SAN GIORGIO AL PALAZZO

A cura di Francesca Richini

 

 

Percorrendo via Torino dal Duomo in prossimità del Carrobbio, tra bar e negozi, si trova una piccola piazza con una chiesa, San Giorgio “al Palazzo”.

La chiesa può risultare ad uno sguardo inconsapevole di non rilevante importanza, in realtà è carica di storia già a partire dal riferimento “al palazzo”. Quale palazzo e perché? Intitolata al santo eponimo fin dalla fondazione, voluta secondo tradizione dall’arcivescovo S. Natale nel 747 d.C., da sempre accompagnata da questa specificazione tanto che più persone si sono poste il dubbio a quale palazzo si facesse riferimento e varie sono le ipotesi, alcune più valide di altre. 

Una di queste è che si trovasse nei pressi del palazzo imperiale fatto costruire a Milano da Massimiano Erculeo dal 286 al 305 d.C., dopo che l’imperatore scelse nel 285 la città come sua residenza e come capitale d’Occidente. Questa idea è stata rafforzata da alcuni scavi archeologici che hanno ritrovato un pavimento a mosaico, presso la casa al numero 51 di via Torino, che sono simili nella fattura alla grande pavimentazione a mosaico situata sotto il palazzo Stampa, rinvenuta nello scavo del 1877. Tuttavia, l’ipotesi del palazzo imperiale sembra non essere valida, poiché nel 1865 uno scavo effettuato sulle fondamenta delle case davanti alla chiesa aveva portato al ritrovamento di un pavimento marmoreo tassellato di un tipo diverso da quello che ci si sarebbe aspettati e che avrebbe spostato il palazzo imperiale più a nord. 

Un’altra delle ipotesi è che il “Palazzo” fosse quello costruito da Luchino Visconti (1292-1349) descritto da Carlo Torre nella guida “Ritratto di Milano” del 1674, dove ne parla come: “quella invecchia gran casa, che ancora mostra fenestroni alla gotica […]. Ella fu stanza di Luchino Visconte da lui fabbricata con quella magnificenza che sì generoso principe soleva usare in tutti i suoi gesti. Le insegne delle vipere scontee appaiono scolpite nel marmo”. Descrizione curiosa, se si considera che si parla di un “palazzo” in un documento del 988 che fa riferimento alla costruzione della chiesa di S. Giorgio come “prope locus ubi Palatio dicitur”.

Qual è l’ipotesi più plausibile? Probabilmente c’era un palazzo importante, del quale non è rimasta traccia se non nella cultura popolare, come completamento del nome della chiesa e se si considerano diversi ritrovamenti avvenuti nei vari scavi archeologici di pavimentazioni, muri ed oggetti risalenti all’epoca romana la zona doveva essere molto vissuta ed ha subito notevoli cambiamenti. 

 

La Chiesa  

 

 

Veniamo ora a parlare della chiesa. Della struttura originaria voluta da San Natale, arcivescovo della città, nel 747 d.C. non rimane molto dati i numerosi rifacimenti che nel corso del tempo ha subito. Delle varie trasformazioni una tra le più importanti è quella in stile romanico del 1129, quando è stata riconsacrata il 15 gennaio dello stesso anno. La struttura è rimasta inalterata fino al Cinquecento, secolo che ha dotato la chiesa di due capolavori dei due mastri dell’epoca: Gaudenzio Ferrari e Bernardino Luini che possiamo ammirare ancora oggi nella navata di destra. 

L’interno della chiesa che riusciamo a vedere oggi è il risultato dei lavori avvenuti sotto la direzione di Francesco Maria Richino (1584 – 1658), architetto molto attivo nella Milano dell’epoca, per volere del Card. Federico Borromeo. 

La facciata barocca voluta da Francesco Bernardino Ferrario venne costruita a metà Settecento ed è quella che ci accoglie oggi. 

 

La navata sinistra

Entrando dalla porta di sinistra si incontra la prima cappella dedicata a S. Antonio da Padova, come testimoniato dalla statua settecentesca in legno policromo del santo. Qui sul pavimento si può notare l’unica lapide sepolcrale rimasta nella chiesa. La cappella successiva dedicata alla Madonna, ha una decorazione recente, contiene la Madonna in marmo bianco della seconda metà dell’Ottocento, mentre le tempere alle pareti sono state eseguite negli anni Trenta del Novecento. 

L’ultima cappella è dedicata a S. Carlo Borromeo, zio del Cardinale Federico che aveva ordinato nel Seicento il rifacimento della struttura, e contiene due quadri e due affreschi di cui S. Carlo è il soggetto principale. Il dipinto di destra raffigura San Carlo che dà la Prima Comunione a S. Luigi Gonzaga dipinto nel 1845 da un discepolo di Hayez, Giuseppe Sogni, mentre sulla parete di sinistra vi è S. Carlo che ottiene la cessazione della peste del XVII secolo. I due affreschi sulle pareti rappresentano la parsimonia di S. Carlo e la carità del Santo, più in generale la cappella è una testimonianza dell’importanza della figura del Santo nella città di Milano. 

 

Lasciandosi alle spalle la navata di sinistra, ci si trova nel transetto dove è possibile notare due capitelli incisi che, collocati sotto i due pulpiti, sono i resti delle colonne romaniche appartenenti alla prima ricostruzione della chiesa, ed ora trasformati in acquasantiere. Girandosi nuovamente a sinistra sulla parete si nota una lastra con inciso: “Questa insigne Basilica sorta nell’ambito del Palazzo imperiale romano conserva e tramanda nei secoli la memoria del famoso Editto di Milano, con il quale Costantino e Licinio nell’anno 313 riconobbero ai cristiani il diritto di professare liberamente la fede”. Per tramandare e celebrare il ricordo di questo importante editto nel 2013, anno dell’anniversario, è stata coniata una moneta commemorativa.

 

Il presbiterio

Il presbiterio modificato nel 1973 con pavimenti in granito di Baveno ha un coro ligneo del XIX secolo ed al centro l’altare. Questo, eseguito in marmi neri e scuri, mostra un’urna contente le reliquie di S. Natale ivi collocate nel 1935. Sulle pareti si ammirano gli affreschi di Gesù dodicenne nel tempio e Gesù che assolve l’adultera del pittore Virginio Monti di Roma del 1891. Sopra le due opere pittoriche, nei lunettoni, si trova il santo eponimo: la lotta di S. Giorgio con il drago a destra ed a sinistra il martirio di S. Giorgio.

 

La navata destra

Tornando all’entrata della chiesa e dirigendosi verso la navata di destra si può osservare una cappella riccamente decorata: questa è la cappella dedicata a S. Girolamo. Il Santo si trova al centro della cappella sopra l’altare dai marmi policromi, ritratto nella tavola dipinta da Gaudenzio Ferrari nel 1545 circa. Nella cappella si ritrovano elementi riferiti al soggetto della tavola, come le persone care a S. Girolamo dipinte nell’arco ed i simboli dei luoghi legati alla vita del Santo visibili nella cupoletta: Roma, Gerusalemme, Betlemme, Egitto. Scostanti da S. Girolamo sono invece i due dipinti posti ai lati, uno con il Martirio di S. Giorgio e l’altro con L’adorazione dei Magi, quest’ultimo, secondo una leggenda popolare, è forse il riferimento alle reliquie dei Magi presenti a Milano nella chiesa di Sant’Eustorgio che durante la venuta del Barbarossa sono state nascoste in San Giorgio per evitarne il furto. 

 

Si passa poi alla cappella “del Crocefisso” posto al centro, di recente fattura 1926, con le statue di S. Francesco e S. Chiara poste ai lati.

L’ultima cappella della navata di destra è dedicata al “Corpus Domini” e contiene l’opera di maggiore importanza della chiesa. Eseguita nel 1516 da Bernardino Luini per conto della Confraternita del Corpus Domini sotto volere di Luca Terzaghi. 

 

L’opera, che difficilmente non si riesce a notare, è ben illuminata composta da quattro tavole con soggetti che hanno al centro il compianto sul Cristo morto, nelle laterali: ecce Homo e la Flagellazione, nella lunetta l’Incoronazione di spine. L’opera ripropone la passione di Cristo partendo dalla tavola di destra per passare alla lunetta e alla tavola di sinistra per poi passare alla volta, affrescata, che rappresenta il culmine con la Crocifissione al centro, a sinistra la Madonna con S. Giovanni e le tre Marie ai piedi della croce, a destra il gioco dei dadi con la spartizione della veste.

 

 

 

 

Bibliografia

Giulio Colombaro, San Giorgio al Palazzo. Guida descrittiva, Tipografia dell’addolorata, Varese, 1974

G. Agosti, J. Stoppa, R. Sacchi, Bernardino Luini e i suoi figli. Itinerari. Ediz. illustrata, Officina Libraria, Milano, 2014

R. Accardo, V. Gabriele, Bernardino Luini in San Giorgio al Palazzo, Industri grafiche GECA, San Giuliano Milanese (MI), 2016


PORTA A SAN NICCOLÒ: LA PIÙ ANTICA PORTA DELLE MURA DI FIRENZE PT I

A cura di Arianna Canalicchio

 

“L’unica tra le Porte Maestre, che conservi la sua antica maestà ed altezza è la Porta a S. Niccolò, il di cui nome deriva dalla prossima Chiesa, che è al di dentro, e da cui pure il Borgo si appella” [1]

 

 

Con queste parole, nel 1794, veniva descritta dall’abate Domenico Moreni, intellettuale e letterato fiorentino, la torre a San Niccolò. La struttura all’epoca serviva ancora da porta di accesso alla città ed era circondata dalle alte mura costruite a partire dal 1284. Si trattava della sesta e ultima cerchia muraria realizzata dunque in età Comunale con l'intento di difendere la città; la storia delle mura di Firenze è in realtà molto lunga, le prime, con un perimetro di appena 1.800 metri, vennero costruite in epoca romana intorno al 59 a.C., al momento della nascita del primo nucleo della città. Seguirono quelle bizantine, ancora più piccole delle precedenti, e poi ci fu un lento ampliamento della città, prima con la cinta detta carolingia e poi con quella “matildina”, costruita nel 1078 grazie a Matilde di Canossa e che conteneva una popolazione di circa 20.000 abitanti. 

Il grosso sviluppo della città cominciò però a partire dal XII secolo, quindi il governo Comunale, intorno al 1172, prese la decisione di ampliare ancora una volta la cerchia muraria per contenere una popolazione che nel giro di cento anni era quasi raddoppiata. La crescita di Firenze continuò in modo esponenziale, tanto che nel 1284 il Comune decise di dare il via alla costruzione di una seconda cinta di mura.  Questa doveva essere abbastanza ampia da accogliere una popolazione che aveva raggiunto quasi i 90.000 abitanti, cifra impressionante se si pensa che Firenze tornò ad avere una tale densità di popolazione soltanto nell’800. La nuova cinta doveva comprendere anche tutta quella zona definita dai fiorentini “d’oltrarno” poiché si trovava dall’altro lato del fiume Arno, che a poco a poco stava diventando sempre più abitata ma che non aveva mai avuto un vero e proprio sistema difensivo. In questa parte di città sorse Porta San Niccolò; non esiste una datazione precisa del momento della costruzione della struttura, sappiamo che i lavori alle mura iniziarono indicativamente nel 1284 e che vennero affidati ad Arnolfo di Cambio. Il Villani, celebre cronista fiorentino, nel libro IX della sua Cronica racconta che nella zona d’oltrarno i lavori cominciarono intorno al 1324 e che sarebbero finiti già nel 1327. In realtà il lavoro di costruzione delle mura andò avanti almeno fino al 1333, anno del tragico alluvione che distrusse i ponti di Firenze, che viene preso dagli storici come data simbolica di conclusione. Secondo alcuni studiosi invece la porta sarebbe attribuibile ad Andrea Orcagna, che effettivamente dal 1324 venne chiamato a lavorare alla cinta muraria, spostando la datazione al 1329[2]. Quel che è certo è che le mura rimasero per secoli decisamente molto più grandi rispetto all’abitato cittadino, a causa prima dell’alluvione del 1333 e poi della peste nera del 1348 che decimarono la popolazione. 

 

Se è difficile dare una datazione precisa a Porta San Niccolò, ben più facile è invece analizzarne i materiali. La torre, così come le mura che la circondavano, venne costruita con la pietra tipica fiorentina, la così detta “pietra forte”, materiale da costruzione usato in tantissime delle strutture più importanti della città a cominciare da Palazzo Vecchio, per altro in costruzione proprio negli stessi anni. Le pietre vennero in parte recuperate dalla precedente cinta e da altri edifici distrutti, prassi molto diffusa all’epoca perché permetteva agli operai di avere del materiale già tagliato e squadrato, immediatamente pronto all’uso. Per la costruzione della torre si servirono però anche di pietra forte estratta da alcune cave che si trovavano nei pressi del giardino di Boboli. Esiste ancora oggi uno di questi ambienti, che si trova lungo Costa San Giorgio, ormai chiuso da anni ma che per chi lo conosce è ancora individuabile dietro un cancello. La cava venne infatti utilizzata per secoli e aperta ancora, per un’ultima volta, nel secondo dopoguerra quando il Comune la utilizzò per ricavare la pietra forte con cui ricostruire “come erano e dove erano” le torri medievali distrutte dalle mine tedesche. 

La pietra forte veniva tenuta insieme grazie a una particolare calce realizzata con la rena del fiume Arno. In un’ordinanza ufficiale del 1325 si stabiliva infatti che fosse obbligatorio utilizzare soltanto quella dell’Arno e non quella del Mugnone, affluente del fiume fiorentino, poiché era considerata di qualità inferiore[3]. 

Non dobbiamo quindi immaginare la porta isolata in mezzo a una piazza com’è adesso ma con un largo fossato all’esterno e con un camminamento in quota che permetteva di muoversi lungo i circa nove metri di perimetro delle mura e di entrare direttamente all’interno della torre. Le rampe di scale che permettono oggi l’accesso alla porta sono infatti una costruzione di metà ‘800 resa necessaria dall’abbattimento delle mura. Fin tanto che l’accesso alla torre era possibile tramite camminamento, non era infatti necessario che ci fossero delle scale per raggiungere l’ingresso in quota. 

Porta San Niccolò aveva quindi un lato che dava verso la campagna dal quale arrivava chi voleva entrare in città e un lato invece che dava verso l’interno. Il fornice era chiuso da due grandi battenti in legno, che esistono ancora oggi ma che sono in attesa di restauro, i quali venivano aperti la mattina e richiusi al tramonto scandendo la giornata lavorativa della città. Passeggiando oggi sotto il grande fornice sono ancora visibili i cardini della porta (fig. 3), alcune strutture in ferro per tenere le torce e, alzando gli occhi, una lunetta affrescata (fig. 4). L’opera, databile intorno al 1375, è attribuita a Bernardo Daddi e raffigura una Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista, patrono della città, e Niccolò. L’affresco, come racconta Giuseppe Poggi, architetto che negli anni ’60 dell’800 curò i lavori di costruzione della piazza e di abbattimento delle mura, venne restaurato in quello stesso periodo da Gaetano Bianchi, importante restauratore di affreschi medievali che aveva lavorato alla riscoperta di Giotto nella Cappella Bardi in Santa Croce e degli affreschi del Chiostro Verde di Santa Maria Novella. La lunetta necessiterebbe ad oggi di un altro intervento di restauro, poiché trovandosi all’aperto, anche se nella parte interna del fornice, è da secoli soggetta agli agenti atmosferici che hanno reso la pittura difficilmente leggibile. 

 

La porta, nel lato che dava verso l’esterno della città (fig. 5 ), era completamente murata, ad eccezione di sei piccole aperture utili per l’avvistamento; si trattava infatti della parte che andava difesa dalle minacce esterne ed era quindi pensata in modo tale da resistere ad assedi e attacchi. Non presentava particolari decorazioni, se non gli stemmi, oggi quasi completamente consunti, con scolpito il giglio simbolo del Comune, quello della Parte Guelfa con aquila e drago e la croce del Popolo. Unica decorazione erano due grandi mensole che contenevano dei leoni in pietra, simbolo della città di Firenze, di cui adesso rimangono solo le strutture delle mensole quasi del tutto ricostruite. 

 

Nella parte interna invece (fig. 6), in direzione della città, la porta aveva ed ha ancora oggi, un aspetto completamente differente. Non aveva alcun bisogno di essere difesa e quindi troviamo in corrispondenza dei due piani delle grandi arcate sovrapposte che permettono di vedere l’interno. Sarebbe stato infatti inutile chiudere anche questa parte e avrebbe comportato un utilizzo e uno “spreco” di pietra che il Comune non poteva e non voleva permettersi. La porta è una struttura spoglia anche nella parte interna, non era pensata come un’abitazione ma doveva servire soltanto come appoggio a chi stava di guardia. Addossati alla parete corrono i ripidi scalini che permettevano ai soldati di spostarsi da un piano all’altro, gli ambienti sono molto grandi ma privi di divisioni interne, ad esclusione di una piccola stanzetta al primo piano, alla quale si accede tramite uno stretto corridoio lungo non più di un paio di metri, usata da chi di guardia come bagno. Si tratta infatti di una struttura in mattoni aggettante rispetto alla parete laterale della torre, con un buco sul pavimento. Un ambiente molto semplice ma che ci restituisce un piccolo spaccato della vita di tutti i giorni. 

 

Continuando a salire all’interno della torre si arriva fino alla cima, nella quale oltre a poter godere di una splendida vista su Firenze troviamo alcune strutture difensive caratteristiche delle porte. La torre era infatti coronata da una merlatura guelfa, distrutta nel ‘500 e ricostruita trecento anni dopo ma che ancora oggi poggia sui beccatelli originali (fig. 7). Ci sono i piombatoi; aperture nel pavimento che permettevano ai soldati durante gli assedi di buttare sul nemico olio bollente, sassi o qualsiasi altro materiale di scarto che avessero avuto a disposizione. Questi venivano costruiti sul lato esterno della torre che era leggermente aggettante rispetto alla parete per rendere più efficace la loro funzione difensiva. 

 

La storia della porta a San Niccolò è assai lunga; utilizzata per anni durante gli assedi perse la sua funzione già alla metà del ‘500 ma tornò ad essere un punto di difesa durante la Seconda guerra mondiale. Non sappiamo molto della sua storia in quegli anni ma probabilmente venne usata come luogo di avvistamento dai soldati o dalla resistenza e venne colpita dagli spari nemici. Porta, infatti, ancora oggi sui merli dei buchi segno dei proiettili che la colpirono, raccontandoci un’altra storia. 

 

Note

[1] D. Moreni, Notizie istoriche dei contorni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927, p. 1

[2] Questa datazione e questa attribuzione vengono proposte da A. Petrioli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, edizioni Polistampa, Firenze 2017, p. 159.

[3] Ordinanza ufficiale citata in L. Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper Editrice, Firenze 2005, p. 10.

 

 

 

 

Bibliografia

L. Anichini, Alle porte coi sassi. Storia e guida alle porte delle mura di Firenze, Nicomp, Firenze 2011.

L. Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper Editrice, Firenze 2005.

F. Bandini, Su e giù per le antiche mura, Fratelli Alinari Edtrice, Firenze 1983. 

Comune di Firenze (a cura di), Porta San Niccolò, vol. 4 Itinerari sconosciuti, 

C. De Seta, J. Le Goff (a cura di), La città e le mura, Editori Laterza, Bari 1989. 

R. Manetti, M. C. Pozzana, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura¸ Clusf, Firenze 1962.

D. Moreni, Notizie istoriche dei controni di Firenze. Parte quinta. Dalla Porta a S. Niccolò fino alla Pieve di S. Piero a Ripoli, Firenze 1794, ristampa anastatica, Soc. Multigrafica Editrice, Roma 1927. 

A. Petrioli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, edizioni Polistampa, Firenze 2017.


LA CHIESETTA DI SANTA LUCIA A TAGGIA: UN LUOGO DEL PASSATO E DEL PRESENTE

A cura di Daniele Mennella

 

Cenni Storici 

Le antiche fondamenta, il culto arcaico e quello attuale

 

Tra i ‘caruggi’, che sezionano in modo labirintico l’abitato medievale di Taggia, la chiesetta di Santa Lucia si erge adiacente al ripido sentiero lastricato, che dalla cittadina porta verso il nucleo più antico del borgo, ove svetta l’antico castello, eretto intorno all’ XI secolo d.C. Risulta complicato datare con precisione l’edificio ecclesiastico, sia a causa della penuria di fonti, sia per i molti rifacimenti eseguiti nel corso del tempo. Le fondamenta risalirebbero al VI secolo d.C., periodo nel quale la comunità arcaica di Tabiesi, dopo aver lasciato il nucleo preromano di Costa Bellene, si insedia tra il Rio di Barbarasa e il Rio di Santa Lucia, dove si trova oggi la chiesa. 

Unica testimone delle antiche radici sulle quali poggia il santuario è l’acquasantiera, databile intorno al XIII secolo, la sua collocazione nel tempo è supponibile grazie al suo programma decorativo. All’apice della colonnetta tortile su cui poggia la vasca è scolpita una figura antropomorfa intenta a reggerne il recipiente, motivo iconografico riscontrabile durante tutto il Duecento. Si può supporre, dunque, che, dopo la fonte battesimale preromana attestata nella Basilica di Capo Don, i cui resti sono oggi visibili nel comune di Riva Ligure, l’acquasantiera di Santa Lucia sia la più antica ad essere stata costruita dalla comunità arcaica di Taggia nella nuova zona abitativa, a ridosso del castello. 

 

La devozione per Santa Lucia, martirizzata nel 303 sotto Diocleziano, fu molto diffusa fin dai primi secoli: il suo nome fu simbolo della nuova luce dell’impetuosa fede cristiana. La predicazione nella zona imperiese fu professata dal beato Orsmida e, in primo luogo, dal vescovo Siro. Ragionevolmente, dunque, grazie alle divulgazioni compiute dai testimoni della neonata fede cattolica, l’antica comunità di Tabya decise di dedicare alla Santa siracusana la sua prima chiesa. Ad oggi, la chiesa di Santa Lucia è in custodia ai ‘Maddalenanti’, gruppo religioso fondato nel 1716 con un atto notarile redatto di pugno da Giò Valentino Anfossi. In questa compagnia la morte, la devozione e la superstizione si confondono creando una realtà peculiare.

La Struttura 

I rifacimenti e le tele scomparse

La pianta rettangolare si presenta irregolare a causa dell’adattamento al declivio su cui poggia. La navata è unica con due altari laterali aggettanti rispetto al corpo architettonico principale. Il pavimento è coperto da voluminose lastre di ardesia, rivestimento caratteristico degli edifici taggiaschi. Secondo le fonti, nel 1505 il reverendo Stefano Grillo riedificò la chiesa sulle rovine dell’edificio di culto conferendole l’aspetto che oggi ammiriamo.

 

Nel 1513 l’importante lascito di Giacomo Pasqua consente di arricchire l’arredo di Santa Lucia. Il campanile a pianta quadrata, che svetta sul fianco destro della struttura, è frutto di una ristrutturazione ultimata nel 2017. Sulle pareti laterali della navata sono presenti cornici in stucco dipinto che ospitavano tele ad oggi scomparse. Resta, però, all’interno della cornice un’incisione che riporta la data del 1762, presumibilmente l’anno in cui la tela è stata rimossa. Nella chiesa è inoltre conservato il trono in legno, opera dello scultore Bernardino Varese, sul quale venne posta, nel 1856, una statua raffigurante una Madonna del Sacro Cuore. 

L’altare maggiore, il dipinto dedicato alla Santa

Santa Lucia tra i simboli, una nuova possibilità interpretativa

L’altare maggiore è ornato da un dipinto ad olio su tela attribuito a pittore di ambito ligure occidentale attivo nel XVIII secolo e catalogato come ‘Santa Lucia tra Sante martiri’. 

 

Di dimensioni notevoli (250 x 156), la tela raffigura un’elevazione di Santa Lucia. La composizione presenta due figure in primo piano, mentre sullo sfondo è rappresentata la Santa circondata da cherubini e affissa tra le nubi. Il cherubino sulla sinistra tiene tra le mani una palma, simbolo icastico del martirio, mentre quello collocato ai piedi della Santa, mostra all’osservatore un piatto con degli occhi al suo interno, simbolo iconografico che la rappresenta per eccellenza.

 

L’origine del simbolo è sicuramente riconducibile alla tradizione popolare che la invoca come protettrice della vista a ragione del suo nome, che deriverebbe dal termine latino lux, lucis, la cui duplice traduzione consiste in luce e occhi.  Particolare nella sua rappresentazione grafica e nell’iconografia è, invece, il cherubino in ombra nella parte sottostante del quadro. 

 

La figura angelica, infatti, regge tra le braccia un vassoio contenente due seni mozzati, iconografia consueta di Sant’Agata (santa martire catanese nata nel 229 e martirizzata il 5 febbraio del 251). La raffigurazione del tipico stigma di Sant’Agata non è però casuale: infatti è attestato da alcune fonti, come il codice 995 della Bibliotheca Hagiographica Graeca, comunemente noto come Codice Papadopulo, che Lucia decide di recarsi con la madre in pellegrinaggio a Catania per raggiungere la tomba di Sant'Agata, con l’intenzione di far intercedere la Santa catanese e curare la madre, che soffriva di frequenti emorragie. Avendo chiarito il legame che tiene unite le due martiri e grazie al sostegno delle fonti agiografiche, risulterebbe chiara la figura sulla sinistra, identificabile con Sant'Agata. 

 

Si può ipotizzare inoltre, di far coincidere la figura sulla destra con la madre Eutichia che assiste alla gloria della figlia Lucia di cui ha raccolto i frutti rappresentati dalla corona di fiori e mele che ella porge all’angelo.

 

Conclusioni 

Pur prendendo in considerazione alcuni eventi organizzati dall’amministrazione comunale, la chiesetta di Santa Lucia resta ad oggi chiusa al pubblico e frequentata esclusivamente dalla compagnia religiosa dei ‘Maddalenanti’. Non solo i suoi antichi portoni sono serrati ma anche il suo importante ruolo per la comunità arcaica di Tabiesi rimane oscuro ai più. Inoltre, i pregevoli beni artistici costuditi all’interno del santuario meriterebbero studi più approfonditi. 

 

 

 

Le foto dalla 2 alla 8 sono state scattate dal redattore

 

 

 

 

Bibliografia

Biagio Boeri, Taggia e la sua podesteria, Pinerolo-Torino, Arti grafiche Alzani,2004 

 

Sitografia

http://chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/index.jsp consultato il 17/05/2022 


EDINA ALTARA, UNA DONNA DAI MILLE TALENTI

A cura di Denise Lilliu

La vita e gli esordi

Edina Altara, illustratrice, pittrice, ceramista e decoratrice, nacque nel Nord della Sardegna, precisamente a Sassari, nel 1898. Proveniente da una famiglia benestante, agiata, la sua condizione le diede la possibilità di poter lasciare l’Isola e trovare maggiori possibilità di sbocco nel mondo dell’arte e delle collaborazioni, tra cui quella, prestigiosa, con Gio Ponti. Edina Altara è da tutti ricordata per il suo fascino, tenacia, determinazione, i suoi mille talenti, e la sua modernità; una serie di caratteri, questa, a dir poco inconsueta per una donna nata in Sardegna e in quell’epoca. Basti ricordare che nella mentalità dell’epoca – i primi del ‘900 in Sardegna – raramente una donna aveva la possibilità di formarsi intellettualmente e in ambito lavorativo. Nella sua famiglia, lei fu la terza di quattro sorelle, e la prima di loro che decise di dedicarsi all’arte, mostrando grande interesse e una spiccata creatività fin da bambina; infatti, la sua carriera iniziò ben presto, quando da poco più che adolescente cominciò ad approcciarsi all’arte da autodidatta, mostrando fin da subito le sue grandi capacità, esordendo a soli diciassette anni. I suoi primi lavori, prodotti in giovane età e oggi perduti, erano per la maggior parte giochi assemblati e costruiti da lei stessa, tanto che la stessa Altara ricordò sempre di non aver mai comprato delle bambole, ma di essersele sempre costruita da sola. Alla Mostra Campionaria del giocattolo a Milano nel 1916, Edina si aggiudicò addirittura il secondo posto. Nel 1917, fu l’artista Giuseppe Biasi a introdurre la giovane Edina alla mostra della Società degli Amici dell’Arte di Torino, e fu proprio in questa occasione che il Re Vittorio Emanuele III acquistò un suo collage, Nella Terra degli Intrepidi Sardi o Jesus Salvadelu, del 1916. Sul collage, esposto al Quirinale, già all’epoca non erano mancati gli apprezzamenti, e neanche le critiche, da parte di famosi artisti e critici come per esempio Ugo Ojetti, Margherita Sarfatti e Luigi Bartolini. Sempre nel 1917, Edina partecipò alla Mostra sarda al Caffè Cova: anche in questo caso non potè fare a meno di essere notata da parte di alcuni critici, e Vittorio Pica gli dedicò addirittura un articolo sulla rivista “Emporium”. Nel 1918 si trasferì ufficialmente dalla Sardegna, spostandosi in Toscana, a Casale Monferrato (paese del suo futuro consorte) dove si formò e lavorò, collaborando con diverse riviste.

Il matrimonio

Nel 1922 Edina riuscì a scampare ad un matrimonio combinato con il marchese Carmelo Manca di Villahermosa Sanjust, sposandosi con Vittorio Accornero de Testa, conosciuto come Victor Max Ninon, anche lui illustratore, pittore, scenografo e scrittore ricordato per aver disegnato le fantasie per i foulard di Gucci, in particolare la fantasia “Flora” creato esclusivamente per Grace Kelly. Edina e Vittorio/Victor formavano una coppia molto affiatata, e la loro visibilità andò ad aumentare molto velocemente. I due infatti erano in grado di dare vita a opere molto originali e ricercate, creando soprattutto grafiche pubblicitarie e opere per l’infanzia. Edina aveva uno spiccato talento nel disegnare i personaggi, Vittorio, invece, si dedicava a agli ambienti. La loro prima illustrazione venne pubblicata addirittura sulla rivista “Lidel”. I due si sarebbero occupati anche di illustrare l’opuscolo e il menù per un grande transatlantico, prima di giungere, nel 1934 a causa di un’affinità sempre più compromessa, a una separazione amichevole.

Un nuovo capitolo

Subito dopo la separazione nel 1934, si aprì una nuova strada per Edina. Dopo essersi spostata a Milano, la Altara cominciò a dedicarsi alla moda, con un richiamo all’abbigliamento tipico sardo. Proprio a Milano aprì una sorta di atelier a casa sua, mettendo da una parte l’operato precedente e collaborando anche insieme alle due sorelle (Lavinia e Iride) che seguirono la sua stessa strada. Nonostante l’avvicinarsi della guerra, che penalizzò molto la gestione dell’atelier, la clientela rimase comunque numerosa. Anche per Edina, però, arrivò il momento della chiusura dell’atelier.

Dopo la parentesi nel suo atelier, si avvicinò anche alla ceramica – sempre con un occhio di attenzione alla tradizione dei ceramisti sardi, come per esempio Francesco Ciusa – disegnando dei bozzetti da riprodurre direttamente su stoviglie e mattonelle ma non allontanandosi mai troppo dalla moda: dal 1941 al 1943, infatti, Edina si occupò di disegnare i figurini per la rivista “Grazia”. È a partire dal 1942, però, che si aprì, per lei, una prospettiva ancor più prestigiosa, ovvero la collaborazione, che durò fino agli anni Sessanta, con il grande architetto e designer italiano Giovanni Ponti, meglio conosciuto come Gio Ponti. Edina esordì lavorando per la rivista “Bellezza”, diretta dallo stesso Ponti, ma fu dal 1946 che la collaborazione tra i due divenne più stretta. Per questa rivista Edina illustrava – nelle sue illustrazioni si notano sempre una certa eleganza e lo studio attento dei particolari – e scriveva, occupandosi, molte volte, anche di produrre i disegni da applicare sugli arredi e oggetti venduti da Ponti.

Grazie alla visibilità ricevuta dalla collaborazione con Gio Ponti, nel 1949 Edina ottenne l’incarico di disegnare e decorare gli interni e gli arredi per cinque transatlantici, tra cui anche l’Andrea Doria ormai inabissata. Nel 1951 si impegnò a collaborare per disegnare gli arredi di Casa Lucano – chiamata “Casa di fantasia” da Ponti - ovvero due comò e due porte illustrate con soggetti tratti dalla mitologia greca. Lo stesso Ponti, sulla rivista “Domus”, dedicò un articolo su questo progetto.

Tra gli anni Cinquanta e sessanta, Edina si avvicinò ancor di più all’arte, creando diversi collage, come il famoso S’Isposa collocato oggi al MAN di Nuoro. In questa opera si nota chiaramente un colore vivace e una stilizzazione che denuncia la sua appartenenza a una cultura secessionista. Nei suoi collages, ma anche nelle ceramiche, Edina Altara dà ampio spazio alle figure femminili, spesso donne rappresentate con indosso il costume tradizionale sardo. Negli anni Settanta, invece, Edina diede vita ai suoi ultimi lavori decorativi, oggi esposti nella sua casa museo e, dopo aver vissuto per anni a Milano, tornò finalmente in Sardegna, dove dopo aver assistito alla morte delle sue due sorelle, fu lei stessa a spirare, nel 1983, in seguito a una sua permanenza presso una casa di riposo a Lanusei, nella provincia di Nuoro.

Bibliografia

Giuliana Altea, I maestri dell’arte sarda, Edina Altara, Nuoro, Ilisso, 2005.

Sitografia

Edina Altara (absart.it) sito visitato il 29/05/2022.


GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT III

A cura di Silvia Faranna

 

Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina. Le Storie di San Giovanni Battista

Parete destra: le storie di San Giovanni Battista 

Le storie della parete destra nella Cappella Tornabuoni sono dedicate a ripercorrere gli eventi salienti della vita di San Giovanni Battista, un santo particolarmente importante per la città di Firenze, in quanto ne era (ed è) il santo patrono, nonché il santo con cui condivideva il nome Giovanni Tornabuoni, il committente degli affreschi. La prima scena che apre il racconto della vita di San Giovanni Battista rappresenta L’annuncio a Zaccaria della nascita di Giovanni Battista, secondo il Vangelo di Luca (fig. 1). 

 

Al centro dell’affresco si trovano l’angelo, vestito in giallo, e Zaccaria, l’anziano padre del Battista, innalzati su uno spazio sacro che li divide dalla gradinata inferiore. Zaccaria era giunto a Gerusalemme per svolgere la solenne cerimonia dell’offerta dell’incenso, ma mentre si trovava all’altare, venne raggiunto dal lieto angelo, che gli annunciò la nascita del futuro figlio. Il felice annuncio è nella scena interpretato in una dimensione totalmente fiorentina: ad assistere si trovano, a sinistra e a destra, i componenti maschili della famiglia Tornabuoni (fig. 2), ma non solo; il committente volle far raffigurare i membri dell’Accademia neoplatonica: Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Gentile de’ Becchi (fig. 3).

 

A seguire si trova La visitazione di Maria alla cugina Elisabetta. Secondo il Vangelo di Luca, la Vergine Maria volle intraprendere un lungo viaggio pur di andare a fare visita alla cugina, che ormai da sei mesi, nonostante l’età avanzata, portava in grembo la sua creatura, il San Giovanni (fig. 4). 

 

L’affettuoso incontro tra le due donne avviene al centro della scena, ma non all’interno di un’abitazione, quanto in un’ambientazione esterna, che ricorda la città di Firenze. In fondo a sinistra, dalla porta della città salgono le scale due personaggi: una donna che porta sul capo una cesta e un uomo vestito di rosso, che alcuni identificano col pittore stesso (fig. 5).

 

Il paesaggio possiede delle analogie con l’altura di San Miniato al Monte; si riconosce la torre di Arnolfo di Palazzo Vecchio, il campanile di Santa Maria Novella, e anche il Mar Tirreno. La scena è vivamente partecipata: al centro le due cugine sono colte nell’attimo prima di un abbraccio, ma ai lati sono presenti cinque donne, delle quali le tre a sinistra, dal punto di vista iconologico, sono riconosciute come le tre Marie (Maria Maddalena, Maria Cleofe, Maria Salomè). A destra, invece, giunge una bella donna dai capelli raccolti, vestito broccato, portamento regale, in avanzato stadio di gravidanza: si tratta di Giovanna degli Albizi, la giovane sposa di Lorenzo Tornabuoni, figlio di Giovanni, e colei che pose fine alla rivalità tra le due famiglie fiorentine (fig. 6).

 

Alle sue spalle, la donna che indossa il manto nero è Dianora, la sorella di Giovanni Tornabuoni, moglie di Pier Soderini; accanto a Dianora, non può passare inosservata la giovane donna riccamente abbigliata, la cui identità però è sconosciuta. 

La scena successiva, se letta da destra verso sinistra, sembra avere una guida: si tratta, secondo la descrizione del Vasari, di ‹‹una femmina che porta a l'usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella››[1] (fig. 7). 

 

L’ancella dalla celeste veste, svolazzante, eterea, porta sul capo un cesto colmo di frutta e accompagna lo sguardo del visitatore al centro della scena, ma differentemente da quanto si possa aspettare, nonostante sia stata rappresentata La nascita di Giovanni Battista, l’attenzione viene tutta rivolta alla donna al centro (fig. 8). 

 

Si tratta di Lucrezia Tornabuoni, la sorella di Giovanni, già ricordata come la madre del Magnifico, che indossa un abito rosaceo, decorato con motivi floreali e tiene in mano un fazzoletto; il suo sguardo vivido e sicuro è diretto verso lo spettatore, ma attrae verso di sé quello di tutte le altre donne che la circondano: della stessa Elisabetta, ancora a letto dopo il parto, delle dame di compagnia e persino delle balie (fig. 9).

 

L’imposizione del nome del Battista è la scena seguente, differente dalle tre precedenti per l’essenzialità della narrazione; non compaiono né particolari elementi paesaggistici, né ritratti fiorentini, ma solo una chiara e incisiva descrizione degli eventi secondo le parole del Vangelo (fig. 10).

 

Zaccaria, alla notizia della gravidanza della moglie, ormai avanzata negli anni, e del nome “Giovanni” imposto al figlio per volere del Signore, manifestò una reazione di incredulità verso l’angelo, che di conseguenza lo punì privandolo della parola fino alla nascita del figlio. Data la premessa, si comprende meglio la scena, che vede protagonista Zaccaria, al centro del quadro e affiancato dalla moglie e dal neonato, che comunica, mettendolo per iscritto sulla tavoletta, il nome del bambino. Spicca poi il rosso del manto di Zaccaria, che in questo momento, dopo l’imposizione del nome, riprende la parola.  

Proseguendo nelle scene della storia del Battista, nella Predicazione del Battista il santo è ben riconoscibile nei suoi tipici attributi: la veste di pelli, la cintura in cuoio e la croce. Il santo è raffigurato al centro della scena, in un luogo roccioso tipicamente ricordato, secondo i testi sacri, come il deserto, circondato da molti uditori. In alto, sulla destra, anche lui riconoscibile dalle vesti rosse e blu, si trova Cristo, il Messia, colui che viene “anticipato” da Giovanni (fig. 11). 

 

Gesù e Giovanni compaiono nuovamente insieme nella penultima scena del ciclo, il Battesimo di Gesù al fiume Giordano (fig. 12).

 

Gesù si erge al centro della rappresentazione, con i piedi immersi nel fiume, con un corpo nudo ed elegante allo stesso tempo, coperto solo con un velo bianco; accanto a lui, Giovanni compie il gesto del battesimo con sicurezza, portandosi leggermente in avanti. La benedizione al battesimo è data dalla Trinità che è esaltata al di sopra con colori accesi, dove Dio Padre benedicente è affiancato da una sfilza di angeli. Intorno ci sono i fedeli, intenti a spogliarsi per ricevere anche loro il sacramento, ‹‹che aspettando d'essere battezzati, mostrano la fede e la voglia scolpita nel viso››[2] ricordano le fisionomie delle sculture antiche. Sin dal Trecento, in verità, le figure di persone nude o intente a spogliarsi erano già inserite nella scena del Battesimo, come si nota nel Battesimo di Cristo (1445 circa) di Piero della Francesca (1412 circa-1492), o similmente nella Cappella Brancacci (1425-1428 circa) del Masaccio (1401-1428). 

Infine, a completamento delle sette scene dedicate alla vita del Battista, Ghirlandaio ha rappresentato nella lunetta che giunge alla volta il Banchetto di Erode e la decapitazione del Battista (fig. 13). 

 

La vita di San Giovanni si concluse infatti tragicamente per decisione del re Erode, il quale, cedendo alle volontà della figlia di Erodiade, Salomè, le consegnò a testa del Battista in cambio della sua danza. Il Battista, l’ultimo profeta inviato da Dio a Israele, anticipa il sacrificio che compirà Cristo per l’umanità. Ghirlandaio con le sue pennellate descrive passo per passo la vicenda di cui il santo fu protagonista. Pone la narrazione all’interno di una maestosa architettura a tre navate, coperta in parte da volte a botte cassettonate, che ricordano le stesse costruzioni architettoniche dei rilievi bronzei donatelliani per la Chiesa del Santo a Padova.

In primo piano, spicca Salomè, danzante, avvolta dalle crespe della veste che ne segue il ritmo della danza, e irriverente con la sua macabra richiesta, ovviamente esaudita (fig. 14). La testa del Battista, posta su un piatto d’argento, è presentata ad Erode, che seduto al centro della tavola, la guarda pietosamente.

 

 

Conclusione

Il Ghirlandaio, secondo Artur Rosenauer, fu il primo pittore ad aver perfezionato l’organizzazione del lavoro della bottega artistica ‹‹secondo un metodo che sarà proprio dei grandi decoratori murali dei secoli successivi››[3]. Fu proprio durante i cinque anni di decorazione della Cappella Maggiore che poté mettere in atto un metodo di lavoro disciplinato che, a partire dai disegni, andava a dirigere i lavori su tutte le pareti della cappella, riuscendo a mantenere, nonostante le mani differenti, uniformità e armonia delle forme e colori. Per portare a compimento la grande impresa, il pittore fece affidamento anche ai suoi collaboratori, le cui pennellate sono a volte distinguibili lungo lo strato pittorico (anche il giovane Michelangelo (1475-1564), allievo del Ghirlandaio, sembra aver partecipato al cantiere in Santa Maria Novella). Al Ghirlandaio si deve riconoscere la capacità di unire, attraverso una pittura ricca di dettagli e di lontano gusto fiammingo, il passato sacro e il presente fiorentino, evidenziando il nuovo rapporto tra artista-committente-opera d’arte in cui non bisognava più solo celebrare la sacralità delle storie bibliche, ma anche la ricchezza e la potenza di chi poteva permettersi di acquistare la cappella più grande della chiesa, decorarla secondo il proprio gusto, fino a sceglierne i colori e i dettagli più minuziosi.

Il Ghirlandaio seppe rispecchiare nella sua pittura, di grande raffinatezza ed eleganza, la volontà di un committente come Giovanni Tornabuoni, uno dei tanti fautori dell’età dell’oro medicea, di cui il pittore fu uno dei massimi interpreti e per questo lodato anche grazie alla sua Cappella che fu ‹‹tenuta cosa bellissima, garbata e vaga per la vivacità dei colori, per la pratica e la pulitezza del maneggiarli nel muro, e per il poco essere stati ritocchi a secco; oltre la invenzione e collocazione delle cose››[4].

 

 

 

Note

[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 956. 

[2] Ivi, p. 957.

[3] C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, p. 29. 

[4] G. VASARI, Le vite…cit., p.957-958. 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89. 

R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995. 

Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996. 

G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997. 

A. SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012. 

C. C. BAMBACH, Michelangelo divine draftman & designer, catalogo della mostra (The Metropolitan Museum of Art, New York, 13 novembre 2017- 12 febbraio 2018), New Heaven London 2018. 

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/ 


PIAZZA TRENTO E TRIESTE

A cura di Ornella Amato

 

Il “Sipario” sul Palcoscenico di piazza del Plebiscito

Introduzione

Chiunque abbia visitato almeno una volta la città di Napoli, sa bene che il cuore pulsante della città stessa è piazza del Plebiscito che rappresenta la piazza della rinascita della Napoli che trionfa, che vive, che si mostra all'Italia, all'Europa e al mondo intero. Per accedervi bisogna passare per una vera e propria “porta di accesso”: piazza Trieste e Trento.

Piazza Trieste e Trento: le origini 

Piazza Trieste e Trento è una delle piazze più note della città non tanto per la sua storia quanto per il punto in cui si trova: in principio era un semplice slargo adiacente il palazzo del viceré, oggi è il luogo in cui s’incrociano le vie dello shopping e dei palazzi nobiliari della città: via Roma, via Chiaia e via San Carlo.

Per la sua collocazione, la piazza è considerata una sorta di “salotto all’aperto e di accesso al Plebiscito”, nel quale è piacevole prendere un caffè presso lo storico Gran Caffè Gambrinus che, soprattutto tra ‘800 e ‘900, nelle sue sale in stile Liberty, coi suoi stucchi tutt’oggi esistenti, ha visto accomodarsi ai suoi tavolini personaggi di caratura internazionale come Oscar Wilde e l'imperatrice d'Austria Elisabetta di Baviera, ma anche grandi nomi napoletani come Matilde Serao, Totò, i De Filippo.

 

Grazie alla sua struttura circolare, ma estremamente irregolare e che si apre a ridosso delle tre vie più note della città, consente uno sguardo a tutto tondo dell’area limitrofe: dalle facciate del palazzo della Prefettura a quelle della chiesa di San Francesco di Paola e di palazzo Salerno (distaccamento del Ministero della Difesa) e l’imponente facciata di palazzo Reale, strutture che delimitano l’area di piazza del plebiscito, la cui panoramica, da piazza Trieste e Trento, è pressoché completa.

 

Nel momento in cui lo sguardo coglie il limite esterno di piazza del Plebiscito attraverso l’ultimo angolo visibile della facciata del palazzo reale, l’occhio si concentra sulla fontana detta “del carciofo” o, come in maniera dispregiativa la chiamano i napoletani “il carciofo di Achille Lauro”, fontana che l'ex sindaco della città volle donare ai suoi concittadini. 

 

Sono presenti, in senso antiorario: una parte dei giardini di palazzo reale con l’accesso alla biblioteca nazionale ad esso adiacente, l' accesso laterale al Real Teatro di San Carlo,  via San Carlo che separa il teatro dalla “dirimpettaia” Galleria Umberto, la chiesa di San Ferdinando, nota come la “Chiesa degli Artisti”, che tutt'oggi  accoglie esponenti dell’antica nobiltà partenopea, ed infine via Roma, meglio nota come via Toledo, dal nome della cittadina spagnola poiché da essa si raggiungono i  quartieri spagnoli, che erano i vicoli abitati da esponenti delle milizie spagnole di stanza a Napoli al servizio del viceré. 

 

In quel periodo la piazza, denominato largo Santo Spirito, divenne luogo di stazionamento per le carrozze. La sua capienza era sufficiente da tenere diverse carrozze contemporaneamente e, sebbene oggi si presenti in maniera completamente diversa da come in principio doveva essere, non è difficile immaginare folle di cocchieri attendere che i nobili presso i quali sono a servizio escano dal palazzo reale.

 

Da piazza San Ferdinando a piazza Trieste e Trento: il perché del nuovo nome

Successivamente la piazza ottenne il nome di piazza San Ferdinando, volendo omaggiare la chiesa barocca dedicata a San Ferdinando che si affaccia su di essa; ancora oggi sono moltissimi i napoletani che continuano a chiamarla così, quasi “rifiutando d’istinto” la denominazione di piazza Trieste e Trento.

 

La nuova denominazione risale al 1919 e fu voluta dai Savoia e attuata a mezzo Regio Decreto, a celebrazione dell’annessione delle due città all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. E’ considerata anche “la piazza dei palazzi del potere” poiché su di essa si affaccia, al civico 48, palazzo Zapata, che ospitò il cardinale spagnolo Zapata, che nel 1620 era stato viceré della città, nonché alto esponente del Tribunale dell’Inquisizione, ma ben presto fu rimosso dal suo incarico direttamente dai sovrani di Spagna, che temevano una rivolta popolare per il pessimo rapporto che instaurò con la città.

 

Oggi il palazzo ospita la Fondazione Circolo Artistico e Politecnico ed il Museo “Giuseppe Caravita, Principe di Sirignano”, con in mostra le opere di artisti napoletani dei secoli XIX e XX. Al civico 14, invece, così come ricorda anche una lapide, vi abitò Gaetano Donizetti e qui ebbe sede la redazione de Il giornale, periodico a cui collaborò anche Benedetto Croce.

La fama della piazza, sebbene possa sembrare il contrario, in realtà non è stata messa in ombra dall’adiacente e più nota piazza del Plebiscito, piuttosto “Trieste e Trento”, come la chiamano i napoletani, è riuscita ad accentrare in sé non solo la multietnicità culturale partenopea, ma grazie alla “posizione strategica” nella quale si trova è divenuta crocevia e luogo di incontro della Napoli dello shopping, della cultura, dell’architettura storico – artistica e della storia della città.

Non c’è e non ci può essere confronto con piazza del Plebiscito che – complici anche le maggiori dimensioni – è divenuta palcoscenico di un vero e proprio teatro all’aperto, un palco su cui sono saliti - e di certo continueranno a salire - grandi nomi. Ma per salire su questo palco, o anche più semplicemente per attraversare la piazza simbolo di Napoli, l’urbanistica ha voluto che si passasse attraverso “Trieste e Trento” che, come un ricco sipario, si apre e lascia accedere su di essa.

Piazza Trieste e Trento è una di quelle piazze della città dalla quale passano tutti: il napoletano ed il turista, lo storico e lo studente, il giovane per lo shopping all'ultima moda, l'anziano che per abitudine si reca al Gran Caffè Gambrinus e legge il quotidiano accomodato ai tavolini mentre sorseggia un buon caffè e, ogni tanto, alza lo sguardo e si lascia rapire da tutto quanto di incommensurabile è intorno a lui e intorno alla piazza.

Sitografia

grancaffegambrinus.com

cosedinapoli.it


LA BASILICA DI SAN SATURNINO A CAGLIARI

A cura di Ilenia Giglio

 

 

Introduzione

La basilica di San Saturnino si trova nel quartiere cagliaritano di Villanova, nei pressi del cimitero monumentale e della basilica di Nostra Signora di Bonaria, area che all’epoca della sua prima edificazione risultava isolata rispetto al resto della città. Ad oggi, in seguito allo sviluppo urbano delle diverse epoche, la sua ubicazione è invece abbastanza centrale e facilmente raggiungibile da turisti e visitatori sempre più attratti da questo monumento in quanto si presenta come uno dei siti paleocristiani più antichi dell’isola e uno tra i più significativi del Mediterraneo.

Origini del culto e primo impianto della basilica

Il culto del patrono di Cagliari ebbe origine nel IV secolo, più precisamente nel 304, quando il giovane Saturnino, o Saturno a seconda delle fonti, venne decapitato pubblicamente per non aver rinnegato la fede cristiana. Le sue spoglie furono sepolte in una zona suburbana che negli anni successivi accolse sempre più sepolture fino a diventare un’area funeraria molto estesa. Al di sopra di tale necropoli venne edificato un primo edificio di culto dedicato al Santo martire, pertanto appartenente alla tipologia dei martyria, di cui è possibile trovare una prima testimonianza nella biografia di Fulgenzio, vescovo di Ruspe, che tra il 507 e il 523 si trovava in esilio in Sardegna insieme ad altri vescovi africani per volere del re vandalo Trasamondo. Questo primo impianto in stile bizantino era caratterizzato da una pianta a croce greca con quattro bracci uguali e cupola centrale. A metà ‘900 gli studiosi Corrado Maltese, Renata Serra e Raffaele Delogu avanzarono alcune teorie sulle possibili derivazioni e affinità con altri edifici di culto di aria Siriaca quali S. Babila di Antiochia-Kaussié, San Simeone di Qal’at Sim’an e anche con l’Apostoleion di Costantinopoli che tuttavia non si rivelarono risolutive per via delle numerose e periodiche distruzioni e consistenti rimaneggiamenti subiti dalla basilica nel corso dei secoli. 

 

La basilica in età giudicale

Nel 1089 Costantino Salusio II de Lacon-Gunale, giudice di Cagliari donò la basilica, che probabilmente versava in uno stato di abbandono, ai Vittorini di Marsiglia, i quali la resero loro monastero ristrutturandola e consacrandola nel 1119, anno in cui divenne anche sede del priorato sardo. I monaci Vittorini decisero di non adottare l’impianto latino ad aula longitudinale ma di intervenire sull’edificio preesistente, conservando la pianta cruciforme e riadattandola secondo i canoni del romanico provenzale: ricostruirono i quattro bracci e mantennero la cupola centrale, di cui vennero restaurate le scuffie a mezza crociera, elementi di raccordo al tamburo le cui arcate sottostanti scaricavano su quattro massicce colonne in marmo rosso.

 

Ogni braccio era composto da tre navate, la mediana voltata a botte e scandita da sottarchi e le navatelle, che non si interrompe a o alle testate dei bracci ma continuavano sui lati e risultavano coperte a crociera, gli archi generatori delle crociere spiccavano direttamente dalle pareti mentre sulle semicolonne di sostegno si impostavano le arcate parietali. Il braccio orientale si concludeva nell’abside con paramento calcareo su cui spiccano accenni di bicromia. 

 

Le antiche strutture perimetrali a filari di conci regolari squadrati nella pietra calcarea non furono sostituite ma su di esse vennero innalzate le murature dell’XI secolo, contraddistinte dagli archetti esterni a ghiera semicircolare, da cornici, basi e capitelli scalettati e dall’abbondante reimpiego di materiali marmorei quali trabeazioni, colonne, ceppi funerari e basi che risultano omogenei in quanto probabilmente frutto dello spoglio di un unico edificio risalente all’età tardoimperiale. Questo nuovo impianto della basilica è documentato fino al ‘600, periodo a cui risalgono i disegni del manoscritto di Juan Francisco Carmona custoditi nella biblioteca universitaria di Cagliari. 

 

La basilica durante l’età moderna

Tra il XIV e XV secolo la basilica divenne proprietà dell’arcidiocesi di Cagliari ma andò incontro a un lungo periodo di scarsa attenzione verso un buon mantenimento delle sue strutture. Difatti già in questi secoli venne danneggiata più volte fino ad arrivare nel 1614 ad essere protagonista di scavi archeologici voluti dal monsignor Francisco de Esquivel che avevano come finalità la ricerca dei “corpi santi” ossia le reliquie dei martiri sepolti nella necropoli sottostante. Questi furono condotti senza alcuna metodologia e senza rigore scientifico tanto da alterare irrimediabilmente gli strati più antichi, rendendo quasi impossibile la comprensione e ricostruzione del sito originario. Sono state rinvenute sepolture di varia tipologia: a fossa, a cupa, sarcofagi interrati, piccoli edifici funerari realizzati in conci e laterizi, tutte perlopiù attribuibili all’epoca romana e tardoantica. Durante questi scavi vennero rinvenute anche le ipotetiche reliquie di San Saturnino che vennero traslate presso la cattedrale di Cagliari dove nella cripta dei martiri è stata dedicata una cappella al patrono. Alla fine del ‘600 la basilica di San Saturnino subì uno tra gli ultimi interventi in quanto venne smantellata per ricavare del materiale da reimpiegare nella ristrutturazione della cattedrale sopracitata. 

 

La basilica in epoca contemporanea 

In seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che aggravarono ancora di più la condizione già precaria della basilica, vennero attuati dei piani per il restauro del superstite braccio orientale e per la conservazione delle sepolture e di altri elementi collocati in quello che a un primo sguardo potrebbe oggi sembrare un giardino, quasi fosse un’esedra semicircolare antistante all’edificio ma in cui è ancora possibile ammirare i resti di colonne, capitelli, basi e iscrizioni. La basilica venne finalmente riaperta al culto nel 1996 e da allora risulta forte centro di interesse oltre che per la sua storia anche grazie ad alcuni eventi culturali ospitati nei suoi spazi. Inoltre a partire da quest’anno è possibile ammirare al suo interno il crocifisso ligneo di Pinuccio Sciola, una reinterpretazione moderna dell’iconografia medievale del crocifisso gotico doloroso, appartenente alla produzione giovanile dello scultore, databile agli anni ’70.

 

 

 

Informazioni utili

La basilica è situata nei pressi della piazza San Cosimo, gli orari di apertura vanno dal lunedì al venerdì dalle 09:00 alle 16:00. Ingresso libero.

 

 

 

 

Bibliografia

Roberto Coroneo , Renata Serra. Sardegna Preromanica e Romanica, 2004

 

Sitografia

https://virtualarchaeology.sardegnacultura.it/index.php/it/


VIRTÙ E LEGGE PT I

A cura di Andrea Bardi

 

 

In corrispondenza della parete sud della Stanza della Segnatura, Raffaello ha collocato l’ultimo dei quattro murali laterali della biblioteca privata di Giulio II. Dopo aver completato le pareti della Filosofia, della Poesia e della Teologia Raffaello conclude il ciclo con Le Virtù e la Legge (fig. 1), ovvero con la rappresentazione della Giurisprudenza. Inserita all’interno del profilo di un arco, la lunetta con le Virtù in sottinsu domina i due riquadri laterali del registro inferiore: le due scene, rispettivamente esemplificative del Diritto Civile (Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano, a sinistra) e del Diritto Canonico (Gregorio IX approva le Decretali, sulla destra) sono interrotte dalla presenza di una finestra centrale che “entrandosi a sinistra riguarda il cortile del Palazzo”. È proprio un’iscrizione riportata sulla finestra, poi, a risultare decisiva per stabilire un corretto inquadramento cronologico dell’affresco. L’iscrizione recita infatti:

JVLIVS. II. LIGVR. PONT. MAX. AN. CHRIS. MDXI. PONTIFICAT. SVI. VIII

Salito al soglio pontificio il 1 novembre 1503, il “ligure” Giulio II, nato ad Albissola – ancora incerto è invece l’anno di nascita – raggiunse l’ottavo anno di pontificato nel 1511, anno complesso per il papa terribile e punto di partenza per ulteriori considerazioni, di carattere iconografico, che verranno sviluppate in seguito. 

Altra scelta significativa è quella di destinare alla Giurisprudenza la parete meridionale. Una scelta non casuale, come era solito per il tempo, e dettata da precise esigenze di carattere teorico. In questo caso la Legge, che per Marsilio Ficino era vera gubernandi ratio (“vero criterio di governo”), a partire da fonti antiche (il Platone del Timeo su tutti, ma anche Filone di Alessandria o Diodoro Siculo) viene associata al sud in quanto “punto cardinale” dell’Egitto, patria d’elezione della Legge. È proprio Filone di Alessandria, infatti, a ricordare come lo stesso Mosè ricevette la sua educazione proprio in Egitto. 

 

Le Virtù

Occupando interamente il registro superiore della parete, tre delle quattro Virtù Cardinali (Temperanza, Fortezza, Prudenza, fig. 2) correttamente individuate già da Vasari si sporgono da un parapetto in prospettiva ribassata che apre lo sguardo a un cielo vagamente cosparso da nubi.

 

L’assenza della quarta tra le virtù cardinali canoniche, la Giustizia, è compensata dalla sua comparsa in uno dei tondi sulla volta (fig. 3). Tale scelta venne già chiarita nel movente dal Vasari, che nella vita di Raffaello scrive:

“Et sopra l’altra finestra che volta nel cortile, fece nell’altro tondo una Giustizia, con le sue bilance & la spada inalberata […] per haver egli nella storia di sotto della faccia fatto come si da le leggi civili, & le canoniche come a suo luogho diremo”

 

Nel corso del Novecento, invece, fu lo storico dell’arte Edgar Wind a ipotizzare, per la prima volta, la coincidenza di tre dei piccoli putti con le Virtù teologali: nella sua interpretazione l’angioletto di destra, che indica il cielo, ricoprirebbe il ruolo della Fede, quello in posizione centrale – con una fiaccola accesa in mano – la Speranza ed infine quello di sinistra, nell’atto di cogliere delle ghiande dal ramo di quercia della Forza, rappresenterebbe l’ultima virtù teologale, la Carità. 

Più recentemente, Christiane Joost - Gaugier (The Concord of Law in the Stanza della Segnatura, 1994) oltre a gettare ulteriore luce su un aspetto colto da Wind (le tre Virtù Cardinali, “accoppiate” ai putti delle Virtù Teologali, entrano con esse in un rapporto di interscambio che permette ad ognuna delle sei figure di ricoprire due ruoli contemporaneamente), tenta di offrire una versione alternativa relativa all’identificazione delle figurazioni allegoriche raffaellesche, pescando da una tradizione iconografica consolidata e da un armamentario di “attributi” canonici storicamente spettanti alle Virtù. Il ramo di quercia, ad esempio, se a una prima ricognizione può facilmente essere ricondotto al rovere – e quindi al cognome di papa Giulio – ad un’analisi più attenta può essere altresì interpretato come un simbolo di Zeus: se Plinio, nella Naturalis Historia, fu il primo ad associare la quercia al padre degli dei, è Esiodo, nella Teogonia, a rendere Zeus il responsabile dell’amministrazione della giustizia, iniziando una tradizione che sopravvisse fino a Raffaello Maffei, fine umanista della corte di Giulio II. Nei Commentaria Urbana (1506), inoltre, Maffei associa – sulla scorta di Esiodo e Seneca – la Giustizia alle Tre Grazie. Fu Esiodo, infatti, il primo a considerare la legge come dotata di “grazia” e “armonia”: focalizzandosi sul significato dei nomi delle Grazie (Agalaia, Euphrosyne, Thalia), Esiodo le mise in connessione con i concetti di “legge”, “prosperità” e di “benedizioni (buoni effetti) della legge”.  In una simile chiave di lettura anche l’attributo della Temperanza – la virtù di destra – può essere reinterpretato come simbolo della funzione “regolatoria” che Esiodo affida alla Legge. L’imbracatura della Temperanza, infatti, è tradizionalmente associata all’iconografia dell’Etica e della Ragione (più tardi, anche nell’Iconologia di Cesare Ripa entrambe queste personificazioni tengono un leone al guinzaglio). Sempre in Ripa, lo specchio e la fiamma – attributi della Virtù centrale – sono elementi propri della Prudenza e della Sapienza. 

 

Bibliografia

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695. 

Paolo dal Poggetto (a cura di), Raffaello. I disegni, Firenze, Nardini, 1983.

Pier Luigi De Vecchi, Raffaello, Milano, Rizzoli, 2002.

Ludovico Dolce, Aretino o Dialogo sulla pittura (1557), Firenze, Michele Nestenus e Francesco Moucke, 1735. 

Andrea Emiliani, Michela Scolaro, Raffaello. La Stanza della Segnatura, Milano, Electa, 2002. 

Christiane L. Joost-Gaugier, The Concord of Law in the Stanza della Segnatura, in “Artibus et Historiae”, vol. 15, no. 29, Cracovia, IRSA, 1994, pp. 85-98. 

Arnold Nesselrath, Lorenzo Lotto in the Stanza della Segnatura, in “The Burlington Magazine”, vol. 1142, no. 1162, Londra, Burlington Magazine Publications, 2000, pp. 4-12.

Konrad Oberhuber, Raphael and the State Portrait-I: The Portrait of Julius II, in “The Burlington Magazine”, vol. 113, no. 816, Londra, Burlington Magazine Publications, 1971, pp. 124-131. 

Deoclecio Redig De Campos, Raffaello nelle stanze, Firenze, Giunti, 1983. 

Daniel M. Unger, The pope, the painter, and the dynamics of social standing in the Stanza della Segnatura, in “Renaissance Studies”, vol. 26, no.2, Hoboken, Wiley, 2012, pp. 269-287. 

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.  

Mark J. Zucker, Raphael and the beard of Pope Julius II, in “The Art Bulletin”, vol. 59, no. 4, New York, College Art Association, 1977, pp. 524-533.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-lotto_%28Dizionario-Biografico%29/, consultato il 26/05/2022. 

https://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/, consultato il 26/05/2022.


CHIESA DEL CROCEFISSO DI GALATONE

A cura di Letizia Cerrati

 

Lo scrigno del miracolo

 

Le origini della Chiesa del Crocefisso sono radicate alle soglie del XIV secolo, quando un pittore ignoto, probabilmente un monaco proveniente dall’Oriente, dipinse un Crocefisso secondo il modello iconografico dell’Imago pietatis su di una parete nei pressi delle mura orientali della città di Galatone.

L’icona fu, da quanto rivelano le fonti, a disposizione della venerazione dei fedeli di passaggio e rivelò ben presto le sue doti miracolose.

Il potere delle immagini si fa prodigioso in questa storia, diventa addirittura salvifico durante gli anni dell’assalto dei Turchi alla Terra d’Otranto (1480-1481), si ritiene infatti che il pericolo dell’assedio turco scampato dalla città fu opera divina della sacra icona. Quest’ultima era tra l’altro collocata su una parte delle mura cittadine particolarmente malmessa, esattamente in prossimità di un varco che avrebbe potuto essere la porta d’accesso per gli assalitori.

Il miracolo impresso nella memoria collettiva, quello per cui a tutt’oggi è nota la Chiesa, in conseguenza del quale quest’ultima fu edificata, è quello della notte del 2 luglio 1261.

Soffocati dalla calura estiva, intorpiditi dall’aria ferma e appiccicosa di una notte d’estate salentina, un gruppo di persone alla ricerca di refrigerio, lo trovò nelle vicinanze dell’edicola votiva contenente l’immagine sacra. D’improvviso dall’icona si scorse un bagliore che si faceva man mano più intenso; subito dopo il prodigio si compì davanti agli occhi meravigliati degli astanti: la mano sinistra del Cristo ritratto ad affresco uscì dalla nicchia come fosse viva e reale, spostò il velo che la ricopriva e mise dietro la schiena le braccia che prima aveva incrociate davanti alla cintola. In questa posizione rimase per sempre.

Lì dove avvenne l’evento prodigioso fu realizzato subito un sacello, mentre le autorità religiose cercarono di verificare l’autenticità di quanto accaduto. Nei mesi a seguire l’umile cappellina in cui era custodita l’icona fu abbellita e successivamente ebbero inizio i lavori per la costruzione della chiesa, diretti dai maestri neretini Sansone e Pietrantonio Pugliese, col sostegno di Monsignor De Franchis.
La chiesa fu aperta ai fedeli il 3 maggio del 1623, ma non ebbe lunga vita, nel 1683 infatti un crollo improvviso ne causò la distruzione, l’icona fu, però, prontamente restaurata e per il nuovo edificio fu decisa una forma più solenne e fastosa.

I lavori furono portati avanti alacremente da illustri architetti, intagliatori e artisti fino al 1696 e la chiesa fu consacrata dal vescovo Antonio Sanfelice nel 1711.

L’intenzione di committenti e artefici era quella di allontanarsi da un concetto di edificio sacro austero ed eccessivamente severo, per creare un ambiente congeniale alla schiera di fedeli devoti che si sarebbe assiepata in preghiera davanti all’icona miracolosa. Non solo quindi un luogo ideale per il raccoglimento spirituale, ma soprattutto un posto adatto ad accogliere quell’eterno miracolo, che sarebbe diventato elemento d’identità collettiva di un intero paese.

Niente fu lasciato al caso, ogni scelta, dalla facciata alle decorazioni interne, era in funzione di un disegno complessivo, portatore di un messaggio ben preciso, di un determinato tratto emotivo, perseguendo il “principio barocco dell’arte come persuasione”.

 

I contributi di fra’ Niccolò e quelli di Giuseppe Zimbalo furono i più significativi.

Il celebre architetto impresse alla chiesa la sua inconfondibile impronta artistica, inserendo elementi tipici del suo linguaggio.

La facciata a gradoni fu realizzata con due materiali diversi a cui si deve la bicromia, pietra leccese e carparo, e si sviluppa in verticale, caratterizzata dall’uso, tipico di Zimbalo, delle paraste ribattute scanalate, di dimensione esattamente uguale alla metà della larghezza della parasta intera.

Cinque di queste marcano il primo ordine della facciata, mentre sul portale principale risalta la statua in pietra di Cristo crocefisso protetto da un piccolo baldacchino retto da due putti.

Non mancano i trionfi vegetali che mettono in evidenza punti rilevanti della facciata, si tratta di festose decorazioni effimere immortalate nella pietra che rimanderebbero alla fertilità della terra ed al tema dell’abbondanza, o forse alla caducità della vita ed alla fragilità dell’uomo.

Nelle nicchie inferiori vi sono statue degli Evangelisti, quelle superiori ospitano invece San Sebastiano e San Giovanni Battista. Gli apostoli Pietro e Paolo poggiano sulle volute di raccordo, mentre l’Arcangelo Michele e l’Angelo Custode sono posti sul fastigio.

Altri simboli di prosperità sono i festoni, di piccole dimensioni presenti al di sotto del finestrone centrale. Quest’ultimo è caratterizzato da una sorta di motivo a traforo, con ottagoni e quadrilobi che si alternano creando un effetto suggestivo.

 

Lo spirito barocco preannunciato dal prospetto raggiunge il culmine all’interno dell’edificio.

La chiesa ha una pianta a croce latina, con quattro cappelle laterali e un transetto non sporgente, coperto da un tamburo ottagonale con cupola, decorata con l’affresco del Ritrovamento della croce da parte di Sant’Elena.

La cupola è retta da quattro pilastri con statue dei Dottori della Chiesa, risalenti al 1714.

Notevoli sono le opere in legno intagliate da Aprile Petrachi da Melendugno, l’organo, la cantoria e il soffitto a cassettoni.

Nello sfarzo e nello splendore che permea l’intero ambiente interno della chiesa, il fedele è catturato dalla piccola icona leggendaria, questa, seppur segnata dal tempo e quindi non più totalmente visibile, è ammantata da un’aura soprannaturale, infatti, nel trionfo dell’imponente altare maggiore, su cui lo sguardo non riesce a rimanere fermo, attirato da preziose decorazioni, spicca la piccola icona con un disegno essenziale e colori tenui e smorzati. 

 

Tra le magnifiche dorature che valorizzano l’intera scultura, protetta dalle doppie colonne poste ai lati quasi fossero possenti guardiani, è la piccola icona, noncurante di tutto quello sfarzo, semplice e forse proprio per questo dotata di inestinguibile forza evocativa.

La profusione di oro e le decorazioni sontuose conferiscono alla chiesa una teatralità tipicamente barocca, ma il sentimento di partecipazione al sacrificio di Cristo emana da quell’immagine, il vero significato su cui si regge l’intero santuario è in essa custodito.

 

Guardandola intensamente si avrà l’impressione di sentire affiorare nella memoria le parole dal Vangelo di Matteo (6, 19-21): Non accumulate tesori sulla terra, […] ma accumulatevi tesori nel cielo […] Perché là dov’è il tuo tesoro, ci sarà pure il tuo cuore.

La Chiesa del Santissimo Crocefisso di Galatone è un prezioso scrigno, custodisce traccia dell’eterno miracolo che sempre si rinnova, come una lacrima miracolosa che scava nel tempo e nei cuori, ricordando che Cristo è crocifisso ogni giorno, nei secoli, in ogni uomo che è oppresso e perseguitato ingiustamente.

 

 

 

Tutte le foto sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il barocco leccese, in M. Rossi, A. Rovetta (a cura di), Itinerari d’arte, Roma, Laterza, 2003

Vincenzo Cazzato, Costanti grammaticali e sintattiche nelle architetture di Giuseppe Zimbalo, in Annali del Barocco in Sicilia, 2017


LA CHIESA DI SANTO STEFANO A VIMERCATE

A cura di Alice Savini

 

Introduzione

La chiesa di Santo Stefano è situata nel mezzo del centro abitato di  Vimercate (paese situato a pochi chilometri da Milano nel mezzo della Brianza). E chiusa tutt'intorno dall'abitato e si affaccia sulla piazza rettangolare dedicata allo Stesso santo protettore della città. 

L'inizio della storia costruttiva  si può collocare all'epoca longobarda, la prima testimonianza documentaria risale infatti al  745 d.c. Tuttavia, la struttura che noi vediamo oggi fu  eretta tra il X e l'XI secolo  subendo molte trasformazioni nel corso dei secoli che le hanno poi conferito l'aspetto attuale. 

 

Esterno

L'esterno della chiesa  rivela l'antica storia dell'edificio fatta di modifiche e trasformazioni nel corso del tempo. 

L'edificio a pianta basilicale ha tre navate terminanti con  tre absidi semicircolari. L'abside centrale, maggiore, comporta una decorazione a lesene rettangolari e cornice ad archetti pensili suddivisi in gruppi di tre.

 

I prospetti laterali sono realizzati prevalentemente da ciottoli e mattoni e  non presentano alcuna decorazione, se non una serie di archetti nella parte settentrionale. Qui sono ancora visibili le aperture di un ambiente fortificato eretto sopra le navate laterali nel XV  secolo - periodo travagliato dal punto di vista politico  militare - e molto probabilmente utilizzato con funzione difensiva. 

 

Con l'imbiancatura il settore centrale della facciata si distingue da tutte le altre  murature  laterali.  Il blocco centrale con struttura a capanna è delimitato da due lesene terminanti con elementi cuspidali. Al centro vi si trova il portale ligneo sormontato da un vestibolo su doppia colonna tuscanica architravata  con fregio dorico e metope  scolpite con emblemi devozionali e un timpano modanato triangolare. 

 All'inizio del XVII secolo fu aggiunta anche una finestra classica a serliana  e la nicchia che ospita tra antiche sculture trecentesche  raffiguranti la Madonna con il Bambino tra Santo Stefano e un altro santo guerriero non identificabile. 

Al fianco destro della facciata si innalza la torre campanaria iniziata nel XI secolo ( e poi modificata sia nel 1400 che nel XIX secolo): poderosa struttura rettangolare su cinque piani sormontata da una cuspide piramidale con una croce al sommo.  Nella muratura del campanile è conservata un'unica scultura di epoca romanica raffigurante una testa antropomorfa inglobata in una serie di archetti pensili del secondo piano. Si tratta di una testa maschile con barba e capelli incisi con  linee sottili, bocca dal taglio orizzontale e occhi in evidenza. 

 

Interno

Le tre navate sono scandite da pilastri quadrangolari  e terminano in tre absidi : i due laterali dedicati Sant'Ambrogio e a San Carlo ( in origine dedicata a San Michele).

All'interno dell'edificio sono presenti molte tracce pittoriche  a testimonianza della  lunga storia religiosa dell'edificio. 

Un recente restauro ha difatti recuperato  un ciclo murale trecentesco molto deteriorato: sono riemerse parti consistenti  di affreschi posti a decorazione della volta della Cappella di Sant'Ambrogio ( che dal 1884 ospita la sacrestia) raffiguranti i quattro dottori della chiesa - Gerolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio - seduti sui loro scrittoi lignei.

Sempre nella medesima cappella sono stati ritrovati altri affreschi facenti parte di una serie di interventi decorativi e architettonici eseguiti nella chiesa tra il 1564 e il 1566: anni importanti poiché di poco successivi alla chiusura del Concilio di Trento e  alla visita pastorale dell'arcivescovo Carlo Borromeo. 

Posto sopra uno zoccolo, il dipinto è distinto in due registri  corrispondenti al catino e alla fascia ornamentale sottostante dove sono conservati alcuni lacerti di una scena raffigurante la Resurrezione di Cristo. Meglio conservata è  la scena centrale con il Compianto su Cristo morto presentato come se si trattasse di una grande pala d'altare.

La decorazione cinquecentesca dell'edificio prosegue  con gli importantissimi affreschi dell' abside realizzati da Lattanzio Gambara e raffiguranti il Martirio di Santo Stefano (su cui ci soffermeremo nel prossimo articolo.)

 L'impresa decorativa cinquecentesca dell'abside ha rappresentato solo una tappa del processo di rinnovamento dell'edificio che coinvolse sia lo spazio che la decorazione della collegiata nei tre secoli successivi. 

I primi di questi interventi riguardano la navata e il presbiterio. Qui Jacopo Bassano e la sua bottega realizzarono una serie dieci figure di apostoli e dieci di profeti il cui destino non è facile da ricostruire. La presenza del Bassano e del Gambara non fanno altro che dimostrare l'importanza artistica di questa chiesa di provincia.

Nel periodo successivo la decorazione prosegue soprattutto nelle cappelle laterali e nella cripta dedicata a San Giuliano e alla Vergine. Qui nel primo decennio del XVII la campata viene decorata con una volta riccamente decorata con stucchi raffiguranti  fogliami, nastri, palmette, foglie trilobate, cerchi e testine di cherubino. A questo periodo risalgono anche gli affreschi della volta raffiguranti la nascita della Vergine, la Presentazione al Tempio, lo Sposalizio e l'Annunciazione molto probabilmente realizzati da un pittore vicino alla cerchia di Camillo Procaccini.

Nel corso dei XVII vengono anche terminate le due cappelle  dedicate a Sant'Ambrogio e a San Carlo  poste rispettivamente a sinistra e a destra dell'altare maggiore.  Si pensa che nella cappella dedicata a San Carlo fosse originariamente destinato un dipinto raffigurante san Carlo Borromeo in Gloria ora conservato nell'oratorio di Sant'Antonio la cui l'iconografia segue  molto chiaramente quella della celebre pala del Morazzone  realizzata per il santuario di Santa Maria della Noce a Inverigo.

Arrivati  all'inizio del XIX secolo la necessità di arricchire la navata maggiore con una decorazione degna del Santuario si fece più pressante. Venne chiamato il pittore Giovanni Chiarini che nel 1841 fu incaricato di decorare la navata con una serie di riquadri narrativi  che corrispondono al ritmo delle navate  ed evocano bassorilievi inseriti nelle architetture classicheggianti.  Nelle scene racconta le efferate torture subite da vari mariti come Paolo, Pietro, Simone, Giacomo ecc.  accompagnate da dodici medaglie con i martiri degli apostoli , tondi con busti degli apostoli e trofei ecclesiastici.

Mentre la volta botte ribassata della navata centrale  è decorata con un motivo a cassettoni a imitazione di un architettura antica.  

Altra aggiunta importante dell'epoca  è l' altare neoclassico eseguito su progetto di Leopoldo Pollack nel 1807. Si tratta di un tempietto circolare rialzato su gradini, a otto colonne con cupolino trasparente, anche per permettere una maggiore visione degli affreschi retrostanti. Il nuovo assetto sembra in qualche modo ricordare quello del Duomo milanese il cui cantiere era gestito proprio da Pollack.

 

 

 

Bibliografia

La collegiata di Santo Stefano a Vimercate : storia e arte in un'antica pieve lombarda,  Silvana Editoriale, Il Gabbiano, 2008

A. Vergani ( a cura di),  Mirabilia Vicomercati : itinerario in un patrimonio d'arte : il Medioevo, 1994.

P.Venturelli, G.A. Vergani ( a cura di), Mirabilia Vicomercati : itinerario in un patrimonio d'arte : l'età moderna, 1998.

 

 

Sitografia

lombardiabeniculturali.it/blog/percorsi/il-romanico-a-monza-e-nella-provincia-di-monza-e-della-brianza/la-basilica-di-santo-stefano-protomartire-a-vimercate/

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/MI100-09354/