SANTA CATERINA D'ALESSANDRIA A GALATINA

A cura di Giovanni d'Introno

CENNI STORICI

La Basilica di Santa Caterina d'Alessandria a Galatina, piccolo comune in provincia di Lecce, può essere considerata la “Cappella Sistina del Salento” per i suoi affreschi del XV secolo.

La realizzazione dell'edificio sacro risale alla fine del XIV secolo grazie alla volontà di Raimondello Orsini del Balzo, figlio cadetto di Niccolò Orsini, duca di Nola, che acquisì il titolo di principe di Taranto [0], sua città natia, combattendo al fianco dei Cavalieri Teutonici in Prussia; nel 1385 sposò Maria d'Enghein, contessa di Lecce, ed ebbe un figlio, Giovanni Antonio Orsini del Balzo.

La chiesa fu consacrata a Santa Caterina d’Alessandria, santa orientale salvata dal supplizio della ruota, per via dell'estrema devozione ad essa di Raimondello, il quale si recò nel monastero dedicato alla santa sul monte Sinai al termine delle sue spedizioni in Terra Santa, e, secondo la leggenda, strappò con un morso un dito della mano della santa e lo portò con sé nel Salento; tale reliquia ancora oggi è custodita nella chiesa e venerata dai fedeli.

Grazie ad una serie di documenti è possibile ricostruire le vicende che segnarono la nascita e l'evoluzione di questo grandioso edificio: come terminus ante quem possediamo la bolla del 25 marzo 1385, inviata da papa Urbano VI, con la quale il pontefice dimostrava il suo assenso alla continuazione dei lavori della nuova chiesa di rito latino in un territorio legato al culto greco-bizantino, affinché in esso confluisse la fede cattolica e si rispondesse alle esigenze di coloro che riconoscevano l'autorità papale. Inoltre, con un'altra bolla, il pontefice suggeriva che fossero i francescani conventuali a guidare le anime dei fedeli, perciò ne seguì l'edificazione di un monastero, necessario ad ospitare i cenobiti, e di un ospedale adibito alle cure dei malati indigenti. I riformatori della regola di San Francesco furono però soppiantati dai francescani osservanti della Vicaria di Bosnia su richiesta di papa Bonifacio IX con la bolla del 30 agosto 1391, anno in cui potevano dirsi completati i lavori di costruzione dei vari fabbricati. Fu lo stesso Bonifacio IX qualche anno dopo a porre alla dipendenza della Sede Apostolica il complesso di Santa Caterina il 26 aprile del 1403, lasciando il diritto di patronato ai mecenati del monumentale edificio. Infine, nel 1494, i monaci olivetani di Pienza ricevettero la gestione dell'edificio.

ESTERNO

La facciata (fig.1) presenta un disegno tricuspidato ed è dotata di tre portali: quello maggiore si trova in corrispondenza della navata centrale, i portali laterali invece collimano con gli ambulatori che separano le navate minori da quella centrale. L'archivolto e gli stipiti dei portali sono in pietra leccese e sono decorati con elementi zoomorfi e vegetali: ciascun portale laterale è sormontato da un oculo, mentre il portale centrale è fornito di protiro (fig.2) composto da due leoni stilofori su cui si ergono due colonnine corredate di pulvino, su cui poggiano due grifi, e al vertice del protiro è scolpita l'immagine di Cristo in pietà (fig.3); sull'architrave è  impressa l'immagine di Cristo in trono con i suoi dodici apostoli (fig.4). Sull'epistilio del portale di destra è incisa un'iscrizione di greco purtroppo indecifrabile, mentre su quello di sinistra è riportata la data che segnò la fine dei lavori, 1391.

Al di sopra della cornice marcapiano vi è il grande rosone, anch'esso con ornati in pietra leccese, con dodici raggi, nel cui disco centrale in vetro colorato compaiono gli stemmi degli Angiò e degli Enghien-Brienne, la casata della moglie di Raimondello. Al vertice della cuspide centrale svetta la croce, mentre ai lati sono collocati due acroteri raffiguranti San Paolo e San Francesco.

I contorni delle cuspidi sono rifiniti con una serie di archetti pensili trilobati.

INTERNO

Di pianta basilicale, l'edificio sacro è diviso in tre navate, tutte e tre terminanti con un’abside ed intervallate da due ambulatori con arcate a sesto acuto (fig.5), al di sopra delle quali corre il claristorio: la navata centrale (fig.6) è composta da tre campate, ciascuna sovrastata da volte a crociera costolonate: i costoloni partono da pilastri polistili addossati alle pareti dei corridoi che separano le tre navate; su sette semicolonne, soltanto tre sono dotate di capitelli, ciascuno finemente decorato con motivi zoomorfi, come uccelli e leoni, distribuiti tra elementi fitomorfi, come viticci e foglie ricurve, ma compaiono anche volti umani. Il presbiterio è sopraelevato rispetto al piano di calpestio della chiesa e presenta quattro pilastri, di cui due sorreggono l'arco trionfale e due invece sono la base di un arco a sesto acuto che separa la zona presbiteriale dal coro. Quest'ultimo fu aggiunto alla struttura dal figlio di Raimondello nel 1460. È un'area ottagonale, nei cui angoli sono stati inseriti pilastri a fascio, sia all'interno sia all'esterno, composti da tre semicolonne che inquadrano cinque finestroni strombati da cui penetra la luce. Anche in questo caso la volta è a crociera con costoloni che scaricano il loro peso sui pilastri prima citati.

All'interno di questo spazio, oltre al monumento sepolcrale di Raimondello (fig.7), vi è il maestoso cenotafio di Giovanni Antonio Orsini Del Balzo (fig.8), di gusto prettamente gotico, composto dalle seguenti parti: quella inferiore è formata da quattro leoni stilofori su ciascuno dei quali si innesta una colonna ottagonale il cui capitello presenta elementi vegetali; sulle quattro colonne è adagiata la scultura raffigurante il committente in abiti francescani, con due angeli che reggono a destra e sinistra le cortine della camera funeraria, sulla quale è collocato un baldacchino. Sono abbastanza chiari i richiami ai grandi monumenti sepolcrali antecedenti a questo, come quello realizzato da Arnolfo di Cambio per il cardinale Guglielmo De Braye a Orvieto nel XIII secolo o quelli realizzati da Tino da Camaino per Riccardo Petroni a Siena e per Caterina d'Austria a Napoli nel XIV secolo.

GLI AFFRESCHI

Maria d'Enghien, dopo la morte del marito Raimondello Orsini Del Balzo, avvenuta nel 1406, andò in sposa al sovrano Ladislao I di Napoli, della casata d'Angiò-Durazzo. Fu proprio in qualità di regina che commissionò la realizzazione dei magnifici cicli pittorici che ricoprono quasi tutte le pareti e le volte dell'edificio ecclesiastico, opere di cui si dirà diffusamente nel prossimo articolo.

 

Note:

(0) Il titolo completo era principe di Taranto, duca di Bari e Benevento, conte di Soleto e Lecce, gonfaloniere della chiesa dal 1381 sotto papa Urbano VI.

Bibliografia

Montinari e A, Antonaci, “Storia di Galatina”, Editrice Salentina, Galatina, 1972

Teodoro Presta, “La Basilica Orsiniana Santa Caterina in Galatina”, Stringa Editore, Avegno, 1984

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/orsini-del-balzo-raimondo_(Dizionario-Biografico)/

https://www.basilicaorsiniana.it/la-storia/

https://www.comune.galatina.le.it/vivere-il-comune/territorio/da-visitare/item/basilica-di-santa-caterina-di-alessandria-sec-xiv

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IL PARCO DELLE MURA A GENOVA

A cura di Irene Scovero

I FORTI DELLA CINTA SEICENTESCA

La bellezza di Genova consiste anche nell’estrema varietà del paesaggio all’interno del suo territorio: racchiusa tra il mare e i monti, infatti, presenta un complesso di fortificazioni sull’arco collinare che è un patrimonio storico architettonico, soggetto da anni al rilancio e alla valorizzazione. Il Parco delle Mura, con i suoi 19 km di cinta muraria, è il più lungo d’Europa e deve il suo nome alle Mura Nuove, erette nel Seicento a difesa della città e del porto. Oltre alle mura seicentesche il Parco comprende forti militari costruiti tra il Seicento e l’Ottocento e tutela specie rare di esemplari di flora e fauna paesaggistica. Nel corso del tempo i forti hanno avuto più funzioni: nei secoli furono caserma, prigione, ospedale e luogo dove avvenivano le esecuzioni, mentre nella storia più recente molti sono stati teatro di battaglie e di episodi della Resistenza.  È sicuramente la conformazione orografica del territorio che ha permesso la realizzazione delle grandi mura che salivano dalla Lanterna e avevano il suo vertice nel Forte Sperone sul monte Peralto e ridiscendeva costeggiando la vallata del Bisagno per concludersi vicino all’attuale Foce. La cinta muraria che segue i crinali delle alture di Genova copre un dislivello di oltre 500 metri e oggi la via dei forti è diventata un’attrazione per escursionisti e appassionati di storia.

 

Le Nuove Mura - 1626

La cinta seicentesca è l’ultima e la più ampia opera fortificata che abbraccia il centro città e le Vecchie Mura.[1] Il suo tracciato si riferisce ad un serie di opere provvisorie iniziate nel 1625 per difendere la città dall’avanzata dell’esercito piemontese oltre Appennino. La cinta muraria del Cinquecento era diventata inadeguata per difendere la città, in quanto seguiva fedelmente il perimetro della città permettendo al nemico di minacciare seriamente il centro abitato. Per questo il 7 dicembre 1626 venne posta la prima pietra ufficiale di quest’opera architettonica, alla cui cerimonia partecipò tutta Genova. Nel 1633 il complesso murario fu concluso grazie alla soprintendenza ai lavori di Bartolomeo Bianco, Ansaldo de Mari e Giovanni Balliani e al coordinamento del Magistrato delle Nuove Mura, organo d’ufficio creato appositamente per questi lavori. Lungo le mura difensive, nel corso del Settecento-Ottocento, furono realizzate poi molte opere militari difensive, bastioni e forti integrati nella struttura muraria.

Tale sistema fortificato, di proprietà del demanio, si basa su un insieme di sedici forti principali e ottantacinque bastioni. I forti di Genova vennero abbandonati nel XIX secolo: parzialmente restaurati e recuperati a inizio Novecento, vennero utilizzati prevalentemente come punto di appoggio per le manovre militari durante la prima e seconda guerra mondiale.

Intorno al sistema di fortificazioni, negli ultimi anni, è sorto il Parco delle Mura, quasi 900 ettari di terreno che vede la presenza di esemplari rari della fauna e flora della macchia mediterranea. I forti sono raggiungibili in macchina o con la ferrovia Genova-Casella, linea ferrata inaugurata nel 1929 e lunga oltre 24 chilometri che corre nella Val Bisagno e raggiunge la Valle Scrivia. In alternativa, dal centro città si può raggiungere il Righi, altura alle spalle della circonvallazione a monte di Genova, per mezzo della funicolare che parte da piazza della Zecca. Realizzata alla fine dell’Ottocento, copre circa 280 metri di dislivello su un tragitto di poco meno di un chilometro e mezzo, per metà in galleria.

Fortificazioni di potenziamento alle mura del Seicento

Salendo dalle alture del Righi si incontrano in ordine il Forte Castellaccio, che ingloba Torre Specola e Forte Sperone che rappresenta il vertice nord delle antiche mura, e il limite cittadino. Scendendo da Forte Sperone si incontrano i Forti Begato, Tenaglia e Crocetta che chiudono anch’essi a monte l’anfiteatro naturale che fa da corona a Genova.

Forte Castellaccio e Torre Specula

Dopo aver superato il Righi e le Mura delle Chiappe si entra in un’area che le cronache descrivono già fortificata nel Medioevo per proteggere la città dai Guelfi. Nel 1530 il forte fu completamente ristrutturato per iniziativa di Andrea Doria e nel 1630, con il termine della costruzione delle Mura Nuova, il Castellaccio (fig.1) è completamente ristrutturato. Il Genio Sardo approntò una prima caserma nel 1818-1827 e costruì la Torre Specula all’interno delle mura del Forte Castellaccio. Per tutto l’Ottocento la Torre venne utilizzata come prigione per i detenuti più pericolosi. Attualmente il Forte è in uso dall’Istituto Idrografico della Marina Militare. Il complesso, nelle sue mura perimetrali, largo quasi quattrocento metri, si conclude a nord nel sottopasso della strada militare addossata all’ osteria Du Richetto presente dal 1890 (fig.2).

Forte Sperone e Forte Begato

La locazione del Forte Sperone (fig.3-4-5-6-7) coincide con la punta più settentrionale delle Nuove Mura, sulla vetta del Peralto. Si ha notizia di un bastione già all’inizio del XIV secolo: la costruzione della struttura attuale venne iniziata dalla Repubblica di Genova, e dopo l’assedio austriaco venne proseguita dai Francesi prima e dai Piemontesi poi intorno al 1830. Durante la seconda guerra mondiale venne utilizzato come carcere e reimpiegato dalla Guardia di Finanza tra il 1958-81. Dagli anni ’90, insieme al forte Begato, è stato riutilizzato grazie a una serie di manifestazioni teatrali e spettacoli estivi, anche se attualmente è inaccessibile. Forte Begato (fig.8-9), ultimato nel 1830 dal Genio Sardo, più a ponente, si trova a un’altitudine lievemente inferiore e sovrasta il quartiere di Rivarolo. Dallo Sperone si possono raggiungere, a nord, i forti isolati Puin, Fratello Minore e Diamante, da cui si gode una vista mozzafiato.

Fig. 3

Forte Tenaglia e Crocetta

La costruzione del Forte Tenaglia (fig.10), sempre all’interno del Parco delle Mura, è localizzata su un promontorio naturale a 217 mt s.l.m che fronteggia la Val Polcevera e deve il suo nome alla particolare forma architettonica che ricorda una tenaglia. La costruzione, che comprendeva due torri e un recinto di mura rettangolari, fu completamente spianata in occasione della costruzione delle Mura Nuove. Durante la seconda guerra mondiale fu utilizzata come batteria antiaerea e nell’aprile del 1945 fu l’ultima piazzaforte a essere abbandonata dai Tedeschi. Oggi vi ha sede la cooperativa La Piuma che in particolari occasioni la apre al pubblico. Dal forte Tenaglia si scende verso il Crocetta (fig.11-12), edificato dal Genio Sardo fra il 1818-1830, previa demolizione di un preesistente convento degli Agostiniani. Localizzato a 160 metri sul livello del mare, sullo stesso crinale del forte Tenaglia, l’edificio oggi è in uno stato di completo abbandono.

Oltre alle fortificazioni presenti sulle mura seicentesche, bisogna tener conto di tutti gli altri complessi architettonici entro e fuori il Parco delle Mura che aiutano a comprendere la storia della città, e che oggi sono scenario di suggestive visite ed escursioni che valorizzano il paesaggio e le architetture fortificate della città.

 

 

Note

[1] Già in epoca romana Genova possedeva una cinta muraria realizzata a scopo difensivo. Questa fu ampliata nei secoli successivi e famosa rimane la terza cinta chiamata mura del Barbarossa 1155-59, costruita velocemente per paura di un assedio da parte dell’esercito imperiale. In ogni caso l’accrescimento di mura difensive si ebbe ogni cento-duecento anni fino alla costruzione della settima cinta definita delle Mura Nuove risalente al Seicento.

 

Bibliografia

Jacopo Baccani, Genova dei forti, Genova, 2015

Paolo Stringa, Forti di Genova, da Forte Puin a Forte Diamante, Genova,1976

Paolo Stringa, Forti di Genova, da forte Quezzi a Forte San Giuliano, Genova,1976

Paolo Stringa, Forti di Genova, dalla torre della Spucola a forte Belvedere, Genova,1976

 

Sitografia

www.museidigenova.it

www.visitgenoa.it

www.guidadigenova.it

http://studinapoleonici.altervista.org/genova-e-le-sue-difese/

http://www.liguriaforyou.com/fortificazioni-la-grande-muraglia-genova/

www.lapiumaonlus.org


PALAZZO BARBERINI A ROMA

A cura di Maria Anna Chiatti

Palazzo Barberini: il casato, il progetto e la fabbrica

La storia dell’intera famiglia Barberini sarebbe, come facilmente si intuisce, troppo lunga e perigliosa da affrontare in una trattazione come questa, quindi ci si limiterà a delineare soltanto le vicissitudini di alcuni personaggi, in particolare di Maffeo Barberini, ben più noto con il nome di papa Urbano VIII. Il prestigio che prima il cardinalato e poi la tiara valsero all’intero casato, sta alla base delle motivazioni che portarono alla costruzione di uno dei palazzi più belli di Roma, nel XVII secolo così come oggi.

Fig. 1 - Pietro da Cortona, Ritratto di Urbano VIII, 1624 – 1627 ca. Credit: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?cu

Il casato e lo stemma

Maffeo Virginio Romolo Barberini (1568 – 1644, fig. 1), quinto dei sei figli di Antonio Barberini (M. 1571) e di Camilla Barbadori (M. 1609), nacque il 5 aprile 1568 a Firenze, dove sette anni prima si erano trasferiti i suoi avi, commercianti di tessuti, oriundi di Barberino di Val d’Elsa; da questo luogo proviene anche il cognome della famiglia, che ab origine era Tafani.

Alla prematura scomparsa del padre l’educazione dei figli fu affidata a Camilla sotto la tutela del cognato Francesco Barberini (1528 - 1600), il primo laureato, sacerdote e prelato della famiglia, allora protonotario apostolico presso la Curia romana.

Maffeo svolse studi umanistici presso il Collegio fiorentino dei gesuiti e nel 1584 si trasferì a Roma su invito dello zio per frequentare il Collegio romano e perfezionare gli studi; due anni più tardi si recò all’Università di Pisa, dove si laureò il 7 aprile 1588 in utroque iure [1]. Dopo il ritorno a Roma si occupò soprattutto dell’amministrazione dei beni e degli affari dello zio impegnato nel mercato di compravendita degli uffici vacabili: Francesco comprò per il nipote numerosi e costosi uffici, grazie ai quali questi poté fare carriera all’interno della Curia pontificia. Nel 1593 lo zio rinunciò al protonotariato in favore di Maffeo, che qualche anno più tardi riuscì anche ad ottenere la carica di chierico di Camera, un promettente trampolino di lancio per raggiungere il cardinalato.

Il 28 maggio 1600 morì lo zio Francesco, lasciandolo come unico erede fiduciario.

Grazie all’enorme ricchezza ereditata, a Maffeo furono conferiti da Clemente VIII (1536 - 1605) incarichi dispendiosi ma molto prestigiosi: la nunziatura straordinaria ricevuta nel 1601 lo portò alla corte di Parigi, dove instaurò ottimi rapporti con il mondo politico e culturale francese.

La carriera del nostro ebbe poi sviluppi assai rapidi: nel settembre del 1604 fu ordinato sacerdote e ad ottobre era già arcivescovo titolare di Nazareth (seppure questa fosse una nomina sui generis, perché l’arcivescovato di Nazareth era unito a quello di Barletta e ne condivideva le esigue entrate). A novembre fu ufficialmente nominato nunzio ordinario alla corte di Francia, dove rimase per tre anni; l’11 settembre 1606 papa Paolo V (1552 - 1621) promosse Maffeo al cardinalato, e il 14 ottobre a Fontainebleau il re di Francia Enrico IV (1553 - 1610) consegnò il berretto rosso al nuovo cardinale alla presenza della corte reale.

A seguito di questa nomina i tre tafani che avevano finora popolato lo stemma della famiglia vennero sostituiti con altrettante, più nobili, api (Figg. 2-3).

 

Il Cardinal Barberini non prese più residenza nella “Casa Grande” in via dei Giubbonari perché il palazzo risultava troppo piccolo per le sue esigenze: nel 1620 la famiglia contava quarantasei persone, e gli stretti vicoli di accesso non consentivano l’agevole passaggio delle carrozze. Durante i soggiorni romani, perciò, egli usava affittare prima il palazzo Salviati in piazza del Collegio romano, poi il palazzo Madruzzo in Borgo.

Quando il 19 luglio 1623, undici giorni dopo la morte di Gregorio XV (1554 - 1623), iniziò il conclave per la nomina del nuovo pontefice, l’orizzonte si delineava incerto perché dei cinquantacinque cardinali che parteciparono al conclave, almeno quindici erano ritenuti papabili: le tre fazioni in concorrenza, numericamente equivalenti, erano formate dai rapporti di clientela che le legavano alla casa Aldobrandini o Borghese o Ludovisi, piuttosto che da appartenenze politiche filofrancesi o filospagnole. Dopo diciassette giorni di inutili scrutini, mentre il caldo estivo si faceva insopportabile e dilagava fra i conclavisti una febbre infettiva (che dopo qualche tempo ne avrebbe uccisi quaranta), finalmente si raggiunse un compromesso fra le fazioni Borghese e Ludovisi: la mattina del 6 agosto si arrivò all’elezione del Cardinal Barberini con cinquanta voti su cinquantaquattro.

Maffeo assunse il nome di Urbano VIII.

Palazzo Barberini: dal progetto alla fabbrica

L’elezione al soglio pontificio di Maffeo determinò quindi per l’intera famiglia la necessità di avere una residenza romana adeguata al nome di Sua Santità per immagine e dimensioni.

Se in un primo momento si pensò di ampliare la “Casa Grande” in via dei Giubbonari attraverso l’acquisto di edifici attigui, ben presto fu palese la necessità di costruire una dimora che fosse nuova e più rappresentativa rispetto alla casa in cui vivevano Carlo Barberini (1562 - 1630, fratello di Maffeo) e la famiglia dal loro arrivo a Roma all’inizio del secolo.

Quasi tutte le proposte presentate si riferivano alla proprietà sulle pendici del Quirinale che Francesco Barberini (1597-1679, figlio di Carlo) aveva acquistato nel 1625 da Alessandro Sforza, tenendo conto dell’edificio già presente in quel sito: un lungo e stretto corpo di fabbrica a due piani, risultato di parecchi ampliamenti (l’ultimo dei quali molto recente) dell’originario casino di metà Cinquecento.

I primi progetti contemplavano tutti la tipica struttura fiorentino - romana del palazzo con corte centrale, come si può osservare in un codice dell’Archivio Barberini (Barb. Lat. 4360), o nel disegno di Carlo Maderno (1556 - 1629) conservato a Stoccolma, o ancora nella prefigurazione che compare nella pianta di Giovanni Maggi del 1625 [2]. In tutti questi esempi il casino Sforza veniva inglobato nella fabbrica come uno dei lati che circondano la corte centrale quadrata, e la scelta di mantenere la preesistenza prevalse poi anche nel progetto definitivo, avviato nel 1628: un progetto che si discostava sostanzialmente da tutte le proposte precedenti, “imponendosi come un caso di innovazione tipologica tra i più straordinari nella storia dell’architettura italiana” [3].

Il palazzo fu pensato come un volume compatto, ma sviluppato in avancorpi che ne racchiudessero sia la facciata est verso il giardino che, più profondamente, la facciata ovest verso la strada Felice (oggi via delle Quattro Fontane). Questo prospetto occidentale è una bellissima finta loggia a tre piani, e all’epoca della sua costruzione era in dialogo sia con i prospetti sul cortile e sul giardino di palazzo Farnese che con la quattrocentesca loggia delle Benedizioni a San Pietro, demolita nel 1610 [4].

Appropriato a un sito suburbano, l’impianto con avancorpi consentiva un riutilizzo semplice e meno costoso della preesistenza Sforza. Inoltre è possibile che Urbano VIII e Francesco volessero conferire alla dimora di famiglia un aspetto simile ai contemporanei palazzi francesi: anche il “Cardinal nepote” aveva infatti trascorso un periodo in Francia nel 1625, e aveva potuto ammirare edifici come lo château Blérancourt (1612-1618) e il palais du Luxembourg (dal 1615), opere recenti di Salomon de Brosse (1571 - 1626) che presentavano la corte d’onore aperta tra corpi sporgenti.

Con questa struttura Palazzo Barberini avrebbe saputo assolvere una duplice funzione di dimora di rappresentanza e villa di otium.

Fig. 4 - Vista laterale dell’ala nord. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Quando si arrivò alla definizione della pianta, la famiglia si affidò al settantenne Maderno, l’architetto più famoso di Roma, al quale tuttavia furono date precise direttive. Il Maestro va quindi considerato autore delle linee essenziali del progetto, dell’assetto e degli ornati degli spazi conclusi finché egli era in vita, quindi l’ala nord (Fig. 4, le cui fattezze sono replicate nell’ala sud), la facciata est (Fig. 5, quella sul giardino) con il corpo centrale come arco di trionfo, e i primi due livelli della loggia a ovest (Fig. 6).

Consulente dei Barberini, sin dall’inizio dei lavori, fu Gian Lorenzo Bernini (1598 -1680); artista già affermato e pupillo di papa Maffeo, è possibile che sia stato lui a suggerire al collega Francesco Castelli (altresì noto come Borromini, 1599 - 1667) l’iconico tema dell’ovale trasverso sia per la sala verso il giardino che per la scala sud, ancora circolare in un disegno di Borromini [5].

Bernini, al quale fu affidata la direzione dei lavori dopo la morte di Maderno, completò la loggia della facciata ovest con un terzo livello, e si può individuare il suo stile anche nelle finestre a edicola ionica delle campate di collegamento tra loggia e ali, e in alcuni portali e camini delle sale interne; tuttavia in questa nuova fase della fabbrica si manifestò anche, per la prima volta in piena autonomia, il linguaggio decorativo profondamente originale di Francesco Borromini, del quale Bernini, prima di rompere con il collega alla fine del 1632, accettò i disegni per i portali minori del salone centrale e per le finestre quadrate del terzo livello della facciata occidentale (Fig. 7).

Fig. 7 - Veduta della facciata occidentale; in alto a destra la finestra quadrata di Borromini. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

L’accesso al palazzo avveniva sia da piazza Grimana (l’odierna piazza Barberini), percorrendo un viale in salita che portava all’adito nord, oppure si poteva entrare da via Felice direttamente nella corte occidentale. Quest’ultimo è anche l’ingresso odierno, cui si accede mediante la cancellata progettata dall'architetto Francesco Azzurri (1827-1901) nel 1848, realizzata poi nel 1865, con i grandi telamoni scolpiti da Adamo Tadolini (1788–1868, Fig. 8).

 

 

Dal cortile si può godere della bellissima facciata, formata da sette campate che si ripetono su tre livelli di arcate sostenute da colonne che ripropongono i tre stili classici (dal basso dorico, ionico e corinzio, Fig. 9). Tramite le arcate del pianterreno si accede al grande portico, articolato in due file di sette e cinque campate coperte a volta (Fig. 10); qui, al centro, si apre una scala che porta ai giardini, sistemati ad un livello più alto del piano terra. Questo spazio coperto consentiva ai Barberini e ai loro ospiti di accomodarsi nel palazzo scendendo dalle carrozze al riparo dalle intemperie e servendosi dello scalone a pozzo quadrato a nord (il cosiddetto Scalone di Bernini, Fig. 11), o di quello elicoidale a sud, la scala del Borromini (che era riservata ad una circolazione più privata, meno di rappresentanza, Figg. 12 e 13). Le due scale monumentali costituiscono le porzioni mediane degli avancorpi accostati all’edificio centrale, secondo un principio estetico e funzionale; la forma del palazzo risulta quindi essere una “H”, in cui l’avancorpo a nord è costituito dal palazzetto Sforza.

 

 

Gli ambienti erano così distribuiti: l’ala settentrionale accoglieva gli appartamenti estivi e invernali dei membri laici della famiglia, Taddeo (nipote di Maffeo, 1603 - 1647) al pianterreno, la moglie Anna Colonna (1601 - 1658) al piano nobile, la madre Costanza Barberini in un settore del secondo piano; l’ala sud era interamente dedicata al cardinale Francesco, mentre il corpo centrale ospitava il grande salone di rappresentanza con soffitto a doppia altezza, l’anticamera agli appartamenti cardinalizi anch’essa a doppia altezza, e la sala ovale che affaccia sul giardino.

Nel 1633 al terzo piano del palazzo fu allestita la grandiosa biblioteca di Francesco (quarantamila volumi): aveva inglobato quella dello zio Maffeo e divenne famosissima e seconda solo alla Vaticana. Vi si accedeva dalla scala elicoidale, attraverso un’anticamera che ospitava sessanta busti di letterati, mentre nel salone dominava il busto di Urbano VIII scolpito da Bernini (Fig. 14). In altre stanze adiacenti furono esposte collezioni di monete, bronzetti, conchiglie, cristalli e minerali. Completava questa enorme raccolta di meraviglie il sontuoso giardino, perfettamente apprezzabile dalla biblioteca, dove si coltivavano specie rare in accordo con la passione botanica del cardinal Francesco.

Fig. 14 - Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Urbano VIII, 1632 - 1633. Credit:  https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it

I giardini

In una maniera del tutto pertinente al carattere duplice del complesso, a metà tra palazzo di città e villa suburbana, il giardino era in origine un vero e proprio parco: si estendeva dalla strada Pia (oggi via XX Settembre) fino all'odierna salita di san Nicola da Tolentino, ed era concepito come un giardino all'italiana, comprendente anche un giardino segreto, abitato da animali esotici come struzzi e cammelli. Alla fine del XVIII secolo l’assetto del parco cambiò, e per meglio conformarsi al gusto dell’epoca furono introdotti un'area di alberi ad alto fusto da giardino romantico e la cosiddetta casina di sughero, di fronte alla cordonata di collegamento del giardino con il palazzo. Nel 1814 nell'angolo tra la via Felice e la strada Pia fu costruito uno sferodromo [6] aperto al pubblico, che tale rimase fino al 1881, quando il parco di Palazzo Barberini cominciò ad essere progressivamente eroso dalle politiche urbanistiche, prima umbertina e poi fascista: il giardino, grande spazio libero nel cuore di Roma, venne risucchiato nello sviluppo urbanistico della nuova capitale, che vedeva i suoi ministeri allinearsi lungo via XX Settembre. Al parco fu risparmiata la lottizzazione totale che distrusse Villa Ludovisi, ma furono comunque sacrificate le strisce esterne verso la strada Pia, e lungo la rampa delle carrozze fu costruita nel 1875 la grande serra. Nel 1936 alle spalle della casina di sughero fu costruita la palazzina Savorgnan di Brazzà, ad opera di Gustavo Giovannoni (1873 - 1947) e Marcello Piacentini (1881 - 1960), durante i cui scavi di fondazione venne trovato un mitreo di II secolo.

Nei prossimi articoli si vedranno nel dettaglio alcuni aspetti di Palazzo Barberini come le grandi volte affrescate e le scale monumentali, ma anche il programma decorativo rococò dell’appartamento settecentesco di Cornelia Costanza Barberini, ultima erede diretta della famiglia.

 

Note

[1] Letteralmente “nell’uno e nell’altro diritto”: è un’espressione che si usava per definire i laureati in diritto civile e canonico.

[2] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p.140.

[3] Idem, cit. p. 142.

[4] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 142.

[5] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 145.

[6] Impianto sportivo per le varie specialità del gioco del pallone - da non confondersi con il calcio. Nelle nazioni dove si praticano sport sferistici, le definizioni di sferisterio cambiano, ma il significato del termine si riferisce sempre all'impianto dove si disputano partite di giochi sferistici. (Via Wikipedia)

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/08/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alle voci:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Francesco (http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-barberini_(Dizionario-Biografico) ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Carlo (http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-barberini/ ultima consultazione 25/08/20)

Enciclopedia Treccani alla voce Barberini, Famiglia (http://www.treccani.it/enciclopedia/barberini_%28Enciclopedia-Italiana%29/ ultima consultazione 25/08/20)


MOSTRE IN ITALIA REGIONE PER REGIONE

A cura di Mirco Guarnieri

Una panoramica delle mostre in Italia, con le varie iniziative presenti sul territorio nazionale divise per regione.

MOSTRE IN ITALIA: NORD ITALIA

Valle d’Aosta

Wildlife Photographer of The Year. 55esima edizione

Dal 1 Febbraio 2020 - 13 Settembre 2020

Forte di Bard, Bard.

La montagna titanica di Renato Chabod

Dal 29 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Forte di Bard, Bard.

Mostra Impressionismo tedesco, Liebermann, Slevogt, Corinth dal Landesmuseum di Hannover

Dal 11 Luglio 2020 - 25 Ottobre 2020

Museo Archeologico Regionale, Aosta.

Piemonte

Dipingere l’Asia dal vero. Vita e opere di Arnold Henry Savage Landor

Dall’8 Marzo 2020 - 6 Settembre 2020

MAO - Museo d’Arte Orientale, Torino

Sfida al Barocco

Dal 30 Maggio 2020 - 20 Settembre 2020

Reggio di Venaria, Venaria Reale (TO)

 

Novecento in Cortile. Omaggio ai grandi maestri della scultura contemporanea

Dall’8 Luglio 2020 - 11 Ottobre 2020

Museo Arti Decorative Accorsi-Ometto, Torino.

Lombardia

Georges de La Tour. L’Europa della luce

Dal 7 Febbraio 2020 - 27 Settembre 2020

Palazzo Reale, Milano

 

Gauguin, Matisse, Chagall. La passione nell’arte francese dai Musei Vaticani

Dal 21 Febbraio 2020 - 4 Ottobre 2020

Museo Diocesano Carlo Maria Martini, Milano

Royal Dalì

Dal 7 Dicembre 2019 - 7 Dicembre 2021

Villa Reale, Monza

 

Trentino Alto-Adige

L’invenzione del colpevole. Il 'caso' di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia

Dal 3 Giugno 2020 - 15 Settembre 2020

Museo Diocesano Tridentino, Trento

Recensito da Storiarte qui

Le cinque chiavi gotiche e altre meraviglie

Dal 13 Giugno 2020 -  29 Novembre 2020

Palazzo Assessorile, Cles

Rembrandt Il Gran Virtuoso

Dal 21 Luglio 2020 - 1 Novembre 2020

Castel Caldes, Caldes (TN)

Le Collezioni. L'invenzione del moderno e l'irruzione del contemporaneo

2 Giugno 2020 - 31 Maggio 2021

MarT, Rovereto (TN)

Veneto

Un architetto al tempo di Canova. Alessandro Papafava e la sua raccolta

Dal 30 Novembre 2019 - 13 Settembre 2020

Palladio Museum, Vicenza

Natura in posa

Dal 2 Giugno 2020 - 27 Settembre 2020

Museo Santa Caterina, Treviso

A NOSTRA IMMAGINE. Scultura in terracotta del Rinascimento. Da Donatello a Riccio

Dal 15 Febbraio 2020 - 27 Settembre 2020

Museo Diocesano, Padova

Giambattista Piranesi. Architetto senza tempo

Dal 21 Giugno 2020 - 19 Ottobre 2020

Musei Civici, Bassano del Grappa (VI)

Recensito da Storiarte qui

Marc Chagall - Anche la mia Russia mi amerà

Dal 19 Settembre 2020 - 17 Gennaio 2021

Palazzo Roverella, Rovigo

La mano che crea. La galleria pubblica di Ugo Zannoni (1836-1919) scultore, collezionista e mecenate

Dal 27 Giugno 2020 - 31 Gennaio 2021

GAM - Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, Palazzo della Ragione, Verona

Recensito da Storiarte qui

Friuli-Venezia Giulia

Vania Elettra Tam. Insolita Mente

Dal 22 Agosto 2020 - 18 Settembre 2020

Portopiccolo Art Gallery, Trieste

 

Roberto Ghezzi. Naturografie, un dialogo tra arte, natura e uomo

Dal 15 Agosto 2020 - 08 Settembre 2020

Palazzo Costanzi, Trieste

 

Marcello Dudovich (1878-1962). Fotografia fra arte e passione

Dal 10 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Scuderie del Castello di Miramare (TS)

La scienza della visione. Fotografia e strumenti ottici all'epoca di Massimiliano D’Asburgo

Dal 02 Giugno 2020 - 13 Settembre 2020

Castello di Miramare (TS)

 

Marina Legovini. Nel ciel che più della sua luce prende

Dal 21 Maggio 2020 - 05 Settembre 2020

EContemporary - Elena Cantori Contemporary

Il mondo di Leonardo. Codici interattivi, macchine, disegni

Dal 28 Giugno 2020 - 27 Settembre 2020

PAFF! Palazzo Arti Fumetto Friuli, Pordenone

Nulla è perduto

Dal 04 Luglio 2020 - 13 Dicembre 2020

Casa delle Esposizioni di Illegio, Tolmezzo (UD)

Poldelmengo. Opera al nero

Dal 22 Maggio 2020 - 30 Settembre 2020

Galleria Sagittaria, Pordenone

 

Angiolino. La guerra di un pittore cantastorie

Dal 27 Giugno 2020 - 27 Settembre 2020

Villa Manin, Codroipo (UD)

 

Calligaro: il linguaggio visivo come avventura

Dal 07 Dicembre 2019 - 13 Settembre 2020

Casa Cavazzini, Udine

Liguria

Sirotti e i maestri

Dal 19 Giugno 2020 - 13 Settembre 2020

Villa Croce, Genova

Bruno Bozzetti e i grandi illustratori

Dal 17 Luglio 2020 - 30 Settembre  2020

GAM - Galleria d’Arte Moderna di Nervi, Genova

 

OBEY FIDELITY. The art of shepard fairey

Dal 4 Luglio 2020  - 1 Novembre 2020

Palazzo Ducale, Genova

#UNMANIFESTOPERGENOVA

Dal 6 Agosto 2020 - 27 Novembre 2020

Villa Serra, Genova

Marco Nereo Rotelli. Bianca luce

Dal 4 Agosto 2020 - 12 Settembre 2020

Galleria Padula, Lerici (SP)

 

I sensi del Mare

Dal 3 Agosto 2020 - 3 Ottobre 2020

Sedi varie, Lerici (SP)

 

Emilia-Romagna

Un artista chiamato Banksy

Dal 30 Maggio 2020 - 27 Settembre 2020

Palazzo Diamanti, Ferrara

 

Guardami! Sono una storia…I Portaroli del Pitocchetto

Dal 10 Luglio 2020 - 4 Ottobre 2020

Pinacoteca Nazionale, Ferrara

Tra simbolismo e futurismo. Gaetano Previati

Dal 6 Giugno 2020 - 27 Dicembre 2020

Castello Estense, Ferrara

Schifanoia e Francesco del Cossa. L'oro degli Estensi

Dal 2 Giugno 2020 - 13 Settembre 2020

Palazzo Schifanoia, Ferrara

Pittori fantastici nella Valle del Po

Dal 3 Luglio 2020 - 27 Settembre

PAC - Padiglione di Arte Contemporanea, Ferrara

Il Camino dei Fenicotteri. I disegni dei Casanova dall'Æmilia Ars alla Rocchetta Mattei

Dal 15 Marzo 2020 - 6 Settembre 2020

Museo Davia Bargellini, Bologna

Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna

Dal 7 Dicembre 2019 - 29 Novembre 2020

Museo Civico Archeologico, Bologna

La riscoperta di un capolavoro - Polittico Griffoni rinasce a Bologna

Dal 18 Maggio 2020 - 10 Gennaio 2020

Palazzo Fava, Bologna

INCLUSA EST FLAMMA. Ravenna 1921: Il Secentenario della morte di Dante

Dall'11 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Biblioteca Classense

Ulisse - l’arte e il mito

Dal 19 Maggio 2020 - 31 Ottobre 2020

Musei di San Domenico, Forlì

L’ultimo Romantico

Dal 12 Settembre 2020 - 13 Dicembre 2020

Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo, PR

Fornasetti. Theatrum Mundi

Dal 3 Giugno 2020 - 14 Febbraio 2021

Complesso monumentale della Pilotta, Parma

Incompreso - La vita di Antonio Ligabue attraverso le sue opere

Dal 6 Giugno 2020 - 8 Novembre 2020

Palazzo Bentivoglio, Gualtieri (RE)

MOSTRE IN ITALIA: CENTRO

Toscana

The Missing Planet - Visioni e revisioni dei "tempi sovietici" dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte

Dall’8 Novembre 2019 - 27 Settembre 2020, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato

Dopo Caravaggio. Il Seicento Napoletano nelle Collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito

Dal 14 Dicembre 2019 - 6 Gennaio 2021

Museo Palazzo Pretorio, Prato

Il sogno di Lady Florence Phillips. La Collezione della Johannesburg Art Gallery

Dal 24 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Santa Maria della Scala, Siena

 

“MIO VANTO, MIO PATRIMONIO”. L’arte del ‘900 nella visione di Leone Piccioni

Dal 30 Agosto 2020 - 21 Gennaio 2021

Museo della Città, Pienza (SI)

Umbria

I Dolenti di Sant’Anatolia di Narco

Dal 7 Agosto 2020 - 27 Settembre 2020

Nobile Collegio del Cambio, Perugia (http://turismo.comune.perugia.it/articoli/i-dolenti-di-santanatolia-di-narco)

Art Monsters 2020 - Contaminazioni aliene nell’Umbria contemporanea

Dal 6 Agosto 2020 - 11 Ottobre 2020

Museo civico di Palazzo della Penna, Perugia

 

Brian Eno. Reflected

Dal 4 Settembre 2020 - 10 Gennaio 2021

Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia

Le Lightboxes di Brian Eno e le opere della Galleria nazionale: giovedì 3 settembre anteprima di 'Reflected' | The Mag

Raffaello in Umbria e la sua eredità in Accademia

Dal 18 Settembre 2020 - 6 Gennaio 2021

Palazzo Baldeschi, Perugia

raffaello in umbria

Marche

Rinascimento marchigiano - Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma

Dal 23 Luglio 2020 - 3 Novembre 2020

Palazzo del Duca, Senigallia (AN)

Rinascimento marchigiano", le opere d'arte restaurate dai luoghi del sisma in mostra ad Ascoli Piceno -

RAPHAEL WARE. I colori del Rinascimento

Dal 31 Ottobre 2019 - prorogata fino al 27 Settembre 2020

Palazzo Ducale di Urbino (PU)

RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO | 31 ottobre 2019 – 13 aprile 2020

Made in New York, Keith Haring - Subway Drawings

23 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo Campana, Osimo (AN)

MADE IN NEW YORK. KEITH HARING (Subway drawings). Paolo Buggiani e la vera origine della Street Art - Exma

Abruzzo

Stills of peace and everyday life. VII EDIZIONE

Dal 18 Luglio 2020 - 6 Settembre 2020

Sedi varie, Atri (TE)

Stills of Peace and everyday life

FLIC VENTI ’20 - forme e parole (di un anno strano)

Dal 31 Luglio 2020 - 16 Settembre 2020

Polo Museale Santo Spirito, Lanciano (CH)

FLIC venti '20 - Forme e parole (di un anno strano) - Mostra - Lanciano - Polo Museale Santo Spirito - Arte.it

L'aureola nelle cose: sentire l'habitat

Dal 18 Luglio 2020 - 30 Settembre 2020

Museo Michetti, Francavilla al Mare (CH)

71° Premio Michetti - 'L'aureola nelle cose: sentire l'habitat' - ExPartibus

Lazio

Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi

Dal 16 Giugno 2020 - 13 Settembre 2020

Musei Capitolini, Roma

Filippo De Pisis

Dal 17 Giugno 2020 - 20 Settembre 2020

Palazzo Altemps, Museo Nazionale Romano, Roma

Banksy - a visual protest

Dall’8 Settembre 2020 - 11 Aprile 2021

Chiostro del Bramante, Roma

Banksy, a visual protest - TEMPORANEAMENTE CHIUSA! Chiostro del Bramante Romeguide: tutte le mostre a Roma

Colori degli Etruschi. Tesori in terracotta

Dall’11 Luglio 2019 - 1 Novembre 2020

Musei Capitolini alla Centrale Montemartini, Roma

Colori degli Etruschi: la mostra | Roma Artigiana & Creativa

Civis Civitas Civilitas. Roma antica modello di città

Dal 21 Dicembre 2019 - 18 Ottobre 2020

Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali, Roma

Civis Civitas Civilitas | Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali

Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma

Dal 18 Maggio 2020 - 20 Settembre 2020

Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro del Pio Sodalizio dei Piceni, Roma

Rinascimento marchigiano", le opere d'arte restaurate dai luoghi del sisma in mostra ad Ascoli Piceno -

Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone 1809-1814

Dal 19 Dicembre 2019 - 25 Ottobre 2020

Museo Napoleonico, Roma

Aspettando l'Imperatore | Museo Napoleonico

Per Gioco - La collezione dei giocattoli antichi della Sovrintendenza Capitolina

Dal 25 Luglio 2020 - 10 Gennaio 2021

Museo di Roma, Roma

Per Gioco, la nuova mostra sui giocattoli antichi a Roma

Frammenti. Fotografie di Stefano Cigada

Dal 22 Gennaio 2020 - 20 Settembre 2020

Museo di Roma in Trastevere, Roma

Frammenti. Fotografie di Stefano Cigada | Museo di Roma in Trastevere

Ara Güler

Dal 30 Gennaio 2020 - 20 Settembre 2020

Museo di Roma in Trastevere, Roma

Ara Güler a Roma

Le altre opere. Artisti che collezionano artisti

Dal 13 Marzo - 13 Settembre 2020

Museo di Roma in Trastevere, Roma

Le altre opere. Artisti che collezionano artisti | Artribune

Giò Ponti. Amare l’architettura

Dal 27 Novembre 2019 - 27 Settembre 2020

MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

Gio Ponti al MAXXI | CSAC Centro Studi e Archivio della Comunicazione

Elisabetta Catalano. Tra immagine e performance

Dal 3 Aprile 2019 - 6 Settembre 2020

MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

Elisabetta Catalano. Tra immagine e performance | MAXXI

YAP ROME AT MAXXI 2020

Dal 1 Luglio 2020 - 25 Ottobre 2020

MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

YAP ROME AT MAXXI 2020 | MAXXI

Andrea Galvani - la sottigliezza delle cose elevate

Dal 23 Luglio 2020 - 25 Ottobre 2020

Mattatoio, Roma

Al Mattatoio la sottigliezza delle cose elevate - Metropolitan Magazine

Molise

Nanda Vigo Light Project 2020

Dal 20 Maggio 2020 - 13 Settembre 2020

MACTE - Museo di Arte Contemporanea, Termoli

Museo di Arte Contemporanea di Termoli: "Nanda Vigo. Light Project 2020" | | Flash Art

MOSTRE IN ITALIA: SUD

Campania

Gli Etruschi e il MANN

Dal 12 Giugno 2020 - 31 Maggio 2021

MANN - Museo Archeologico Nazionale, Napoli (http://www.museoarcheologiconapoli.it/it/)

Santiago Calatrava - Nella Luce Di Napoli

Dal 6 Dicembre 2019 - 13 Gennaio 2021

Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Santiago Calatrava - Nella luce di Napoli - dal 6 dicembre 2019 fino al 10 maggio 2020 - Museo e Real Bosco di Capodimonte

Napoli Napoli di Lava - Porcellana E Musica

Dal 21 Settembre 2019 - 20 Settembre 2020

Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

La mostra Napoli, Napoli. Di lava, porcellana e musica - Museo e Real Bosco di Capodimonte

Puglia

MOVIMENTO. Il linguaggio segreto dell’anima

Dal 24 Luglio 2020 - 24 Ottobre 2020

MAT - Museo dell’Alto Tavoliere, San Severo (FG)

MOVIMENTO. Il linguaggio segreto dell'anima - Mostra - San Severo - MAT Museo dell'Alto Tavoliere - Arte.it

PhEST

Dal 7 Agosto 2020 - 1 Novembre 2020

Varie sedi, Monopoli (BA)

PhEST 2019: ritorna a Monopoli il Festival Internazionale di fotografia e arte - Camin Vattin

Ferruccio Ferroni. Fotografie

Dal 1 Agosto 2020 - 13 Settembre 2020

Palazzo delle Arti Beltrani, Trani (BA)

Ferruccio Ferroni. Fotografie

Circuito del contemporaneo in Puglia - INHUMAN

Dal 18 Luglio 2020 - 18 Ottobre 2020

Castello di Barletta, Barletta (BA)

Inhuman al Castello di Barletta - Articolo di Paola Montonati

Il polittico di Antonio Vivarini. Storia arte restauro

Dal 1 Marzo 2014 - 31 Dicembre 2030

Pinacoteca provinciale “Corrado Giaquinto”, Bari

Il polittico di Antonio Vivarini. Storia arte restauro a Bari | critickets

ARTE CHE INCONTRA L’ARTE - scultura, pittura, fotografia in masseria

Dal 31 Luglio 2020 - 27 Settembre 2020

Masseria Palombara, Oria (BR)

L'Arte che incontra l'Arte a Masseria Palombara - la voce a Sud

Alberto Gianfreda. Mirabilia

Dal 26 Luglio 2020 - 31 Agosto 2020

Museo Civico “Emanuele Barba”, Gallipoli (LE)

Alberto Gianfreda. Mirabilia - Mostra - Gallipoli - Museo Civico “Emanuele Barba” - Arte.it

1979-1992 Piano - Dioguardi: diario di una rinascita

Dal 9 Luglio 2020 - 9 Settembre 2020

Castello Aragonese, Otranto (LE)

Laboratorio di quartiere Unesco di Renzo Piano a Otranto. 1979-1992 Piano- Dioguardi: diario di una rinascita” — Partecipazione

Gianni Leone

Dal 26 Giugno 2020 - 27 Settembre 2020

MUST - Museo Storico della Città di Lecce, Lecce

Gianni Leone - Mostra - Lecce - MUST - Museo Storico della Città di Lecce - Arte.it

Basilicata

Enrico della Torre incisore

Dal 02 Agosto 2020 - 30 Ottobre 2020

Museo Internazionale della Grafica, Castronuovo di Sant'Andrea (PZ)

Enrico Della Torre incisore in mostra al Museo Internazionale della Grafica a Castronuovo di Sant'Andrea | Potenza. – Il blog di Carlo Franza

Ritorno al passato - Matera 1920

Dal 07 Agosto 2020 - 26 Settembre 2020

Fondazione Sassi, Matera

Ritorno al Passato : Matera 1920 Registrazione, Ven, 28 ago 2020 alle 18:45 | Eventbrite

Calabria

Una collezione è sempre una collezione

Dal 04 Luglio 2020 - 30 Settembre 2020

MACA - Museo Arte Contemporanea, Acri (CS)

ACRI (CS) - La mostra "Una collezione è sempre una collezione" - Calabria.Live

Sicilia

Sine Die. La fotografia nel tempo dell’isolamento creativo

Dal 18 Luglio 2020 - 04 Ottobre 2020

Palazzo della Cultura, Catania

La fotografia nel tempo dell'isolamento creativo: 100 autori per la mostra (gratuita) "Sine Die"

Gio Montez. Mare Nostrum

Dal 25 Luglio 2020 - 15 Settembre 2020

Museo Civico G.Perricone, Trapani

Gio Montez – Mare Nostrum | Artribune

Sardegna

Maria Jole Serreli. A casa mia avevo tre sedie

Dal 11 Luglio 2020 - 11 Ottobre 2020

EXMA EXhibiting and Moving Arts, Cagliari

Maria Jole Serreli. A Casa mia avevo tre sedie - Exma

Steve Mccurry. Icons

Dal 13 Giugno 2020 - 10 Gennaio 2021

Palazzo di Città, Cagliari

Steve McCurry Icons - Palazzo di Città, Cagliari | Sudest57

Back_Up. Giovane arte in Sardegna

Dal 27 Giugno 2020 - 17 Ottobre 2020

Museo Nivola, Orani (NU)

Back_Up. Giovane arte in Sardegna - exibart.com

 Il regno segreto. Sardegna-Piemonte: Una visione postcoloniale

29 Maggio 2020 - 15 Novembre 2020

MAN Museo d’Arte Provincia di Nuoro, Nuoro

Narcisa Monni. Insieme a te non ci sto più

Dal 13 Agosto 2020 - 11 Ottobre 2020

Museo Stazione dell’Arte, Ulassai (NU)

NARCISA MONNI. INSIEME A TE NON CI STO PIÙ - Exibart.service


IL POLITTICO DELLA CERVARA

A cura di Fabio d'Ovidio

Uno dei massimi capolavori conservati all’interno dei Musei Civici di Strada Nuova a Genova – nello specifico a Palazzo Bianco – è il cosiddetto Polittico della Cervara realizzato dal pittore fiammingo Gerard David (1460-1523), presente entro le collezioni del Palazzo a partire dal 1892.

L’opera – prima di giungere nel capoluogo ligure – era conservata presso l’abbazia di San Gerolamo della Cervara, una località situata sulla costa di Levante, tra gli attuali centri di Santa Margherita Ligure e Portofino.

L’intero dipinto, per il nome dell’autore, le dimensioni, la connotazione psicologica conferita ai personaggi, ha suscitato da sempre l’interesse e l’ammirazione dei massimi critici e storici d’arte, anche perché alcune questioni fondamentali come datazione precisa, committenza, configurazione originale del polittico, iconologia e luogo di esecuzione restano ancora questioni non totalmente chiare.

Un’importante notizia storica circa il polittico della Cervara è contenuta entro la cronistoria del convento redatta a partire dal 1420: a proposito dell’opera, nel 1790 don Giuseppe Spinola descrisse la composizione l’iconografia del polittico e poi – basandosi su un’iscrizione presente nel dipinto stesso – ricordò che Vincenzo Sauli nel 1506 terminò di far dipingere una tavola per il coro del convento di San Gerolamo della Cervara, composta da sette tavole dipinte entro una maestosa carpenteria lignea. La composizione è suddivisa in questo modo: al centro la Vergine col Bambino, alla destra San Gerolamo e alla sinistra San Benedetto da Norcia; al di sopra del gruppo centrale una crocifissione che divide la Vergine Annunciata dall’arcangelo Gabriele, infine in corrispondenza dello scomparto centrale la raffigurazione di Dio Padre.

Data l’informazione, il primo ad utilizzarla per ricostruire parzialmente l’opera fu Gian Vittorio Castelnovi che mise assieme soltanto i tre scomparti principali: la Vergine col Bambino, detta Madonna dell’uva, e i due santi Gerolamo e “Benedetto”. Le tre tavole erano presenti nei depositi del Museo di Palazzo Bianco dal 1892 dopo che erano passate per Palazzo Tursi (1830, sede oggi come allora del Municipio) e ancor prima per Palazzo Ducale, (noto ad inizio XIX secolo come Palazzo Imperiale poiché sede della prefettura francese, dove arrivarono nel 1805 in seguito alla rivolta giacobina scoppiata nell’antica Serenissima Repubblica di Genova nel 1797 che non risparmiò i territori più periferici, nemmeno il monastero della Cervara). Sempre Castelnovi capì immediatamente – basandosi sulla nota dello Spinola – che le tre tavole erano parte dell’antico polittico di David e, proseguendo le sue ricerche sull’opera, identificò le due tavole separate dell’Annunciazione – oggi al Metropolitan di New York – in una collezione privata, mentre quella di Dio Padre in una lunetta presente entro i depositi del Museo del Louvre.

Committenza

Sempre partendo dall'appunto di Don Giuseppe Spinola, si può capire che l’opera ci è giunta priva di carpenteria, perdendosi così l’iscrizione che precisava la commissione del dipinto al pittore da parte di Vincenzo Sauli in data 7 settembre 1506, probabilmente termine post quem per l’esecuzione avvenuta probabilmente l’anno successivo così come la messa in posa da datarsi o alla fine del 1507 o agli inizi del 1508.

Di Vincenzo Sauli non si ha una biografia completa e precisa, tuttavia i pochi dati in possesso degli storici dell’arte consentono di delineare la figura di un uomo cresciuto saldamente entro l’establishment politico, economico e culturale genovese, in un periodo contraddistinto da forti tensioni entro la città: l’inizio del XVI vide il passaggio di Genova dalla dedizione alla signoria di Ludovico il Moro a quella verso Luigi XII di Francia presso cui venne inviato nel 1499 in qualità di ambasciatore, in un periodo in cui i rapporti tra corona francese e famiglia Sauli erano alquanto stretti dato che questi ultimi erano i banchieri di fiducia dell’intero regno di Francia. Non si può affermare con estrema certezza che il Sauli si recò direttamente a Bruges dove Gerard David aveva la sua bottega-atelier, quanto più è plausibile che il pittore abbia ottenuto la committenza da parte di emissari della famiglia Sauli lì di stanza a Bruges per questioni economico-commerciali, come di tradizione per molte altre famiglie genovesi. Vincenzo, infatti, nei mesi centrali del 1506 venne impiegato dal Senato genovese come diplomatico recandosi a Milano e a Roma. Il nome di Vincenzo Sauli e della sua famiglia si legarono per decenni a quel monastero, investendovi ingenti risorse economiche sostituendosi alla famiglia Pallavicino e nello specifico a Giovanni Pallavicino, morto nel 1498.

Il polittico della Cervara: pittore, località di esecuzione, questioni di stile

In seguito all'attribuzione delle tre tavole maggiori da parte di Castelnovi a Gerard David che superarono definitivamente i nomi proposti in precedenza come quelli di Frans Floris, Hans Holbein e Albrecht Dürer, nessuno mise più in dubbio la paternità del dipinto. Tuttavia il nome di Floris fu considerato il punto di partenza per avviare una ricerca attribuzionistica sulla Crocifissione: scartando la mano di quest’ultimo, dapprima la tavola venne considerata semplice scuola olandese, poi venne addirittura attribuita al pennello di Filippo Lippi ed infine Jacobsen la restituì al catalogo di Gerard David. Questo fu anche il punto di partenza per ricostruire l’Annunciazione e il Dio Padre Benedicente, già attribuite ad un pittore seguace di Jan Van Eyck o Jan Gossaert o Hugo van der Goes.

Interessante sotto il profilo stilistico è vedere come nella letteratura artistica le tavole conservate a Genova siano lette in chiave italianizzante, mentre ciò non accade con quelle conservate al Met e al Louvre. Questo è spiegato dal fatto che le parti portanti del polittico recepiscono maggiormente il rinnovamento linguistico tipico del Rinascimento italiano (si veda ad esempio attraverso il pavimento dei due santi laterali l’impianto prospettico brunelleschiano), mentre quelle – che si potrebbero definire minori – sono ancora legate alla tipica tradizione stilistica fiamminga.

Solitamente questa differenza viene spiegata con un viaggio eseguito da Gerard David in Italia, collocato in un arco cronologico compreso tra 1503-1507 oppure tra 1511-1515. In generale, senza addentrarsi in studi troppo specifici e ricerche estremamente puntuali, basterà ricordare che ancora oggi è in discussione se il pittore realizzò l’opera a Bruges per poi inviarla all’abbazia della Cervara oppure realizzò l’opera mentre compì il viaggio in Italia che, stando agli studi sul pittore, ebbe come tappa la città di Genova. La questione è per lo più giocata sulle motivazioni che spinsero il pittore fiammingo a realizzare un polittico ad ante fisse – tipico della tradizione italiana – anziché uno ad ante mobili in linea con la tradizione nordica.

Iconografia ed iconologia

L’intero polittico venne collocato sopra l’altare maggiore, la cui architettura costituiva un suppedaneo alle tre grandi tavole, oggi conservate a Genova. Questi tre scomparti – seppur originariamente separati dalla carpenteria lignea – creano uno spazio pittoricamente unitario grazie all'impianto prospettico scorciato del pavimento, agli elementi architettonici del trono della Vergine dalla cui sommità cadono due sontuosi e lussuosi arazzi millefiori i cui  motivi fanno anche da sfondo ai santi negli scomparti laterali. La presenza di questi ultimi elementi connota come arcadico lo spazio in cui sono dipinti tutti i personaggi.

Conducendo un’analisi più approfondita, partendo dalle tre tavole maggiori e dallo scomparto di sinistra, si riconosce San Girolamo, abbigliato in questa occasione con un anacronistico abito cardinalizio – il santo visse tra IV e V secolo d.C., il rango cardinalizio venne istituito non prima di quattro secoli dopo – con al suo fianco il leone che, secondo la sua agiografia,  riuscì ad addomesticare estraendogli una spina conficcata sotto una zampa, e mentre sta tenendo in mano un librone aperto: questo è la Vulgata, ovvero la traduzione da lui attuata dell’Antico Testamento dal greco al latino, traduzione che ancora oggi è quella adottata come ufficiale dalla Chiesa cattolica. La sua persona in questo polittico è giustificata non solo dal fatto che a lui fosse dedicato l’antico monastero della Cervara, ma anche come exemplum di vita monastica: al di sotto del prezioso abito da cardinale si può intravedere un frammento del saio nero, tradizionale indumento dei monaci.

Dalla parte opposta dell’opera è presente una figura più enigmatica, la cui identificazione è ancora incerta. Il giovane uomo imberbe qui dipinto in saio nero è certamente un santo appartenente all’ordine dei benedettini, anche lui con in mano un libro, ma a differenza di San Gerolamo lui non legge poiché assorto nella contemplazione e nella meditazione. Tradizionalmente questo santo viene identificato con San Benedetto da Norcia – il fondatore dell’ordine benedettino e teorico della Regula [1] – tuttavia la classica iconografia di questo santo vuole che sia ritratto come un uomo anziano con lunga barba bianca e capelli bianchi. In considerazione di ciò, l’identificazione dell’uomo raffigurato da David con San Benedetto non può che essere errata. Studi recenti hanno chiarito che il santo monaco benedettino sia invece San Mauro, riconoscibile dalla presenza del fleur-de-lys presente sul pastorale tra nodo e tabernacolo. Questi non è un santo monaco benedettino qualunque, infatti fu il primo seguace di San Benedetto e contribuì con il padre del monachesimo occidentale alla fondazione di uno dei loro monasteri più antichi e prestigiosi, quello di Montecassino.

Degli ideali monastici e di obbedienza, la Vergine viene sempre considerata un modello perfetto. Nello spazio del dipinto, entro una sorta di hortus conclusus, viene raffigurata assisa su un trono, ad occupare quasi per intero la pala centrale del dipinto. In questo dipinto Maria Vergine viene raffigurata con un anello al dito anulare che la identifica immediatamente come sposa dello Spirito Santo, ha inoltre in grembo il Bambino che la qualifica anche come Sedes Sapientiae ed infine, essendo assisa in trono, come Regina. Altri due fattori di estremo interesse su cui il pittore fiammingo si è soffermato sono le parole dipinte a lettere d’oro lungo tutto il gallone del mantello color blu di lapislazzulo che configurano l’incipit del Salve Regina, una delle quattro antifone mariane che la tradizione cristiano-cattolica rivolge alla Vergine, mentre – sempre a lettere d’oro – all'interno del diadema che cinge la sua fronte è inciso l’incipit dell’Ave Maria, la più famosa preghiera della Chiesa cristiana d’Occidente in onore di Maria.

La donna rivolge il suo sguardo, tutt'altro che gioioso poiché conscia del destino riservato al figlio, a Gesù Bambino che tiene in mano un grappolo d’uva – simbolo della futura Passione – e guarda direttamente l’osservatore risultando così il vero diaframma tra lo spazio pittorico ed il mondo reale. Sebbene la figura della Vergine troneggi all'interno del polittico ed il pannello a lei dedicato sia posto de facto al centro dell’opera, non è lei la vera protagonista quanto piuttosto la premonizione degli estremi istanti della vita di Cristo: infatti proprio attraverso questo pannello si passa tematicamente alla fascia superiore.

Il pannello della Crocifissione – la quarta e ultima tavola conservata a Genova – è quello che forse nel parere di chi scrive risulta realizzato con meno attenzione ai dettagli e alla resa dei tipi psicologici. Sotto il profilo iconografico, questo si configura come una classica Crocifissione: Cristo al centro che funge da asse di simmetria portante della scena, Maria Vergine con lo sguardo rivolto verso il basso e le mani giunte alla sinistra, San Giovanni Evangelista, raffigurato a destra, intento ad osservare gli ultimi istanti della vita terrena di Gesù, ed infine il teschio di Adamo alla base della croce che viene bagnato dal sangue di Cristo redimendo così i progenitori dal loro peccato originale. Sotto un profilo più pittorico – guardando lo sfondo, ed in particolare le montagne – l’artista sembrerebbe recepire ed inserire timidamente le novità che Leonardo stava apportando nel contesto rinascimentale italiano.

Analizzando la modalità con cui è stata dipinta la testa del Salvatore – incassata tra le scapole, come quella di Masaccio – si intuisce che non può essere un dipinto autonomo realizzato per essere posto ed osservato ad altezza uomo, quanto più parte di un progetto pittorico più ampio: le dimensioni sono troppo grandi per ritenerla una semplice tavola da devozione privata e, come si può vedere, lo scorcio prospettico dal basso verso l’alto adottato da Gerard David non è adatto ad un’osservazione frontale.

Attualmente chi visita il Museo di Palazzo Bianco a Genova, troverà il polittico della Cervara organizzato secondo la seguente modalità.

Senza soffermarsi troppo sulle due tavolette relative all’Arcangelo Gabriele annunciante e alla Vergine annunciata, che rispondono ai dettami iconografici tipici del rinascimento fiammingo, bisogna soffermarsi un secondo sulla lunetta che raffigura Dio Padre dipinto mentre osserva tutti i personaggi presenti nell’opera dall’alto. Questi ha l’aspetto del tipico Dio-nordico: un uomo giovane con abbigliamento papale, che si differenzia da quello di tradizione mediterranea – per così dire – che invece viene personificato come un uomo anziano con barba e lunghi capelli bianchi, un esempio verrà dipinto a partire dal 1508 da Michelangelo Buonarroti entro la volta della Cappella Sistina a Roma.

In ultima istanza, si ricorda che nel corso del 2005 si svolse a Genova, presso Palazzo Bianco, l’esposizione completa delle sette tavole componenti l’originale polittico così come concepito dall'artista nordico. In tale occasione venne pubblicata la monografia dal titolo Il polittico della Cervara di Gerard David, a cura del professore di storia dell’arte medievale dell’Università di Genova Clario di Fabio, all'epoca direttore del museo, che presenta articoli di Maryan Ainsworth, massima conoscitrice di Gerard David, e di Maria Clelia Galassi, docente di storia delle tecniche artistiche presso l’ateneo ligure.

Purtroppo data l’attuale emergenza Covid tale pubblicazione non è stata presa in considerazione poiché fuori stampa, irreperibile on-line e difficile da trovare nelle biblioteche.

 

Note

[1] La Regula suddivideva la vita monastica tra ore di preghiera e lavoro, regola che poi in corso di Età Moderna venne esemplificata dalla celeberrima formula ora et labora (prega e lavora).

 

Bibliografia

V. Castelnovi Il polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1952

J. Hoogewerff A proposito del polittico di Gerard David nell’Abbazia della Cervara, 1953

J. Hoogewerff Pittori fiamminghi in Liguria nel XVI secolo, 1961

J. Friedlander Early Netherlandish Painting 1971

Algeri, A. De Floriani La pittura in Liguria. Il Quattrocento, 1991

Di Fabio La galleria di Palazzo Bianco. Genova, 1992

 

 


I DELLA ROBBIA E LA TERRACOTTA INVETRIATA

A cura di Luisa Generali

La scultura dei della Robbia: alcuni esempi

È di qualche mese fa l’accordo per la restituzione da parte dell’Italia alla Germania della Maddalena attribuita ad Andrea della Robbia (fig. 1-2), opera sottratta a una famiglia ebrea tedesca che ne era proprietaria durante il secondo conflitto mondiale. Finita in Italia erroneamente e qui rimasta a lungo, l’opera rappresenta una giovane Maddalena, dai tratti acerbi e l’espressione innocente, secondo un’interpretazione del tutto contraria allo stereotipo del suo personaggio di peccatrice penitente, peraltro inesatto; nella rappresentazione di della Robbia completamente smaltata di bianco, Maria di Magdala è restituita, infatti, secondo le sembianze di una fedele seguace di Gesù, dall'aspetto esile e il volto luminoso, scoperto dai lunghi capelli mossi, particolare iconografico che caratterizza le immagini della Santa a cui si uniscono anche gli attributi dell’ampolla contente l’unguento profumato e il libro, simbolo di conoscenza. L’opera in questione offre anche l’occasione per ripercorrere le vicende della bottega che l’ha realizzata, iniziando dal maestro della terracotta invetriata, Luca della Robbia (1399-1482), a cui andò il merito di aver perfezionato questa tecnica secondo gli ideali rinascimentali che si andavano definendo in Toscana.

Nel panorama dei grandi scultori del Rinascimento fiorentino Luca della Robbia si formò come scultore sull’esempio classicista di Nanni di Banco (1380/1390 c.-1421), grazie al quale divenne uno dei maggiori esponenti della tradizione antica, a paragone del più rivoluzionario Donatello (1386-1466): un confronto di stili che la storia dell’arte ha riconosciuto come paradigma nelle famose Cantorie per il duomo di Firenze.

Negli anni ‘40 del Quattrocento Luca della Robbia iniziò a sperimentare la tecnica della terracotta invetriata, creando rilievi in creta rivestiti di smalto colorato e cotti, dall’effetto finale sorprendentemente luminoso. I benefici portati dalla smaltatura erano su più fronti vantaggiosi, in quanto la superficie impermeabile acquisiva una resistenza maggiore agli agenti atmosferici e manteneva inalterato lo splendore dei colori, oltre al lato economico che vedeva la ceramica molto meno dispendiosa rispetto ad altri materiali. Anche Vasari nelle sue Vite non manca di ricordare l’invenzione di Luca come un “ghiribizzo” geniale, sottolineando i vantaggi pratici di questa tecnica, insieme alla sua grande diffusione: “Et avendo una maravigliosa pratica nella terra, la quale diligentissimamente lavorava, trovò il modo di invetriare essa terra co’l fuoco, in una maniera che e’ non la potesse offendere né acqua né vento. E riuscitoli tale invenzione, lasciò dopo sé eredi e figliuoli di tal secreto. E così fino al tempo nostro, i suoi descendenti hanno lavorato di tal mestiero, e non solo ripiena di ciò tutta la Italia, ma e mandatone ancora in diverse parti del mondo. “[…] Onde Luca della Robbia merita somma lode, avendo alla scultura questa parte aggiunta, potendosi con bellezza e con non molta spesa ogni luogo acquatico et umido abbellire”.

La tecnica dell’invetriatura rappresentava la rinascita di un’abilità già conosciuta dagli antichi, che Luca della Robbia seppe reimpiegare nelle forme del linguaggio rinascimentale, portando la terracotta al pari delle altre arti maestre, secondo una tavolozza standardizzata sulle cromie dell'azzurro e del bianco, rispettivamente adottate per gli sfondi e le figure. Altre tonalità (come il giallo, il verde, il bruno, il nero) vengono progressivamente inserite nelle opere robbiane per la colorazione di dettagli decorativi quali ghirlande, fregi vegetali e di frutta, mattonelle a motivi tessili, decori a grottesche e candelabra, costituendo un insieme di elementi esornativi che sanciranno il marchio di fabbrica della bottega.

La prima applicazione dell’invetriatura risalente al 1442 è documentata nel Tabernacolo del Sacramento originariamente realizzato per la Cappella di San Luca dello Spedale di Santa Maria Nuova, oggi nella chiesa di Santa Maria a Peretola (fig.3). L’artista per il tabernacolo murario crea una struttura in marmo a forma di edicola, definita da lesene scanalate con capitelli corinzi e culminante in un timpano al cui interno è raffigurato Dio Padre benedicente. Alla lavorazione della pietra utilizzata per definire la struttura e i rilievi figurativi, si affianca per la prima volta l’uso della ceramica invetriata: l’azzurro fa da fondale alla Deposizione nella lunetta, mentre un festone vegetale inframezzato da tre teste di cherubini corre sull’architrave. Sono preziosissimi i particolari decorativi sperimentati in questa prima opera, che saranno ampliamente sviluppati dalla bottega dei della Robbia nel corso del tempo: qui già compare il tema esornativo dei fiori modellati a rilievo in diverse qualità e colori in mezzo alle ghirlande, mentre nella base si stende un fregio a nastro con motivi a rosette blu, arricchito da “pattern” erbacei su sfondo nero che si ritrovano anche nei pennacchi della lunetta (fig.4).

La tecnica della terracotta invetriata fu eseguita non solo per opere in rilievo ma anche per gruppi statuari a tutto tondo come nel caso della Visitazione compiuta intorno al 1445 per la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, dove ancora oggi è esposta (fig.5). L’opera è uno fra i primi lavori di grandi dimensioni attribuiti a Luca della Robbia, che per la scena dell’abbraccio fra Elisabetta e Maria scelse di rappresentare entrambe con un avvolgente colore bianco. L’armonia dei corpi e la loro gestualità passano attraverso la formazione classica dell’artista, che per la Vergine modella un ovale perfetto, ideale di pura bellezza. Tratti più naturalistici segnano invece il volto anziano di Sant’Elisabetta, inginocchiata di fronte a Maria e immersa con questa in una comunione empatica di sguardi.

Fig.5 - Attr. Luca della Robbia, Visitazione, San Giovanni fuori Civitas, Pistoia.

Ma senz’altro sono le innumerevoli immagini devozionali raffiguranti la Madonna col Bambino conservate nei principali musei del mondo a sancire il successo della bottega dei della Robbia attraverso il canone ormai fissato nell’immaginario collettivo delle terrecotte smaltate a figure bianche su fondale azzurro. Questa formula visiva sarà una costante della bottega come dimostrano gli esempi dalla Madonna della mela (fig.6) e la Madonna del Roseto (fig.7), entrambe conservate al Bargello. Se nella prima opera la figura di Maria è rappresentata a tre quarti in un’ambientazione astratta, nella Madonna del roseto madre e figlio sono invece collocati a figura intera in un giardino di cespugli verdeggianti e rose bianche, chiuso da uno spicchio di cielo. In entrambi i rilievi risalta la magnificenza rigorosa della Vergine, velata e assorta nella contemplazione malinconica del suo stato di madre, mentre Gesù tiene in mano un frutto rotondeggiante, identificato con la mela, simbolo legato alla redenzione dal peccato originale tramite il suo sacrificio.

Intorno alla metà del secolo la bottega si arricchì del talento del giovane Andrea della Robbia (1435-1525), nipote di Luca, dal quale apprese i segreti dell’invetriatura e ne ereditò le formule compositive di successo: fra queste il tema della Madonna col Bambino fu una delle tipologie maggiormente sviluppate dallo scultore, che seppe conferire al rapporto fra madre e figlio una più tenera affettuosità. Un esempio è rappresentato dalla pala centinata per lo Spedale di Santa Maria Nuova (fig.8), databile intorno al 1470-75, in cui Andrea addolcì la classica maniera austera dello zio, a favore di un maggior naturalismo delle figure: nell’opera anche il fondale azzurro viene privato quella sua componente astratta divenendo un cielo atmosferico, solcato da filiformi nuvole.

Fig. 8 - Andrea della Robbia, Madonna col Bambino, Arcispedale di Santa Maria Nuova.

Queste celebri opere votive hanno conosciuto una fortuna tale che sono entrate a tutti gli effetti nella tradizione figurativa italiana, continuando ancora oggi ad essere riprodotte in diverse varianti come oggetti di devozione domestica specialmente nella forma di tondi e medaglioni.

La compresenza nella bottega di Luca e Andrea della Robbia fino al 1482, anno in cui il nipote ne ereditò la bottega, solleva qualche dubbio attributivo in merito a certe opere, come nel caso del Busto di Santa al Bargello, databile negli anni 1465-70 (fig.9). Impostata sul modello dei busti reliquari per cui non si esclude un’originaria funzione, la Santa presenta il classico nitore robbiano del volto, accompagnato da una spiccata colorazione dei dettagli, fra cui risalta la deliziosa spilla a forma di fiore che allaccia la mantella.

Fig.9 - Attr. Andrea della Robbia, Busto di Santa, Bargello.

L’intensità degli smalti e il repertorio figurativo che caratterizzava le terrecotte dei dell Robbia ne fecero anche un’arte decorativa molto apprezzata proprio per lo spiccato senso ornamentale, andando quindi a interfacciarsi con diverse tipologie di opere impiegate in contesti architettonici, quali stemmi, fregi, cornicioni, lunette ecc. Fra gli apporti ornamentali che la bottega intraprese in importanti edifici ricordiamo i famosissimi Tondi raffiguranti bambini in fasce, realizzati nel 1487 da Andrea della Robbia per il loggiato esterno dell’Ospedale degli Innocenti (fig.10). Ognuno dei dieci medaglioni raffiguranti bambini in terracotta bianca su fondo blu mostra particolari diversificati nella gestualità e nelle caratteristiche tipicamente puerili degli infanti, restituite dall’artista con attenta verosimiglianza.

Fig.10 - Andrea della Robbia, Bambino in fasce, Spedale degli Innocenti.

Il tema della puerizia è affrontato anche nel Busto di fanciullo al Bargello (fig.11), che la critica riferisce ad Andrea della Robbia negli anni tra il 1465 e 1470: la scultura si inserisce nel prolifico filone rinascimentale dedicato ai ritratti di bambini, spesso ricollegato alla devozione per Gesù Bambino e San Giovannino. L’artista sceglie una colorazione monocroma per il volto e i capelli del fanciullo, mentre dispone le uniche note di colore nell'abito e nelle iridi, in modo da enfatizzarne il vivace sguardo: la verosimiglianza naturalistica e l’inclinazione sentimentale che caratterizza l’aspetto del bambino riconducono allo stile di Andrea, sensibile alle novità della pittura coeva.

Fig. 11 - Andrea della Robbia, Busto di fanciullo, Bargello.

La sobria armonia che caratterizza la prima linea di produzione della bottega dei della Robbia mutò con l’arrivo del nuovo secolo verso un linguaggio molto più narrativo, vicino all’intenso coinvolgimento che sapeva suscitare l’odierna pittura. Fra i discendenti della famiglia della Robbia fu Giovanni (1469-1529/30), figlio di Andrea, uno degli esponenti più attivi nella ridefinizione dello stile dei della Robbia, incentrato sulla messa in opera di grandi pale d’altare ricolme di personaggi e dettagli ornamentali dai colori sgargianti.

La Pietà (fig.12) realizzata da Giovanni della Robbia nel 1514 e conservata al Bargello costituisce un esempio del lessico artistico adottato dalla bottega nel XVI secolo, all’insegna di un abbondante decorativismo che, come in questo caso, spesso muta in un vero e proprio horror vacui. L’opera, raffigurante la pietà fra Santa Maria Maddalena e San Giovanni, riduce la consistenza plastica dei rilievi e insiste molto sul dato pittorico nella descrizione esuberante del paesaggio, aperto sullo sfondo verso la città di Gerusalemme: nel mezzo un cielo surreale, striato da inquiete nuvole gialle, partecipa metaforicamente al dramma della morte di Cristo.

Fig. 12 - Giovanni della Robbia, Pietà, Bargello.

 

Bibliografia

Petrucci, Luca della Robbia e la sua bottega: Andrea della Robbia, Benedetto Buglioni, Marco della Robbia (Fra’ Mattia), Giovanni della Robbia, Luca della Robbia il "Giovane", Francesco della Robbia (Fra’ Ambrogio), Girolamo della Robbia, Santi di Michele Buglioni, Firenze 2008.

Ciseri, “Scultura del Quattrocento a Firenze”, in Art e dossier, Dossier; 297.2013, Firenze 2013.

Tardelli, "La Visitazione", Luca della Robbia: nella chiesa di San Leone, Pistoia 2017.

Fonti

Vasari (ed. 1550), Vita di Luca della Robbia scultore, in Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri, Ed. a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Vol. I, pag. 232-235, Torino 2015.


LA SALA DELLE PROSPETTIVE

A cura di Federica Comito
Fig. 1 - Sala delle Prospettive, primo piano, Villa Farnesina.

L’occasione delle nozze con Francesca Ordeaschi convinse Agostino Chigi ad effettuare dei lavori di restauro all’interno della sua villa. In particolare si preoccupò di far allargare il salone al primo piano, conosciuto come Sala delle Prospettive, perché è questa la sala dove si sarebbe poi tenuto il suo banchetto nuziale il 28 agosto 1519, a cui parteciparono personaggi illustri e addirittura Papa Leone X. Agostino affidò tale compito, ancora una volta, al senese Baldassarre Peruzzi, architetto della Villa.

Nella cosiddetta Sala delle Prospettive si nota non solo un richiamo all’antico, ma anche quel desiderio di rapporto costante tra interno ed esterno che è il leitmotiv dell’intera villa e che vede nelle soluzioni di Peruzzi degli esiti straordinari. Infatti, la Sala delle Prospettive deve il suo nome al fatto che per le prime volte in pittura si utilizza la scenografia con effetto di trompe-l’oeil e illusionisticamente la stanza si apre a vedere quello che c’è fuori, ovvero la città che si estende attorno al Palazzo. Ai lati del salone l’architetto ha dipinto due finte logge con colonne affacciate su Roma, raffigurando un tratto di mura in primo piano con dietro la Chiesa di Santo Spirito, una basilica romanica, la Porta Settimiana e a sinistra Monte Mario con Villa Mellini (oggi Osservatorio Astronomico). Per rafforzare l’illusione, Peruzzi arriva a tagliare la lettera “A” del nome di “Agostino Chigi” in un’iscrizione per rendere reale l’effetto tridimensionale della colonna che sporge dalla parete.

Fig. 2 - Parete con espediente tridimensionale, lettera “A” mancante.

Questi affreschi fungono anche da testimonianza di come doveva presentarsi Roma al tempo. Una città ricca di torri i cui balconi venivano costruiti in legno, e che spesso finiva anche vittima delle esondazioni del Tevere. Infatti, in un punto sulla destra, l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia è proprio stato ricoperto dalle acque esondate del fiume. I pavimenti delle finte terrazze affrescate sono identici al pavimento vero e proprio all’interno della Sala delle Prospettive, che non è mai cambiato in 500 anni. Le linee del pavimento sono perfettamente corrispondenti a quelle degli affreschi, come se la pavimentazione continuasse anche nella terrazza; tuttavia, se si cambia punto di osservazione il trucco viene svelato.

Fig. 3 - Particolare del pavimento, cambiando punto di osservazione si nota la differenza tra quello reale e quello affrescato.

Il fregio mitologico e i riquadri con gli dei

Appena sotto il soffitto a cassettoni blu con decorazioni vegetali dorate a rilievo, corre un ampio fregio in cui le scene mitologiche narrate sono scandite da cariatidi in monocromo. Il lungo fregio, che cinge l’ambiente nella parte superiore delle pareti, è stato realizzato da Baldassarre Peruzzi e bottega o forse da un giovane Giulio Romano. Sotto il cornicione affrescato vengono rappresentati gli dei sulle entrate e sui finestroni. Entrando a sinistra le figure femminili e a destra le figure maschili. In ordine riconosciamo: Cerere, Diana, Minerva, Giunone e Venere, a seguire Apollo, Saturno, Giove, Nettuno, Marte e Mercurio. Tra le figure di Minerva e Giunone, Sopra il camino, si trova l’affresco con la Fucina di Vulcano che dà vita ad una lunga tradizione che vede il dio del fuoco associato ai domestici caminetti di tutta Europa e che si ritroverà anche nella Sala delle Nozze.

Partendo da sinistra sono presenti sulla parete nord le dee Diana, Minerva e Giunone. Nel fregio vediamo:

  • la morte di Adone amato da Venere: dal sangue di Adone nascerà l’anemone, il fiore del vento, per non essere mai dimenticato (episodio presente nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio);
  • il trionfo di Arianna e Bacco, divinità molto presente nelle sale della villa;
  • la gara sui carri tra Enomao, che amava decorare il suo palazzo con i crani dei nemici sconfitti, e Pelope che, vincendo la gara, sposò Ippodamia, figlia di Enomao;
  • una scena sul monte Elicona, la sede delle muse in cui è presente il cavallo alato Pegaso che tocca con lo zoccolo la pietra facendo nascere una sorgente sul fondo, altri personaggi con la corona di alloro in testa sono in primo piano;
  • nell’ultimo quadro della parete viene illustrata una scena acquatica con Venere come personaggio principale.

Sopra il camino l’affresco raffigurante la fucina del dio Vulcano.

Fig. 4 - Parete nord, sopra le tre entrate le dee Diana, Minerva e Giunone. In alto il fregio. Al centro il camino con la fucina di Vulcano.

Nella parete est della Sala delle Prospettive sono raffigurati sulle due porte Venere e Apollo, nel fregio tre scene:

  • la prima, molto enigmatica, sembrerebbe rappresentare la dea Iride, riconoscibile a sinistra per la presenza dell’arcobaleno. Probabilmente si tratta della scena in cui la dea chiede a Ipno (il sonno) di mandare uno dei suoi tre figli, in questo caso Morfeo, in sogno ad Alcione per comunicarle che il marito Ceice è morto in mare;
  • nel riquadro centrale Cefalo, che ha dato il nome all’isola di Cefalonia, di cui Eos, la dea dell’Aurora si innamora, e di Procri la sua sposa che dopo tradimenti e riconciliazioni viene uccisa proprio da Cefalo stesso;
  • nell’ultimo affresco si vede il carro del sole.
Fig. 5 - Parete est, il fregio e sopra le due entrate gli dei Venere e Apollo.

Nella parete sud scompaiono le cariatidi; sono presenti quattro finestre sormontate dagli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte, ai cui lati troviamo dipinte le muse. Nei riquadri del fregio sono affrescati:

  • la toeletta di Venere;
  • Apollo che intreccia una corona nuziale;
  • Il mito di Arione di Metimna, leggendario cantore e suonatore di cetra, costretto a gettarsi in mare dai marinai che volevano derubarlo. Viene salvato dai delfini incantati dalla sua melodia, che lo riportano a riva (Erodoto, libro primo delle Storie);
  • Il mito di Pan e Siringa, una ninfa seguace di Artemide, che per sfuggire alle insistenze del dio venne trasformata in un fascio di canne palustri che, mosse dal vento, produssero un suono talmente armonioso da spingere il dio stesso a costruire il famoso flauto a canne conosciuto ancora oggi come “flauto di Pan” (Ovidio, libro primo);
Fig. 6 - Parete sud, il fregio interrotto da finestrelle e sopra le finestre gli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte.

Sulla parete ovest della sala si trovano le due porte sormontate da Mercurio e Cerere e sul fregio le ultime tre scene separate da cariatidi, partendo da sinistra:

  • L’episodio in cui Alcione vede il corpo del marito Ceice in mare;
  • Il mito di Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti all’ira di Giove che, infuriato per la crudeltà degli umani, aveva mandato sulla Terra un terribile diluvio devastante. La coppia, sbarcata sul Parnaso, consulta l’Oracolo di Delfi ottenendo questa enigmatica risposta: "Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre". Stettero a lungo a pensare a queste parole ma un giorno Deucalione si illuminò e capì che la Gran Madre era la Terra, e le ossa della Terra erano le pietre; così le pietre gettate da Deucalione, appena toccarono la terra, diventarono uomini e quelle gettate da Pirra, diventarono donne. In questo modo la Terra si ripopolò.
  • Il momento in cui Apollo deride Cupido il quale si vendica lanciando due frecce che colpiscono Apollo e Dafne ma che hanno effetti contrari. Una d’oro che fa innamorare, l’altra di piombo che lo impedisce. È così che Dafne, per sfuggire agli assalti del Dio, implora il fiume Peneo suo padre e la terra Gea sua madre, di aiutarla a cambiare forma. La sua disperata richiesta verrà esaudita e si trasformerà nell’albero di alloro di fronte al dio che, abbracciando disperatamente il suo tronco, giura che da quel momento in poi il lauro sarebbe stata la sua pianta sacra usata come corona dal dio e dai massimi poeti.
Fig. 7 - Parete ovest, in alto il fregio e sopra le due porte gli dei Mercurio e Cerere.

I restauri della Sala delle Prospettive

Gli affreschi vennero completamente coperti nel 1863 da nuove decorazioni, ma recuperati dai restauri del 1976-1983. Il fregio rimase intatto, seppur con alcune lesioni. I restauratori hanno effettuate delle ricerche e successivamente una pulitura che ha confermato il buono stato di conservazione delle superfici originarie. Nella parte bassa della sala sono stati però riscontrati diversi danni: zone originali fortemente abrase e alterazioni cromatiche in corrispondenza delle finestrelle causate da infiltrazioni di umidità. Si è quindi dovuto procedere, dove possibile, con reintegrazioni a tempera. In prossimità di consistenti lesioni si erano verificati anche dei distacchi dell’intonaco. La parete est in seguito ad un cedimento, subì una lesione ampia circa 8 cm. Il cedimento è tuttora visibile sia nelle due grandi fessurazioni oblique, una delle quali interessa parte della figura di Apollo e il viso dell’amorino sottostante, sia nella posizione degli architravi delle due porte, che pendono sensibilmente verso il centro. Si cercò di ovviare a tale cedimento già nel 1775, con l’inclusione di una catena, mentre nel 1863-66 il duca di Ripalda costruì al piano inferiore un muro di sostegno. Per poter controllare eventuali movimenti delle murature sono stati applicati degli estensimetri alle fessurazioni, peraltro già documentati in antico, che sono stati rimessi in luce con l’asportazione della ridipintura ottocentesca sulle finestre [1]. Il film pittorico del fregio, corroso da precedenti puliture piuttosto drastiche soprattutto nei fondi azzurri e nei verdi, era stato ritoccato ad olio e a tempera e successivamente ricoperto da uno strato di protettivo (o resina ‘ravvivante’). In questo caso ci si è limitati a rimuovere i ritocchi e il protettivo che col tempo si erano scuriti, ma non si è intervenuti sulla pellicola pittorica perché, anche se solo in parte conservata, consente comunque una buona lettura delle figurazioni e dello stile degli artisti. Le pesanti ridipinture di colore marrone-rossiccio delle nicchie sopra le porte e le finestre, con le figure di divinità, come pure i ritocchi a olio effettuati sopra la ridipintura a tempera ottocentesca dei paesaggi e delle vedute tra le finte colonne, sono stati asportati mediante solventi. A seguito di queste operazioni, l’affresco cinquecentesco sottostante è tornato in luce in condizioni più che soddisfacenti, rendendo possibile oggi ammirarlo.

Conclusione

Queste pareti sono particolarmente ricche di storia, anche drammatica. Interessantissime sono le scritte lasciate dai Lanzichenecchi, i soldati mercenari di Carlo V che invasero la villa, ne asportarono i beni e in parte la distrussero. Fu il momento in cui una parte del Rinascimento finì nel Tevere - letteralmente e metaforicamente.  Le scritte vandaliche, che hanno in parte rovinato gli affreschi, sono in lingua tedesca e sono datate al 1527; qualcuno dei soldati di Carlo V, con un pugnale o un altro strumento appuntito, ha inciso delle frasi sul muro affrescato. Una di queste recita più o meno: “Perché noi non dovremmo ridere, noi che abbiamo fatto scappare il Papa?”, riferendosi chiaramente all’episodio in cui Papa Clemente VII fu costretto a riparare a Castel Sant’Angelo. L’odio luterano fu quindi un aggravante in questa tragedia che colpì Roma, che subì un calo di popolazione notevolissimo tra la peste, le fughe e le uccisioni avvenute, appunto, durante il Sacco del 1527.

Fig. 8 - Parete est, scritte incise sugli affreschi dai Lanzichenecchi.

 

Note

[1] Cfr. http://www.icr.beniculturali.it/pagina.cfm?usz=5&uid=68&rid=94

 

Bibliografia

Gli interventi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (già ICR) presso la villa Farnesina-Chigi a Roma, Francesca Romana Liserre

 

Sitografia

www.villafarnesina.it

https://www.vidlab.it/

https://www.youtube.com/watch?v=rgx1FeyPTdg


IL PALAZZO DUCALE DI URBINO

A cura di Matilde Lanciani

“Una città in forma di Palazzo”: la loggia dei Torricini e gli interventi di Laurana e Di Giorgio Martini

Fig. 1

Il Palazzo ducale di Urbino, il cui lato lungo si apre su Piazza del Rinascimento, fu voluto da Federico Da Montefeltro (1422-1482), umanista, mecenate e abilissimo condottiero, che diede l’impulso alla costruzione di un edificio degno della sua raffinata corte e della sua potenza militare. Già il nonno Antonio (1348-1404) si era stabilito infatti nel Palazzo dei Priori, che poi sotto il conte Guidantonio (1378-1443), figlio di quest’ultimo, fu modificato e divenne noto come come “Palazzetto della Jole”.

Federico, figlio illegittimo di Guidantonio, giunto al potere nel 1444, dopo la congiura contro il fratellastro Oddantonio, nel 1454 diede avvio ai lavori per il nuovo Palazzo inglobando alcune costruzioni medioevali preesistenti. La chiesa di San Domenico, nei pressi della struttura, opera di maestranze fiorentine tra cui Maso di Bartolomeo (1406-1456), gli fornì un repertorio di artisti validi per iniziare il grandioso progetto. L’ “Appartamento della Jole” fu ristrutturato in questo periodo proprio grazie alle personalità relative a questa bottega, e sotto la guida di Bartolomeo di Giovanni Corradini detto Fra’ Carnevale (1414-1484).

Sempre nel 1454 la pace di Lodi mise fine allo scontro fra Venezia e Milano e portò ad un notevole miglioramento economico, premessa di quel contesto che verrà ad affermarsi e a costituire il terreno fertile della cultura umanistica che è carattere distintivo della corte di Federico Da Montefeltro. Infatti egli, alleato degli Aragonesi di Napoli, capitano al servizio del pontefice e degli Sforza di Milano, gonfaloniere della Chiesa e capitano della Lega italica, si pose in questo momento storico al centro della politica e dell’azione militare degli stati italiani. Il titolo di dux gli venne conferito nel 1474 dal Papa insieme al riconoscimento come membro dell’ordine della Giarrettiera da parte di Edoardo d’Inghilterra e dell’ordine dell’Ermellino da parte di Ferdinando d’Aragona. Anche il matrimonio a scopo politico con Battista Sforza, nel 1460, favorì le relazioni tra Milano e Urbino contribuendo a far crescere la figura del Duca in maniera esponenziale.
Importantissime furono le gesta militari di Federico al servizio di papa Sisto IV Della Rovere e del re di Napoli, soprattutto per quanto concerne la guerra contro i Medici, alla fine costretti a trattare la pace. Per celebrare la potenza della corte federiciana, il Palazzo ducale di Urbino divenne un ambiente necessario all'affermazione del proprio predominio sugli altri stati.

Laurana e Di Giorgio Martini

I lavori nel Palazzo, intorno al 1464, furono affidati  all'architetto Luciano Laurana (1420 -1479), proveniente dalla Dalmazia, il quale si era formato sotto l’influenza di Leon Battista Alberti. È infatti documentata la sua presenza a Mantova nel 1465, dove prese visione della poetica albertiana e partecipò ai lavori di sistemazione del porticato del cortile del Castello di San Giorgio con Luca Fancelli. A lui vanno attribuiti il Cortile d'Onore, lo Scalone d'Onore, la Biblioteca, il Salone del Trono, la Sala degli Angeli e la sala delle Udienze insieme al celebre studiolo del Duca e alla facciata dei Torricini.

Laurana ottenne la “patente” da architetto nel 1468 e quindi è possibile osservare come il mestiere in questione assumesse già un connotato molto moderno e richiedesse competenze e requisiti debitamente specifici. Sotto la sua guida, dal 1464 al 1472, il Palazzo assunse le sembianze di quell'aggregato razionale di ambienti elegantissimi che è possibile tuttora ammirare.

Successe al Laurana l’architetto-ingegnere Francesco Di Giorgio Martini (1439-1501) che provvide a completare le parti rimaste incomplete e ad elaborare un complesso sistema idrico che rese il Palazzo molto rinomato al tempo. Dal 1474 al 1485, fino alla morte del Duca (1482) e oltre con Ottaviano degli Ubaldini e sotto Guidobaldo da Montefeltro, l’architetto progettò  una facciata “ad ali” (fig.2) che si affacciava a nord sulla piazza e lavorò costantemente  alla decorazione interna ed esterna nei minimi dettagli, basti pensare alle formelle con il “Fregio dell’arte della guerra”, derivate dai numerosi disegni da lui eseguiti. Lo stesso avvenne per le tarsie lignee delle porte, finestre, capitelli e camini rigorosamente concepiti nei loro particolari dall'artista. Inoltre di Giorgio elaborò le logge sul Cortile del Pasquino ed il Giardino pensile del Palazzo.

Fig.2

La loggia dei Torricini

È interessante confrontare l’operato e l’apporto di Laurana e Di Giorgio, i quali interpretano in maniera diversa il tema della loggia ad arcate sovrapposte inquadrata da torri laterali (fig.3 e 4), la caratteristica più nota del Palazzo ducale di Urbino, che domina la vista e introduce magistralmente il tema del paesaggio nell'architettura, come avviene a Pienza.

La necessità di quadruplicare la superficie a disposizione per il nuovo progetto e ricavare una piazza più ampia portò il Laurana ad iniziare i lavori con la demolizione di alcuni vecchi edifici: il problema fondamentale di questo suo intervento, dato che ci troviamo su un colle, fu quello di adattare le nuove parti all'orografia del sito con i vari dislivelli naturali.

La  loggia dei Torricini (fig.5) si trova infatti sul pendio ovest della struttura, ed è possibile osservare come Laurana definisca in maniera molto moderna il tema dell’arco di trionfo con i loggiati sovrapposti in verticale, ciascuno coperto da volta a botte con lacunari o cassettoni all'antica, per poi aprire la facciata in maniera scenografica in modo da sottolineare l’assenza di fortificazioni quale simbolo della potenza militare di Federico sui territori limitrofi. Fu possibile inoltre lasciare agli architetti una relativa libertà stilistica senza doversi troppo curare degli edifici preesistenti dato che la facciata dei Torricini si affaccia verso l’esterno. Il materiale utilizzato è laterizio che segue la tradizione marchigiana, molto luminoso e levigato.

Il segno del cambiamento tra Di Giorgio e Laurana è evidente nella balaustra: quella della loggia inferiore (Laurana) presenta una specie di graticcio ligneo trasformato in pietra, mentre Di Giorgio in quella superiore utilizza delle colonnine anticheggianti.

Fig. 5

La loggia può essere considerata un baldacchino a più piani senza rinfianchi coperto a botte e sorretto da colonne libere ai piani superiori. Forse, come indica Fiore F.P. in Siena e Urbino, Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, il modello della loggia urbinate può identificarsi nell'arco fra le due torri di Castel Nuovo a Napoli, in una diretta citazione alla residenza del re aragonese del quale Federico era comandante generale. Altri modelli sono da ricercarsi nel portico del Pantheon o nell’Arco di Settimio Severo. La disposizione dei cassettoni che giungono sino al filo esterno della volta è invece quasi un unicum senza precedenti. La soluzione della volta a botte avanzata su colonne libere, invece, riconduce inevitabilmente al portale di San Domenico, già citato modello fondamentale per il rinascimento ad Urbino. Sulla seconda loggia, di Laurana, (fig.7) sono collocate la Cappella del Perdono e il tempietto delle Muse: qui il fianco che termina nella colonna avanzata è scandito da due alte paraste, secondo una disposizione sicuramente riferita all'avancorpo del Pantheon, così come all'interno della facciata di Sant'Andrea a Mantova di Alberti, all'epoca ancora in costruzione. La soluzione all'antica, sottolinea ancora Fiore, è conclusa da una trabeazione su capitelli di tipo pseudo composito, con volute e foglie al di sopra di un primo fascio di palmette. L’intercolumnio tra le paraste diminuisce di 1/3 rispetto a quello tra parasta e colonna mentre le paraste e le colonne, lisce, sono di pari diametro e in rapporto 1:7 e 1:3.

Fig. 7

Nella loggia superiore (fig.6), realizzata da Di Giorgio Martini, troviamo l’accoppiamento di colonne con le paraste corinzie, rudentate e raddoppiate che reggono l’arco su cui si imposta un sistema di volute. Specifica ancora Fiore: “Di Giorgio, infatti, era sicuramente  al corrente delle novità introdotte dall'architettura fiorentina, in particolare il tema dell’ordine corinzio, del richiamo all'ingresso del Pantheon, come osservato dall'autore nel portale di Santa Maria Novella, da cui è tratta anche l’idea della cornice del portale e a cui si ispira anche il fusto della parasta”. L’altro modello fiorentino inequivocabile per quanto riguarda il corinzio è Palazzo Rucellai.

Fig. 6

La stessa disposizione caratterizza la già citata terza loggia di Di Giorgio, dove si aprono lo studiolo e la camera di Federico, che abbiamo detto essere caratterizzata da paraste e colonne scanalate e rudentate, capitelli corinzi e trabeazione scolpita con i suoi ornamenti. Ancora gli studi di Fiore testimoniano che l’altezza dell’ordine è quasi identica a quella della loggia inferiore, e così il rapporto tra l’altezza della trabeazione e della colonna, mentre il diametro di colonna e paraste diminuisce creando una forma più slanciata, in proporzione di 1:8 e 1/3.

Conclude Fiore: “Si tratta dunque di una particolare diminuzione, che si distacca dai rapporti utilizzati per le colonne del cortile dove in angolo c’è  una diminuzione quasi vitruviana (1/4) dell’ordine superiore in altezza”.

Anche per questo c’è da riconoscere ed evidenziare la netta differenza tra Laurana e Di Giorgio, entrambi profondamente determinanti per l’architettura del Palazzo Ducale di Urbino nella loggia dei Torricini (fig.8).

Fig. 8

 

Bibliografia

Fiore F.P., Siena e Urbino, in Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Electa, Milano 1998, pp. 288-308.

Floriani P., Federico Da Montefeltro. Lo stato. Le arti. La cultura, I-III, Roma 1986, I, pp. 23-60.

Marchini, Giuseppe. Il Palazzo ducale di Urbino. Rinascimento 9.1 (1958): 43.

Polichetti Maria Luisa (a cura di), Il palazzo di Federico da Montefeltro: Restauri e ricerche (volume 1) - Rilievi (volume 2), Urbino, Quattroventi Edizioni, 1985.

Polichetti, Maria Luisa. Luciano Laurana e il Palazzo ducale di Urbino. (1988): 13-14.

Rotondi, Pasquale. The ducal palace of Urbino: its architecture and decoration. Transatlantic Arts, 1969.

Saalman, Howard. The Ducal Palace of Urbino. (1971): 46-51.

Zampetti, Pietro. Il Palazzo ducale di Urbino e la Galleria nazionale delle Marche. Vol. 86. La Libreria dello stato, 1951.


IL DUOMO DI TRENTO: VIAGGIO FRA I SUOI SEGRETI

A cura di Alessia Zeni

La struttura architettonica esterna

In queste tappe dedicate al Duomo di Trento si terrà un viaggio attraverso i segreti della struttura interna ed esterna della cattedrale. Perché segreti? Perché il Duomo di Trento, come altri monumenti dell’età medievale, nasconde un linguaggio, o meglio una simbologia, che trae origine dai bestiari medievali e dai testi biblici. Non solo, la sua struttura architettonica nasconde incisioni e targhe, memorie della sua storia arrivate fino a noi. In questo appuntamento si farà un tour virtuale attraverso la struttura architettonica esterna del Duomo di Trento, partendo dalla Piazza principale della città, prospicente il fianco nord della cattedrale, e proseguendo fino al fianco orientale della chiesa.

Dalla piazza principale (Piazza Duomo) emerge allo sguardo del visitatore la grande struttura architettonica duecentesca con l’abside nascosta dal castelletto merlato, sede del Vescovo, e la lunga galleria di colonne binate che ne alleggeriscono il prospetto settentrionale.

Fig. 1 - Piazza e Duomo di Trento, fianco nord (www.wikipedia.org).

La cosa che più colpisce il visitatore che si sofferma a guardare il Duomo dal centro della piazza è il grande ottagono del tiburio che copre la cupola interna della chiesa. Il tiburio è opera di fine Ottocento, ideata e realizzata dall’architetto triestino Enrico Nordio (1852-1923), che fu oggetto di molte critiche per la differenza di stile nel colore e nella forma delle pietre, tanto da ritenere Nordio “responsabile del disastroso ed arbitrario restauro purista del Duomo di Trento”, secondo le parole dello storico trentino Nicolò Rasmo.

Fig. 2 - Duomo di Trento, fianco nord, veduta aerea con il tiburio di Enrico Nordio (www.cattedralesanvigilio.it).

Non è l’unico elemento significativo che emerge in questo punto della cattedrale; infatti chi entra in Piazza Duomo ben presto noterà il capolavoro della Ruota della Fortuna, sistemata sul braccio nord del transetto. Un elemento architettonico inserito per ricordare al fedele che la vita è legata al ciclo inesorabile del tempo ed è un continuo oscillare di momenti funesti e momenti di trionfo. La fortuna è al centro del rosone, personificata da una donna coronata che con le braccia muove la ruota della vita. La ruota è suddivisa in dodici lobi che simboleggiano i mesi dell’anno, o le ore del giorno, cioè il tempo attraverso il quale l’uomo costruisce la sua fortuna o sfortuna. Sulla ghiera esterna del rosone sono rappresentati gli uomini sfortunati in posizione capovolta; stanno invece in piedi coloro che cercano di salire verso la sommità della ruota. In cima al rosone, una figura brinda con due boccali e li mostra con le mani alzate a rappresentare il colmo della felicità.

 

 

Sempre sul fianco nord dell’edifico è bene segnalare la grande Porta del Vescovo, perché da qui entravano i cortei vescovili che provenivano dalla residenza di Castel Buonconsiglio. La porta è sormontata da un sontuoso protiro rinascimentale sorretto da due grandi leoni stilofori, qui sistemati a guardia della chiesa, secondo l’antica fama dell’animale di dormire ad occhi aperti. Sul frontone del protiro emerge la figura scolpita del patrono, San Vigilio, e nella lunetta del portale è esposta una delle più antiche sculture del Duomo, un Cristo Pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti.

Fig. 9 - Duomo di Trento, fianco nord, lunetta con il Cristo pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti (www.wikipedia.org).

Proseguendo questo tour virtuale, da Piazza Duomo si svolta verso via Verdi per trovarsi di fronte alla Facciata principale del Duomo di Trento, il lato ovest con l’accesso alla chiesa. La facciata è dominata da un possente campanile con copertura a cipolla e da un magnifico rosone strombato suddiviso in sedici lobi decorati con colonne tortili e archetti gotici. Il rosone è un fine lavoro di intaglio della pietra, adornato sulla ghiera esterna dai simboli dei quattro evangelisti che guardano verso il Cristo assiso in trono. Chiude la facciata il portale strombato con architrave decorato da un tralcio di vite; il tralcio di vite è uno dei simboli cristologici più frequenti nelle chiese cristiane e ricorda il testo biblico: “Io sono la vera vite e voi i tralci”, ovvero Cristo è la vigna e i tralci sono i suoi seguaci o tutti i membri della chiesa cristiana.

Proseguendo verso Piazza Adamo d’Arogno si ammira il fianco sud del Duomo di Trento, che rispetto alle altre facciate della chiesa risulta essere meno incisivo. Qui emerge il corpo quadrangolare della Cappella del “Crocefisso del Concilio” con lo stemma del vescovo Francesco Alberti Poja, committente della cappella, e una modanatura dentellata con archetti pensili sostenuti da mensole con teste e animali stilizzati, opera di scultori campionesi.

Fig. 12 - Duomo di Trento, fianco sud, Cappella Alberti, stemma Alberti Poja (www.cattedralesanvigilio.it).

Chiude il tour il lato orientale, il luogo dove si trovano le absidi dell’edificio religioso, essendo questo orientato sull’asse est-ovest (come tutte le chiese dell’epoca medievale). È il lato più bello e più ricco, ma anche il luogo più antico del Duomo di Trento, poiché da qui presero avvio i lavori di ricostruzione della cattedrale, agli inizi del Duecento, per opera di Adamo d’Arogno. Accanto all’abside maggiore è collocata una piccola abside, molto sobria nella decorazione, ma elegante e lineare nella struttura. Questa fu realizzata prima di quella maggiore, come prova di come sarebbe stato costruito l’edificio.

Fig. 13 - Duomo di Trento, fianco est (www.wikipedia.org).

Accanto all’absidiola è sistemata una porta secondaria con un protiro sorretto da leoni stilofori e tre telamoni che, si pensa, raffigurino i tre figli di Adamo d’Arogno. I tre telamoni sorreggono le cosiddette colonne ofitiche (“òphis” dal greco serpente), ovvero una doppia colonna unita da un “nodo” in pietra che allude al Tempio di Salomone, al quale si richiamava idealmente la chiesa cristiana. Secondo la leggenda è il nodo che si formò fra i capelli del giovane Salomone, figlio di Davide, e re d'Israele, come monito ad essere più buono nei confronti delle persone che lo circondavano. Abbracciando le persone che vedeva, il nodo di Salomone si scioglieva.

Infine si arriva al corpo centrale dell’abside maggiore, la parte architettonica più interessante del Duomo di Trento per il suo ricco apparato decorativo e la grande monofora che illumina la zona dell’altare con la prima luce del mattino. Questa monofora è arricchita da un paio di doppie colonne “ofitiche”, sostenute da due grifoni alati (testa e ali d’aquila e corpo di leone) che agguantano una preda, il drago, a rappresentare la vittoria del bene sul male.

 

Si conclude qui questo viaggio virtuale attraverso i simboli e le decorazioni della struttura architettonica esterna del Duomo di Trento. Un viaggio alternativo per conoscere alcune delle sculture e dei simboli che decorano le pietre del Duomo, sculture e simboli che servono da monito al fedele a condurre una vita nella dottrina cristiana e lontana dalle tentazioni terrene.

 

Bibliografia

Malacarne Ambrogio, Una chiave di lettura della Cattedrale di Trento, Trento, Vita Trentina, 2006

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

 

Sitografia

www.cattedralesanvigilio.it


IL DUOMO DI LECCE E I PROPILEI

A cura di Rossana Vitale

LE FORME DEL BAROCCO: I PROPILEI

Tra il XVII e il XVIII secolo la città di Lecce parlava un’unica lingua artistica: quella del Barocco, che con le sue decorazioni piene, le sue esuberanze e i profondi significati simbolici nascosti nei suoi ornamenti aveva dato un’impronta omogenea alla città. Nonostante il Barocco, secondo Benedetto Croce, dovesse essere relegato alla periferia, in quanto “fenomeno di degradazione, non essendo né uno stile né un movimento, ma al massimo una categoria del brutto o un pervertimento”, questo fiorì velocemente nella città salentina, barocca al pari di Roma, che negli stessi anni vide la magnificenza delle opere di Borromini e Bernini, solo per citare due importanti artisti.

Una tra le “scene” artistiche a dover essere migliorate dall'arte barocca in quegli anni era la Piazza Duomo, che ospitava appunto il Duomo di Lecce e che necessitava di un nuovo ingresso degno dell’alto livello di tecnica e di raffinatezza raggiunto dagli altri edifici, simbolo del potere ecclesiastico. Il vescovo Alfonso Sozi Carafa, grande ispiratore di opere come il suo predecessore - il vescovo Pappacoda - decise di affidare al suo architetto di fiducia, Emanuele Manieri, la sistemazione del prospetto di ingresso alla piazza del Duomo e all'adiacente Palazzo Vescovile, eliminando l’antico portale d’accesso sormontato da una meridiana e dall'orologio.

L’architetto non era nuovo ai lavori in questa piazza, avendo dato già prova di grande ingegno nella sistemazione dello stesso Palazzo Vescovile.

La scelta progettuale del Manieri non fu semplice, e piuttosto che optare per un nuovo portale o per un arco di trionfo celebrativo, decise di sfruttare al meglio l’esiguo spazio che aveva a disposizione, dando vita ai “Propilei”.

Dall'elaborato profilo planimetrico, i Propilei non sono autonomi dalla scena che introducono: sono invisibili finché non vi si arrivi davanti, ma la loro presenza prospettica dà il benvenuto e invita ad entrare nella piazza, raccordando tutti gli elementi qui presenti in una specie di grande cerchio, di cui essi sono l’ingresso e l’uscita, e in cui si susseguono a partire da sinistra il Campanile, il Duomo, il Palazzo Vescovile e il Palazzo del Seminario. È come se rappresentassero un confine netto tra la strada del corso, viva e chiassosa, e la piazza, silenziosa e raccolta. Una volta che si oltrepassa questo varco si rimane senza fiato per la bellezza che ci si trova davanti.

Le costruzioni nella piazza hanno altezze e misure molto diverse tra loro: per ovviare a questo problema visivo i Propilei, vere e proprie quinte di pietra, mantengono un unico asse prospettico non simmetrico che determina la cosiddetta “struttura a cannocchiale”, e che permette di dare allo spettatore un unico punto di traguardo.

Nel cerchio rosso si vede la planimetria dei propilei, mentre nel rettangolo il punto di fuga prospettico, cosi come anche quello dello spettatore, sulla facciata laterale del duomo.

Entrambi i Propilei hanno un profilo mistilineo e sono dotati di balaustra su cui si imposta la loggia con le statue dei Santi Oronzo, Irene e Venera da una parte e di tre Padri della Chiesa dall'altra, ognuno con un orientamento spaziale differente: i due personaggi adiacenti alla strada sono rivolti in quella stessa direzione, i due centrali guardano all'interno del varco e i due prossimi alla piazza sono girati verso di essa. Accompagnano il percorso del visitatore, accogliendolo, e proseguono con lui. Subito al di sotto della balaustra, centralmente, si presenta lo stemma del vescovo.

La parte superiore, oltre la balaustra e le statue, si configura come una porzione trapezoidale irregolare, con il lato maggiore prominente verso l’esterno al fine di indirizzare un’apertura prospettica al di fuori della piazza.

Le due strutture sono connesse tra di loro mediante svasature e raccordi, così da determinare una dilatazione visuale sulla piazza: entrambe suddivise da un sistema di tre paraste, una disposta centralmente e le altre due ruotate alle estremità, risultano solo apparentemente speculari tra loro.

IL DUOMO DI LECCE: L'ESTERNO

Appena oltre questo benvenuto scultoreo si apre al visitatore, con il numero civico “13”, la bellezza della fastosità barocca rappresentata dalla facciata laterale del Duomo di Lecce, ricostruito tra il 1659 e il 1670 laddove sorgeva un’altra chiesa, demolita nel 1658, per conto del vescovo Pappacoda e per mano di Giuseppe Zimbalo.

Presenta due prospetti: quello principale è adiacente al Vescovado, poco visibile pur essendo il punto di fuga dei propilei, ed è anche la proiezione esterna della divisione interna della fabbrica.

Con un sistema di paraste scanalate la facciata, così come l’interno, è divisa in tre sezioni verticali - quindi tre navate - e due ordini orizzontali, popolati dalle statue di San Pietro e San Paolo, San Gennaro e San Ludovico, riconoscibili dalle iscrizioni lapidarie poste al di sopra. Sul timpano che chiude in alto questa prima facciata si trova un finestrone rotondo decorato con motivi curvilinei. È stata concepita pulita e sobria, proprio perché non è la facciata che accoglie il visitatore, quindi non deve stupire. Vi si apre il portone d’ingresso rifatto dallo scultore Armando Marrocco nel 2000, anno del Giubileo, per volere di Monsignor Ruppi: raffigura in alto Cristo che in una nuvola risorge tra Padre e due scene separate tra loro. La chiesa universale che incontra la chiesa locale in basso e l’Assunzione della Vergine e la visita di San Giovanni Paolo II a Lecce nel 1994, in alto.

L’attenzione quindi viene totalmente catturata dalla magnificenza barocca del prospetto laterale, che risulta diviso anch’esso in tre sezioni verticali, con il portale inquadrato da due colonne sfarzose, con capitelli corinzi in alto e due corone a tre quarti della lunghezza, abitate queste da due grandi putti coperti da un drappo. Tuttavia la ripartizione in due ordini orizzontali è quella più interessante da un punto di vista artistico: la decorazione nei minimi particolari è una delle rappresentazioni di punta del Barocco Leccese.

Ai lati del portale i compatroni della città, i Santi Giusto e Fortunato, occupano due nicchie, mentre sulla lunetta del portale tre putti si appoggiano su di un festone composto da melograni e altri frutti e piante intrecciati tra loro. Questa rappresentazione si ripete anche sulla base dell’architrave, abitata da tanti piccoli putti che mantengono tra di loro piccoli festoni, simili a quello più grande al di sopra.

Sulla ricca balaustra svetta un arco - la cui cornice è piena anch’essa di melograni, simbolo di ricchezza e fecondità - in cui campeggia maestosa la statua di Sant’Oronzo, accompagnato da due putti ai suoi lati: con ricchi paramenti vescovili, mitra e bastone del comando, con la mano in segno benedicente. In alto lo stemma del vescovo Pappacoda chiude la facciata.

IL DUOMO DI LECCE: L'INTERNO

All'interno la struttura del Duomo di Lecce è a croce latina, con tre navate divise da pilastri con semi-colonne addossate, ed ogni navata ospita quattro cappelle:

  1. cappella di San Giovanni Battista;
  2. cappella dell’Annunziata;
  3. cappella di San Fortunato;
  4. cappella di Sant’Antonio da Padova.

Il soffitto è ligneo a lacunari dorati e tele incastonate, realizzate per mano di Giuseppe da Brindisi e Carlo Rosa.

Il primo ha composto: 1. la predicazione di Sant’Oronzo, in cui il santo è raffigurato mentre mostra ad una folla di adoranti ai suoi piedi la croce sulla quale è morto Gesù; 2. la protezione dalla peste, in cui Sant’Oronzo scende dal cielo, e con l’aiuto di tre angeli che mantengono il bastone del potere vescovile, la palma simbolo del martirio ed una spada simbolo della decapitazione, difendono la città rappresentata sullo sfondo dalla peste, raffigurata come un uomo dalle sembianze demoniache; 3. martirio di Sant’Oronzo, che attende prono l’esecuzione della decapitazione, mentre un putto sopra di lui lo attende con l’aureola della santità e la palma del martirio.

Mentre per mano di Carlo Rosa abbiamo: 1. l’Assunzione della Vergine; 2. l’Ultima Cena, all’incrocio del transetto con la navata, si presenta come una scena affollata, in cui però è subito riconoscibile Giuda, seduto in primo piano su di uno sgabello con in mano un sacchetto blu con le monete ricevute per il tradimento.

Per tutti gli elementi che caratterizzano l’interno del Duomo di Lecce, per la loro bellezza e fastosità, è necessaria una trattazione specifica a parte, che sarà oggetto del prossimo articolo.

 

Bibliografia

Cazzato e M. Cazzato, a cura di, “Atlante del barocco in Italia. Lecce e il Salento. Vol.1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco.” ed. De Luca, 2015

Fagiolo, M.L. Madonna, a cura di, “Il Barocco romano e l’Europa. Centri e periferie del Barocco. Vol.1”, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992

Cazzato “Puglia Barocca”, ed. Capone, 2013

Cazzato “Il Barocco Leccese”, ed. Laterza, 2003

 

Sitografia

www.brundarte.it

www.puglia.com