da un lato, S. Cristoforo e una santa non identificata dall’altro (fig. 6)[xi].

Fig. 6 – Area del presbiterio.

Prima di uscire dalla chiesa di Sant'Apollinare a Prabi, meritano uno sguardo anche gli affreschi sulla parete d’ingresso, con S. Antonio abate (recante una fiammella sul palmo della mano e tentato dal diavolo in vesti di donna) e S. Giuseppe, sulla destra, raffigurato assieme ai suoi strumenti di lavoro[xii].

Chi è l’autore di questi affreschi?

La paternità della decorazione pittorica è stata, nel corso del tempo, oggetto di discussione; tutti gli storici e i critici sono però concordi sul fatto che gli affreschi siano frutto di mani diverse e soprattutto sulla datazione più “bassa” dell’Ultima cena, dell’Adorazione dei Magi e dei Santi del protiro esterno successivi rispetto ai brani pittorici all’interno. Già Nicolò Rasmo, nella sua Storia dell’arte nel Trentino[xiii], aveva assegnato le opere a membri della famiglia dei da Riva, fortemente influenzati dalla pittura veronese; tramite dei confronti con opere certe di Brenzone (chiesa di S. Pietro in Vincoli), Lazise, Torri del Benaco e Gargnano, la critica recente ha poi proposto di attribuire gran parte degli affreschi a Giorgio da Riva e assegnando una parte minore della decorazione al fratello Giacomo. Se quindi gli affreschi del protiro si possono datare già alla prima metà del Quattrocento, per quelli della navata, sicuramente precedenti, si può risalire con ogni probabilità a una data che oscilla tra il 1360 e il 1370[xiv].

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[ii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[iii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 94-95.

[iv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 96.

[v] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vii] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 220-223

[viii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[ix] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[x] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 12-14.

[xi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[xii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 101.

[xiii] N. Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982, p. 140.

[xiv] M. Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017, pp. 25-41.

 

Bibliografia

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000.

Nicolò Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982.

Marianna Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017.

 

Referenze delle immagini

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-sant-apollinare/
  2. https://romanicotrentinoaltoadige.wordpress.com/2017/09/15/santapollinare-arco/
  3. Beatrice Rosa
  4. Beatrice Rosa
  5. Beatrice Rosa
  6. Edoardo Fabbri

LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

A cura di Veronica Pacini

La violenza contro le donne, i diritti e la riproduzione sociale

I linguaggi e i contesti socio-culturali che riproducono la violenza e i femminismi come pratiche trasformative

La violenza contro le donne può essere eliminata, come si propone la Giornata Internazionale indetta dall'ONU che ricorre il 25 Novembre? Sì. E questo perché la violenza contro le donne non è un dato iscritto nella biologia dell'essere umano, non è una tendenza naturale socialmente disdicevole da tenere sotto controllo. È una modalità di pensiero, un modello culturale e, in quanto tale, arbitrario, costruito, trasformabile. Allora perché, a quasi quaranta anni dalla Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne ratificata dall'ONU e a più di un secolo dalla prima ondata femminista, ci ritroviamo ancora oggi, in Italia, a parlarne? Proveremo a rispondere in due momenti diversi: in questo articolo partiremo da un'analisi linguistica della violenza per cercare di osservare quali questioni sociali si giocano oggi sul corpo delle donne. Nel prossimo utilizzeremo gli strumenti dell'antropologia per capire come le società costruiscono gli stereotipi di genere, come li riproducono e perché è così difficile decostruirli.

Le narrazioni della violenza. Il linguaggio con cui i principali mezzi di comunicazione (giornali, radio, televisione, internet) raccontano la violenza sulle donne, parla di stereotipi di genere molto radicati nell'immaginario collettivo[1].

  1. La violenza viene rappresentata come una forma d'amore, una sua degenerazione o esagerazione. Espressioni come amore sbagliato o amore malato vengono accompagnate spesso da raptus, delitto passionale, accecato da/folle di gelosia. Inoltre la sintassi dei titoli tende a tenere insieme la violenza e l'azione che si reputa scatenante: “Tu mi tradisci”. E dà fuoco alla fidanzata. Oppure: Latina, rifiuta di sposarlo e lo lascia. Lui la uccide con due colpi di pistola. L'effetto della narrazione è di costruire una dinamica di causa-effetto tra una libera scelta della donna (di solito non amare, smettere di amare, tradire) con la violenza subita, suggerendo l'idea della punizione (delitto passionale) o dell'impossibilità da parte dell'uomo di domare un istinto che è per sua natura incontrollabile, a cui non ci si può sottrarre (raptus).
  2. L'aggressore tende a essere deresponsabilizzato: presentare l'aggressione come un fatto la cui inevitabilità è conseguenza della gravità dell'azione della partner, vuol dire deresponsabilizzare l'aggressore, che viene così promosso da colpevole a vittima. L'aggressore diventa allora il fidanzatino, il gigante buono, il marito disperato. Vengono poi aggiunte spesso altre informazioni che hanno come effetto di funzionare nell'immaginario del lettore come attenuanti: drogato, disoccupato, depresso.
  3. La vittima tende a essere colpevolizzata: non solo nei giornali ma spesso anche nei tribunali, alla donna che subisce un'aggressione viene chiesto com'era vestita, che atteggiamenti aveva avuto con l'aggressore; talvolta viene persino valutato il suo grado di bellezza e di femminilità[2]. Sono passati quasi settant’anni dal processo a Franca Viola, la prima ragazza italiana a sottrarsi alla prassi del matrimonio riparatore e portare a processo il suo stupratore, ma è ancora attuale la prassi di screditamento della vittima, cioè la tendenza a rovesciare il processo e rendere la vittima colpevole e di essersi meritata lo stupro come conseguenza di atteggiamenti provocanti e perciò immorali o di essersi inventata tutto o di essere stata consenziente in caso di impossibilità di dimostrare, con tracce visibili sul corpo, la ribellione al suo aggressore.

 

Il corpo come luogo della scrittura delle regole sociali. La narrazione della violenza sulle donne prevede sempre un indugiare sul corpo della vittima, un'indagine, una perizia: si raccontano nei minimi particolari le violenze subite (anche in caso di femminicidio) più che per un intento di realtà per un gusto voyeuristico, morboso, quasi ammiccante. All'analisi segue, come già detto, il giudizio, cioè la valutazione da parte della società dell'aderenza del corpo violato ai dettami della moralità. Lo sguardo sorvegliante e giudicante del grande occhio sociale sul corpo della donna non è una particolarità che si attiva solo nei casi di violenza, ma è il retroterra culturale in cui la violenza si innesta, è un atteggiamento costante e legittimato. La società si sente in diritto di rendere oggetto di dibattito pubblico alcuni aspetti della gestione del corpo da parte delle donne: l'esposizione di alcune sue parti (si può non indossare il reggiseno in tribunale[3]? si può indossare la minigonna a scuola[4]?), l'estetica (si può ingrassare? si può dimagrire[5]? si possono avere i capelli grigi[6]? si può indossare un vestito blu a balze[7]?), le scelte religiose (si può portare il velo[8]?). Se i membri di un gruppo sociale si sentono legittimati a discutere e decidere collettivamente le regole attraverso cui i corpi di una parte della società possono esistere e agire, allora si sentiranno altrettanto legittimati a far rispettare quelle regole, redarguendo e punendo i corpi che quelle regole non vogliono rispettarle.

L'aspetto principale, però, per cui il corpo delle donne è soggetto a un'attenzione particolare risiede nel suo potere riproduttivo. Come vedremo nel prossimo articolo, le società umane hanno strutturato e strutturano le prassi sociali attorno a diverse strategie di determinazione del genere (cioè stabilendo cosa è maschile, cosa è femminile e cosa non è né l'uno né l'altro e ha bisogno di altre categorie[9]) e di controllo sociale della riproduzione. La donna si fa officina, tana e custode dell'embrione che diventa feto, del feto che diventa bambino: il suo corpo si trasforma, quindi, da questione privata a strumento collettivo della riproduzione di una comunità. In altre parole: a un certo gruppo sociale, le donne, viene chiesto di rinunciare a un certo numero di diritti in favore di funzioni collettive. Il privato viene subordinato al pubblico; un potere, quello della riproduzione, viene socializzato; un gruppo sociale viene sottoposto a controllo e normazione dall'intera società. Ancora oggi le donne devono costantemente negoziare tra diritti privati (e quindi libertà di autodeterminarsi) e controllo pubblico: di qui la difficoltà di accesso alla contraccezione[10], gli attacchi all'aborto[11], la retorica dell'orologio biologico[12].

La maternità, rispetto ad altri paesi occidentali, è una questione ancor più complessa in Italia per via di un fenomeno tutto particolare che viene sintetizzato nella parola mammismo da Corrado Alvaro per la prima volta nel 1952 e che analizza la centralità del ruolo materno nella costruzione di una società, quella italiana, di uomini allevati dalla mamma come protagonisti[13]. L'attenzione alla maternità, intesa non come possibilità riproduttiva ma nei suoi aspetti di maternage, cioè di relazione madre-figlio, inizia a essere investita di un certo tipo di significato in epoca risorgimentale: fatta l'Italia, alle madri toccava fare gli italiani. Anche il fascismo investì molte energie nella costruzione di modelli materni che fossero di sostegno al regime: fatto il regime, alle madri toccava fare i fascisti[14] (e per fortuna non tutte lo fecero). Quasi due secoli di sovrascritture continue ed enfatiche sul ruolo materno hanno portato oggi al moltiplicarsi di romanzi e saggi che rispondono al bisogno delle madri di raccontare la maternità in modo non stereotipato, quindi anche nei suoi aspetti distruttivi, e le non madri a dover alzare la voce per ribadire che per una donna la maternità è solo una delle scelte possibili.

Diritti delle donne e femminismi. Perché, se le donne hanno acquisito tanti diritti – non ancora tutti – nella nostra società c'è ancora posto per il controllo, il giudizio e la violenza sul corpo delle donne? Torniamo, di nuovo, al linguaggio.

Quando si parla di diritti si usa spesso una parola che evoca almeno due immagini nella nostra mente. La parola è conquistare e le immagini sono la lotta e una porzione di territorio finito che due o più parti si contendono e sottraggono a vicenda con la forza. Le due metafore sono collegate: se la torta è una sola, chi ce l'ha nel piatto farà di tutto per difenderla, mentre chi ha fame farà di tutto per prendersela. Se invece immaginiamo i diritti come la possibilità di riempire i piatti di tutti, chi la torta ce l'ha già non avrà più paura di perderla e potrà investire le sue energie per aiutare gli altri a trovare gli ingredienti e cucinare tante torte quanti sono i piatti da riempire. Potremmo allora usare il verbo moltiplicare: moltiplicando i diritti nessuno sentirebbe i propri minacciati.

Pensare ai diritti come a un bene finito e insufficiente che le parti sociali devono contendersi impedisce di vedere un aspetto importante della questione: quando un frammento della società è oppresso, tutta la società ne risente in maniera negativa. Allargare la sfera dei diritti vuol dire aumentare il benessere di tutte le parti sociali (ex-oppressi ed ex-oppressori) ma soltanto se ogni frammento sociale avrà la capacità di ridefinirsi di fronte all'identità ampliata di chi quel diritto lo ha appena acquisito. Se invece gli altri frammenti proveranno un senso di smarrimento di fronte all'identità più forte dell'altro, se da quella nuova forza si sentiranno minacciati anziché corroborati, allora troveranno il modo di vendicarsi o progettando piani per recuperare il terreno che credono di aver perduto, o creando nuove forme di oppressione o rendendo la vita impossibile a coloro che si sono appena liberati. È quello che accade quando il diritto di una parte sociale si fonda sulla negazione di uno o più diritti di un'altra parte sociale: abbiamo a che fare allora con un privilegio. Per moltiplicare i diritti, cioè estenderli a tutte le parti sociali, occorrerà allora eliminare i privilegi e questo sì, implicherà una lotta perché chi detiene un privilegio, di solito, se lo vuole tenere.

Semplificando molto, il femminismo è l'insieme delle filosofie e delle pratiche che si pongono come obiettivo la liberazione della donna attraverso l'eliminazione dei privilegi maschili e il raggiungimento della parità dei diritti. È un contenitore di idee e di azioni, anche molto diverse (per questo spesso si parla di femminismi) che si propone di mettere in evidenza il patriarcato, ovvero il sistema socio-culturale che fonda e giustifica la subordinazione del sesso femminile al sesso maschile. È importante sottolineare di nuovo però la portata collettiva e universale del femminismo, cioè il suo valore liberante per le oppresse ma, in una certa misura, anche per gli oppressori: il patriarcato struttura modelli identitari e di comportamento che entrambi i sessi contribuiscono a riprodurre (anche la parte oppressa) e a cui entrambi i sessi debbono sottomettersi per far parte della società, e se è vero che il sesso maschile ne trae principalmente vantaggi è altrettanto vero che non tutti gli uomini riescono a conformarsi ai modelli di virilità imposti, cioè agli stereotipi maschili a cui viene richiesto loro di aderire. Gli stereotipi sono semplificazioni e generalizzazioni mentre la realtà e l'essere umano sono entità complesse: adattarsi agli stereotipi vuol dire sottostare a divieti e regole che limitano le possibilità espressive anche dei membri della parte sociale più forte. Nel movimento di presa di coscienza del patriarcato avremo allora uno scenario sociale complesso e articolato di parti diverse, trasversali, inaspettatamente conservatrici o trasformative, più o meno intransigenti. Ci saranno, ad esempio, uomini desiderosi di liberarsi dalle costrizioni quanto le donne e donne incapaci di fare quel passo laterale necessario a vedere la costrizione, o che si porranno in difesa della conservazione; oppure, partendo da una stessa base di decostruzione del patriarcato, si potranno immaginare forme diverse, più o meno conciliabili, di trasformazioni possibili, orientate, per esempio, da possibilità economiche diverse, da credenze religiose diverse, da convinzioni più o meno ambientaliste. La questione del rapporto dei generi interseca inevitabilmente altri campi sociali, interagisce con gli altri aspetti che definiscono l'umanità individuale: esisteranno allora più risposte al problema del patriarcato, più movimenti tellurici che tenderanno a farlo franare, diversi a seconda della matrice culturale da cui scaturiscono. Esistono femminismi islamici[15], femminismi neri[16], femminismi delle donne zingare[17] e femminismi che lottano le disparità di genere ragionando sullo sradicamento del sistema economico (capitalista e neoliberista) che lo sostiene o che sfrutta a suo vantaggio alcuni aspetti del femminismo[18]. Alla luce di tutto questo, delle complessità della società in cui viviamo, oggi si parla di femminismo intersezionale, ovvero di un movimento capace di riconoscere allo stesso tempo la molteplicità delle cause che stanno alla base della discriminazione, quindi non solo il sessismo – contro le donne ma anche contro tutti i generi non binari e tutti gli orientamenti sessuali – ma anche il razzismo – etnico, culturale, religioso – e le disuguaglianze economiche. Il femminismo diventa una filosofia di parola e di azioni trasformative che interessa più aspetti della società e che può essere attuato da più gruppi sociali. In questo senso è interessante vedere il cambiamento di alleanze col genere maschile, spesso impegnato in una revisione del proprio ruolo nell'ottica di una liberazione collettiva dagli stereotipi e nell'uso del proprio privilegio di genere per aumentare i diritti delle donne[19].

Il desiderio. I diritti delle donne hanno anche a che fare con un riposizionamento della donna in relazione al desiderio. Il passaggio da oggetto desiderato a soggetto desiderante, infatti, non è ancora completo: nonostante la proliferazione di manuali, sex toys, associazioni e collettivi che incoraggiano le donne a vivere il piacere e ad avere una vita sessuale piena e autodeterminata, spesso le donne si trovano a dover affrontare il giudizio esteriore di una società che le vuole castigate e represse (perché i corpi siano funzionali soltanto alle esigenze riproduttive) o sexy e sessualmente disponibili (perché i corpi siano arredamento, premio o strumenti del piacere maschile) oppure si trovano a dover affrontare il proprio senso di colpa, cioè un giudizio interiore frutto del patriarcato introiettato. Desiderio come libera ricerca ed espressione della sessualità, quindi, ma non solo. Desiderio è ogni spinta che attiva una capacità generativa e autopoietica, è la possibilità reale di immaginare proiezioni di sé più ricche e soddisfacenti di quella di partenza. Le lotte femministe hanno come obiettivo, allora, quello di ridare pieno spazio anche al desiderio delle donne. Nel suo libro Ripartire dal desiderio[20], però, Elisa Cuter analizza come si siano create delle dinamiche che invece che ampliare hanno depotenziato il desiderio non solo femminile, ma anche maschile. Un certo tipo di femminismo, abilmente colonizzato dalle strategie di espansione del profitto del capitalismo, ha spostato l'asse del discorso dalla presa di coscienza del dato culturale del genere (il genere è una costruzione sociale) a un essenzialismo di ritorno (il genere è un dato naturale) che vede una nuova cristallizzazione del maschile e del femminile e un rigido protocollo a regolarne i rapporti. Questo si struttura attorno a una serie di norme che partono da buone pratiche e buoni propositi (l'attenzione al linguaggio e alla rappresentanza, ad esempio), ma che stanno portando a una messa al bando del desiderio e a un nuova cultura del sospetto reciproco con la conseguenza, tra le altre cose, di disegnare delle donne ancora più vittime e degli uomini ancora più carnefici. La sfida è allora quella di tenere insieme la parità di genere e il desiderare, decostruire gli stereotipi senza che le relazioni diventino un territorio freddamente amministrato da norme che invalidano il desiderio, che è invece l'impulso che alimenta e nutre le relazioni stesse. Se il desiderio è spinta verso l'umanità dell'altro, la violenza è il suo contrario: una forza distruttiva e degradante, disumanizzante. L'eliminazione della violenza di genere non può prescindere allora dalla capacità collettiva di immaginare e realizzare spazi in cui il desiderio di tutti e di tutte sia possibile.

 

 

Note

[1]   Si vedano, per questa parte, i lavori di Francesca Pischedda https://core.ac.uk/download/pdf/31145165.pdf; di Chiara Gius e Pina Lalli https://www.essachess.com/index.php/jcs/article/viewFile/249/291; di Silvia Bonacini https://www.cddonna.it/wp-content/uploads/2019/11/Silvia-Bonacini-.pdf

[2]   È il caso degli stupratori assolti perché la vittima era troppo mascolina: https://www.repubblica.it/cronaca/2020/10/19/news/ancona_verdetto_ribaltato_per_strupratori_assolti_perche_la_vittima_era_mascolina_-271119797/

[3]   Il caso di Carola Rackete sollevato dal quotidiano Libero:  https://www.liberoquotidiano.it/gallery/personaggi/13485460/sea-watch-carola-rackete-senza-reggiseno-procura-agrigento-patronaggio-ong.html

[4]   https://www.lastampa.it/cronaca/2020/09/19/news/divieto-di-minigonna-la-rivolta-delle-liceali-mi-vesto-come-voglio-1.39322724

[5]   Si veda il dibattito pubblico su Vanessa Incontrada, Rihanna, Adele, Laura Chiatti.

[6]   Accaduto alla giornalista Giovanna Botteri: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/02/striscia-la-notizia-contro-giovanna-botteri-lancia-servizio-sugli-haters-che-criticano-la-giornalista-per-laspetto-lei-sulla-bbc-croniste-con-rughe-culi-nasi-orecchie-grosse-conta-cio-che-d/5788902/

[7]   I commenti al vestito della Ministra Bellanova: https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/governo_teresa_bellanova_ministro_insulti_social_capezzone-4715871.html

[8]   Si vedano i commenti sul rientro in Italia di Silvia Romano https://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2020/05/13/silvia-romano-sequestro-liberazione

[9]   Per un primo approccio alle identità non binarie si veda https://www.apadivisions.org/division-44/resources/advocacy/non-binary-facts.pdf

[10]  Perché in Italia è così difficile accedere alla contraccezione, di Jennifer Guerra https://thevision.com/attualita/italia-contraccezione/

[11]  Dagli Usa all'Europa il diritto all'aborto è sotto attacco, di Claudia Torrisi https://www.valigiablu.it/usa-europa-diritto-aborto/

[12]  https://femministerie.wordpress.com/2016/09/11/ancora-su-fertilita-e-orologio-biologico/

[13]  C. Alvaro, Saggi di vita contemporanea, Milano 1960, pp. 183-190

[14]  Marina d'Amelia, La mamma, Il Mulino 2005, Bologna.

[15]  Un possibile riferimento bibliografico è il lavoro di Luciana Capretti, La jihad delle donne, Salerno Editrice 2017. Si veda anche il sito islamandfeminism.org/

[16]  Si veda l’articolo https://www.bossy.it/perche-abbiamo-bisogno-di-un-femminismo-nero.html

[17]  Laura Corradi, Femminismo delle zingare, Mimesis edizioni, 2018

[18]  Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser,Femminismo al 99%. Un manifesto, Laterza, 2019; Catherine Rottemberg, L'ascesa del femminismo neoliberista, Ombre Corte, 2020

[19]  Si vedano le esperienze di Maschile Plurale (maschileplurale.it) e del filosofo femminista Lorenzo Gasparrini (questuomono.tumblr.com)

[20]  Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, Minimux Fax, 2020

 

VERONICA PACINI

Sono nata nel 1987, nelle Marche. Sono laureata in Antropologia - Scienze delle religioni presso l'università di Bologna e in Ethnologie et anthropologie sociale presso l'EHESS di Parigi. Mi interesso di letteratura, antropologia, femminismo e infanzia.