L’APPARTAMENTO DI CORNELIA COSTANZA

A cura di Maria Anna Chiatti

Introduzione

Dopo aver delineato la storia della fabbrica di palazzo Barberini e descritto le meravigliose scale e i grandi soffitti affrescati nel pieno periodo del Barocco Romano, si procederà in questo articolo a raccontare le bellezze dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini (1716 - 1797), decorato in stile rococò, al secondo piano. L’aggiornamento del programma decorativo di questi spazi avvenne per suo volere quando, ultima erede diretta della casa, fu concessa in sposa a Giulio Cesare Colonna di Sciarra (1702 - 1787) all'età di dodici anni nel 1728 (fig. 1).

Fig. 1 - Prospero Ballerini ? (attivo alla fine del XVIII sec.), Ritratto di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna, 1770, olio su tela. Credits: https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it.

L'appartamento di Cornelia Costanza Barberini e Giulio Cesare Colonna di Sciarra

Il volto settecentesco di Palazzo Barberini è senza dubbio meno noto di quello barocco, pur tuttavia non meno interessante. Questo aspetto è infatti molto suggestivo per almeno due ragioni: la prima è che mette in evidenza una storia complessa (e a volte non del tutto coerente) del gusto dei committenti, e la seconda è che concede all’osservatore il privilegio di intuire i piani su cui si muove la sensibilità estetica nel XVIII secolo[1]. Tale sensibilità ha guidato le propensioni di gusto della principessa Cornelia Costanza e di suo marito nell’attività di ridecorazione dei loro appartamenti privati nell’ala sud del secondo piano del palazzo; il riallestimento, avvenuto tra il 1760 e il 1770, ha dato luogo al bijou che si può ammirare ancora oggi, dopo la campagna di restauro conclusa qualche anno fa (fig. 2).

Fig. 2 - Pianta dell’appartamento settecentesco. Credits: https://www.academia.edu.

In effetti queste sale arredate in stile tardo-rococò (a ben guardare con qualche anticipazione neoclassica[2]), all’epoca della loro realizzazione, dovevano rappresentare l’ostentazione di una modernità di pensiero e di posizione in fatto di soluzioni artistiche, in netta contrapposizione con il dichiarato stile barocco del piano inferiore. Questa impronta così marcata è probabilmente da ricondurre al fatto insolito che Cornelia Costanza poteva disporre del patrimonio di famiglia in prima persona, ed è possibile che desiderasse lasciare un segno della propria gestione; a questo aspetto va aggiunto anche che la situazione finanziaria della famiglia Barberini non era certamente quella del secolo precedente, e con un intervento così radicale la principessa e il suo consorte Colonna veicolarono sicuramente un nuovo messaggio di benessere e potere.

La decorazione dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini

Esattamente come al piano nobile, gli spazi dell’appartamento di Cornelia Costanza Barberini sono divisi secondo un criterio funzionale: le sale di rappresentanza (di cui ancora oggi possiamo ammirare le sfolgoranti decorazioni e gli arredi), e le stanze riservate ad una frequentazione privata, dal tono più sobrio.

L’accesso all’appartamento avviene dalla scala ovale; dopo aver attraversato alcuni ambienti (non particolarmente significativi in termini di decorazione) si raggiunge il salottino piranesiano: una piccola stanza con le pareti decorate in stile neoclassico, in cui sono inseriti numerosi ritratti di membri della famiglia Barberini su tela riportata, accompagnati da mobili d’epoca. Proprio qui si trovano anche i ritratti di cui a fig. 1, e l’assetto della sala è databile alla seconda metà del ‘700.

Ritornando verso il piccolo atrio d’ingresso e proseguendo in direzione opposta, si attraversa un ampio corridoio; sulla destra si trova una cappellina composta da due locali separati da un arco ribassato. Sulla parete di fondo sta il piccolo altare settecentesco (fig. 3).

Fig. 3 - Altare settecentesco.

Lo stesso corridoio porta alla sala più rappresentativa dell’appartamento, dove l’immagine dei committenti viene intenzionalmente celebrata. Si tratta del cosiddetto Salone delle Battaglie, o, meglio, dei Fasti Colonna, che risponde alla stessa funzione svolta dal Salone di Pietro da Cortona al piano nobile (fig. 4).

L’ambiente è ampio e luminoso, coperto con volta a specchio ribassata, su cui è dipinta ad affresco una figura femminile, forse allegoria dell’Aria. In ciascuna lunetta sopra ogni parete sono rappresentate altre quattro figure allegoriche: Africa, Asia, America, e Europa. Decora le pareti una serie di tredici tele riportate (databili al secondo Settecento) con episodi rilevanti della storia della famiglia Colonna. Le tele, in vario formato, celebrano idealmente l’unione delle famiglie Colonna e Barberini, ma sul piano figurativo e tematico spiccano di gran lunga le gesta dei primi.

Sulla parete d’ingresso è raffigurata la beata Margherita Colonna con la città di Palestrina sullo sfondo, eseguito dal pittore viterbese Domenico Corvi (1721 - 1803) alla metà del ‘700; seguono da destra: il cardinal Pietro Colonna che fonda l’ospedale e la chiesa di S. Giacomo in Augusta; i Colonnesi che riprendono il ponte Molle agli Orsini. Nella strombatura della finestra è una veduta di una strada di città (forse Via del Corso) e fra le due finestre si vedono la Vergine appare al cardinal Pietro Colonna durante un naufragio e resa di una città ad un comandante di casa Colonna. Nello spazio a sinistra della finestra sta la tela con Giulio Cesare Colonna a cavallo e sulla parete sinistra quella con Pio V che nomina Giulio Cesare Colonna principe di Palestrina, opera quest’ultima di Niccolò Ricciolini (1687 - 1772). Sulla stessa parete seguono Clemente VII si rifugia in Castel S. Angelo, difeso da Stefano Colonna; il cardinal Giuseppe Colonna è fatto prigioniero dai Turchi, di Niccolò Ricciolini, siglato N.R. e datato in basso, al centro, 1764. Infine, nuovamente sulla parete d’ingresso Santa Margherita Colonna scaccia i demoni; benedizione delle regole e costituzioni francescane; Urbano VIII nomina Francesco Colonna principe di Carbognano, tutti di Domenico Corvi, eseguiti nel 1764. In questa sala la decorazione si estende anche alle piattabande e alle strombature delle finestre, dove stanno dei tondi incorniciati da volute, con al centro figure allegoriche.

Le porte hanno specchiature mistilinee decorate con paesaggi e sono coronate da sovraporte con scene di mare, tutte databili, come l’intera decorazione di questa stanza, al sec. XVIII.

Fig. 4 - Salone dei Fasti Colonna.

Da qui si accede ad una stanza completamente decorata nei toni dell’azzurro. Al centro del soffitto campeggia un medaglione con un putto e un leone. La parete di fondo è rivestita di legno, con preziose specchiature e cornici rococò. Al centro, racchiuso in quello che sembra un armadio a due battenti, si cela un piccolo altare ceruleo, come una perla nell’ostrica, fiancheggiato da due porte (fig. 5).

Fig. 5

Questa stanza conduce ad un ambiente di analoga intenzione, decorato in prevalenza nella tonalità del verde: la volta è ornata di nuovo da un medaglione con puttino.

A seguire è la stanza dell’alcova (figg. 6-7), così detta per il grande baldacchino impostato sulla parete di fondo, sorretto da due colonne in marmo grigio, che crea un ambiente molto intimo e raccolto. La zona è finemente decorata con lesene a stucco e specchio dipinto a olio. Come pure ornate sono le porte che conducono ai vani laterali: si può riconoscere una Natività sul battente di destra (che immette su una scala da cui si può accedere ai locali della biblioteca) e un’Adorazione dei Magi su quello di sinistra (che conduce ad un inginocchiatoio, o “pregadio”, un piccolo ambiente affrescato probabilmente da Felice Balboni[3]), mentre le paraste ospitano le personificazioni di sei virtù.

 

La sala che segue rappresenta un unicum nella Roma di metà ‘700. Si tratta infatti di una saletta dalla funzione ancora sconosciuta (gabinetto della curiosità, stanza per la musica, boudoir?) tappezzata da quindici pannelli di seta dipinta, da cui il nome Salotto delle sete dipinte (figg. 8, 9, 10). Il soggetto riprodotto sulle sete desta particolare meraviglia: sono raffigurati episodi di vita quotidiana dei nativi americani, con fiori e uccelli variopinti. Probabilmente l’anonimo esecutore del ciclo decorativo prese spunto da qualche cronaca di viaggio nel Nuovo Mondo, di cui alcuni esemplari corredati da illustrazioni ad acquerello erano conservati nella biblioteca del Cardinal Francesco Barberini. Come che sia, il risultato è davvero straordinario perché molto precoce e per la visione del tutto positiva di popolazioni sconosciute. Durante il XVIII secolo infatti era nato il “mito del buon selvaggio”, che è stato all’origine di numerosi capolavori di letteratura (Robinson Crusoe di Dafoe e Émile di Rousseau per fare due esempi), e verosimilmente anche della decorazione di questa sala. Una ulteriore curiosità è poi rappresentata dalla presenza di specie animali non originarie del Nuovo Mondo, come le paradisee, uccelli della Nuova Zelanda.

 

Il salotto immette in una piccola galleria, un ambiente estremamente luminoso, soprattutto quando colpito dalla luce diretta del sole (figg. 11-12): la stanza sembra illuminata d’oro, grazie al riverbero di tutto l’apparato ornamentale. Le cornici di porte e finestre sono dorate, animate da motivi fitomorfi, come pure la decorazione dell’arco ribassato, mentre le specchiere riflettono tutti i giochi di luce rendendo la galleria splendente. Le pareti sono affrescate con elementi vegetali che continuano idealmente lo spazio naturale del giardino su cui affacciano le finestre della stanza.

Scendendo alcuni gradini si accede alla Sala delle marine (fig. 13), chiamata così per via delle scene di genere di ambientazione marina raffigurate sulle pareti, di autore sconosciuto. Queste pitture ad olio risalgono al XIX secolo, mentre gli affreschi con motivi floreali della volta sono settecenteschi. Una curiosità riguardo questo spazio è che era un fumoir, ossia il salotto dove i gentiluomini si ritiravano per fumare dopo i pasti così da non disturbare (o essere disturbati) dalle signore. A causa della funzione a cui era adibita la sala, le pitture erano completamente annerite, tanto che si procedette al loro restauro a partire dal 1964.

La stanza adiacente, non a caso, è la Sala da pranzo (figg. 14-15). Le pareti sono affrescate con specchiature mistilinee che imitano la decorazione a stucco, con tralci di edera che vi si sovrappongono; opere, queste, attribuite a Felice Balboni. Le angoliere che sono ben visibili nella fig. 15 fanno parte del corredo originale della stanza e sono in realtà delle coperture per i passaggi della servitù.

 

Questi appartamenti sono stati la vera casa della famiglia dalla metà del ‘700 fino al 1955, quindi anche in seguito alla vendita del palazzo allo Stato, avvenuta nel 1949. Più raccolte e meno dispersive degli spazi al piano nobile, queste stanze sono un raffinatissimo esempio di decorazione in stile rococò, e si possono ammirare oggi grazie alle visite guidate offerte dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

 

Si ringrazia l’Archivio Fotografico delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica per l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini.

 

Note

[1] Cfr M. Di Monte, Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015, p. 1.

[2] Ivi, p. 2.

[3] Pittore di fiducia della principessa Cornelia Costanza, attivo tra il 1763 e il 1778.

 

Bibliografia

Circolo Ufficiali delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini, Palombi Editori, Roma 2001

Di Monte, Settecento elegante, illuminismo selvaggio. La decorazione degli appartamenti della principessa Cornelia Costanza a Palazzo Barberini, intervento al convegno internazionale "Imatges del poder a la Barcelona del Set-cents. Relacions i influències en el context mediterrani", Palau Moja, Barcellona, 28-29/04/2015

Mochi Onori L., Vodret R., Capolavori della Galleria Nazionale D’Arte Antica. Palazzo Barberini, Gebart, Roma 1998

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/10/20)


IL MUSEO DELLA CERAMICA TAFURI DI SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

Introduzione e storia della nascita del Museo Tafuri

“Abbiamo ultimamente visto nascere dai meandri di un sottosuolo misterioso una singolarissima versione di museo. Il fondatore, grande esperto di ceramiche, porcellane e archeologia salernitana, Alfonso Tafuri, ha scelto una complessa rete di terranei di sua proprietà per le sue estrosissime collezioni di oggetti artigianali: oggetti della specie più varia che rappresentano una testimonianza tra le più vivide della ceramica meridionale… È stata scelta una graziosa piazzetta, la Cassavecchia, che rappresenta un ingresso aperto e luogo di incontro per questo singolarissimo Museo…”. Così scriveva Elena Croce, in occasione dell’apertura del Museo della Ceramica “Alfonso Tafuri”, avvenuta il 26 settembre 1987.

Il Museo in questione ha sede in un antico palazzo del Settecento nel centro storico di Salerno, palazzo Mancuso, presso Largo Cassavecchia, poco distante dal Duomo, e si deve all'appassionato lavoro di Alfonso Tafuri, appassionato cultore della storia salernitana, che ha dedicato parte della sua vita, dal 1970 al 1980, al recupero del centro storico di Salerno attraverso il restauro di molti locali terranei, in cui sono stati scoperti spazi ed architetture fino ad allora ignorati e che hanno restituito una varietà di arredi e di oggetti ceramici.

Il Museo “Tafuri” è un luogo espositivo piuttosto originale, in quanto costituito da pezzi disomogenei ritrovati a più riprese nel pieno centro storico, in un’area nella quale non erano e, ormai, non sono più possibili scavi sistematici. Infatti i pezzi esposti provengono dai lavori di scavo eseguiti per il restauro o la risistemazione di edifici pubblici e privati, dai lavori stradali, dalle donazioni di alcune famiglie salernitane e, perfino, dai rifiuti o dal materiale di risulta dei cantieri edili.

Questi ultimi sono stati raccolti dallo stesso Alfonso Tafuri, che si aggirava per le strade e per i vicoli della Salerno vecchia alla loro ricerca, dalle prime luci dell’alba alla sera, e che definiva sé stesso, ironicamente, uno “spazzino” o un “rigattiere”, che rubava il mestiere agli altri.

Si tratta, perciò, di una collezione popolare, semplice, più vicina ai gusti e alle abitudini delle persone della strada, dei vicoli, delle case che a quelle di una società idealizzata, dipinta, teorizzata.

Simona Tafuri, nipote di don Alfonso, ne prosegue oggi il lavoro, custodendo questo piccolo scrigno d’arte che apre solitamente su richiesta o in occasione di eventi, in cui le spiegazioni tecniche si fondono ad aneddoti, ai ricordi, alla storia che ogni pezzo, ogni crepa racconta.

Scendendo gli scalini, si accede poi alla parte più intima e segreta del museo, dove ancora sono presenti lo studiolo di Don Alfonso, la sua cantina, i suoi vini.

Il Museo Tafuri. Le tre sezioni della collezione

Il percorso museale si fonda su una classificazione tipologica e cronologica delle ceramiche.

Una prima ampia sezione riguarda gli oggetti d’uso quotidiano (piatti, boccali, giare, zuppiere, lucerne ad olio, orinali), prevalentemente in maiolica bianca o in stile compendiarlo. I pezzi più antichi, risalenti anche al XVI e al XVII sec., sono materiali di scavo ritrovati nel centro storico di Salerno (Via Cassavecchia, Via Procida, Via Duomo, Largo Montone, Rione Fornelle), a cui si affiancano esemplari di vasellame vietrese del XIX sec. provenienti, in gran parte, da famiglie che annoverano antenati ceramisti o commercianti. Essi permettono di integrare e approfondire l’analisi e lo studio dei caratteri formali e decorativi della ceramica vietrese, cercando di fornirne un quadro il più possibile completo e dettagliato.

Il punto di forza della collezione del Museo Tafuri è la seconda sezione, dedicata alle “riggiole” smaltate, importante sia per la quantità che per la varietà dei pezzi esposti. Risalenti al Settecento napoletano e all’Ottocento vietrese, giungono in gran parte da pavimenti e rivestimenti di chiese, conventi e case del centro storico salernitano, di estrema importanza per la conoscenza delle mattonelle da rivestimento prodotte e vendute per uso civile oltre che religioso. Nel corso del XIX sec. la riggiola vietrese ha una diffusione tale da giungere ad una condizione di specializzazione settoriale molto vicina a quella della Napoli settecentesca, diventando sempre più competitiva nei confronti di quest’ultima e coprendo la quasi totalità della committenza salernitana. Le stesse fabbriche vietresi arrivano ad occupare una posizione di primo piano, fino a sostituire quelle napoletane. Vi sono due tipologie di riggiole, ossia le mattonelle di uso corrente, definite comunemente da cucina, e le mattonelle di pregio per abitazioni ed edifici civili e religiosi.

Le riggiole da cucina, generalmente, non recano impresso alcun marchio, poiché la fabbrica produttrice non riteneva necessario qualificarsi in questi lavori di relativo impegno, con i quali non era offerta alcuna possibilità di evidenziare dati artistici originali. La decorazione, geometrica, astratta o floreale, è estremamente semplice e schematica dato il suo carattere di prodotto di massa, mentre i colori comunemente adoperati sono il verde ed il blu.

Le riggiole pregiate invece sono così definite sia per la decorazione complessa e varia, sia per l’impressione del marchio di proprietà. I nomi che compaiono ripetutamente sono G. Tajani, A. Tajani, Ant. Punzi e Luigi Sperandeo, per la seconda metà dell’Ottocento; V. Pinto, C. Cioffi, L. Amabile, per gli inizi del XX sec. I soggetti ornamentali adottati sono quattro: geometrico, naturalistico, misto (ossia geometrico e naturalistico insieme) e astratto.

“Riggiole” (XIX sec.).

La terza sezione è costituita da targhe votive e piastrelle devozionali, per lo più in ceramica vietrese, databili tra il XIX e il XX sec., raffiguranti Santi il cui culto è profondamente radicato in ambito popolare, come Sant’Antonio Abate, San Francesco da Paola, San Vincenzo Ferreri, San Michele Arcangelo e, naturalmente, la Vergine Maria. Esse consentono ai fedeli di stabilire con i Santi un rapporto esclusivo, trasformandoli da soggetti di venerazione collettiva a soggetti di culto privato.

Nel Museo Tafuri è presente anche una sezione riservata al “Periodo Tedesco”, alle opere (mattonelle, pannelli murali, piatti decorativi, vasellame) di artisti come Richard Dölker ed Irene Kowaliska, e di ceramisti locali, quali Guido Gambone e Giovannino Carrano, in cui sono affrontati spesso temi tratti dalla tradizione classica (mitologia e favole di Esopo), e a cui è riconosciuto non solo un valore artistico, ma soprattutto un valore storico - sociale, perché rivelano la loro fruizione anche presso le famiglie meno abbienti, piccolo borghesi, da cui provengono in gran parte. Cade, così, il pregiudizio secondo cui la produzione degli artisti stranieri sarebbe un fenomeno colto, mal recepito localmente, per questo tenuto a distanza dalla ceramica tradizionale vietrese.

Il reperto più antico della collezione è un frammento di ciotola di ceramica “spiral ware”, esposto in una vetrina del piano inferiore. La produzione di questa tipologia di ceramica comincia intorno alla metà del XII sec., per poi affermarsi pienamente nel XIII sec., e si diffonde lungo il litorale tirrenico dell’Italia meridionale (Lazio, Campania, Sicilia), ma anche a Cartagine, nell’isola di Malta e in Israele.

A questa categoria appartengono coppe e bacini, probabili forniture militari e navali, essendo state ritrovate in notevoli quantità in Sicilia, nell’antico arsenale della Kalsa, quartiere storico di Palermo. Tale ipotesi è avvalorata anche dalla semplicità del motivo decorativo, che può essere eseguito velocemente. La decorazione della ceramica “spiral ware” consiste, solitamente, in quattro spirali, esclusivamente in verde ramina e bruno manganese, che si incontrano al centro delle coppe secondo numerose varianti: uno dei motivi ricorrenti è costituito da due coppie di spirali che si incrociano su tutta la superficie della coppa, disponendosi secondo uno schema radiale.

Un altro piccolo gruppo di spiral ware, 98 reperti, tutti frammentari riconducibili soltanto a forme aperte, proviene dal Castello Arechi di Salerno. Stando ai risultati delle analisi chimiche ed allo studio dei minerali effettuato su alcuni campioni, le ceramiche decorate a spirale del Castello sono state prodotte a Salerno o nell’area salernitana.

Largo “Cassavecchia”.
Vasellame vietrese (XIX sec.).

 

Bibliografia

Capriglione J., I musei della provincia di Salerno, Plectica Editrice s.a.s, Cava dei Tirreni 2002.

Iannelli M. T., La produzione ceramica vietrese nella seconda metà dell'800, Edizione Alfonso Tafuri, Salerno 1987.

Pasca M., Collezione di Ceramiche "Alfonso Tafuri", in Maria Pasca (a cura di), Il centro storico di Salerno. Chiese, Conventi, Palazzi, Musei e Fontane pubbliche, Betagamma editrice, Viterbo 2000.

Pastore I., Ceramica Spiral Ware, in Ada De Crescenzo, Irma Pastore, Diletta Romei (a cura di), Ceramiche invetriate e smaltate del Castello di Salerno dal XII al XIV sec., Electa Napoli, 1992.

Pellecchia C., Quel signore di Largo Cassavecchia, in Mensile del Centro Storico “Largo Campo”, anno 2˚, n. 2, febbraio 1996, Arti Grafiche Sud, Salerno.

 

Sitografia

www.cronachesalerno.it

Amoruso M., Un tesoro quasi segreto di Salerno: il Museo della Ceramica di Alfonso Tafuri


L'ANFITEATRO IN PIEMONTE: IVREA E VERCELLI

A cura di Marco Roversi

Introduzione: storia e sviluppo dell'anfiteatro

"Ave, Caesar, morituri te salutant!" “Ave, Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano!”. È questa forse una delle espressioni latine ancora oggi più conosciute, e fa la sua prima comparsa nel De Vita Caesarum di Svetonio (al secolo Gaio Svetonio Tranquillo, vissuto tra il 69 e il 122 d.C.). Nella parte dell’opera dedicata alla vita di Claudio, Svetonio riporta tale locuzione ricordando anche che tale espressione venne coniata poco prima di una naumachia (battaglia navale). All’inizio della disputa i combattenti si sarebbero rivolti all'imperatore proprio con queste parole, che alimentano ancora oggi il mito dei gladiatori. Su queste figure, ormai divenute leggendarie, sono stati scritti fiumi di inchiostro da parte di una folla ben nutrita di studiosi e storici; tra prigionieri di guerra, schiavi, condannati a morte, ma anche uomini liberi, oberati di debiti o affamati di denaro e gloria, molti di questi lottatori, che devono il loro nome al gladius (una piccola spada a lama corta) hanno combattuto, trovato gloria e morte in un edificio divenuto simbolo indiscusso del più crudo intrattenimento romano: l’anfiteatro.

Dal greco amphithèatron (amphi – “intorno a” e thèatron – “teatro), l’anfiteatro è un edificio di spettacolo ideato ed impiegato solo ed esclusivamente nell’ambito della cultura romana. Il più delle volte architettonicamente grandioso, maestoso e soprattutto costoso sia in fase di costruzione che di mantenimento, ospitava nella sua arena, dalla caratteristica forma ellittica, spettacoli perlopiù cruenti ma molto amati dai romani, che andavano dai più classici combattimenti fra gladiatori alla caccia di animali feroci ed esotici, passando per battaglie navali e, in alcune occasioni, esecuzioni sommarie e condanne capitali. L’anfiteatro per eccellenza è il Colosseo, noto in origine come Anfiteatro Flavio, voluto dall’imperatore Vespasiano tra il 71 e il 72 d.C., mentre il più antico anfiteatro stabile in assoluto è quello di Pompei, datato al 70 a.C. Con l’avvento dell’Impero, e, conseguentemente, con la progressiva estensione territoriale, politica e militare dello stesso, la cultura dell’anfiteatro arrivò in tutto il bacino del Mediterraneo, ad eccezione di alcune province che non apprezzarono mai appieno il divertimento e i giochi ad esso legati. Nei domini orientali, in particolar modo nei territori di Grecia, Egitto e Turchia, gli spettacoli gladiatori e le cacce alle fiere non erano particolarmente amati. Diversa, invece, la questione nelle province occidentali dell’impero, dove i ludi gladiatores e venationes incontrarono un maggior seguito tra le popolazioni locali, specialmente in area gallica ed iberica. Un esempio di diffusione di anfiteatro in area gallica è l'anfiteatro in Piemonte, dove incontrò notevole successo.

L'anfiteatro in Piemonte: i casi di Ivrea e Vercelli

Limitatamente all’area territoriale del Piemonte (in epoca romana annesso alla provincia della Gallia Cisalpina) molti furono gli anfiteatri eretti nelle principali città della regione. Tra i meglio conservati ai giorni nostri spicca certamente quello di Ivrea, l’antico insediamento di Eporedia: ultima delle coloniae civium Romanorum (città con diritto romano) e dedotta (fondata) intorno all'anno 100 a.C., la città di Ivrea mostra oggi poche tracce del suo passato; tra queste, un ruolo rilevante è occupato proprio dalle vestigia dell’antico spazio ludico cittadino.

Fig. 1 - Veduta aerea dell’area occupata dai resti dell’Anfiteatro di Ivrea. Photo credit: Paolo Spagnoli .

Come esempio di anfiteatro in Piemonte ben conservato spicca quello di Ivrea: venne edificato in piena Età Imperiale, tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., periodo al quale si ascrive anche l’erezione del teatro. Costruito lungo l’antica via che da Eporedia conduceva a Vercellae, odierna Vercelli, si pensa che in origine questo anfiteatro in Piemonte potesse ospitare più di 10.000 spettatori. Si trattava di un edificio imponente per una città di provincia, e la sua modalità di erezione dimostra anche l’impiego ben programmato di un ingente quantitativo di risorse. L’edificio, infatti, venne interamente realizzato su di un enorme terrapieno, con l’asse maggiore di 65 m di lunghezza, addossato sul versante meridionale ad un possente muraglione di contenimento, atto a sostenere al meglio il terreno. Internamente fu rinforzato con un podio, mentre, lungo il perimetro esterno, da una muratura anulare, rinforzata a sua volta da una serie di concamerazioni semicircolari (in parte ancora visibili in situ) con funzione di contrafforte per bilanciare la spinta del terreno.

Fig. 2 - Particolare della muratura anulare esterna e delle concamerazioni semicircolari di rinforzo.

Alle estremità dell’asse centrale si aprivano poi due ingressi monumentali, mentre in corrispondenza delle terminazioni dell’asse minore si affacciavano sull’arena due tribune, oggi quasi del tutto scomparse, in corrispondenza delle quali sono state rinvenute tracce di alcune ricche spalliere bronzee che un tempo rivestivano sedili, verosimilmente riservati ai personaggi più influenti e più agiati della città. Al centro dell’arena, inoltre, è ancora visibile un vano sotterraneo dalla forma rettangolare che si collegava, tramite un lungo e stretto corridoio, agli ambienti di servizio collocati al di sotto delle gradinate della cavea. Un ambiente, questo, piuttosto angusto per dimensioni e profondità, ma certamente impiegato, con l’ausilio di macchinari e montacarichi, per consentire l’accesso all’arena di gladiatori e animali, ma anche di attrezzi e strumenti di scena per gli spettacoli. Un ulteriore passaggio coperto, voltato a botte e pavimentato in laterizi, si snodava invece al di sotto del podio lungo tutto il perimetro della struttura. Aveva la funzione di collegare gli uni agli altri i vari ambienti di servizio celati alla vista degli spettatori, disposti in fila lungo l’asse maggiore dell’arena. Ben visibili risultavano al contrario le terminazioni del podio stesso, il quale culminava in una lunga e possente transenna ornata da pesanti lastre di bronzo decorate con grosse borchie a rilievo. Non è infine cosa irrilevante menzionare come l’anfiteatro di Eporedia sorgesse in parte su di un luogo occupato da una preesistente villa suburbana di Età Repubblicana. Al momento dell’avvio del progetto parte di tale villa, risalente nel suo nucleo originario al I a.C., venne così destituita per lasciar spazio al grande cantiere dell’anfiteatro. Ciò non ha tuttavia impedito la sopravvivenza di poche, ma importanti tracce di quella ricca e lussuosa dimora signorile. Più volte restaurata e decorata nel corso della tarda Età Repubblicana, al suo interno dovevano trovare spazio elegantissime stanze decorate da decorazioni parietali a fresco, le più recenti delle quali si datano tra il 50 e il 70 d.C.

Fig. 3 - Particolare delle fondazioni di una delle tribune che si affacciavano sull’arena. Sono inoltre visibili i parapetti lignei moderni che delimitano l’area occupata dal corridoio e dalla cavità rettangolare al centro dell’arena che un tempo permettevano l’accesso di gladiatori e fiere all’area dello scontro.

L'anfiteatro in Piemonte: Vercelli

Altro centro ricco e florido del Piemonte romano fu Vercellae, odierna Vercelli. La sua innegabile importanza come municipium è testimoniata dalla presenza di quelle che erano le infrastrutture tipiche dell’urbanistica romana, tra cui il teatro e, ovviamente, l’anfiteatro. Quinto per dimensioni (secondo i dati raccolti durante le ricerche dallo studioso e architetto francese Jean-Claude Golvin), tra quelli eretti in tutta la Gallia Transpadana e risalente al I o II secolo d.C, anch’esso si organizzava attorno ad un’arena ellittica la cui lunghezza viene stimata tra i 25 e i 30 m; dimensione sufficiente, questa, per renderla impiegabile anche come teatro di battaglie navali. Di questa grande struttura rimangono visibili, tuttora, solo alcune porzioni riferibili alle fondamenta di uno spicchio dell’ellisse della cavea, mentre le restanti fondamenta sono state inglobate e ricoperte da edifici moderni che impediscono un’indagine sistematica dell’intera area. Tuttavia, al momento dei primi scavi (1560) che portarono in luce buona parte di questo anfiteatro, emersero dal terreno due splendide statue, forse un tempo collocate al centro dell’arena, una maschile e l’altra femminile. Una di esse, consacrata ad Apollo, fu poi spostata, a soli cinque anni dalla scoperta, da Vercelli a Torino per volere del duca Emanuele Filiberto di Savoia.

Sitografia

www.vercelli.italiani.it

www.archeovercelli.it

www.serramorena.it

www.anfiteatromorenicoivrea.it

www.museionline.info


QUEI NERI COSÌ NERI. VELAZQUEZ E MANET

A cura di Gianmarco Gronchi

Éduard Manet su Diego Velázquez

«Il più spettacolare brano di pittura di tutti i tempi. Lo sfondo scompare e è solo l’aria che circonda quest’uomo tutto vestito di nero e che sembra vivo»

Queste poche parole estrapolate da una lettera del 1866 indirizzata all’amico Baudelaire, ben descrivono il ritratto del Buffone Pablo de Valladolid, conservato al Museo del Prado. L’opera, compiuta all’incirca nel 1633, appartiene a quello che lo stesso autore della missiva, in un’altra occasione, definisce «peintre des peintres», il pittore dei pittori. Quel visitatore che più di un secolo e mezzo fa rimase così estasiato di fronte al quadro del Prado è Éduard Manet. Il pittore a cui si riferisce, invece, è Diego Velázquez.

 

Perché Manet guardasse a questo quadro con ammirazione è di facile intuizione. Un ritratto strepitoso, dove la realtà viene costretta nella bidimensione della tela. Nessuna definizione spaziale, con quell’ombra che si perde fuori dal quadro, ma solo un uomo, la cui posa teatrale rimanda alla sua professione, quella di buffone. E quello sguardo, così vivo, così vero, da avere qualcosa di urtante. Senza contare i neri acuti, tanto cari a Manet, sul quale, a ragion del vero, influirà anche una certa moda japoniste. È con questo incontro che si inaugura un dialogo tra il più grande pittore del Siglo de Oro – e probabilmente di tutto il Seicento europeo – e Manet, e quindi con l’arte moderna tutta.

Non è certo un caso, quindi, che due capolavori manetiani come Il pifferaio e L’attore tragico risalgano proprio al 1866. In queste opere, la riflessione di Manet sui modi velazqueñi risulta fin troppo chiara. La lezione dello spagnolo torna a vivere, ben due secoli dopo, per mano del francese. La modernità di queste tele, tutte aria, tutte approssimazione spaziale a vantaggio della forma del protagonista, corporea, viva, sta proprio nella comprensione delle intuizioni di Velázquez. Il fondale c’è, sembriamo intuirlo, ma pure Manet non ci offre appigli spaziali, ma anzi, alcuni dettagli acuiscono il nostro spaesamento, come la spada, che marca un impalpabile spazio perdendosi nella vacuità dei bruni. E ancora i neri, così puri e così marcatamente manetiani, soprattutto nel giovane pifferaio, ma pure ugualmente prossimi a quelli del Pedro di Valladolid.

Vale bene, forse, spendere due parole anche su un altro capolavoro, come La Venere allo specchio, tela velazqueña ricondotta all’incirca agli anni 1650-1651. Questa datazione si basa, in mancanza di fonti precise dirette, su una serie di testimonianze di altri pittori, che si lamentano perché nella Spagna controriformata di Filippo IV è impossibile avere una modella nuda in carne e ossa. Per questo motivo, si pensa che La Venere sia stata dipinta durante il secondo soggiorno romano di Diego. Effettivamente, tanto sensuale è questa Venere – e qui gioca sicuramente l’influenza dell’Ermafrodito di età classica conservato, al tempo, nella villa di Scipione Borghese – che è impossibile pensarla dipinta alla corte spagnola del Seicento.

 

Per un nudo così spregiudicato nella pittura iberica bisognerà pazientare infatti fino a Goya e alla sua Maja desnuda. Quel che ci interessa però è che la posizione tergale scelta da Velázquez non solo fa salire la temperatura erotica, ma implica che la visione del volto della giovane modella avvenga solo di riflesso. Ed ella, si osservi, non si sta specchiando, ma ci sta guardando. Noi siamo lì, stiamo entrando dentro la stanza e lei volge lo sguardo, proiettandoci in quella teatralità pienamente barocca che trova riscontro, per esempio, nell’Olympia di Manet. Anche questo nudo, scandaloso quanto e forse più della Colazione sull’erba esposta due anni prima, ci osserva. Nella figura distesa è stata subito riconosciuta la figura di una meretrice, che si copre le pudenda non per pudicizia ma perché quelle sono l’oggetto mercificato, sebbene l’ispirazione giunga direttamente a Manet dai modelli antichi, Tiziano su tutti. Lo spettatore si ritrova così nello scomodo ruolo di frequentatore delle case chiuse e questa percezione è innegabile, certa, dal momento che anche il gatto sulla destra inarca la schiena e sbarra gli occhi, guardando fisso verso l’intruso. Va detto che questo quadro fu realizzato nel 1863  e esposto nel 1865, quindi qualche anno prima della folgorazione di Manet   nelle   sale   del   Prado,   ma sembrava doveroso tracciare un parallelo per suggerire come spesso alcuni espedienti innovativi trovino vie autonome per giungere nelle teste e nelle tele di taluni autori di sicura grandezza.

 

D’altra parte, il tema dello specchio in Velázquez non trova esaurimento con la Venere della National Gallery, basti pensare a quel massimo della pittura occidentale che è Las Meninas, datato 1656. Questo capo d’opera di Velázquez sembra ancora lungi da sciogliere tutti i suoi misteri, nonostante la grande quantità di studi dedicategli e le molte letture proposte, tra cui anche quella di Michel Foucault. Recenti misurazioni prospettiche hanno stabilito che quello che vediamo allo specchio è esattamente il soggetto della tela su cui Velázquez sta lavorando. Viene allora da chiedersi quale sia il soggetto reale di Las Meninas. È sicuramente un autoritratto molto complesso, ma anche un ritratto della famiglia reale, con la principessa infanta   Margherita   e  la coppia reale implicata ingegnosamente nella composizione grazie allo specchio. Ma qui Velázquez è come se allagasse la focale dell’obbiettivo e includesse anche la servitù, le damigelle, i nani, finanche il cane. La corte tutta è inclusa nel dipinto di Velázquez. È lo studio del pittore, con Diego che si sporge all’indietro per visionare i suoi soggetti prima degli ultimi colpi di pennello e le dame di corte che intrattengono l’infanta Margherita. Tra poco, i sovrani fuori campo romperanno la posa, tant’è che il nano sulla destra sveglia il cane con il piede e sullo sfondo un ciambellano apre la porta per riaccompagnare la regina ai suoi appartamenti. Quest’opera strepitosa, in bilico tra ritratto e scena di genere, tutta giocata sul mostrare ciò che nella ritrattistica solitamente è assente e sul nascondere ciò che invece dovrebbe esserci, ci proietta di nuovo al XIX secolo, varcando a grandi passi l’entrata delle Folies-Bergère. Qui il dialogo tra Velázquez e Manet torna a farsi più stringente. Nonostante Suzon, la giovane che si appoggia al balcone, sia protagonista centrale dell’opera, l’invenzione dello specchio desunta da Las Meninas ci apre gli occhi sull’interno spumeggiante del bar. La tela, eseguita nel 1882, prima della morte di Manet, rappresenta, tra le altre cose, l’ultima meditazione sul magistero velazqueño. Lo specchio ci restituisce il brio delle Folies-Bergère, con le luci, i rumori e addirittura un trapezista. Ciò che illusionisticamente avremmo dovuto avere alle spalle, si riversa davanti a noi. Sembra quasi poter sentire il vociare, l’accavallarsi delle parole e il rumore dei bicchieri che si svuotano e si riempiono nella Parigi di fin de siècle. Una corrispondenza di amorosi sensi di così alto spessore non avrebbe potuto terminare con parto migliore.

 

GIANMARCO GRONCHI

Lombardo d'adozione ma toscano di nascita, sono uno studente del corso di laurea magistrale in Storia e critica d'arte all’Università Statale di Milano. Ho conseguito la laurea triennale in Lettere moderne all'Università degli Studi di Pavia. Durante la mia permanenza pavese sono stato alunno dell'Almo Collegio Borromeo. I miei interessi spaziano dall'arte moderna a quella contemporanea, compreso lo studio della Moda da un punto di vista storico-artistico. Alcuni miei scritti sono apparsi online su "Inchiosto”, “Birdman Magazine. Cinema, serie, teatro" e "La ricerca Loescher". Amo leggere, scrivere e perdermi in musei e negozi di vintage.


LA TORRETTA. IL SIMBOLO DI SAVONA

A cura di Gabriele Cordì

Introduzione

La Torre Leon Pancaldo o Torre della Quarda, più comunemente nota con l'appellativo di “Torretta”, è il simbolo della città di Savona. Icona savonese nel mondo, è il monumento a cui i cittadini sono più affezionati ed è uno dei primi edifici che si incontrano quando si giunge in città percorrendo la Via Aurelia da Levante in direzione Ponente.

La torre è stata costruita tra il XIII e XIV secolo, ma il primo documento che testimonia la sua presenza  risale solo al 1392. In esso viene indicata come una delle torri difensive della cinta muraria cittadina nei pressi di Porta della Quarda. La costruzione presenta una pianta quadrata, di circa 6 metri per lato, ed è alta approssimativamente 23 metri (fig.1). Ai due terzi della sua altezza sono presenti degli archetti gotici sporgenti l’uno sull’altro interrotti sul lato nord-ovest. La cima della torre, risalente molto probabilmente al XVIII secolo, è coronata da una merlatura organizzata in gruppi di tre merli (fig. 2).

In origine doveva presentarsi molto più alta di come la vediamo oggi, ma le fonti ci dicono che, nel 1527, è stata vittima delle devastazioni genovesi che ne hanno decretato la brutale decurtazione  e la distruzione delle mura di cinta. L’interno è oggi composto da quattro piani collegati tra di loro da una serie di rampe di scale; l’ultimo tratto conduce alla cima della torre dove si trovano la campana e l’asta sui cui sventola la bandiera della città di Savona (fig.3,4).

Nel 1644 la torre viene dotata dell’orologio pubblico, uno dei più antichi per installazione in Liguria. Sempre nello stesso anno viene posta una statua in marmo raffigurante Nostra Signora di Misericordia sul lato rivolto verso il porto. La scultura della patrona di Savona è stata eseguita dallo scultore barocco genovese Filippo Parodi, allievo di Gian Lorenzo Bernini. La statua ha una particolarità tecnica: è realizzata a mezzotondo, vale a dire che il retro non è scolpito in quanto volge verso la parete interna della nicchia e di conseguenza non è visibile. Sullo stesso lato si intravede un distico del poeta savonese Gabriello Chiabrera: “In mare irato, in subita procella, invoco te, nostra benigna Stella”. Al di sotto di una nicchia è raffigurato lo stemma della  Repubblica di Genova, anch’esso sbiadito dall’umidità e dalla salsedine (fig.5). Il piccolo portico di accesso alla piazza, sormontato da una piccola edicola ospitante una piccola scultura della Madonna di  Misericordia, risale al 1862.

Fig. 5

Nel 1882 il Comune di Savona approva una delibera che stabilisce il prolungamento di Via Paleocapa, la bella ed elegante "strada porticata", fino a raggiungere il porto. Questa idea trova entusiasti sostenitori e già nel 1880 si scrive: “Il prolungamento di via Paleocapa è uno dei lavori più interessanti per l’utilità che  conseguirebbe al commercio da quella facile comunicazione tra la stazione ferroviaria e il porto e per  l’abbellimento della città. Sono un dugento metri di strada che giova eseguire per entro quell’ammasso di  case che è attraversato dalla via Monticello e dai vicoli delle Saponiere e dei Pico: la prima trovandosi ad un  livello superiore, verrà unita nei due punti d’intersezione, mediante un ponte di ferro all’altezza di circa m  7,75”. In seguito ai lavori di sbancamento del colle del Monticello viene raggiunto il porto e, casualmente, sull’asse della via si incontra la Torretta (fig.6). A questo punto si verifica una diatriba tra i cittadini savonesi: una parte di cittadinanza, insieme al Consiglio comunale, è favorevole ad abbattere la vecchia torre, definita “un intoppo all’occhio che vuol trascorrere libero al di là della piazza”, mentre altri, tra cui Agostino Bruno, si sono fatti promotori della sua permanenza a protezione dell’antica darsena. Grazie all’intervento di quest’ultimi la Torretta, “una fra le opere più vetuste della città” e unica testimonianza  delle antiche mura medievali, è ancora oggi al suo posto come una silenziosa sentinella che veglia da secoli sulla città.

Nel XIX secolo la torre viene dedicata, insieme alla piazza antistante, al navigatore savonese Leon Pancaldo, noto per aver accompagnato Ferdinando Magellano nella prima circumnavigazione del mondo a bordo  della nave “Trinidad”. La piazza era precedentemente denominata “Piazza Sant’Agostino” per via della presenza della chiesa e del convento degli Agostiniani (fig.7). Quest’ultimo è stato soppresso nel 1811 per diventare carcere giudiziario, mentre la chiesa è stata adattata a magazzino del sale fino alla prima metà del  XIX secolo, quando si decreta la sua demolizione per far spazio al primo grattacielo di Savona, inaugurato nel 1938. Nel 1989 è stata posta sul fondale marino una piccola riproduzione in ceramica della torre ad opera del ceramista albisolese Umberto Ghersi. La piccola scultura è situata a 13 metri di profondità, a 500 metri dalla riva, di fronte alla passeggiata a mare ”Walter Tobagi”. Dal 1990 la Torretta è sede del gruppo “Vanni Folco” di Savona dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia (ANMI). Lo spazio al pian terreno accoglie cimeli della Marina Militare di grande valore storico e simbolico (fig.8). In precedenza la struttura era stata la sede dei rimorchiatori del porto di Savona. Nel 1986, sul molo adiacente alla torre, viene posto il monumento in onore delle vittime del mare, raffigurante un marinaio che, con la mano destra, regge una lanterna (fig.9). La statua in bronzo è stata realizzata dalla celebre scultrice savonese Renata Cuneo in eterno ricordo delle vittime a bordo della nave mercantile “Tito Campanella”, affondata il 13 gennaio 1986 nel golfo di Biscaglia.

 

Un sentito ringraziamento al Cav. Luca Ghersi, presidente dell’ANMI Savona e al Cav. Umberto Cascone per aver egregiamente collaborato alla riuscita di questo articolo.

 

Bibliografia  

Nello Cerisola, Album di Savona, Editrice Liguria, 1973.

Nello Cerisola, Savona tra Ottocento e Novecento, Editrice Liguria, 1986.

 

Sitografia

https://m.youtube.com/watch?v=62HkVwP-ZiI

https://www.ivg.it/2017/03/quel-simbolo-genovese-sulla-torretta-savona/amp/

 

Fotografie: le immagini sono state scattate in occasione della registrazione del mini-documentario del canale YouTube “WSavonaInArte” .


LA BADIA DI SAN LORENZO A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

A nord di Trento, tra edifici e strutture di recente costruzione si erge l’antica Badia di San Lorenzo, uno dei pochi edifici a testimonianza di quello che era l’antica “Tridentum”, ovvero la città che venne eretta dai romani all’inizio dell’era cristiana. Una chiesa, quella di San Lorenzo, che ha mantenuto nel tempo la sua struttura originaria medievale, nonostante negli anni abbia subito notevoli danni causati dalle guerre e dalle inondazioni del fiume Adige.

Fig. 1 - La badia di San Lorenzo a Trento.

La chiesa

La badia di San Lorenzo è in stile romanico lombardo, è orientata da ovest verso est ed ha una pianta di tipo basilicale a croce latina con il transetto che non oltrepassa la larghezza delle navate. La Badia è piuttosto grande e si estende, in lunghezza, per 38 metri e in larghezza per 14 metri, presentando un’aula divisa in tre navate con campate collegate tra loro da archi in pietra a tutto sesto che sostengono le volte a crociera. Le vele delle volte sono dipinte con il motivo della stella domenicana e profilate con bande a decorazioni geometriche.

Nell’area presbiteriale lo stile romanico è stato abbandonato per accostarsi a forme più slanciate tipiche dello stile gotico; infatti nell’area sacra dell’edificio sono stati utilizzati quattro archi a sesto acuto, sostenuti da quattro robusti pilastri, al di sopra dei quali si innalza una grande cupola ottagonale. Questa struttura architettonica è la parte più interessante dell’edificio, in quanto il quadrato delimitato dai quattro pilastri si raccorda all’ottagono della cupola mediante quattro pennacchi di ascendenza orientale. La cupola del tiburio è infine decorata con il motivo della stella domenicana e al centro con l’Agnello di Dio, simbolo cristologico.

Fig. 4 - La badia di San Lorenzo a Trento, interno, la cupola del presbiterio con i quattro pennacchi di raccordo (Brunet 2012).

All’esterno colpisce la varietà cromatica dell’edificio, realizzato in pietra bianca e rossa di Trento e, nella parte sommitale dell’aula, del campanile e nel tiburio, in laterizio. La facciata è a salienti, cioè con le falde del tetto che seguono l’altezza delle navate e il campanile (XVII secolo) è caratterizzato da quattro bifore, da una torretta con finestre ovali e piccole piramidi angolari in cima.

Fig. 5 - La badia di San Lorenzo a Trento, la facciata (Brunet 2012).

L’aspetto più interessante della struttura esterna è sicuramente la decorazione dell’abside maggiore, marcata da leggere semicolonne con otto capitelli, decorati con motivi ad intreccio, aquile e teste angolari; i capitelli sono poi legati tra loro da una corona di archetti ciechi.

Fig. 6 - La badia di San Lorenzo a Trento, la decorazione esterna dell’abside.

La storia

Le origini della badia di San Lorenzo sono oscure ed incerte. Si suppone che la dedicazione a San Lorenzo, data alla chiesa e all’omonimo ponte sul fiume Adige, avesse origine dalla presenza in questo luogo di un sacello sacro di età romana dedicato alla divinità pagana “Larenzia”. Sopra queste rovine pare sia stato eretta una prima struttura cristiana, a carattere assai informale, che venne poi ricostruita tra il 1166 e il 1183 dai monaci benedettini, provenienti dal monastero di Vallalta (Bergamo).

Tra il 1166 e il 1183 i benedettini costruirono l’attuale Badia di San Lorenzo con annesso un grande convento, oggi demolito, e, secondo lo spirito del fondatore, alternarono a Trento lo studio monastico con il lavoro di un vasto appezzamento di terreno, situato sulla destra del fiume Adige, che, in quel tempo percorreva un alveo ben diverso dall’attuale.

Nel 1856 il percorso del fiume Adige all’interno della città di Trento è stato rettificato nell’attuale percorso.

Fig. 7 - L’antico alveo del fiume Adige che lambiva la chiesa di San Lorenzo (Ed. Manfrini 1978).

Non sappiamo il nome del magister che progettò l’edificio, ma è necessario sottolineare la presenza a Trento di un magister Lanfranco, costruttore e fratello di Israele, abate presso il monastero bergamasco di Vallalta, il quale dovette avere un ruolo principale nella costruzione del nuovo tempio religioso dedicato a San Lorenzo.

Nonostante le liti fra gli abati e i monaci benedettini il monastero riuscì a godere di un lungo periodo di prosperità determinato dalla concessione ai Benedettini di molte terre nei dintorni di Trento. Questa situazione non durò però a lungo: in seguito a funesti incendi e inondazioni il patrimonio territoriale dei monaci benedettini subì un drastico esaurimento, tanto che la chiesa e il monastero di San Lorenzo vennero ceduti ai Padri Predicatori di San Domenico. La decisione di cedere ai Domenicani il Convento con la chiesa annessa fu del vescovo di Trento, Aldrighetto di Castelcampo (1232-1247), quando nell’agosto del 1235 il numero dei monaci si era ormai ridotto notevolmente. Il complesso di San Lorenzo rimase ai Padri Predicatori fino al 1778, anni in cui i Domenicani restaurarono la chiesa nelle parti fatiscenti: furono realizzate le sopraelevazioni in cotto, la navata centrale fu alzata e furono costruite le volte a crociera e le arcate a sesto acuto.

Dopo il 1778 il complesso abbaziale rimase in uso a vari distaccamenti militari e subì in questo periodo una drastica trasformazione, ossia la demolizione del convento tra il 1933 e il 1934 e il danneggiamento della chiesa durante i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale.

Nel 1955, per interessamento del padre cappuccino Eusebio Jori, la chiesa venne restaurata e riaperta al culto con la qualifica di “Tempio civico” e da allora è rimasta ad uso dei frati cappuccini della Provincia di Trento. Sottoposta al degrado dell’alluvione che colpì Trento nel 1966, quando l’acqua raggiunse i sei metri di altezza, la chiesa mostrava, verso la fine degli anni ottanta, notevoli segnali di dissesto strutturale, specie nel campanile e nel tiburio.

Fig. 10 - La Badia di San Lorenzo a Trento durante l’alluvione del 1966 (Brunet 2012).

La stabilità della chiesa era talmente compromessa da intraprendere una importante campagna di studi dell’intero edificio, affidata all’architetto Andrea Bonazza, che si concluse con un radicale risanamento strutturale. L’opera di restauro della Badia di San Lorenzo ha interessato il sito per quasi un decennio, dal 1989 al 1998; un periodo così prolungato che ha permesso di elaborare un importante processo conoscitivo dell’edificio, arricchitosi di scoperte archeologiche, storiche ed architettoniche. Tra i reperti archeologici di notevole importanza, rinvenuti nei dintorni della badia, vi è un bronzetto raffigurante Mercurio del I-II secolo, una moneta risalente al 330-350 d. C. e le tracce della prima chiesa, già esistente nel 1146, con annesso campo cimiteriale.

 

Bibliografia

AA. VV., La badia di S. Lorenzo a Trento, Trento, Manfrini, 1978

Brunet Chiara Stella, La Badia di S. Lorenzo a Trento, Trento, Nuove Arti Grafiche, 2012

Grosselli Andrea, La Badia di S. Lorenzo a Trento, Rovereto, Stella, 2005

Wenter Marini G., La chiesa di S. Lorenzo a Trento – scavi e restauri, in “Studi Trentini”, 1, 1920, pp. 97-108


MOSTRE IN ITALIA REGIONE PER REGIONE

A cura di Mirco Guarnieri

Una panoramica delle mostre in Italia, con le varie iniziative presenti sul territorio nazionale divise per regione.

MOSTRE IN ITALIA: NORD ITALIA

Valle d’Aosta

 

L’ADIEU DES GLACIERS, IL MONTE ROSA: Ricerca Fotografica E Scientifica

Dal 1 Agosto 2020 - 6 Gennaio 2021

Forte di Bard, Bard (AO)

 

LA MONTAGNA TITANICA DI RENATO CHABOD

Dal 29 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Forte di Bard, Bard (AO)

 

Mostre in Piemonte

 

ANDY WARHOL SUPER POP: THROUGH THE LENS OF FRED W. MCDARRAH

Dal 24 Ottobre 2020 - 31 Gennaio 2021

Palazzina di Caccia di Stupinigi, Nichelino (TO)

 

ALIGHIERO BOETTI IN VIDEOTECAGAM

Dal 22 Ottobre 2020 - 21 Febbraio 2021

GAM – Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, Torino

 

L’ORIENTE A TORINO

Dal 21 Maggio 2020 - 31 Dicembre 2020

MAO - Museo d’Arte Orientale, Torino

 

GIULIO PAOLINI “LE CHEF-D’OEUVRE INCONNU”

Dal 15 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021

Castello di Rivoli, Rivoli (TO)

 

AGOSTINO ARRIVABENE. VISITAZIONI

Dal 4 Ottobre 2020 - 22 Novembre 2020

Museo Civico Pier Alessandro Garda, Ivrea (TO)

 

GIANNI BERENGO GARDIN E LA OLIVETTI

Dal 1 Ottobre 2020 - 15 Novembre 2020

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia, Torino

 

DIVISIONISMO. LA RIVOLUZIONE DELLA LUCE

Dal 24 Ottobre - 24 Gennaio 2021

Castello di Novara, Novara

 

FILIPPO DI SAMBUY. IL LIBRO DELLO SPLENDORE (ZOHAR), MONOTIPI E ACQUERELLI

Dal 17 Settembre 2020 - 5 Novembre 2020

Museo della Ceramica, Mondovì (CN)

 

ASTI, CITTÀ DEGLI ARAZZI

Dal 19 Settembre 2020 - 17 Gennaio 2021

Palazzo Mazzetti, Asti

 

CAPA IN COLOR

Dal 26 Settembre 2020 - 31 Gennaio -2021

Musei Reali - Sale Chiablese, Torino

 

Lombardia

 

DIVINE E AVANGUARDIE. LE DONNE NELL’ARTE RUSSA

Dal 28 Ottobre 2020 - 5 Aprile 2021

Palazzo Reale, Milano

 

FASCINO SENZA TEMPO. LA BELLEZZA FEMMINILE A MILANO NEI SECOLI

Dal 15 Settembre 2020 - 31 Dicembre 2020

Antiquarium “Alda Levi, Milano

 

MICHELANGELO A SONDRIO. TESTIMONIANZE NELLA COLLEZIONE CREVAL

Dal 30 Settembre 2020 - 13 Novembre 2020

Galleria Credito Valtellinese - Palazzo Sertoli, Sondrio

 

L'INVENZIONE DEL DIVINO PITTORE

Dal 2 Ottobre 2020 - 10 Gennaio 2021

Museo di Santa Giulia, Brescia

 

GIUSEPPE BOSSI E RAFFAELLO AL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO

Dal 27 Novembre 2020 - 7 Marzo 2021

Castello Sforzesco, Milano

 

FRIDA KAHLO. IL CAOS DENTRO

Dal 10 Ottobre 2020 - 28 Marzo 2021

Fabbrica del Vapore, Milano

 

NANDA VIGO - PRIVATE COLLECTION

Dal 6 Ottobre - 31 Dicembre 2020

Museo San Fedele, Milano

 

TIEPOLO. MILANO, VENEZIA, L'EUROPA

Dal 29 Ottobre 2020 - 21 Marzo 2021

Gallerie d'Italia, Milano

 

SOTTO IL CIELO DI NUT. EGITTO DIVINO

Dal 30 Maggio 2020 - 20 Dicembre 2020

Civico Museo Archeologico, Milano

 

ORAZIO GENTILESCHI. LA FUGA IN EGITTO E ALTRE STORIE

Dal 10 Ottobre 2020 - 31 Gennaio 2021

Pinacoteca Ala Ponzone, Cremona

Recensito da Storiarte qui

 

RAFFAELLO TRAMA E ORDITO. GLI ARAZZI DI PALAZZO DUCALE A MANTOVA

Dal 24 Ottobre 2020 - 7 Febbraio 2021

Palazzo Ducale, Mantova

 

LA SCAPIGLIATURA. UNA GENERAZIONE CONTRO

Dal 19 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo delle Paure, Lecco

 

ROYAL DALÌ

Dal 7 Dicembre 2019 - 7 Dicembre 2021

Villa Reale, Monza

 

Mostre in Trentino Alto-Adige

 

RAFFAELLO. CAPOLAVORI TESSUTI

Dal 10 Ottobre - 15 Dicembre 2020

Centro Trevi, Bolzano

 

L'ALTRO CONTEMPORANEO. CARAVAGGIO | BOLDINI | DEPERO

Dal 9 Ottobre 2020 - 28 Febbraio 2021

Dal 9 Ottobre 2020 - 4 Dicembre 2020 - Caravaggio

MarT, Rovereto

 

LE COLLEZIONI. L'INVENZIONE DEL MODERNO E L'IRRUZIONE DEL CONTEMPORANEO

2 Giugno 2020 - 31 Maggio 2021

MarT, Rovereto (TN)

 

LE CINQUE CHIAVI GOTICHE E ALTRE MERAVIGLIE

Dal 13 Giugno 2020 -  29 Novembre 2020

Palazzo Assessorile, Cles

 

Veneto

 

I MACCHIAIOLI. CAPOLAVORI DELL’ITALIA CHE RISORGE

Dal 24 Ottobre 2020 - 18 Aprile 2021

Palazzo Zabarella, Padova

 

6/900 DA MAGNASCO A FONTANA. DIALOGO TRA COLLEZIONI

Dal 17 Ottobre 2020 - 5 Aprile 2021

Museo di Villa Bassi Rathgeb, Abano Terme (PD)

Recensito da Storiarte qui

 

VAN GOGH. I COLORI DELLA VITA

Dal 10 Ottobre 2020 - 11 Aprile 2021

Centro Altinate San Gaetano, Padova

Recensito da Storiarte qui

 

1910-1940: LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA DELL’ARTE IN VENETO, DA GINO ROSSI, A GUIDI E DE PISIS

Dal 12 Settembre 2020 - 27 Dicembre 2020

Villa Ancillotto, Treviso

 

IL RACCONTO DELLA MONTAGNA NELLA PITTURA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Dal 12 Giugno 2020 - 8 Dicembre 2020

Palazzo Sarcinelli, Conegliano (TV)

 

FUTURO. ARTE E SOCIETÀ DAGLI ANNI SESSANTA A DOMANI

Dall'8 Ottobre 2020 - 7 Febbraio 2021

Gallerie d'Italia, Vicenza

 

MARC CHAGALL - ANCHE LA MIA RUSSIA MI AMERÀ

Dal 19 Settembre 2020 - 17 Gennaio 2021

Palazzo Roverella, Rovigo

Recensito da Storiarte qui

 

LA MANO CHE CREA. LA GALLERIA PUBBLICA DI UGO ZANNONI (1836-1919) SCULTORE, COLLEZIONISTA E MECENATE

Dal 27 Giugno 2020 - 31 Gennaio 2021

GAM - Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, Palazzo della Ragione, Verona

Recensito da Storiarte qui

 

ALESSANDRO SEFFER. CRONACA E PAESAGGIO NEL VENETO DELL'OTTOCENTO

Dal 3 Ottobre 2020 - 10 Gennaio 2021

Musei Civici - Palazzo Fulcis, Belluno

 

VEDOVA / SHIMAMOTO: INFORMALE DA OCCIDENTE AD ORIENTE

Dal 30 Agosto 2020 - 15 Novembre 2020

Museo Civico di Asolo, Asolo (TV)

 

UN CAPOLAVORO PER VENEZIA - LORENZO LOTTO. SACRA CONVERSAZIONE CON I SANTI CATERINA E TOMMASO

Dal 15 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Galleria dell’Accademia, Venezia

 

DOMENICO TINTORETTO. RITRATTO DI GIOVANNI GRIMANI

Dal 4 Settembre 2020 - 30 Maggio 2021

Museo di Palazzo Grimani, Venezia

 

Mostre in Friuli-Venezia Giulia

 

VIENNA 1900. GRAFICA E DESIGN

Dal 10 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Palazzo Attems-Petzenstein, Gorizia

 

Marcello Dudovich (1878-1962). Fotografia fra arte e passione

Dal 10 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Scuderie del Castello di Miramare (TS)

 

NULLA È PERDUTO

Dal 04 Luglio 2020 - 13 Dicembre 2020

Casa delle Esposizioni di Illegio, Tolmezzo (UD)

 

Liguria

 

#UNMANIFESTOPERGENOVA

Dal 6 Agosto 2020 - 27 Novembre 2020

Villa Serra, Genova

 

MICHELANGELO. DIVINO ARTISTA

Dall’8 Ottobre 2020 - 24 Gennaio 2021

Palazzo Ducale, Genova

 

 

AUTUNNO BLU A VILLA CROCE

Dal 29 Settembre 2020 - 17 Gennaio 2021

Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce

 

Mostre in Emilia-Romagna

 

GUARDAMI! SONO UNA STORIA…ET IN ARCADIA EGO

Dal 16 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Pinacoteca Nazionale, Ferrara

Recensito da Storiarte qui

 

ANTONIO LIGABUE. UNA VITA D’ARTISTA (1899 − 1965)

Dal 31 Ottobre 2020 - 5 Aprile 2021

Palazzo dei Diamanti, Ferrara

 

TRA SIMBOLISMO E FUTURISMO. GAETANO PREVIATI

Dal 6 Giugno 2020 - 27 Dicembre 2020

Castello Estense, Ferrara

 

SCHIFANOIA E FRANCESCO DEL COSSA. L'ORO DEGLI ESTENSI

Dal 2 Giugno 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo Schifanoia, Ferrara

 

ATTRAVERSARE L’IMMAGINE. DONNE E FOTOGRAFIA TRA GLI ANNI CINQUANTA E GLI ANNI OTTANTA

Dal 20 Settembre 2020 - 22 Novembre 2020

Palazzina Marfisa d’Este, Ferrara

 

ETRUSCHI. VIAGGIO NELLE TERRE DEI RASNA

Dal 7 Dicembre 2019 - 29 Novembre 2020

Museo Civico Archeologico, Bologna

 

LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO - POLITTICO GRIFFONI RINASCE A BOLOGNA

Dal 18 Maggio 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo Fava, Bologna

 

MONET E GLI IMPRESSIONISTI. CAPOLAVORI DAL MUSÉE MARMOTTAN MONET, PARIGI

Dal 29 Agosto 2020 - 14 Febbraio 2021

Palazzo Albergati, Bologna

 

VITTORIO CORCOS. RITRATTI E SOGNI

Dal 22 Ottobre 2020 - 14 Febbraio 2021

Palazzo Pallavicini, Bologna

Recensito da Storiarte qui

 

DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA

Dal 16 Ottobre 2020 - 5 Settembre 2021

Chiostri Francescani, Ravenna

 

INCLUSA EST FLAMMA. Ravenna 1921: Il Secentenario della morte di Dante

Dall'11 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Biblioteca Classense

 

L’OTTOCENTO E IL MITO DI CORREGGIO

Dal 14 Novembre 2020 - 14 Febbraio 2021

La nuova Pilotta, Parma

 

L'ULTIMO ROMANTICO

Dal 12 Settembre 2020 - 13 Dicembre 2020

Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo, PR

 

LIGABUE E VITALONI. DARE VOCE ALLA NATURA

Dal 17 Settembre 2020 - 30 Maggio 2021

Palazzo Tarasconi, Parma

 

FORNASETTI. THEATRUM MUNDI

Dal 3 Giugno 2020 - 14 Febbraio 2021

Complesso monumentale della Pilotta, Parma

 

INCOMPRESO - LA VITA DI ANTONIO LIGABUE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Dal 6 Giugno 2020 - 8 Novembre 2020

Palazzo Bentivoglio, Gualtieri (RE)

 

NEI CIELI DEL CORREGGIO. UN INEDITO FRAMMENTO DI ANTONIO ALLEGRI DA SAN GIOVANNI EVANGELISTA IN PARMA

Dal 17 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Museo il Correggio - Palazzo dei Principi, Correggio (RE)

 

OTTOCENTO RITROVATO. Dipinti inediti di maestri emiliano-romagnoli da Fontanesi a Boldini

Dal 5 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Museo il Correggio - Palazzo dei Principi, Correggio (RE)

 

MOSTRE IN ITALIA: CENTRO

Toscana

 

LA REALTÀ SVELATA. IL SURREALISMO E LA METAFISICA DEL SOGNO

Dal 18 Settembre 2020 - 24 Gennaio 2021

Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art, Lucca

 

L’AVVENTURA DELL’ARTE NUOVA | ANNI 60-80 CIONI CARPI | GIANNI MELOTTI

Dal 3 Ottobre 2020 - 6 Gennaio 2021

Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti - Complesso monumentale di San Micheletto, Lucca.

 

DOPO CARAVAGGIO. Il Seicento Napoletano nelle Collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito

Dal 14 Dicembre 2019 - 6 Gennaio 2021

Museo Palazzo Pretorio, Prato

 

RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE

Dal 27 Ottobre 2020 - 31 Gennaio 2021

Palazzo Pitti, Firenze

 

…CON ALTRA VOCE RITORNERÒ POETA. IL RITRATTO DI DANTE DEL BRONZINO ALLA CERTOSA DI FIRENZE

Dall’11 Ottobre 2020 - 31 Dicembre 2020

Pinacoteca della Certosa del Galluzzo, Firenze

 

AURELIO AMENDOLA. UN'ANTOLOGIA. MICHELANGELO, BURRI, WARHOL E GLI ALTRI

Dal 13 Novembre 2020 - 14 Febbraio 2021

Palazzo Buontalenti - Antico Palazzo dei Vescovi, Pistoia

 

IL SOGNO DI LADY FLORENCE PHILLIPS. La collezione della Johannesburg art gallery

Dal 24 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Santa Maria della Scala, Siena

 

"MIO VANTO, MIO PATRIMONIO". L’arte del ‘900 nella visione di Leone Piccioni

Dal 30 Agosto 2020 - 21 Gennaio 2021

Museo della Città, Pienza (SI)

 

AFFRESCHI URBANI. PIERO INCONTRA UN ARTISTA CHIAMATO BANKSY

Dal 20 Giugno 2020 - 10 Gennaio 2021

Museo Civico di Sansepolcro, Sansepolcro (AR)

 

Mostre in Umbria

 

GIOVANNI BATTISTA PIRANESI NELLE COLLEZIONI DELLA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA

Dal 10 Ottobre 2020 - 13 Febbraio 2021

Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia

 

BRIAN ENO. REFLECTED

Dal 4 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia

 

RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA

Dal 18 Settembre 2020 - 6 Gennaio 2021

Palazzo Baldeschi, Perugia

 

Marche

 

I MAESTRI ITALIANI DEL ‘900 IN MOSTRA PERMANENTE A FABRIANO

Dall’11 Ottobre 2015 - 31 Dicembre 2030

Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”, Fabriano (AN)

 

MADE IN NEW YORK, KEITH HARING - Subway Drawings

23 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo Campana, Osimo (AN)

 

Abruzzo

 

YOKO YAMAMOTO. GEI-SHA

Dall’11 Settembre 2020 - 22 Novembre 2020

Museo Palazzo de’ Mayo, Chieti

 

Mostre in Lazio

 

FUORI. Quadriennale d’arte 2020

Dal 29 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Palazzo delle Esposizioni, Roma

Recensito da Storiarte qui

 

CIVIS CIVITAS CIVILITAS. Roma antica modello di città - PROROGATA

Dal 21 Dicembre 2019 - 22 Novembre 2020

Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali 

 

I MARMI TORLONIA. COLLEZIONARE CAPOLAVORI

Dal 25 Settembre 2020 - 27 Giugno 2021

Musei Capitolini - Villa Caffarelli, Roma

 

IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI

Dal 16 Giugno 2020 - 10 Gennaio 2021

Musei Capitolini, Roma

 

BANKSY - A VISUAL PROTEST

Dall’8 Settembre 2020 - 11 Aprile 2021

Chiostro del Bramante, Roma

 

Per Gioco - La collezione dei giocattoli antichi della Sovrintendenza Capitolina

Dal 25 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Museo di Roma, Roma

 

MOSTRE IN ITALIA: SUD

Campania

 

NAPOLI LIBERTY. N'ARIA 'E PRIMMAVERA

Dal 25 Settembre 2020 - 24 Gennaio 2021

Gallerie d'Italia, Napoli

 

Gli Etruschi e il MANN

Dal 12 Giugno 2020 - 31 Maggio 2021

MANN - Museo Archeologico Nazionale, Napoli

 

SANTIAGO CALATRAVA - Nella Luce Di Napoli

Dal 6 Dicembre 2019 - 13 Gennaio 2021

Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

 

MARINA ABRAMOVIĆ / ESTASI

Dal 18 Settembre 2020 - 17 Gennaio 2021

Castel dell’Ovo, Napoli

 

VENUSTAS. GRAZIA E BELLEZZA A POMPEI

Dal 31 Luglio 2020 - 31 Gennaio 2021

Palestra grande, Pompei (NA)

 

PAESTUM. FOTOGRAFIE DI MARCO DIVITINI

Dal 16 Ottobre 2020 - 16 Gennaio 2021

Museo Archeologico Nazionale di Paestum, Paestum (SA)

 

Mostre in Puglia

 

MARIO SCHIFANO E LA POP ART IN ITALIA

Dal 10 Ottobre 2020 - 29 Novembre 2020

Contemporanea Galleria d’Arte, Foggia

 

L’ORO, LA SANTITÀ E LA GLORIA. PRESENTAZIONE DEI POLITTICI VENETI DEL MUSEO CASTROMEDIANO DOPO IL CANTIERE DI RESTAURO APERTO

Dal 16 Ottobre 2020 - 16 Novembre 2020

Museo Castromediano, Lecce 

 

Il polittico di Antonio Vivarini. Storia arte restauro

Dal 1 Marzo 2014 - 31 Dicembre 2030

Pinacoteca provinciale “Corrado Giaquinto”, Bari

 

Sicilia

 

HEROES - BOWIE BY SUKITA

Dal 10 Ottobre 2020 - 31 Gennaio 2021

Palazzo Sant’Elia, Palermo

 

ORIENTE E OCCIDENTE. ALLEGORIE E SIMBOLI DELLA TRADIZIONE MEDITERRANEA. INSTALLAZIONI DI NAVID AZIMI SAJADI

Dal 23 Ottobre 2020 - 6 Gennaio 2021

Complesso Monumentale di Santa Maria Nuova di Monreale

 

RITRATTO DI IGNOTO. L'ARTISTA CHIAMATO BANKSY

Dal 7 Ottobre 2020 - 17 Gennaio 2021

Loggiato San Bartolomeo e Palazzo Trinacria, Palermo

 

L'ARTE DEL '900 NELLA COLLEZIONE POSABELLA

Dal 12 Aprile 2014 - 31 Dicembre 2020

Galleria Civica Giuseppe Sciortino, Monreale (PA)

 

DOMENICO PELLEGRINO. ERACLE. L’UOMO, IL MITO, L’EROE

Dal 5 Ottobre 2020 - 31 Gennaio 2021

Museo Mandralisca, Cefalù (PA)

 

CARLA ACCARDI – ANTONIO SANFILIPPO. L’AVVENTURA DEL SEGNO

Dal 26 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Convento del Carmine, Marsala (TP)

 

Mostre in Sardegna

 

STEVE MCCURRY. ICONS

Dal 13 Giugno 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo di Città, Cagliari

 

IL REGNO SEGRETO. SARDEGNA-PIEMONTE: UNA VISIONE POSTCOLONIALE

29 Maggio 2020 - 15 Novembre 2020

MAN Museo d’Arte Provincia di Nuoro, Nuoro


LA CERTOSA DI PADULA PARTE II

A cura di Stefania Melito

Nel precedente articolo sulla Certosa di Padula si è descritta la cosiddetta corte esterna e la “Casa Bassa”, ossia quell’insieme di luoghi ove potevano accedere anche i laici; varcando la soglia del monumento, invece, ci si addentrerà maggiormente verso gli ambienti prettamente riservati alla clausura, trattando però quelle zone che fungevano da “cuscinetto” fra il mondo esterno e la zona cenobitica vera e propria.

Fig. 1: l'ingresso

La facciata della Certosa

La facciata, probabilmente tardo-cinquecentesca ma con rifacimenti barocchi, si presenta ripartita in due ordini.

Fig. 2: la facciata

Quello più in basso, scandito da massicce colonne doriche che danno vita a tre architravi che movimentano la fascia marcapiano fortemente aggettante, alterna quattro statue di santi a tutto tondo, allocate in nicchie, a finestre; le statue, opera di Domenico Antonio Vaccaro, rappresentano San Bruno, (il primo a destra guardando la facciata) nella sua qualità di fondatore dell’ordine dei certosini, San Paolo, San Pietro e San Lorenzo, il santo a cui è dedicata la Certosa. Al centro, preceduto da una scalinata affiancata da una balaustra con massicci pinnacoli, si trova l’ingresso al monastero vero e proprio. L’ordine superiore invece, più basso rispetto al primo, riporta lo stesso schema ma senza statue: sono presenti sulle finestre dei busti che rappresentano i quattro evangelisti, la Madonna e Sant’Anna, mentre sulla finestra centrale vi è una conchiglia. La facciata è coronata da una balaustra su cui si ergono dei pinnacoli: al centro svetta la statua della Madonna fra due angeli, inserita in una struttura architettonica ad arco coronata da una croce e introdotta, in basso, da un cartiglio recante la scritta “Felix coeli porta” e una data, 1723, mentre ai lati, collocati ad una certa distanza, sono presenti i busti della Religione e della Perseveranza.

Varcando l’ingresso vero e proprio al monumento si staglia in controluce una porta, coronata da una lunetta, che dà accesso al primo dei chiostri della Certosa, ossia il Chiostro della Foresteria. Ultimamente il percorso, a causa dell'epidemia da Covid-19, ha subito delle variazioni e non attraversa più la sala riccamente affrescata che un tempo era adibita a biglietteria.

Fig. 3: particolare sala biglietteria

Il Chiostro della Foresteria

Come dice il nome, si tratta di un chiostro sormontato da un ambiente al piano superiore in cui venivano accolti i pochi e sceltissimi “ospiti” della Certosa: il chiostro, tardo manierista, presenta al centro una fontana in pietra, montata su base ottagonale, che rappresenta un bambino che tiene in mano un delfino;  è circondato da un portico con cinque archi per lato, affiancati da robuste colonne doriche, che in alcuni tratti mantiene l’originaria decorazione a putti. Su di esso affacciano la porta della Chiesa e la porta della Cappella dei Morti, mentre un corridoio laterale conduce in un altro ambiente.

Il pavimento, a spina di pesce, presenta un motivo ornamentale che ricalca gli angoli e la forma della fontana.

Fig. 4: il chiostro della Foresteria

Una fascia marcapiano aggettante separa il primo ordine dal secondo, costituito da un loggiato con balaustra su cui si innestano le arcate, anche qui cinque: sono presenti, sulla parte esterna delle arcate, lacerti di affreschi che in alcuni casi hanno addirittura lasciato a nudo gli schizzi preparatori, mentre la parte interna si presenta decisamente in migliori condizioni. Tutto il loggiato infatti, caratterizzato da un soffitto cassettonato che corre lungo tutti e quattro i lati, è interamente affrescato a trompe l’oeil con scene di paesaggi silvestri e marini inseriti in finte quinte architettoniche, probabilmente seicenteschi, che rimandano ai paesaggisti napoletani e alla scuola di Domenico Gargiulo.

Fig. 5: il loggiato della Foresteria

Sul loggiato si aprono le stanze che un tempo venivano destinate agli illustri ospiti, e una cappella privata, la cappella di Sant’Anna, un tripudio di stucchi e decorazioni settecentesche.

Fig. 6: particolare degli stucchi settecenteschi della cappella di Sant'Anna

Al di sopra si eleva la torre campanaria con un orologio, e un tempo vi era anche un piccolo campanile a vela, che però crollò durante il terremoto del 1857 sfondando parte del tetto del corridoio del chiostro della foresteria.

Fig. 7: disegno eseguito da Mallet; è possibile notare in alto a sinistra il tetto del chiostro della Foresteria gravemente danneggiato. Da Miccio G., Padula nel Rapporto di Robert Mallet e l’intervento attuale di restauro della Certosa di S.Lorenzo, in "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L’opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano e della Val d’Agri", a cura di G.Ferrari, vol.1, (pp.313-330. Bologna 2004) pag. 319

L’orologio della torre campanaria ha una storia curiosa: viene descritto da Mallet nel 1857 come un “vecchio orologio inglese costruito 140 anni prima”, che segnava un’ora totalmente sbagliata; fu proprio l’ingegnere irlandese inoltre a regolarlo sull’ora corretta, essendo l’unico orologio presente in Certosa. Tale orologio fu poi rifatto intorno al 1930 da un artigiano di Lagonegro in Basilicata, ma fu eseguito di dimensioni spropositate rispetto al luogo ove doveva essere installato ed andò a sovrapporsi alla meridiana preesistente.

Fig. 8: particolare della torre campanaria

Come si può ben capire questi ambienti della Certosa di Padula assicuravano sia una sistemazione degna di un sovrano, sia addirittura una sorta di privacy, in quanto le funzioni religiose potevano essere officiate alla bisogna e seguite dagli ospiti senza doversi mischiare ai monaci e ai conversi che utilizzavano la sottostante chiesa per le funzioni. Non a caso si è parlato di sovrani: si narra infatti che Carlo V, di ritorno dalla battaglia di Tunisi in cui aveva sconfitto l’usurpatore Khayr al-Din detto il “Barbarossa”, decidesse di trasformare il viaggio di ritorno in una sorta di “passerella” trionfale o propaganda politica per la Penisola della durata di undici mesi, e così fece; toccò la Sicilia, e da lì risalì verso Napoli in direzione dei feudi dei principi a lui fedeli, tra cui i Ruffo, i Pignatelli, i Caracciolo e i Sanseverino (http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/337.html). A Padula sostò in Certosa, ove fu ricevuto con grandi onori e dove, narra la leggenda, volle condividere il modo di vivere e di mangiare tipico dei monaci: pare infatti che l’imperatore desse ordine di non preparare nulla di diverso dai pasti abituali, e così fu. Per il sovrano e il suo esercito fu allestito quindi un pantagruelico banchetto a base non di cacciagione o pietanze prelibate, ma basato su una semplice frittata, straordinaria solo nel numero di uova utilizzate per prepararla, ben mille. Da allora tutti gli anni, il 10 agosto, si ricorda questo aneddoto e si ripete la preparazione di quella frittata, in una gigantesca padella fatta costruire appositamente per contenere un numero così elevato di uova.

 

Bibliografia

Miccio G., Padula nel Rapporto di Robert Mallet e l’intervento attuale di restauro della Certosa di S.Lorenzo, in "Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L’opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano e della Val d’Agri", a cura di G.Ferrari, vol.1, (pp.313-330. Bologna 2004

Sitografia

http://dprs.uniroma1.it/sites/default/files/337.html


IL CULTO DI SAN MICHELE A CRESPINA

A cura di Luisa Generali

Introduzione

Nelle colline pisane, non troppo distante dalla costa, si trova il borgo di Crespina, ricordato nelle cronache locali come un antico insediamento romano che, probabilmente per il particolare paesaggio boscoso, venne battezzato con un nome che evocasse i suoi acri rovi (“acre spinarium”). Con la dominazione longobarda stanziata in questi luoghi tra la fine del VII e l’inizio del VIII secolo si dette inizio alla tradizione secolare del culto di San Michele, molto venerato dai popoli goti che si riconoscevano nelle caste dominanti dei guerrieri e che identificarono l’arcangelo, capo dell’esercito celeste, come loro protettore. La devozione verso il culto micaelico, intessuta nella storia religiosa e sociale del paese, sopravvive ancora oggi nei due edifici sacri (per distinguerli ribattezzati dai paesani “la chiesa vecchia” e “la chiesa nuova”) e trova espressione nelle opere devozionali che nei secoli vennero dedicate all’immagine dell’arcangelo. La chiesa “vecchia”, oggi sconsacrata, ha vissuto un recente passato come teatro cittadino, per poi essere oggetto nel 2011 di una campagna di restauri che ha riportato alla luce le settecentesche decorazioni: qui probabilmente aveva luogo il primissimo oratorio di fondazione longobarda, in seguito sostituito con la chiesa priorale, già presente nei registri della diocesi lucchese nel 1260. La chiesa “nuova”, edificata nell’arco del XIX secolo e terminata nel 1891, si trova invece “sul poggio” (la parte alta del paese) ed esibisce una sobria facciata in stile neoclassico (fig.1). Tale edificio divenne il rinnovato cuore della comunità crespinese, custode di quei tesori di fede già venerati nell’antico complesso che col tempo sfortunatamente cadde in stato di abbandono.

Fig. 1 - La Chiesa “nuova”, Crespina.

Nell’Ottocento la nuova chiesa e la devozione al culto di San Michele entrarono a far parte del repertorio figurativo macchiaiolo e di quello naturalista, trovando a Crespina e nell’entroterra pisano gli scenari ideali per esprimere in pittura l’idillio di un mondo ancora incontaminato: grazie all’accoglienza e alla protezione di alcune famiglie benestanti che risiedevano nelle ville di campagna crespinesi per i soggiorni estivi, molti artisti trovarono ispirazione negli scorci paesistici del borgo, affascinati dalla liricità della vita contadina e i costumi popolari di questi luoghi. È di Silvestro Lega (1826-1895), che fu ospite dei fratelli livornesi Ludovico e Angiolo Tommasi (anch’essi pittori e proprietari della villa di Bellariva), l’opera di collezione privata ritraente La chiesa di Crespina, datata al 1886, che segna con pennellate veloci e fluide la chiesa nuova appena costruita e il grande piazzale antistante (fig.2). Appartiene invece alla mano di Adolfo Tommasi (1851-1933), cugino dei fratelli Tommasi sopracitati, La fiera di San Michele (fig.3), opera datata al 1889 circa, che con un taglio descrittivo molto vivace, ascrivibile al filone della pittura naturalistica, rappresenta il clima di festa durante la ricorrenza patronale con il tradizionale mercatino davanti il sagrato della chiesa. Per le celebrazioni di San Michele che si svolgono ogni anno il 29 settembre, ricorre anche l’antichissima fiera delle civette, presente nell’albo regionale delle fiere storiche in quanto nata dalle vecchie usanze contadine di ammaestrare le civette per la caccia alle allodole. Tale pratica, oggi vietata, ha trasformato le sue origini venatorie in una vera e propria festa in onore di questi affascinanti rapaci, a cui il comune di Crespina nel 2019 ha dedicato il Parco delle civette, uno spazio protetto per la loro tutela, in simbiosi con la valorizzazione dell’ambiente naturale.

Le opere di San Michele a Crespina

Tornando nella chiesa nuova di San Michele, tra i pezzi più pregevoli qui conservati si trova senz’altro la tavola trecentesca a fondo d’oro raffigurante il santo patrono e santo titolare della chiesa (fig.4). L’opera, che fu riportata all’attenzione del pubblico e della critica da Mario Salmi nel 1939, in occasione della storica mostra a Firenze per l’anniversario della morte di Giotto, è posta non a caso centralmente dietro l’altare maggiore, poiché rappresenta per la collettività un’immagine simbolo di riconoscimento dell’identità locale crespinese. Attualmente gli studi concordano nell’attribuire il San Michele al seguace di Giotto, Bernardo Daddi (1290 c.-1348), che ingentilì la pittura del maestro ricorrendo a raffinate soluzioni figurative e coloristiche. La tavola cuspidata, datata fra il 1330 e il 1340 circa, ritrae San Michele in veste marziale, così come viene spesso identificato nell’immaginario collettivo, quale angelo-guerriero che nel libro dell’Apocalisse uccide il drago, metafora del male. Il Santo è qui ritratto nell’attimo esatto in cui, sollevando la spada, raccoglie tutte le forze prima di sferrare il potente colpo che ucciderà il demone, già immobilizzato sotto i suoi piedi. Lo sforzo fisico del gesto fa risaltare appieno il corpo dell’arcangelo e la sua veste rossa, decorata da gemme e gioielli (fig.5), mentre il volto grave mostra un’espressione concentrata e sicura; inoltre caratterizzano il San Michele i capelli biondi e mossi, fermati sulla fronte da un diadema, e le ponderose ali piumate. L’estrema ricercatezza di certi dettagli, uniti al decorativismo dei colori, ricorre nell’opera di Daddi che oltre a Crespina impiega la stessa tonalità di rosso della veste di San Michele anche per l’abito talare del San Lorenzo, conservato alla Pinacoteca di Brera (1340 c.), e per alcuni fiori che compongono l’incantevole ghirlanda di Santa Cecilia al Museo diocesano di Milano (fig.6-7).

L’iconografia del San Michele si diffuse nel medioevo in due formule frequenti, di cui la più antica e iconica rappresentava l’arcangelo insieme agli attributi della lancia (o della spada) e del globo, simbolo dell’intervento divino operato per la salvezza del mondo. Sembra invece diffondersi più tardi ma con un successo maggiore nel tempo, l’iconografia narrativa proferita nell’Apocalisse che ritrae il momento dell’uccisione del drago per mano del Santo, a cui spesso si combina anche l’attributo della bilancia come metafora di giustizia. L’unione parziale di queste due rappresentazioni venne interpretata da Giotto in un pannello del Polittico di Bologna (1335), dove San Michele si mostra frontalmente con un roseo abito sacerdotale e rosse ali spiegate, insieme agli attributi della lancia e del globo (fig.8-9). Sebbene alcuni esempi del San Michele in tunica secondo una tradizione diffusa soprattutto in ambito orientale, l’iconografia dell’arcangelo che si andò affermando fu quella in abiti bellici, spaziando da scintillanti armature corazzate alle più varie e fantasiose soluzioni. In prevalenza l’abbigliamento marziale dell’arcangelo verte spesso sui modelli del mondo antico, a cui anche Bernardo Daddi si ispirò.  In tal senso sono lampanti le corrispondenze tra l’opera crespinese e gli affreschi di Buonamico Buffalmacco (1262 c.-1340) nel Camposanto pisano, eseguiti fra il 1336 e 1341, dove fra le schiere celesti compare anche il San Michele insieme ad altri arcangeli, tutti in abiti marziali interpretati “alla romana” (fig.10-11).

Al contrario di come si potrebbe pensare le vicende della tavola attribuita a Daddi si intrecciano con la storia di Crespina solo nel 1801, quando venne acquistata per la comunità dall’abate pisano Ranieri Tempesti (1747-1819), teologo-intellettuale molto apprezzato nell’entourage altolocato, fratello del pittore Giovan Battista Tempesti (1729-1804). Guadagnandosi la stima della famiglia Del Testa Del Tignoso, Ranieri si trasferì a Crespina come cappellano privato degli stessi signori, interessandosi in prima persona ai lavori di restauro della villa padronale, detta “della Carretta” o “Belvedere” (fig.12). Il rifacimento del complesso, avvenuto nella seconda metà del Settecento e che comprese anche la costruzione del kaffeehaus, dell’oratorio e altri vari fabbricati, fu portato avanti dalla direzione dell’architetto Mattia Tarocchi, mentre la parte decorativa figurale venne affidata a Giovan Battista Tempesti, artista già noto nel pisano, formatosi a Roma nella cerchia di Pompeo Batoni (1708-1787).  Il magnifico complesso divenne una residenza-gioiello fra le più rinomate delle colline pisane, emblema dell’eleganza settecentesca, ed ancora oggi un vanto per il paese.

Fig. 12 - Oratorio e Villa del Belvedere, Crespina.

Ritornando al personaggio alquanto curioso di Ranieri Tempesti, le cronache locali raccontano di uno scambio rocambolesco avvenuto fra lo stesso reverendo e il rettore della chiesa di Marciana che, non immaginando il valore della tavola, barattò il San Michele in cambio di una pianeta di broccato (un abito liturgico). L’icona medievale, al tempo creduta dell’Orcagna, venne così acquisita appositamente dal Tempesti per donarla alla comunità di Crespina in modo da ovviare alla mancanza degli antichi arredi del culto micaelico, andati persi nei secoli, e creare quindi un filo diretto con il passato.

Tra le attività di cui si occupò Ranieri Tempesti a Crespina ci fu anche il restauro della chiesa vecchia di San Michele, iniziato nel 1797 e concluso nel 1801 grazie alle generose donazioni del popolo. L’equipe familiare composta da Giovanni Battista Tempesti, il figlio Carlo, e lo stesso Ranieri (anche lui amante della pittura) concorsero alla decorazione dell’ambiente interno, affrescato interamente con quadrature architettoniche e brani figurativi (fig13). Tra le decorazioni settecentesche spicca per qualità esecutiva il San Michele Arcangelo (1797-98), opera di Giovanni Battista che interpreta il santo guerriero come un leggiadro fanciullo in volo con bianche ali minute e la consueta veste marziale molto particolareggiata (fig.14-15). La drammaticità delle immagini medievali spesso grevi e talvolta bizzarre qui svanisce lasciando il posto ai vezzi settecenteschi improntati su un edulcorato classicismo unito alle delicatezze rococò. Il richiamo diretto all’antichità ricorre nelle due statue monocrome di San Giovanni Battista e Santo Stefano che fanno da quinta alla scena, e nel tempietto circolare entro cui è sospeso il Santo; l’evocazione dell’arte classica emerge inoltre nella stessa ideazione iconografica di Michele, che spesso venne assimilato figurativamente al dio Mercurio per alcune evidenti analogie che accomunano il messaggero degli dei con l’arcangelo, in una ricorrente contaminazione fra sacro e profano. Un parallelo con l’affresco di Crespina si riscontra nel San Pietro liberato dall’angelo, opera dello stesso Tempesti datata un decennio prima (1786 circa) e conservata nella galleria di Palazzo Blu a Pisa (fig.16-17). Qui è la creatura angelica a ricoprire il ruolo di vero protagonista, irrompendo nel carcere in un alone di luce abbagliante che investe San Pietro e parte dell’ambiente circostante.  La deflagrante apparizione dell’angelo, modulato sulle tinte tenere del rosa, contrasta decisamente con il cupo fondale della tela, restituendo una sorprendente dicotomia. Rispetto all’opera pisana il San Michele di Crespina mantiene i tipici tratti “leziosetti” del volto alla maniera del Tempesti, mentre un’ombreggiatura più densa e marcata modella il corpo dell’arcangelo in volo: colpisce inoltre la ricercatezza e la vivacità della sua veste marziale, diversificata nelle varie componenti da un tripudio di colori, quali la lorica violacea, il gonnellino verde con le frange rosse e lo svolazzante drappo giallo.

Fig. 13 - Interno della Chiesa “vecchia”, Crespina.

Facendo un balzo in avanti nel XX secolo, non si spegne col tempo il sentimento devozionale di Crespina rivolto al culto di San Michele, quando tra il 1950-1954 vengono commissionati all’artista milanese, Antonio Domenico Gajoni (1889-1966), gli affreschi per gli interni della chiesa “nuova”. Gajoni, formatosi a Parigi e già collaboratore di Gino Severini (1883-1966), nel soffitto dell’edificio celebra ancora una volta la gloria del santo patrono nel drammatico momento della sconfitta degli angeli ribelli, incorniciato da un algido colonnato prospettico che contribuisce ad accrescere la solennità della scena e contrasta drammaticamente con i bagliori del cielo e il fuoco infernale dove i demoni sono confinati (fig.18). Qui l’artista adotta uno stile classicheggiante suggestionato dal trionfalismo della pittura barocca, unita ai modelli figurativi del San Michele dipinti da Guido Reni (1575-1642) e Luca Giordano (1634-1705), ancora oggi fra i più noti nell’immaginario comune (fig.19-20).

 

Bibliografia

Pepi, Crespina nella pittura dell’800, Pisa 1986.

Don Piero d’Ulivo, Crespina e il suo San Michele, Livorno 1989.

Ducci, Da una tavola dipinta con San Michele arcangelo riflessi e riflessioni, in Tesori medievali nel territorio di San Miniato, Ospedaletto 1998.

Camarlinghi, La fiera delle civette, in Crespina e il suo territorio, a cura di M. Camarlinghi, 1999 Pontedera, pp. 143-152.

Pepi, Crespina e la pittura, in Crespina e il suo territorio, a cura di M. Camarlinghi, 1999 Pontedera, pp. 41-46.

Simoncini, Strapaese, in Crespina e il suo territorio, a cura di M. Camarlinghi, 1999 Pontedera, pp. 115-142.

F. Pepi, Itinerario alla scoperta del territorio di Crespina-Sulle orme di Giovanni Mariti, pubblicazione a cura del Comune di Crespina e l’Associazione Culturale Fuori dal Museo, 2012.

Renzoni, Relatore Prof. A. Tosi, Il pittore e la città. Tempesti e le prime grandi commissioni, in Giovanni Battista Tempesti pittore pisano del Settecento, Tesi di dottorato di ricerca, Università di Pisa, anno accademico 2012, pp. 229-264.

Renzoni, Relatore Prof. A. Tosi, Scheda n.195 - S. Michele Arcangelo, S. Giovanni Battista, S. Stefano, in Giovanni Battista Tempesti pittore pisano del Settecento, in Giovanni Battista Tempesti pittore pisano del Settecento, Tesi di dottorato di ricerca, Università di Pisa, anno accademico 2012, pp. 240-241.

 

Sitografia

Renzoni, TEMPESTI, Giovanni Battista in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019). https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-tempesti_%28Dizionario-Biografico%29/

Menichetti, Crespina espone i suoi orgogli agresti Silvestro Lega invita i macchiaioli in villa, Il Tirreno (Livorno), Archivio, 09/03/1998. https://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/1998/03/09/LN104.html

Festa delle civette

https://www.terredipisa.it/events/antica-fiera-delle-civette-crespina-lorenzana/


FUORI. LA QUADRIENNALE D'ARTE DI ROMA

A cura di Maria Anna Chiatti

L’arte è la forma più alta di speranza

Gerhard Richter

Introduzione: la 17ª edizione della Quadriennale d'arte di Roma

La Quadriennale d'arte di Roma, dal titolo: FUORI, si tiene al Palazzo delle Esposizioni ed è aperta al pubblico dal 30 ottobre 2020 al 17 gennaio 2021.

FUORI moda, FUORI tempo, FUORI scala, FUORI gioco, FUORI tutto, FUORI luogo. Come le persone e come l’arte: FUORI dalle categorie e dalle categorizzazioni. La rassegna è un invito a cambiare punto di vista, ad uscire dagli schemi per vedere l’arte dentro e FUORI di (e da) sé.

La mostra è stata curata da Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol (fig. 1), e organizzata dalla Fondazione La Quadriennale di Roma, e da Azienda Speciale Palaexpo. Il principale partner istituzionale è il MiBACT, che attraverso la Direzione Generale Creatività Contemporanea ha concesso un importante contributo specifico, corrispondente a circa il 55% del budget totale, facendosi anche promotore del progetto speciale Premio AccadeMibact. La restante parte dei fondi è stata fornita da sponsor privati, contributori e altri partner, secondo una modalità di collaborazione tra pubblico e privato avviata con successo nelle precedenti edizioni.

Fig. 1 - Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol. Foto di Alessandro Cantarini.

Gli artisti presenti alla manifestazione

La Quadriennale d'arte di Roma è probabilmente il più importante evento di arte contemporanea cui si potrà partecipare in questa stagione dal clima sociale così singolare, una manifestazione significativa e innovativa sotto il profilo artistico, ma anche un forte segnale di cui il mondo della cultura necessita ora più che mai. L’intero edificio del Palazzo delle Esposizioni di Roma (4.000 metri quadri) è dedicato alla rassegna come tributo per rilanciare la ricerca artistica italiana e internazionale.

Gli artisti selezionati sono 43, ognuno rappresentato da più opere, nell’intento di delineare un percorso alternativo per leggere l’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi: Alessandro Agudio, Micol Assaël, Irma Blank, Monica Bonvicini, Benni Bosetto, Sylvano Bussotti, Chiara Camoni, Lisetta Carmi, Guglielmo Castelli, Giuseppe Chiari, Isabella Costabile, Giulia Crispiani, Cuoghi Corsello, DAAR - Alessandro Petti - Sandi Hilal, Tomaso De Luca, Caterina De Nicola, Bruna Esposito, Simone Forti, Anna Franceschini, Giuseppe Gabellone, Francesco Gennari, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Diego Gualandris, Petrit Halilaj and Alvaro Urbano, Norma Jeane, Luisa Lambri, Lorenza Longhi, Diego Marcon, Raffaela Naldi Rossano, Valerio Nicolai, Alessandro Pessoli, Amedeo Polazzo, Cloti Ricciardi, Michele Rizzo, Cinzia Ruggeri, Salvo, Lydia Silvestri, Romeo Castellucci - Socìetas, Davide Stucchi, TOMBOYS DON’T CRY, Maurizio Vetrugno, Nanda Vigo, Zapruder Filmmakersgroup.

Un totale di 300 opere esposte in 35 sale, con molte produzioni site specific; questi numeri hanno creato la necessità di ideare un percorso espositivo che fosse all'altezza del concept progettuale, per consentire una lettura efficace nonché una certa godibilità dell’esperienza di fruizione. La persona da ringraziare per questo è l’architetto Alessandro Bava, che ha saputo dare vita ad un allestimento innovativo, finalmente accompagnato da una illuminazione bella e funzionale.

Fig. 2 - Sala 17. Giuseppe Chiari, Statement.

All’interno della mostra le opere esposte si declinano in una grande varietà di media e tecniche, dalla pittura su tela alle installazioni neon, ai video, alle sculture multimateriche; si trovano così connessi (a volte anche in dialogo) tra loro, artisti emergenti e mid-career con “le sperimentazioni di pionieri che non sempre hanno trovato posto nella narrazione canonica dell’arte italiana”, per citare la curatrice Sarah Cosulich. FUORI affascina non solo per l’intergenerazionalità, ma anche per la multidisciplinarietà, che si esplicita con opere ispirate alla danza, alla lirica e al teatro, all’architettura e al design. L’espressione di desideri e ossessioni; l’esplorazione dell’indicibile e dell’incommensurabile; l’indagine delle tensioni tra arte e potere sono campi di riflessione, così come pure la presenza fondamentale della figura femminile (e femminista). Esplicito anche il richiamo a FUORI!, la prima associazione per i diritti degli omosessuali, formatasi agli inizi degli anni Settanta.

Qualche esempio.

Cinzia Ruggeri, nella Sala 1, sa rileggere la cultura del fashion made in Italy con una sagacia (soprattutto in Abito Ziggurat, fig. 3) per niente scontata.

Nanda Vigo espone (al neon) una serie di opere che offrono un’alternativa al quotidiano spazio-tempo, con specchi che rimandano un’immagine diversa e impensata (fig. 4). A Monica Bonvicini è dedicata una sala che per poco è ancora reale, ispirata alla Turandot di Puccini: presenta una installazione sonora, una serie di spartiti dell’opera che riportano slogan femministi, due sculture che sono una vera poesia di autoaffermazione femminile (fig. 5).

Fig. 5 - Sala 9. Monica Bonvicini, 3rd Act/ Never Die for Love (2019).

Chiude la prima parte del percorso Lisetta Carmi, con la serie di fotografie Il Parto (1968). Nient’altro che la verità, nuda e cruda, dell’infinito circuito generazionale (figg. 6 e 7).

La Sala 13 è una metamostra (una mostra oltre la mostra). Il collettivo TOMBOYS DON’T CRY espone una serie di opere che riflette sulle trasformazioni dei corpi, e in particolare sul tema della lacrima; mentre la Sala 14 è il bellissimo risultato del fondersi delle opere di Chiara Camoni, Raffaela Naldi Rossano e Diego Gualandris (figg. 8 e 9).

La Quadriennale d'arte continua con i fiori esposti sullo scalone che conduce al secondo piano, e che sono il racconto della storia d’amore dei due artisti Petrit Halilaj e Alvaro Urbano: un progetto che esprime con la delicatezza di un bouquet un modo di essere famiglia che è universale e universalmente comprensibile (figg. 10 e 11)

Il secondo piano offre due progetti interessanti, seppure per motivi diversi: Giuseppe Gabellone nella Sala 22 rompe la realtà con due non-finestre dallo straordinario impatto visivo (fig. 12). Si aprono su ricordanze di antiche civiltà, con decorazioni a motivi fitomorfi e architettonici creati attraverso un lungo processo di lavorazione delle superfici. Nella sala successiva i DAAR (Sandi Hilal e Alessandro Petti) propongono la creazione di un Ente di decolonizzazione, che si mette di traverso rispetto alla nomina a Patrimonio UNESCO di Asmara per le costruzioni razionaliste di epoca fascista. Il progetto pone anche una serie di domande riguardanti lo stesso argomento, ma riferite a otto borghi siciliani, oggi abbandonati, costruiti dall’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano (figg. 13 e 14). Una riflessione estremamente interessante.

Fig. 12 - Sala 22. Giuseppe Gabellone.
Fig. 15 - Sala 26. Luisa Lambri, Untitled.

 

Luisa Lambri propone in mostra una serie di Untitled, fotografie in cui l’artista indaga i tagli di Lucio Fontana e le aperture dell’architettura di Marcel Breuer con una attenzione particolare alla luce e alle superfici delle opere stesse, creando uno spazio calmo dove immergersi (fig. 15).

L’ultima sezione della Quadriennale d'arte, di nuovo al primo piano, ospita Valerio Nicolai e il suo Capitan Fragolone (fig. 16), una grande fragola di cartapesta che, del tutto inaspettatamente, accoglie un performer: spiando dai fori praticati sulla superficie della fragola si può osservare infatti la performance di un pirata nella propria nave, come in una matrioska.

Fig. 16 - Sala 32. Valerio Nicolai, Capitan Fragolone (2020).

La Quadriennale d’arte di Roma 2020 è il risultato di tre anni di lavoro, di programmazione, di un percorso in cui i workshop itineranti di Q-Rated per giovani artisti e curatori e il fondo Q-International per rafforzare la presenza dell’arte italiana nelle istituzioni all’estero hanno rappresentato una fondamentale risorsa per la ricerca, rispondendo alla missione dell’istituzione di mappare la situazione artistica in Italia.

Come principale evento collaterale di FUORI è visitabile nella Sala fontana di Palazzo delle Esposizioni la mostra Domani Qui Oggi, curata da Ilaria Gianni. Questa esposizione presenta i lavori di dieci giovani artisti (tutti under 28) selezionati nell’ambito del concorso per il Premio AccadeMibact, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT in collaborazione con Fondazione Quadriennale di Roma.

FUORI è accompagnata da un corposo catalogo bilingue (italiano-inglese, 680 pp.), edito da Treccani. Contiene saggi dei curatori, schede sugli artisti e sulle opere in mostra, approfondimenti sulle attività di Q-Rated e Q-International; una sezione separata ospita i testi critici di altri autori, che fanno luce su nuove metodologie di ricerca nel campo dell’arte contemporanea.

Per quanto concerne la piacevolezza della visita, gli spazi ampi concedono di godere della mostra in totale sicurezza (certamente con l’uso di dispositivi di protezione individuale); il percorso espositivo, seppur lineare e di facile intuizione, risulta ricco e stimolante. L’apparato di comunicazione del museo è del tutto adeguato, con didascalie anagrafiche e brani di approfondimento in ogni sala. Anche per questo, FUORI si pone come necessità di uscire dalle restrizioni fisiche e mentali che abbiamo vissuto tutti in questo complesso anno 2020.

 

FUORI

La Quadriennale di Roma 2020

a cura di Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol

Roma, Palazzo delle Esposizioni

30 ottobre 2020 - 17 gennaio 2021

Via Nazionale 194, 00184 Roma

Informazioni utili

Orari

Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e domenica 11 - 20

Sabato 11 - 22

Chiusure

Chiuso il lunedì

Tariffe

Il biglietto di ingresso alla mostra è gratuito.

Prenotazione obbligatoria su www.quadriennale2020.com

Ingressi consentiti fino a un’ora prima della chiusura.

Costo del catalogo: 35 euro.

Contatti

Tel. +39 06 696271

[email protected]

Ufficio Stampa (Maria Bonmassar)

[email protected]

+ 39 06 4825370

+ 39 335 490311