FIRENZE: LA CINTA MURARIA TRECENTESCA PT. II

A cura di Federica Gatti

 

 

La sesta porta era quella a San Gallo, collocata a nord, dalla quale si andava in direzione di Bologna: essa prese il nome da una chiesetta con ospedale costruita nel 1218 da Guidalotto di Volto dell’Orco e da sua moglie Bernardesca per l’accoglienza dei pellegrini.

«Accanto alla porta di fuori è un ponte con marzocco di pietra, sotto il quale passava l’acqua del Mugnone, bagnando sempre le mura della città, infinochè di là alla porta al Prato sgorgava in Arno; […] Ha questa porta non uno, ma due borghi, i quali sono pieni di case e di botteghe con tutte l’arti necessarie ad una città, e con un’osteria in sulla piazza delle maggiori e più belle che veder si possano; dove i giorni che non si lavora vanno innumerabili artefici, e quivi bevendo e giuocando attendono a darsi pace e buon tempo».[1]

Secondo un’epigrafe collocata nella facciata rivolta a nord, ancora leggibile, la torre fu tra le prime ad essere costruita, si pensa con disegno di Arnolfo di Cambio: 

 

«IN NOMINE DNI MCCLXXXIIII

INDICIOE XA HOC OPVS FACTV E 

TPR NOBILIS MILITIS DNI ROLAMDINI

DCANOSSA CAPIT CIVIT FIOR»

 

Nella parte inferiore della torre si aprivano tre vani, uno centrale corrispondente al ponte levatoio, da dove passavano carrozze, carri e frequentemente personaggi illustri, e due minori da utilizzare quando il primo era chiuso oppure di notte o in caso di assedio.

La facciata verso la città presenta un arco a tutto sesto, poggiante su capitelli collocati nei piedritti, con il giglio fiorentino alla chiave, mentre quella verso la campagna è caratterizzata da un arco ribassato sormontato da un arco a tutto sesto. All’esterno sono visibili due leoni decorativi, simboleggianti il popolo fiorentino, racchiusi entro un’edicola cuspidata, mentre all’interno si ha una lunetta affrescata nel Cinquecento da Michele Rodolfo del Ghirlandaio, raffigurante la Madonna con il Bambino, tra i Santi Giovanni Battista e Cosimo. 

Fu con il duca Cosimo de’ Medici che la torre venne chiusa come una sorta di terrazza coperta da un’ampia tettoia, dalla quale si affacciavano le “troniere” per i cannoni pronti alla difesa della porta. Con la perdita della funzione militare e con i lavori di costruzione dei viali di circonvallazione, la Porta, come Porta alla Croce, rimase risolta in una vasta piazza porticata che inizialmente prese il nome di piazza San Gallo per poi diventare, dopo il 1945, piazza della Libertà. La copertura della porta venne realizzata nel XVI secolo con un tetto in laterizio a quattro falde posto su quattro pilastri angolari, sorretto al centro da un grande arco mediano abbassato e modificato per questo uso, all’interno del quale è visibile una scala che conduce all’abbaino sul tetto. Al centro della copertura, come abbiamo visto per Porta alla Croce, è collocato un pinnacolo con la banderuola contenente lo stemma mediceo. Nel fornice della porta troviamo una porta di accesso alla rete fognaria sottostante realizzata dal Poggi.

La settima porta, anch’essa in origine probabilmente dotata di ponte levatoio, era la Porta a Faenza, fondata nel 1284 e chiusa nel 1533 per la costruzione della Fortezza di San Giovanni Battista, ma ancora oggi visibile al suo interno, comprensiva di ponticello sul fossato rimasto intatto. 

Si tratta dell’unico ponte dell’antiporta ancora visibile, sotto al quale era stato deviato il Mugnone: realizzato con bozze tagliate in pietra forte, si componeva di tre arcate a tutto sesto che attualmente risultano essere state murate.

La sua denominazione deriva da un monastero femminile fondato da Santa Umiltà da Faenza nel 1281, le monache venivano chiamate “donne di Faenza”, che venne trasferito nella zona di San Salvi intorno alla metà del XVI secolo, cioè quando la zona venne stravolta per la costruzione della Fortezza da Basso. Anticamente la porta aveva la statua di Arrighetto da Settimello, poeta latino vissuto a Firenze nel XII secolo. Nella Veduta della Catena la porta è rappresentata con due aperture sovrapposte nel lato interno e con la sommità merlata e aggettante in direzione della campagna.

Anche l’ottava porta, la cosiddetta Porta Polverosa, precedentemente denominata Porta Valfonda o Gualfonda, venne abbattuta durante la costruzione della Fortezza da Basso. Il nome di questa porta deriva dal convento di San Donato in Polverosa, chiamato così perché abitato dai monaci agostiniani, detti polverosi per il colore grigio del loro saio. Inoltre, dal Dizionario del geografo Emanuele Repetti si deduce che Polverosa era chiamata la zona da Porta al Prato fino all’allora chiesa di San Donato a Torri e al Ponte a Rifredi, e una zona inclusa nelle mura, dove era collocata la chiesa di Santa Lucia.

La nona porta era quella d’Ognissanti, poi chiamata Porta al Prato, dalla quale si raggiungevano Prato e Pistoia. Nel XVI Varchi la descrive così: «da un lunghissimo e larghissimo prato che ha dinanzi a se dalla parte di dentro, nel quale s’esercita la gioventù fiorentina a saltare, a giuocare alla palla al calcio, sia chiama la porta al Prato».[2]

Molto spesso si pensa che il suo nome derivi dal suo aprire la strada di collegamento con la città di Prato, ma, come descritto dal Varchi, è invece l’area verde in cui la porta insiste ad essere denominata “prato”. La Porta al Prato presenta gli stessi caratteri di Porta a San Gallo, e di Porta alla Croce, per cui si crede disegnata da Arnolfo di Cambio. Essa venne iniziata nel 1284 «ma per molte averse novità che furono appresso stette buono tempo che non vi si murò più innanzi che quelle mura de la fronte del Prato»:[3] la cerimonia di posa della prima pietra avvenne infatti nel 1299 e una lapide, con lo stemma del popolo e del Comune di Firenze, posta nella parte interna ci ricorda la sua costruzione avvenuta nel 1311:

 

«ANI.DNI.MCCCXI.INDIZIONE VIII.LA VIA.DEL COMUNE DENTRO.ALEMVRA.B.XVI. EL MVRO.EGROSSO.B.III.E MEZZO EL MVNGNIONE .ELARGO .IMBOCCA.C.LVI ELA VIA.DI FUORI.DAL MVNGNIONE.B.XVI E COSI DEESSERE .IN TVTTO.B.LXXXXI.EMEZZO EL PRATO.E SANZA.LA VIA.B.QVADRE.».

 

La porta doveva essere più alta, come si vede nella Veduta della Catena e il coronamento merlato doveva essere aggettante sulla parte esterna della città; al di sotto dell’arco è possibile vedere ancora la lunetta con l’affresco di Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, nel quale sono raffigurati la Madonna con il Bambino, fra San Giovanni Battista e San Cosimo. Il fornice aperto sulla città è ad arco ribassato sovrastato da un arco a sesto acuto, mentre quello verso la campagna presenta un arcone a tutto sesto. 

Nell’Ottocento la porta rimase priva di mura e isolata in mezzo all’attuale piazzale della Porta al Prato, lungo i viali di circonvallazione, come Porta a San Gallo e Porta alla Croce, con le quali condivide anche la stessa soluzione del tetto.

Proseguendo lungo il perimetro delle mura si può incontrare una torre di difesa, la torre della Serpe, collocata oltre la Porta al Prato, nei pressi della Sardigna, nel punto in cui le mura si incontravano formando un angolo retto. 

L’edificio, il cui nome sembra derivare da un famoso capo-guardia chiamato “Serpe”, è un parallelepipedo in muratura, caratterizzato da una coppia di tre aperture affiancate sopra il fornice, coronato da merli e privo di particolari elementi di difesa: la torre deve essere immaginata come inglobata all’interno delle mura, quasi a squadra, come si vede nella già citata Veduta.

In prossimità dell’Arno il perimetro delle mura si interrompeva, proseguendo idealmente all’interno del fiume con le pescaie, che impedivano l’ingresso delle barche nemiche discendenti o risalenti il fiume. 

In questo tratto delle mura si innalzava una torre di difesa costruita per rafforzare le mura: il torrino di Santa Rosa, precedentemente chiamato torre “della Guardia”, per la sua funzione, o “della Sardigna”, poiché si elevava nella zona della città destinata alle immondizie e alle carogne di animali morti. 

In prossimità dell’edificio si trovava un convento femminile con una chiesina dedicata alla Beata Vergine e a San Barnaba detto delle Torri e, annesso a questo, si trovava l’oratorio maschile di Santa Rosa: il nome della torre sembra quindi derivare dall’unione delle denominazioni dei due edifici religiosi. Nell’Ottocento il governo della Toscana fece costruire un tabernacolo in stile neogotico a ridosso della torre, anch’essa restaurata, a protezione di un affresco cinquecentesco di Ridolfo del Ghirlandaio raffigurante una Pietà.

 

 

Tutte le foto sono state scattate dalla redattrice

 

 

Note

[1] B. Varchi, Storia Fiorentina di Benedetto Varchi con aggiunte e correzioni tratte dagli autografi e corredata di note, a cura di Lelio Arbib, volume secondo, Società editrice delle storie di Nardi e del Varchi, Firenze, p. 384.

[2] B. Varchi, Storia Fiorentina di Benedetto Varchi con aggiunte e correzioni tratte dagli autografi e corredata di note, a cura di Lelio Arbib, volume secondo, Società editrice delle storie di Nardi e del Varchi, Firenze, p. 385.

[3] G. Villani, Nuova cronica, Edizione critica, a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda, Parma, 1991, p. 241.

 

 

 

Bibliografia

E. Repetti, Dizionario geografico fisico della Toscana contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, volume quarto, presso l’autore e l’editore coi tipi Allegrini e Mazzoni, Firenze, 1841.

B. Varchi, Storia fiorentina di Benedetto Varchi con aggiunte e correzioni tratte dagli autografi e corredata di note, a cura di Lelio Arbib, volume secondo, Società editrice delle storie del Nardi e del Varchi, Firenze, 1843.

A. Monteverdi, voce “Arrigo da Settimello”, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 4, 1962.

P. Bargellini, E. Guarnieri, Firenze delle torri, Bonechi, Firenze, 1973. 

G. Villani, Nuova cronica. Edizione critica, a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda, Parma, 1991.

F. Cesati, La grande guida delle strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo attraverso 2400 vie, piazze e canti, Newton Compton, Roma, 2003.

L. Mercanti, G. Straffi, Le torri di Firenze e del suo territorio, Alinea, Firenze, 2003. 

L. Anichini, Alle porte coi sassi. Storia e guida alle porte delle mura di Firenze, Nicomp Laboratorio Editoriale, 2010.

A. Favini, Medioevo nascosto a Firenze. Case-torri e monumenti “minori” della città tra XI e XV secolo, Editori dell’Acero, Empoli, 2012.

A. Petrioli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, Edizione Polistampa, Firenze, 2017.


IL CASTELLO ARAGONESE

A cura di Alessandra Apicella

 

Simbolo per eccellenza dell’Isola di Ischia, il Castello Aragonese, con la sua immagine di isola nell’isola, racchiude tra le sue mura e le sue pietre secoli di storia, di cui è ancora possibile osservare le bellezze.

Situato sul versante orientale dell’isola e collegato a quest’ultima attraverso un ponte, che unisce l’isolotto al Borgo di Celsa, più generalmente conosciuto con il nome di Ischia Ponte, il Castello Aragonese deve il suo nome alla dinastia degli Aragonesi, ed in particolare ad Alfonso V d’Aragona, che, nel 1441, introdusse importanti modifiche architettoniche militari sulla pianta del castello precedente, così come fece anche con il Maschio Angioino nella città di Napoli. 

La fondazione del castello è legata alla figura del tiranno Gerone di Siracusa, che, prestato aiuto ai Cumani nella battaglia navale contro i Tirreni nel 474 a.C., e vintala, ricevette come dono di ringraziamento l’intera isola. Conquistata dai Romani nel 315 a.C., questi vi fondarono la colonia di Aenaria e utilizzarono il castello come fortino contro le incursioni nemiche, aggiungendovi, dal punto di vista architettonico, abitazioni e torri. In seguito all’eruzione del Montagnone nel 150 d.C. e al conseguente abbassamento del suolo, il castello si ritrovò isolato e, per distinguerlo dal resto dell’isola di Ischia, denominata “insula maior”, se ne faceva menzione chiamandolo “insula minor”.

La posizione isolata e la struttura ripida dell’isolotto lo portarono a divenire un ottimo rifugio durante le scorrerie e le invasioni barbariche che interessarono l’isola tra il IV ed il V secolo d.C. Impossibile da espugnare, la popolazione ischitana si rifugiò all’interno del castello, sfruttandone le peculiarità e strutture militari, che vennero meno soltanto quando l’intera isola, ed anche il Castello, subirono la conquista da parte della dinastia Sveva, con Enrico VI di Svevia, nel 1194, che lo trasformò in sede delle istituzioni e come residenza per le famiglie nobili. Alla dinastia degli Angioini, invece, si deve la base fondativa del Maschio, che fu poi modificata, nella disposizione attuale - solido di forma quadrangolare con torri - in seguito alla conquista aragonese, a cui si deve anche la costruzione del primo ponte di collegamento con l’insula maior. Infatti, fino a questo momento l’unico modo per raggiungere il castello era attraverso una scala esterna, di cui è ancora visibile qualche traccia dal mare. Il Castello, sotto Alfonso V d’Aragona, acquisì la duplice funzione di roccaforte militare in tempo di guerra e residenza reale nei tempi di quiete.

 

Il susseguirsi di tempi e dinastie comportò la costruzione progressiva di luoghi di interesse sull’isolotto, da palazzi signorili a edifici di culto, come nel caso della Cattedrale dell’Assunta, edificata come ex-voto dalla popolazione, in seguito alla distruzione di quella situata nell’isola maggiore, a causa dell’eruzione vulcanica del 1301.

Con lo stabilizzarsi delle condizioni politiche, nel corso del Seicento, la popolazione iniziò progressivamente ad abbandonare il Castello, in quanto, se da una parte perfettamente adeguato alla difesa militare, si mostrò inadeguato a soddisfare le necessità quotidiane della popolazione, che si spostò nella parte restante dell’isola, popolandola e attuando attività di agricoltura e pesca.

Da carcere politico a residenza per reduci, con l’arrivo di Garibaldi a Napoli, la conquista dell’isola e la proclamazione del Regno d’Italia, il castello entrò a far parte del patrimonio del Demanio dello stato e ne venne affidata la manutenzione all’Orfanotrofio militare di Napoli. Acquistato dall’avvocato Nicola Ernesto Mattera, tra il 1912 ed il 1913, la proprietà del castello passò poi nelle mani dei figli, che, attraverso varie importanti operazioni di restauro, condotte con perizia e sensibilità, e volte a mantenere le tracce visibili della storia, riuscirono a riportare la costruzione al suo antico splendore, fino a renderla visitabile al pubblico, alla fine degli anni Novanta del Novecento.

 

La superficie dell’isolotto è caratterizzata da ruderi, vigneti, ulivi, molte terrazze panoramiche, loggette e viali e sentieri percorribili come mezzo di raccordo tra i vari edifici che risaltano in questo luogo che coniuga storia e natura.

 

La Chiesa dell’Immacolata ed il Convento delle clarisse

Voluta all’inizio del Settecento dalla madre badessa Lanfreschi, del convento attiguo, la chiesa non fu mai completata a causa dell’eccessivo onere economico. Caratterizzata da una pianta a croce greca con l’aggiunta di un presbiterio e di un pronao, le pareti, così come la facciata esterna, sono semplicemente intonacate, al contrario della zona interna, riccamente decorata con stucchi barocchi, cornici e paraste e che si conclude in alto con una cupola poggiante su un tamburo circolare forato da otto finestroni. Dal 1980 viene principalmente utilizzata come sede per esposizioni di arte contemporanea di artisti del calibro di Picasso, de Chirico e Burri.

Il convento attiguo, di costruzione cinquecentesca, ospitava le monache dell’ordine delle Clarisse, provenienti da ricche famiglie nobili. Il cimitero delle monache, posto sotto la chiesa, è costituito da vari ambienti coperti da basse volte a botte, che accolgono alcune strutture in muratura dove venivano adagiati i corpi privi di vita, lasciati in decomposizione, in modo tale da affermare l’inutilità del corpo fisico in quanto solo contenitore dello spirito. Privo di finestre, l’unico raccordo con l’esterno è dato da alcuni cunicoli di forma quadrangolare, detti “venarole”.

 

Chiesa di San Pietro a Pantaniello

La Chiesa fu costruita intorno al Cinquecento probabilmente dall’architetto Jacopo Barozzi da Vignola. Attualmente si presenta spoglia, con semplici cornici e modanature in pietra, senza la possibilità di cogliere quella che doveva essere la decorazione originaria. La pianta è esagonale ed è coronata da una cupola ribassata; particolare è la presenza di ampie finestre ad arco, forse in corrispondenza di quelle che avrebbero dovuto essere delle cappelle radiali che non ci sono pervenute.

 

Carcere borbonico

Costruito per volere di Ferdinando I di Borbone nel 1723, ospitò insieme ai criminali, illustri intellettuali risorgimentali. Più volte chiuso e riaperto, mantenne la sua struttura severa data dalle mura massicce, i piccoli spioncini e le porte robuste.

 

Cattedrale dell’Assunta e cripta

Costruita dopo l’eruzione del 1301, fu realizzata al di sopra di una preesistente cappella, che fu tramutata in cripta. Costituita da una pianta a tre navate, le cui due laterali sono in parte coperte da volte a crociera, la chiesa non presenta la copertura della navata centrale, dell’abside ed è mutila di facciata, a causa dei bombardamenti subiti. Originariamente di stile romanico, fu poi ritoccata durante il Seicento, di cui restano visibili alcuni dettagli decorativi barocchi nell’abside dell’altare maggiore e nelle parti coperte delle navate laterali. Annessi alla cattedrale vi sono quattro cappelle, una sacrestia, un campanile e la già citata cripta. Quest’ultima fu costruita tra l’XI ed il XII secolo e presenta un ambiente centrale, diviso in due campate coperte da volte a crociera, circondato da alcune cappelle perimetrali voltate a botte, le cui decorazioni alludono alle famiglie nobili che vi sono sepolte dentro. Recentemente è stata scoperta un’altra cappella, a sinistra dell’entrata, rimasta a lungo murata e probabilmente usata come zona di sepoltura in tempo di pestilenza.

Attualmente la chiesa è utilizzata come sede per concerti di musica classica e contemporanea, rappresentazioni teatrali e letture di poesie.

 

Ad oggi, il Castello è anche l’ambientazione prediletta per fantasiosi giochi scenografici di luce durante la festa di Sant’Anna, il 26 luglio. Per tradizione la festa è caratterizzata dalla sfilata di barche, giochi pirotecnici e l’incendio del Castello, realizzato attraverso rifrazioni di luce e volto a ricordare il cannoneggiamento fatto contro l’isola dai soldati inglesi nel 1809. Questo scrigno di storia, architettura e natura, di cui se ne possono cogliere le bellezze 365 giorni all’anno, grazie alla cura e all’attenzione della famiglia Mattera, rappresenta l’incontro tra il passato ed il presente, in continuo dialogo tra loro, grazie alle continue iniziative ed esposizioni attuate nelle sale più antiche di questo agglomerato architettonico. 

 

Bibliografia

Stanislao Erasmo Mariotti, Il Castello d’Ischia, Imagaenaria, Napoli, maggio 2015

Nuova guida completa. Ischia, Valentino Editore, 2013

 

Sitografia

https://castelloaragoneseischia.com/it/homepage 

https://laprimapietra.altervista.org/incendio-del-castello-aragonese-di-ischia/ 


LA CRIPTA DI SANT’ADAMO

A cura di Marco Bussoli

 

Nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Guglionesi, in provincia di Campobasso, è possibile visitare un ambiente in cui numerosi secoli di storia si sono sedimentati. La storia della Cripta di Sant’Adamo inizia infatti in tempi molto remoti, ma continua a lungo ad essere viva. Secondo alcuni storici la fondazione di questo luogo può addirittura farsi risalire al VII secolo[1], ma gli interventi più significativi vennero compiuti qualche secolo più tardi, durante la dominazione normanna, quando venne costruita la soprastante chiesa di Santa Maria Maggiore. 

 

La Cripta di Sant’Adamo 

La morfologia stessa di questo ambiente lascia intendere come esso sia stato più volte modificato, anche in funzione della chiesa superiore. Ciò che può, infatti, disorientare è l’orientamento rispetto ad essa. Dalla navata destra della chiesa si può accedere alla cripta, il cui lato lungo è parallelo alla navata, imponendo però al visitatore di girarsi verso destra una volta raggiunta la campata centrale. Alla particolarità di un orientamento così complesso si aggiunge quella delle ultime due campate, molto più alte delle precedenti, che definiscono così uno spazio più arioso all’interno della stessa cripta. L’ambiente è ordinato da campate quadrate chiuse da volte a vela sorrette, a loro volta, da colonne in pietra. 

La veste medievale di questo luogo, oltre che essere caratterizzata dalla sua spazialità, è definita dagli apparati scultorei delle colonne che reggono le volte. È da subito evidente, da un’analisi stilistica, come queste non siano appartenenti alla stessa fase di costruzione, e di come sia estremamente plausibile l’ipotesi del reimpiego: se si guarda solo all’elemento colonna è facile notare come quella a destra dell’altare e quella ad essa diametralmente opposta siano diverse dalle altre; queste infatti non hanno una base ed un doppio collarino, ma presentano una decorazione geometrizzante a triangoli nella parte bassa e a semicerchi; un simile esempio, seppur isolato in Molise, è molto comune in altre zone d’Italia nello stesso periodo.

 

L’altra particolarità della colonna a destra dell’altare è il suo capitello, che pur presentando rilievi con motivi vegetali, come gli altri, è più elaborato: alla presenza di foglie nervate sugli spigoli si aggiungono dei caulicoli che dal centro formano delle volute verso l’alto. Un altro pseudo-capitello si differenzia dagli altri ed è quello dell’ultima colonna della prima fila, che oltre agli elementi vegetali presenta al centro di ogni faccia una protome umana, simile a quelle presenti a Santa Maria di Canneto. Il riferimento a quest’ultima chiesa sembra essere particolarmente calzante date le assonanze stilistiche degli elementi decorati, pur essendo quelli di Canneto di qualità inferiore. Questo può far supporre che siano state le stesse maestranze ad eseguire queste opere, proprio quando, dopo il 1125 il monastero acquisì alcune proprietà a Guglionesi. L’ipotesi di datazione alla prima metà del XII secolo trova generalmente d’accordo gli altri studiosi che si sono avvicendati nello studio della Cripta[2], soprattutto dopo i confronti con le sculture di altri edifici come la Cattedrale di Termoli ed altri edifici della Capitanata (Puglia). In generale è ravvisabile nei capitelli una certa ricerca formale nei motivi e nella resa scultorea, cercando di rendere le foglie scolpite sempre diverse, mantenendo un’alta qualità.

 

Gli affreschi delle volte 

Durante il XVI sec., quando le spoglie di Sant’Adamo vennero traslate a Guglionesi, si decise probabilmente di dipingere le volte con dei motivi monocromi, emersi durante i restauri degli anni ’80, che vennero poi coperti da un ciclo di affreschi più articolato. Fu proprio durante i restauri di fine ‘900 che si prese realmente coscienza del ciclo di affreschi e di quanto questo fosse gravemente danneggiato e lacunoso a causa delle mancate attenzioni. Sono ancora leggibili solo due delle voltine a vela e l’affresco che copre lo spazio più ampio, rendendone comunque comprensibile l’iconografia. 

 

Il ciclo d’affreschi procede con molta probabilità in ordine cronologico presentando episodi della Genesi, nella prima parte all’interno di grottesche in un finto cassettonato decorato a nastri e con motivi vegetali. La figura di Dio padre nel più grande riquadro della volta alta apre il ciclo, riprendendo chiaramente la Separazione della terra dalle acque della Cappella Sistina, ponendo al centro il gruppo di dio con due putti nell’atto di volare, su uno sfondo grigio. Attorno a questa prima scena sono collocati quattro episodi della Genesi che hanno per soggetto i primi uomini sulla terra: viene raccontata in tre riquadri ovali la storia di Adamo ed Eva, partendo dalla Creazione di Eva, e nell’ultimo ovale viene presentato l’Olocausto di Caino e Abele. In tutti questi episodi i riferimenti al ‘500 romano sono molto marcati a partire dalle figure michelangiolesche, tutte riferite al ciclo della Cappella Sistina; altri riferimenti sono però ben evidenti, come riporta Nadia Raimo, come quelli ai lavori di Perin del Vaga nella Cappella del Crocifisso in San Marcello al Corso. 

 

La decorazione delle volte a vela è ordinata dalla divisione in due porzioni dello spazio, tramite cornici simili a quelle del vicino cassettonato ma più esili. Le prime due scene visibili sono entrambe riferite al diluvio universale e sono L’arca di Noè e la raccolta degli animali ed il Diluvio universale, nella seconda volta affrescata, invece, sono presenti gli episodi dell’Ebbrezza di Noè e la Torre di Babele. Anche in questo caso il richiamo ai temi ed ai modi della pittura romana è lampante e rende molto semplici i confronti con i possibili riferimenti. Da un lacerto rimasto in una delle volte è possibile vedere alla base della vela la pittura di una grande foglia d’acanto che sembra richiamare quelle del Catello di Gambatesa.

 

L’autore degli affreschi

Sull’autore di questi affreschi si è molto speculato proprio perché la vicinanza con Gambatesa e le assonanze stilistiche con gli affreschi del Castello rendono quasi immediati i collegamenti. In realtà la data, il 1587, affrescata su un peduccio della Cripta sposta di quasi quarant’anni in avanti l’esecuzione rispetto a quelli di Donato Decumbertino, del 1550. Vengono quindi avanzate ipotesi simili anche per la cripta, come quella su Gianserio Strafella, pittore salentino, sebbene le uniche certezze siano sulla formazione del pittore di Guglionesi. L’artista che qui ha operato si è con tutta probabilità formato prima in patria e poi a Roma, come avevano fatto anche Decumbertino e Strafella, riuscendo così ad avere un simile patrimonio iconografico alle spalle. Si può quindi ipotizzare che l’artista si sia formato nell’ambiente di Perin del Vaga e dei suoi colleghi e si sia poi spostato in luoghi periferici portando con sè questo bagaglio ed aggiornandolo con i modelli più vicini.

 

 

 

Note

[1] R. Leone, I. Benoffi, Ipotesi per una lettura storica del territorio di Guglionesi, in “Archivio Storico Molisano”, II, Campobasso, come riportato da B. Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1991, p. 33.

[2] Ada Trombetta, che ci torna in più occasioni, e Corrado Carano.

 

 

 

Tutte le foto sono state scattate dal redattore.

 

 

 

 

Bibliografia

Berardino Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1991;

Nadia Raimo, Gli affreschi della cripta di Sant’Adamo nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Guglionesi, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020


SAN LEO: LA CITTA’ PIU’ BELLA D’ITALIA

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione

“La città più bella d’Italia? San Leo: una Rocca e due Chiese”. [1] Umberto Eco                                                   

Le bellezze della Valmarecchia sono innumerevoli, ma tra queste spicca la gemma incastonata sul massiccio del Carpegna: il borgo di San Leo, in provincia di Rimini. La cittadina, celebre per aver ospitato il prigioniero Cagliostro, incarcerato lì da papa Pio VI, e divenuto famoso tra il grande pubblico per essere stato protagonista di una delle puntate dell’anime “Lupin III – La partita italiana”. Il ladro gentiluomo tenta infatti di trovare il tesoro appartenuto proprio all’avventuriero settecentesco. La bellezza di questo borgo sospeso nel tempo e attraversato da alcune delle figure più note della nostra storia come Dante e Cesare Borgia, è ben espressa dalle parole di Umberto Eco, il quale rintraccia l’antico fascino nella semplicità stessa del luogo. L’11 giugno del 2011 il rinomato intellettuale divenne ufficialmente cittadino onorario di San Leo, il discorso venne tenuto da Roberto Benigni alla presenza anche di Tonino Guerra. [2]

 

La Pieve

Uno tra gli edifici più antichi del comune è la Pieve di Santa Maria Assunta, probabilmente di età carolingia; l'edificio venne però ricostruito in stile romanico nel corso dell’XI secolo. il momento della costruzione della pieve coincide perfettamente col periodo di massimo sviluppo di questo tipo di strutture, rintracciabile dal VIII secolo. a quest’epoca le pievi avevano infatti iniziato ad assumere un ruolo centrale nell’organizzazione degli aspetti religiosi delle campagne, prendendo in carica le fasi fondamentali della vita del fedele. Indice importante di una ripresa economica è la proliferazione delle nuove fondazioni, che accolgono sepolture e radunano il popolo. 

 

La chiesa è a pianta basilicale e a tre navate, scandite da due file di sostegni e colonne, quest’ultime sono tutte di reimpiego. Nella pieve è conservato uno splendido esempio di ciborio di età carolingia, recante l’anno di costruzione 882 e la dedica alla Vergine Maria con il nome del committente, il duca Orso. 

 

Il Duomo

Per quanto riguarda invece il Duomo cittadino, si tratta di un edificio romanico risalente al XII secolo, senza un ingresso in facciata, ma bensì 

disposto sul fianco. La splendida chiesa presenta una forma a croce latina, con un alto presbiterio, il quale troneggia su una vasta cripta. Il duomo è dedicato alla figura più importante del borgo, il santo Leone, da cui il paese stesso trae il nome, fuggito nella penisola dalla Dalmazia durante le persecuzioni di Diocleziano e di cui nel duomo è conservato il coperchio del sarcofago. 

 

L’incantevole edificio con facciata in arenaria è da annoverarsi tra le strutture medievali di maggior pregio del Montefeltro. Al suo interno è conservata anche la splendida Madonna della Mela di Catarino Veneziano, un’opera del XIV secolo, che rappresenta la Vergine con un abito riccamente ornato, seduta su un trono ligneo, mentre porge al Divin Fanciullo una mela. La scena si svolge su uno sfondo rosso; lo stile è gotico con richiami bizantini tipico di Venezia.

 

La Rocca

Il Montefeltro ha una lunga storia di fortificazioni e San Leo non fa eccezione. La sua rocca, ormai di stampo rinascimentale, ha origini molto più antiche e ospitò Berengario del Friuli, celebre marchese che sul finire del IX secolo venne proclamato re d'Italia e dopo essersi asserragliato all’interno della rocca dichiarò il piccolo borgo Capitale d’Italia. La zona, alcuni secoli più tardi, entrò a far parte dei domini di Federico da Montefeltro, il quale promosse una serie di importanti restauri tra gli edifici di San Leo; uno dei più significativi fu sicuramente quello alla rocca che, affidata al noto architetto Francesco di Giorgio Martini, specializzato in architetture difensive, la rimaneggiò completamente. L’architetto era solito lavorare dando forme particolari ai suoi edifici ma al contempo rendendoli le  rocche meglio difese del suo tempo; realizzò planimetrie e bozzetti dall’aspetto animale o di complesse forme geometriche, ma sempre mantenendo la sicurezza di una solida difesa. Le sue opere architettoniche mantengono ancora oggi una straordinaria efficienza in campo militare senza mai rinunciare a uno splendido risultato dal punto di vista decorativo.  

 

Il Palazzo Mediceo e il Museo d'Arte Sacra

Nel cuore del borgo romagnolo, in prossimità della Pieve di Santa Maria Assunta, sorge il Palazzo Mediceo, sede del Museo d’Arte Sacra della cittadina. Si tratta di un edificio cinquecentesco, voluto dalla Repubblica Fiorentina per il Governatore da loro instaurato. Campeggia sul palazzo lo stemma gigliato, recante la data 1521 (MDXXI), che alloggia sopra il portale con arco decorato con bugnato. All’interno trova spazio dal 1996 la sopra citata raccolta artistica di provenienza locale; nelle varie stanze è tutto un susseguirsi di opere appartenenti a epoche e fasi diverse del borgo. Comprende il lapidario e una serie di sale dedicate a dipinti e arredi, tra cui spicca un pregevole tabernacolo ligneo di gusto rinascimentale. 

 

Chiesa di Sant'Igne

Un luogo estremamente evocativo è la chiesa con convento francescano di Sant’Igne, ubicata al di fuori del borgo, particolarmente apprezzabile per la quiete che la avvolge. Costruita dopo il passaggio da San Leo del santo assisiate per antonomasia, il luogo di culto è da ritenersi una delle mete più interessanti del circondario, anche grazie alla sua forma particolare con un transetto che termina in due cappelle laterali a pianta quadrata. 

 

Esso sorge con molta probabilità su un edificio preesistente, come paiono dimostrare i rinvenimenti di alcuni resti archeologici, presumibilmente una cappella cistercense. Dell’antico convento rimane un mirabile chiostro con un pozzo all’interno.

 

Il Borgo

San Leo ha molto altro da regalare tra splendide vedute e vetusti edifici ricchi di storia, che raccontano la Romagna di una volta, non lontano da quella Rimini tanto bella quanto caotica che l’Italia intera conosce. Questo gioiello ricco va assaporato un poco per volta, come un bicchiere di Sangiovese, tanto prodotto in Valmarecchia, cogliendone ogni retrogusto tra le piccole chiese e le vie del centro storico. 

 

 

 

Bibliografia

P. De Vecchi – E. Cerchiari, Arte nel Tempo. Dal Gotico Internazionale alla Maniera Moderna, VOL 2, tomo 1, Bompiani

 

Sitografia

https://www.san-leo.it/scopri-san-leo/


UN LUOGO SUGGESTIVO SUL LAGO MAGGIORE: L’EREMO DI SANTA CATERINA DEL SASSO

A cura di Beatrice Forlini

 


Origine dell'Eremo

L’eremo di Santa Caterina sorge in una posizione tanto particolare quanto suggestiva della sponda lombarda del lago Maggiore; situato nei pressi del piccolo paese di Leggiuno, è infatti costruito a strapiombo sul lago e sotto uno sperone denominato Sasso Ballaro. La scelta della posizione dell’eremo non fu certo casuale, si trova infatti in quello che doveva essere un punto strategico del lago, il quale già in pieno Medioevo rappresentava una fondamentale via di comunicazione tra nord e sud. Il lago Maggiore era infatti un importante centro per il commercio e l’artigianato, oltre che una risorsa per l’agricoltura e probabilmente luogo di ritrovo per mercanti, pellegrini e viaggiatori. 

La storia di questo eremo inizia molto tempo fa ed è legata alla leggendaria e mitica figura di un Beato, Alberto di Arolo, della facoltosa casa dei Besozzi; egli, secondo il racconto, era un ricco commerciante che conduceva una vita agiata. Un giorno però per scampare ad un naufragio invocò la Santa martire Caterina di Alessandria, facendo voto di cambiare completamente stile di vita e di dedicarsi unicamente a penitenza e preghiera. Riuscendo poi fortunatamente ad arenarsi proprio sotto al sasso o rupe Ballara, decise di dare fede al voto fatto e costrì una chiesa dedicata alla santa che lo aveva salvato, Caterina. L’iniziale nucleo costruttivo rimane adesso inglobato nella zona absidale della chiesa ed è solo una parte del complesso che possiamo ammirare oggi affacciandoci da questo “balcone di roccia” naturale. A fare da cornice alla costruzione possiamo ossevrare un panorama mozzafiato sulla natura e sul lago.[1] Sebbene costruito in un luogo non facilmente raggiungibile e nonostante la beatificazione di Alberto e la sua effettiva esistenza non siano mai state propriamente dimostrate, fin dal Medioevo il complesso divenne meta di numerosi pellegrinaggi.

Fin dall’inizio del Trecento altri uomini scelsero di seguire l’esempio dell’eremita, prima senza una regola e poi col passare del tempo unendosi e dandosi una struttura e delle regole. Si arrivò dunque alla formazione di una prima comunità monacense che faceva capo alla regola di Sant’Ambrogio ad Nemus, la quale diede viata al nucleo più antico dell’edificio che ancora oggi rimane alla base del complesso dell’eremo. Le prime struttre ad essere costruite furono: la cappella di Santa Maria Nova, la chiesa dedicata a San Nicolao, all’interno della quale sono state rinvenute le testimonianze più antiche del complesso, risalenti al 1301, il campanile, il conventino e il convento meridionale. La cappella e la chiesa di San Nicolao vennero poi inglobate nel volume della successiva chiesa dedicata a Santa Caterina. Nel 1379, dopo gravi difficoltà economiche, l’eremo venne aggregato alla domus milanese di S. Ambrogio ad Nemus. 

La storia del complesso dal Cinquecento ad oggi

Il complesso visse un periodo di grande fioritura e benessere a partire dal Cinquecento grazie all’alleanza tra la famiglia Besozzi, da sempre legata all’Eremo grazie alla figura dell’antico antenato Alberto, e la famiglia degli Sforza. Col tempo le piccole chiese che erano sorte accanto al famoso sacello di Santa Caterina divennero un unico grande ambiente; venne modificata quella che era la zona absidale trasformandola in cappelle laterali e a partire dalla metà del secolo vennero realizzati diversi cicli di affreschi e decorazioni di vario genere, . 

Il complesso comprende principalmente ancora oggi tre edifici: il convento meridionale, il cosiddetto conventino e la chiesa di Santa Caterina, collegati tra loro da due cortili terrazzati affacciati sul lago. L'ingresso all'eremo era ubicato nel convento meridionale e dall'atrio un terrazzo conduceva al conventino che ospitava la cucina, il refettorio e le celle dei monaci. A est della facciata della Chiesa dedicata a Santa Caterina vi è l’imponente campanile in pietra.

Il Seicento fu invece un secolo segnato da guerre, carestie e peste, che colpirono duramente anche questa zona fino a causare la soppressione dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus. Alcuni anni più tardi l’Eremo venne affidato ai Carmelitani di Mantova, che rimasero qui fino alla soppressione del convento nel 1769. la maggior parte della proprietà passo quindi sotto le parrocchie dei vicini comuni di Arolo, Cerro, e Laveno, mentre la chiesa venne rilevata dalla Curia di Milano e unita alla Parrocchia Leggiunese. 

L’eremo rimase pressochè abbandonato, senza una comunità religiosa residente, per quasi 150 anni nonostante i numerosi sforsi da parte della parrocchia di Leggiuno nel tentativo di trovare qualche ordine interessato a rilevare l’Eremo. Il complesso, già a partire dal 1914 era stato riconosciuto come Monumento Nazionale, avendo così l’opportunità di essere restaurato varie volte. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Eremo tornò a vivere un momento di attività, la prima sala del convento superiore venne infatti trasformata in ristorante e al fine di rendere il complesso più facilmente rggiungibile venne ricostruito  l’attracco per il battello in cemento. Nel 1970 la Provincia di Varese acquistò la struttura avviando uno dei primi interventi di restauro d'urgenza sull'edificio del conventino per evitare in maniera concreta che l’edificio continuasse a subire danni. Venne fatto un intervento di consolidamento e successivamente restaurato l'intero complesso. L’ingresso, che avveniva tradizionalmente via lago (prima dell’attracco del battello), oppure attraverso una scalinata, è stato reso ancora più agibile grazie anche alla costruzione di un ascensore in tempi recenti. Un episodio curioso da ricordare è che l’accesso via terra dalla porta sud che ancora oggi è utilizzato da tutti i visitatori, durante il periodo del Concilio Tridentino (1545-63) era vietato perché era inconcepibile il passaggio attraverso i locali della clausura monacale. 

Per concludere, questo luogo, ancora considerato un singolare esempio di struttura conventuale, grazie alla sua ricchezza spirituale, agli spettacolari scenari che regala sulla natura circostante e alle sue meravigliose opere d’arte, continua ad attirare numerosi visitatori e pellegrini, curiosi di rivivere un’atmosfera quasi millenaria.

 

 

 

 

 

Note

[1] Sito web Eremo di Santa Caterina del Sasso, sezione Storia: https://www.eremosantacaterina.it/it/l-eremo/storia [consultato in data 26/04/2022]

 

 

 

Sitografia

Sito Eremo: https://www.eremosantacaterina.it/it/ [consultato in data 26/04/2022]

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00095/  [consultato in data 26/04/2022]


LE PALAFITTE. IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI FIAVÉ

A cura di Alessia Zeni

 

Nelle Giudicarie Esteriori del Trentino occidentale, un piccolo paese a 20 km da Trento conserva uno dei più importanti siti archeologici dell’arco alpino. Si tratta di Fiavé e della “Riserva Naturale provinciale” che conserva al suo interno uno dei più importanti complessi palafitticoli preistorici europei. Il sito si trova a quota 648 s.l.m. in corrispondenza dell’antico Lago di Fiavé, oggi Torbiera in località Carera e denominata a livello locale la palude di “Palù”.  La Torbiera di Fiavé si estende su una vasta conca triangolare chiusa fra i monti Cogorna e Misone e a nord dallo sbarramento morenico su cui sorge il paese di Fiavé. 

Tra gli anni Sessanta e Settanta importanti scavi archeologici nella Torbiera di Fiavé hanno portato alla luce un complesso sito palafitticolo riconosciuto oggi a livello mondiale e inserito dal 2011 nei “110 siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino” patrimonio dell’umanità UNESCO. Un sito la cui importanza è data dalle diverse forme insediative individuate, l’eccezionale stato di conservazione dei reperti lignei e dall’approccio globale delle ricerche.

 

Il sito archeologico di Fiavé 

Lago, sito palafitticolo, torbiera e area archeologica è il percorso che ha fatto nel corso dei millenni la Riserva naturale provinciale “Fiavé”. Una riserva di 137 ettari la cui storia risale a 15.000 anni fa quando, per sbarramento morenico, nelle fasi finali dell’ultima glaciazione, si andò formando un lago con le acque del torrente Carera e che doveva raggiungere i 10-15 metri di profondità. Oggi il Lago di Fiavé non esiste più, ma sappiamo che fino alla metà dell’Ottocento il lago esisteva con acque poco profonde (1-2 metri) e che di questi pochi metri solo la metà era occupata dall’acqua, il restante non era altro che deposito torboso. A partire dal 1853, l’ampio banco di torba che sostituì l’acqua fu sfruttato dalla “Società per l’escavazione della torba nel Tirolo Italiano” per la produzione di materiale combustibile. Una società che prevedeva di agire sulla palude di Fiavè e ricavare materiale torboso per le industrie di tutto il Trentino (birrifici, tintorie, cartiere, filande e fornaci di laterizi).

In seguito all’intensa estrazione della torba, già nella seconda metà del XIX secolo vi furono le prime segnalazioni del rinvenimento di pali e materiali archeologici. Le segnalazioni di materiale archeologico proseguirono fino al XX secolo, quando vennero condotti gli scavi più importanti dall’archeologo trentino Renato Perini, il quale diresse le principali ricerche sul sito e curò l’edizione integrale delle campagne di scavo condotte tra il 1969 e il 1976, con la collaborazione del Museo Tridentino di Scienze Naturali e poi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Provincia di Trento.

Nel tempo le indagini sono state estese all’intera torbiera e proseguite fino agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, che hanno visto la partecipazione di università internazionali, come Londra e Ginevra, sotto la direzione di Perini e poi del sovrintendente provinciale Franco Marzatico. Le ricerche degli anni Ottanta e Novanta hanno permesso di ricostruire l’evoluzione paleo-ambientale dell’antico lago e di individuare altre aree di interesse archeologico: complessivamente sette zone, interessate dalla presenza dell’uomo tra VII e II millennio a.C. [1].

Le scoperte sono state eccezionali sia dal punto di vista scientifico che storico per la ricostruzione delle più antiche comunità agricole europee. Le ricerche hanno portato alla luce i resti archeologici delle popolazioni che hanno abitato il Lago di Fiavè a partire dall’antico mesolitico per almeno cinquemila anni, con la costruzione di case in legno sulle rive, poi sul lago con le classiche palafitte e infine nell’entroterra con la costruzione delle prime case su terrazzamenti in pietra.

La più antica frequentazione umana attestata nell’area protetta di Fiavé è collocabile al mesolitico (VII millennio a.C.), invece il primo insediamento stabile è datato al tardo Neolitico (3800 e 3600 a.C.) e sorgeva su un’isoletta posta quasi al centro della parte meridionale del lago con la costruzione di capanne sulla riva del bacino. Gli insediamenti con le strutture meglio conservate appartengono ai secoli centrali del II millennio e si tratta di abitati su palafitte all’interno del lago: palafitte sull’acqua sorrette da pali isolati, datate tra antica età del Bronzo e l’inizio di quella media (1800-1500 a.C.). L’abbandono di quest’ultima costruzione corrispose al sorgere di un nuovo avanzato villaggio a palafitte, costruito in parte all’asciutto e in parte in acqua: un villaggio in paglia e legno sorretto da una complessa struttura a reticolo adagiata lungo la sponda e sul fondo del lago, eccezionalmente ben conservata, datata ad un momento avanzato della media età del Bronzo (1500-1350 a.C.). Infine, un incendio distrusse quest’ultimo moderno abitato palafitticolo e un nuovo nucleo abitativo venne costruito all’epoca dell’incendio. Quest’ultimo villaggio fu costruito su una piccola altura di origine morenica al margine meridionale del lago, il Dos Gustinaci, nell’entroterra vicino al lago, intorno agli ultimi secoli del secondo millennio (1300-1200 a. C.). In questo luogo il popolo primitivo del Trentino occidentale costruì le prime capanne in legno su terrazzi artificiali in pietra (Fig. 3)[2].

 

Migliaia e di vario tipo sono stati i ritrovamenti archeologici effettuati nella palude di Fiavé, così come centinaia i materiali caduti in acqua accidentalmente o gettati al tempo delle palafitte e che oggi sono importante testimonianza delle conoscenze tecniche e artigianali dei popoli primitivi - vasi in ceramica, monili in bronzo, gioielli in ambra baltica e oro, che erano rarissimi all’epoca -. Una collezione unica in Europa di oggetti in legno, circa 300 esemplari: stoviglie e utensili da cucina (tazze, mestoli, vassoi), strumenti da lavoro come secchi, mazze, falcetti, trapani, manici per ascia, oltre a strumenti legati alla caccia e alla difesa - un arco e alcune frecce -. Le particolari condizioni ambientali del deposito torboso di Fiavè hanno permesso di individuare anche semi e frutti (carbonizzati e non) di derrate alimentari: spighe di grano e orzo, farro, corniole, nocciole, mele, pere, uva, lamponi, more e altri frutti consumati all’epoca. L’unicità di questa scoperta ha confermato che l’agricoltura era una componente importante e primaria nell’economia di sostentamento di una comunità tipica dell’età del bronzo nella regione subalpina [3].

In ultimo è bene anche ricordare la grande quantità di pollini delle piante che la torba ha conservato e che si sono succeduti negli ultimi quindicimila anni. Agli inizi del Novecento furono effettuate delle ricerche per conoscere il clima che vi era nella preistoria, con lo scopo di ricostruire l’evoluzione del clima, della vegetazione e degli interventi dell’uomo nel periodo successivo all’ultima glaciazione. 

Il “Museo Palafitte di Fiavé” 

 

Il 14 aprile 2012 nella Casa Carli di Fiavé è stato inaugurato il “Museo delle Palafitte”, un museo all’avanguardia che conserva la collezione di reperti archeologici ritrovati nella Torbiera di Fiavé.

Il museo è stato organizzato su due grandi piani. Al primo piano sono raccontate al visitatore le ricerche archeologiche del sito di Fiavé, attraverso filmati e plastici, e la storia dell’antico Lago di Fiavé prima dell’arrivo dell’uomo, risalente a 15.000 anni fa. Segue un’esposizione di reperti mobili e una vetrina, lunga più di sette metri, dedicata alle sette fasi di vita del villaggio.

La sezione più interessante è quella del secondo piano, nel sottotetto, dove uno dei plastici mai realizzati all’interno di un archeo museo ricostruisce il villaggio palafitticolo di “Fiavé 6”, ovvero quello della media età del bronzo con oltre settanta personaggi intenti nella costruzione delle capanne sull’acqua (Fig. 12). A fianco del plastico, alcune vetrine sono dedicate al lavoro dei campi con l’esposizione di falcetti, un aratro e il giogo (Fig. 10), alle specie coltivate e a quelle allevate o cacciate. Alla fine della visita del secondo piano, su un tavolato leggermente rialzato rispetto al pavimento, si aprono dei piccoli ambienti che riproducono la vita all’interno delle palafitte: la vita intorno al focolare, la preparazione dei cibi, la confezione delle vesti e degli ornamenti, la produzione di oggetti in ceramica, metallo, legno e osso e la loro funzionalità nella vita quotidiana di donne e uomini.

Infine, una sezione è dedicata alla “Riserva Naturale provinciale” della Torbiera di Fiavé con le indicazioni delle molte specie animali che la vivono, dagli anfibi, ai rettili e gli uccelli migratori che ogni anno vi fanno sosta. 

 

Il “Parco Archeo Natura”

L’apertura del “Museo palafitticolo di Fiavé” nel 2012 è stato il primo passo per la creazione del grande “Parco Archeo Natura” ideato dalla Soprintendenza per i Beni culturali della Provincia di Trento con la collaborazione di vari enti locali ed inaugurato nel 2021. Un “Parco archeologico” che comprende il sito con i resti, tuttora visibili, dei pali che dovevano sorreggere le costruzioni preistoriche, il Museo e la Riserva Naturale della Torbiera di Fiavé.

Il “Parco Archeo Natura” è stato pensato con l’intento di far conoscere la vita ai tempi delle palafitte, attraverso l’installazione di vere e proprie palafitte e la riproduzione di un villaggio palafitticolo. Il percorso è stato attrezzato anche per scoprire le attività che venivano svolte dal popolo primitivo, dalla costruzione delle palafitte, alla lavorazione del legno, della terracotta e della metallurgia, l’allevamento, l’agricoltura ed i culti antichi. Il tutto raccontato con installazioni, pannelli informativi, filmati e percorsi didattici per immergersi, all’aria aperta del Parco, nella vita del mondo preistorico. 

 

 

 

Note

[1] Nelle sette aree individuate dagli archeologi è stata accertata la presenza dell’uomo grazie a scavi in estensione condotti dall’archeologo Perini nelle prime tre zone, mentre nelle altre quattro attraverso carotaggi e sondaggi studiati da Franco Marzatico.

[2] P. Bellintani, L. Moser, F. Didonè, Il Museo delle palafitte di Fiavé, p. 28; P. Bellintani, Fiavè 40 anni dopo, pp.111-112.

[3] R. Perini, Scavi archeologici Parte I, pp. 345-347.

 

 

 

Bibliografia

Renato Perini, Scavi archeologici nella zona palafitticola di Fiavé-Carera. Parte I. Campagne 1969-1976. Situazione dei depositi e dei resti strutturali, Trento, Alcione, 1984

Gianni Ciurletti, Guido Ferrara, Fiavè – Torbiera Carera (Trentino - Italia). Il parco e il museo archeologico/naturalistico delle palafitte. Un progetto in fase di realizzazione, In Paolo Bellintani e Luisa Moser (a cura di), Archeologie sperimentali. Metodologie ed esperienze fra verifica, riproduzione, comunicazione e simulazione. Atti del convegno. Comano Terme-Fiavè (Trento, Italy) 13-15 settembre 2001, Trento, Alcione, 2003, pp. 159-169

Paolo Bellintani, Luisa Moser, Frando Didoné, Il Museo delle palafitte di Fiavé, in Vincenzo Tiné e Loretta Zega (a cura di), ArcheoMusei. Musei archeologici in Italia. Atti del convegno. Adria, Museo Archeologico Nazionale, 21-22 giugno 2012, 2012, pp. 28-29

Paolo Bellintani, Cristina Dal Rì, Monica Dorigatti, Luisa Moser, Elena Silvestri, Il Museo delle Palafitte di Fiavé, in Franco Nicolis (a cura di), Ada. Archeologia delle Alpi, 2014, Trento, Temi, 2014, pp. 167-175 

Riccadonna Donato, Lappi Ennio, Zattera Mauro, Quando a Fiavé c'era un lago. La storia dello scavo della torba nel Palù di Fiavé tra malaria e palafitte, Arco, Grafica 5, 2018

Paolo Bellintani et al., Fiavé 40 anni dopo. Diagnostica sulle strutture palafitticole delle aree di scavo Perini conservate in situ, in Palafitte: ricerca, conservazione, valorizzazione. Atti del convegno, Desenzano del Garda, 6-8 ottobre 2011, Quingentole, SAP Società archeologica, 2018, pp. 111-118


LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE

A cura di Letizia Cerrati

 

Un prezioso tesoro nel centro storico di Maglie

 

La popolarità di Maglie è sostanzialmente recente, in tempi moderni si è infatti andata consolidando la sua immagine di cittadina tra le più importanti di tutta la realtà salentina, ricca di floride attività commerciali, vivace centro culturale, depositaria di tradizioni ed importanti espressioni artistiche.

Il celebre studioso salentino Cosimo De Giorgi  sul finire del XIX secolo descriveva la città come un piccolo paese di contadini, artigiani e commercianti, interessato successivamente da una straordinaria espansione urbana che l’aveva trasformata in una graziosa cittadina, il cui incalzante sviluppo “non trova forse riscontro con nessun altro paese o città di Terra d’Otranto”. 

Maglie diventa quindi prestigioso centro, snodo chiave dell’area sud, del territorio del Capo di Leuca, sito influente anche per la presenza delle cave situate tra Cursi e Melpignano da cui si estraeva la rinomata pietra leccese.

La chiesa di S. Maria delle Grazie, commissionata dalla confraternita della Natività, in passato nota col nome di chiesa della Congregazione, fu edificata dal 1602 e completata nel 1618.

Quando la decorazione fu portata a termine la chiesa divenne l’edificio cittadino maggiormente affine alla cifra stilistica delle architetture dell’epoca.

Situata sull’antica via S. Basilio, l’odierna via Roma, in prossimità della Colonna della Madonna delle Grazie, sembra quasi segnare l’estremità del centro storico della città. 

Due lesene incorniciano una facciata piuttosto lineare, il cui stile essenziale, lontano dalla fastosità barocca, è interrotto dal portale seicentesco che, frutto della sfrenata fantasia di Giovanni Donato Chiarello, si schiude al centro. 

Datato 1648 (come indica la data alla base del cartiglio sottostante la statua della Madonna sul portale centrale) fu scolpito dal magister statuarius che più si discosta dagli altri architetti del Barocco leccese; di questi ultimi egli fece tesoro di alcune lezioni di stile, facendo suoi specifici elementi decorativi che disseminò sapientemente nelle sue opere, caratterizzate da una composizione solenne che pure si lascia andare a forme fiabesche ed a tratti stravaganti.

Il portale, sormontato da una flessuosa statua della Madonna col Bambino verso cui si rivolgono due piccoli putti alati, è inquadrato da due colonne tortili, sulle quali si avvolgono spirali e volute che ne scandiscono il volume, queste poggiano su alti basamenti caratterizzati da profili di due volti dalle fattezze umane, che riecheggiano la maniera di Cesare Penna. 

Una semplice finestra rettangolare centinata corona il portale.

Nel 1658 furono portati a termine, dal concittadino di Chiarello Ambrogio Martinelli, i lavori di costruzione del timpano triangolare che chiude l’architettura religiosa e sovrasta il fregio continuo che corre sulle maestose lesene, al centro del quale è la testina di un angelo.

Il timpano, su cui si erge una croce, è ornato dalla testa di un putto di grandi dimensioni a cui si collegano, mediante drappi, due particolareggiati festoni vegetali; all’apice è posto invece un cartiglio che reca la data della fine dei lavori.

L’ambiente interno è a navata unica quadrangolare in cui spicca un unico grandioso altare, che riempie interamente la parete di fondo. 

 

Anche l’altare è opera del Chiarello: i suoi motivi decorativi sono spalmati su tutta la struttura, l’horror vacui trionfa e la decorazione si spinge sino a diventare parossistica.

L’elemento è svelato da due drappi laterali da cui si affacciano le coppie di colonne tortili, le cui spirali sembrano svilupparsi dai balconi miniaturizzati posti al di sopra dell’entasi, sormontate poi da timpani spezzati.

 

Puttini nudi di cui si è conservata la policromia sono abbarbicati alle decorazioni dorate che si arrampicano sulle colonne ed alleggeriscono la gravità dell’opera.

In posizione centrale, al di sopra delle colonne, un baldacchino che accoglie un’Incoronazione della Vergine, anch’esso stratificato di minuziose decorazioni, è sorretto da due angeli.

 

Una pala ad olio di grandi dimensioni, ascrivibile al XVII secolo, raffigurante la Madonna col Bambino, accompagnata da Sant’Antonio Abate, Sant’Antonio da Padova, San Basilio e dal committente Salvatore Droso, si staglia al centro della macchina d’altare.

Una veduta della città di Maglie, probabilmente risalente all’Ottocento, era sistemata in passato proprio sotto la figura della Madonna; i recenti restauri hanno optato per la sua rimozione.

De Giorgi definì l’opera del Chiarello “di un’architettura barocca molto trita”.

Successive sono le dodici tele con gli Apostoli appese sulle pareti laterali, risalenti al XVII secolo.

La volta è totalmente ricoperta da affreschi, opera di artista ignoto, caratterizzati da una luminosa armonia di colori che ben si accorda col bianco dell’intonaco circostante, al centro un cordone delimita i medaglioni con le figure dei quattro Evangelisti, che a loro volta sono collegati ad un ottagono dentro cui si agita un festoso corteo di putti.

 

Al di sopra dell’altare maggiore la decorazione murale ritrae l’Invocazione delle genti per la venuta del Messia con angeli musicanti, uno tra i primi splendidi esempi di iconografia musicale al tempo del Barocco.

I temi degli affreschi paiono sviluppare la contrapposizione peccato/virtù, infatti, nelle vele della controfacciata ad essere raffigurata è la Cacciata dei Progenitori dall’Eden, simbolo per eccellenza di punizione divina scaturita dalla colpa dell’uomo, mentre nell’abside la scena di Gloria in Paradiso può facilmente essere interpretata in chiave di salvezza dell’anima concessa dalla Vergine.

Un percorso di redenzione che culmina nell’abside ma che può essere letto anche procedendo in direzione inversa, ovvero uscendo dalla chiesa ed alzando lo sguardo sulla controfacciata.

Il fedele che agisce secondo virtù ed obbedisce alle leggi divine sarà accolto da uno stuolo di angeli musicanti in uno spazio celestiale scevro di rumori assordanti, attraversato soltanto dalla musica paradisiaca.

Ancora una volta ritorna il motivo del drappo, un panneggio ricco pende sul concerto degli angeli, dà l’idea di essere pesante da sostenere, di un tessuto spesso che i piccoli putti fanno fatica a sostenere, tanto che due tra quelli recanti tra le mani i girali gialli e verdi li aiutano a tenerlo sollevato con espressione concentrata. La resa finale è splendida: un sipario che si apre sulla scena sacra.

 

Nell’abside il trionfo del Paradiso, nella controfacciata Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, ricordano al fedele che si appropinqua verso l’uscita a cosa si va incontro disobbedendo a Dio. La scena cattura il momento in cui i progenitori sono fatalmente espulsi dal giardino dell’Eden.

Il messaggero divino è l’arcangelo Michele che, secondo i vangeli apocrifi della Vita Adae et Evae, sostituiva il Creatore durante la Cacciata.

Una figura imponente, con sguardo severo, il cui gesto della mano perentorio condanna per sempre l’umanità attraverso i progenitori.

Varie specie animali circondano i protagonisti della scena, immersi in una natura lussureggiante, simbolo dell’abbondanza e del benessere imperturbabile che l’uomo si accinge a lasciare per sempre.

Anche quest’affresco è svelato dagli angioletti affaccendati ritrovati nella scena dell’abside.

 

L’organo, situato sulla cantoria dell’ingresso è opera di Nicola Mancini, un organaro di origine napoletana.

L’armadio in legno a destra della navata ospita al suo interno una regale statua della Madonna col Bambino che indossa un abito riccamente decorato in oro, tessuto dalle suore clarisse di Soleto.

 

Di impressionante realismo è il Cristo morto, opera dello Studio Stuflesser, racchiuso in una teca lignea posta sulla parete sinistra.

 

 

 

Tutte le foto presenti all'interno dell'articolo sono a cura della redattrice.

 

 

 

Bibliografia

Emilio Panarese, Mario Cazzato, Guida di Maglie, Storia Arte Centro Antico, Galatina, Congedo Editore, 2002

Vincenzo Cazzato, Simonetta Politano L’altare barocco nel Salento; da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Raffaele Casciaro, Antonio Cassiano (a cura di), Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, Roma, De Luca Editori Arte, 2008

Elsa Martinelli, Un documento di iconografia musicale barocca. Gli angeli musicanti negli affreschi di Santa Maria delle Grazie a Maglie, in AA. VV., Itinerari di ricerca storica VI-1992, Galatina, Congedo Editore, 1993

 

Sitografia

https://cartapulia.it/dettaglio?id=133460


IL VEDUTISMO ROMANTICO IN ITALIA E LA SCUOLA DI POSILLIPO

A cura di Alessandra Apicella

 

Il vedutismo fu una corrente pittorica che nacque nel corso del Settecento e che prediligeva come soggetto vedute di paesaggi naturali e cittadini, posti al centro della rappresentazione in modo scientifico ed oggettivo. Era possibile identificare due diversi filoni: il capriccio, dove venivano rappresentati paesaggi o di totale fantasia oppure costituiti da elementi reali ma tratti da luoghi differenti; e la veduta realistica che preferiva riprodurre oggettivamente la realtà.

Parlare, dunque, di vedutismo romantico sembra quasi un ossimoro, considerata la peculiarità fondamentale del movimento romantico, e cioè la rivalutazione della figura umana nella sua individualità sentimentale e nel suo rapporto con la natura circostante. L’uomo, che nel Settecento, secolo dei Lumi, era stato al centro dell’analisi dei grandi intellettuali per le sue capacità conoscitive e razionali, nell’Ottocento viene considerato dal punto di vista sentimentale, interiore, in contrasto con quella che era stata una valutazione asettica dell’uomo, ed eccessivamente razionale. 

 

Uno dei caratteri peculiari del Romanticismo, il complesso fenomeno culturale che investì, nel corso della prima metà dell’Ottocento, seppur in tempi e modalità differenti, tutti gli stati d’Europa negli ambiti filosofici, letterari, politici ed artistici, era lo sguardo differente verso la natura ed i paesaggi, letti attraverso la lente emozionale. Essere “romantici” significava scardinarsi dallo sguardo empirista, scientifico dei fenomeni e guadare alla natura non solo come paesaggio ma anche come “natura umana”, ponendo, poi, al centro della rappresentazione, non tanto quello che si era realmente visto quanto piuttosto ciò che di quella visione aveva suscitato un moto profondo nell’animo dell’artista. Per poter rappresentare “quest’altra natura”, viva e ricca di sentimento, si svilupparono diversi metodi: dalla pennellata rapida e veloce all’attenzione predominante verso i colori e verso i giochi di luce, di cui maestro per eccellenza fu Joseph Mallord William Turner; o ancora, attraverso la rappresentazione di un paesaggio dalla forte valenza simbolica, che rispecchiasse gli stati d’animo e le riflessioni esistenziali – è il caso della produzione di Caspar David Friedrich. 

 

In Italia, la concezione della natura come proiezione di sentimenti individuali ispirò la ricerca di luminosità gioiose o di ombrosità malinconiche ed assorte, di atmosfere dolci e di altre cupe ed ebbe, come suoi massimi rappresentanti, al Nord artisti come il marchese Massimo d’Azeglio e Giovanni Carnovali, detto il Piccio, e, al Sud gli esponenti napoletani della Scuola di Posillipo. 

Con il primo tornano in voga le produzioni del cosiddetto “paesaggio eroico”, erede della tradizione dei Carracci e di Domenichino. Un paesaggismo che partiva da episodi storici o letterari ambientandoli in suggestivi paesaggi boscosi, lacustri o montani che giganteggiavano su figure solitamente di piccolo formato. 

 

I temi prediletti dal Piccio (scene tradizionali, religiose o mitologiche) sono invece rappresentati in una perfetta fusione tra colore e atmosfera, attraverso l’impiego di contorni morbidi e avvolgenti, dove le figure appaiono quasi evanescenti. 

 

Il terzo principale filone del Vedutismo italiano si sviluppò, nella città partenopea, un ambiente artistico che già nei primi decenni dell’Ottocento si era mostrato particolarmente ricettivo nei confronti di questo genere pittorico, grazie soprattutto agli influssi di pittori stranieri, come Turner e Corot, che avevano più volte soggiornato nella città, ma anche per merito della persistenza di questo particolare filone dal secolo precedente. 

 

Paradossalmente, un ulteriore aggiornamento al filone paesaggistico fu dato da un altro artista straniero, l’olandese Anton Sminck van Pitloo (1790-1837), che giunse nella città di Napoli nel 1816, presso il conte Orloff che gli offrì una prima ospitalità. Ammaliato dai paesaggi e dall’atmosfera partenopea, decise di rimanervi fino alla morte, facendosi promotore della formazione di una scuola pittorica dedita alla produzione paesaggistica: alla “Scuola di Posillipo” aderirono, negli anni Trenta, molti artisti dediti al Vedutismo e, in particolare, a una pittura fortemente incentrata sulle ricerche cromatiche e tonali. Di Pitloo, che fu tra gli esponenti più insigni della scuola, si può ricordare un’opera che riesce a racchiudere in sé sia i caratteri essenziali della sua pittura che l’importanza che il paesaggio partenopeo ebbe in tutta questa produzione: è il caso del suo Castel dell’Ovo dalla spiaggia.

 

Il quadro, la cui esecuzione fu probabilmente completata en plein air, presenta una predominanza di tonalità gialle, calde e vibranti, utilizzate per rendere un’atmosfera quasi cristallina, in netto contrasto con le ombre in primo piano, dove, grazie al contrasto cromatico delle vesti, si scorgono delle piccole figure. L’origine olandese del pittore lo portò a sviluppare uno stile totalmente personale, in grado di coniugare il calore della terra napoletana con le atmosfere nordiche delle sue prime rappresentazioni. Quest’amalgama straordinario permise la produzione di paesaggi lirici, immersi in atmosfere da sogno, dove alla luce è affidato il compito di definire forme e di creare suggestioni.

Ad affiancare Pitloo nella gestione della Scuola, nata ufficialmente nel 1820, si pose Giacinto Gigante (1806-1876), che, alla morte del maestro, ne prese anche le redini, diventandone, grazie alle sue rappresentazioni della città e dei suoi dintorni, rese con una cura meticolosa dei dettagli e attraverso i dinamici effetti luministici e accordi cromatici resi possibili dall’acquerello, uno dei maggiori interpreti. 

 

Particolare il caso della Tempesta sul Golfo di Amalfi, dove la precisa disposizione spaziale degli elementi del paesaggio, figlia della sua attività di topografo, si coniuga con un’impostazione estremamente suggestiva e scenografica del paesaggio e dove l’elemento della potenza naturale, nella sua maestosità e pericolosità, è connesso all’influenza nordica che Pitloo ebbe su di lui.

La nascita della scuola e del suo stesso nome, datole in senso dispregiativo dagli accademici della città perché avrebbe alluso alla vicinanza di questi pittori con i forestieri, desiderosi di avere qualche ricordo disegnato o dipinto dei luoghi, esplicano perfettamente la condizione in cui si trovava la pittura paesaggistica nella gerarchia degli stili. Fu però proprio grazie a questa maggiore libertà che la scuola ebbe la possibilità di liberarsi più facilmente dai vincoli accademici e di dimostrare un continuo aggiornamento nei confronti delle sollecitazioni europee.

Tra le fila dei pittori paesaggisti annoverati nella scuola, si possono ricordare i tre fratelli Palizzi (Giuseppe, Filippo e Francesco Paolo), che mossero i primi passi pittorici nel contesto partenopeo, per poi intraprendere, ognuno di loro, una produzione pittorica personale, ma anche Gabriele Smargiassi e Salvatore Fergola.

Rispetto alla prima fase della scuola, di ascendenza soprattutto pittoresca, con l’evidente tendenza romantica le fasi successive videro una certa ripetitività di schemi ed una progressiva tendenza oleografica.

Nonostante gli inizi pittorici controversi ed in parte sottovalutati, col tempo la produzione paesaggistica della scuola di Posillipo divenne un punto di riferimento per il genere, tanto da portare il suo stesso fondatore a grandi successi in campo artistico e sociale: nel 1822, infatti, van Pitloo ricevette la nomina di Professore Onorario presso il Reale Istituto di Belle Arti di Napoli e nel 1824 la cattedra di paesaggio presso la medesima accademia.

 

 

Bibliografia

Carlo Bertelli, La storia dell’arte, volume 4 Dal Barocco all’Art Nouveau, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2011

Raffaello Causa, La scuola di Posillipo, in “MENSILI D’ARTE. Scuole, movimenti, personalità della pittura moderna”, volume 4, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1967

 

Sitografia

https://www.treccani.it/vocabolario/vedutismo/


IL MUSEO STIBBERT: LA NASCITA DELLA COLLEZIONE

A cura di Arianna Canalicchio

 

Nell'aprile del 1906 si spense nella sua villa di Montughi, nei pressi di Firenze, all'età di 68 anni, il cavalier Frederick Stibbert, lasciando precise disposizioni sull’apertura di quello che amava chiamare “il mio museo”. Nel testamento disponeva che la villa nella quale aveva vissuto e collezionato per oltre quarant’anni manufatti artistici di ogni genere, dovesse diventare un vero e proprio museo e che ne fosse affidata la proprietà e la gestione al governo britannico. Solo in caso di rinuncia sarebbe allora dovuta subentrare la Città di Firenze.

 

Frederick Stibbert era nato a Firenze nel 1838, il cui padre, Thomas Stibbert, era un colonnello inglese originario di Norfolk arrivato in Italia con le campagne antinapoleoniche. Dopo un primo soggiorno a Roma nel 1836, aveva deciso di stabilirsi a Firenze dove conobbe e sposò Giulia Cafaggi, di molti anni più giovane di lui e di origini piuttosto semplici; pare, infatti, che i due si fossero conosciuti durante la permanenza di Thomas nella pensione in Piazza Santa Trinita nella quale lavorava la donna. I due ebbero tre figli, Frederick, Erminia e Sofronia ma soltanto alcuni anni più tardi, nel 1842, decisero di sposarsi in modo tale che i figli venissero riconosciuti dalle leggi toscane come legittimi, anche se avuti prima del matrimonio. Il giovane Stibbert venne mandato ben presto a studiare a Cambridge ma dopo un lungo soggiorno in Inghilterra tornò, a partire dagli anni ‘50, a Firenze. Qui, nel frattempo, nel 1847 era morto il padre e la madre due anni più tardi aveva acquistato la villa sulla collina di Montughi, appena fuori dal centro di Firenze, dove si era trasferita con le due sorelle di Frederick. Erminia, però, morì nel 1859 a soli sedici anni mentre Sophronia sposò nel 1861 il conte Alessandro Pandolfini e si trasferì nella sua residenza in via San Gallo. 

 

Una volta rientrato a Firenze, Stibbert abbandonò subito l’idea di una carriera militare come avrebbe desiderato il padre, e decise di dedicarsi alla sua grande passione: il collezionismo. Grazie alla notevole fortuna della sua famiglia riuscì a mettere insieme quella che è considerata ancora oggi una delle collezioni di armi e armature tra le più rilevanti del mondo. Essendo lui il primogenito, al raggiungimento della maggiore età nel 1859, entrò in possesso del patrimonio del quale continuò sempre ad occuparsi con estremo impegno e grande intuito, riuscendo ad incrementarlo con abili operazioni finanziarie, favorite anche dalle contingenze storiche legate all’Unità d’Italia. Fin dagli anni '60 dell'Ottocento aveva cominciato ad acquistare pezzi antichi, armature e altri oggetti secondo il suo gusto personale. Dagli anni '80 cominciò, invece, a prendere forma l'idea di creare un vero e proprio museo all'interno della sua villa a Montughi, per cui si dedicò all'acquisto di oggetti mirati e alla catalogazione di tutte le opere già in suo possesso. 

 

Nel testamento, Stibbert, oltre ad affidare al governo britannico la sua collezione, lasciò un capitale di 800.000 lire per il mantenimento della villa e degli oggetti esposti al suo interno. Il governo inglese non tardò ad accettare facendosi carico dell'immobile, ma quando si rese conto che, per volontà testamentaria, la villa non poteva essere separata dal contenuto e quindi non sarebbe stato possibile portare fuori da Firenze l'immensa collezione di Stibbert, rinunciò all'incarico. La notifica della rinuncia arrivò con un atto datato 14 agosto 1906 e il governo inglese lasciò nelle mani del Comune di Firenze il compito di gestire la collezione e la villa. L’idea, esposta in maniera molto chiara da Stibbert, era che, nel giro di poco tempo, il villino con la collezione curata e allestita da lui fosse aperto al pubblico, così da permettere finalmente a studiosi e appassionati di conoscerla. Fino a quel momento, infatti, la collezione era stata visibile solo su invito del proprietario poiché si trovava, almeno in parte, in quella che continuava ad essere la sua abitazione. 

 

Il suo interesse principale era sempre stato la storia dell'abbigliamento e infatti acquistò armature di ogni genere ed epoca, ma a questo col tempo si aggiunsero anche nuovi interessi, come quello per quadri, arazzi, oggetti di arredo e di arte applicata. Stibbert amava esporre le sue opere in maniera estremamente scenografica tanto che si fece costruire da importanti artigiani fiorentini dei manichini di cavalli sui quali poter posizionare i manichini dalle sembianze umane con indosso le armature. Una caratteristica importante della collezione di Stibbert è il fatto che non si limitò ad uno studio di abiti o oggetti circoscritto al territorio europeo, ma il suo interesse era talmente vasto da portarlo a collezionare oggetti provenienti da tutto il mondo, come abiti orientali e una notevolissima raccolta di armature samurai. La collezione di armi di Stibbert divenne, in breve tempo, una delle più ricche al mondo e in costante aumento, ma soltanto pochi appassionati ne erano a conoscenza. Nessuno, infatti, tranne lo stesso Stibbert, prima della sua morte poteva dire con certezza quanto questa raccolta fosse ampia, poiché molte opere erano ammassate disordinatamente nelle stanze della villa.

 

Secondo alcuni studiosi, nell'aprile del 1906 la collezione doveva contare circa 36.000 pezzi, i più importanti dei quali erano già esposti all'interno della villa secondo percorsi evocativi attentamente studiati. Dopo la morte di Stibbert, il Comune di Firenze affidò all'architetto Alfredo Lensi il compito di riorganizzare e riordinare il museo in vista di una prossima apertura al pubblico. Venne anche creato un Consiglio di Amministrazione, così come chiesto da Stibbert. Nonostante le numerose resistenze del personale che aveva per anni lavorato alle dipendenze di Stibbert e che insisteva perché nessun pezzo della collezione venisse in alcun modo spostato o alterato, Lensi riordinò la collezione e la rese più facilmente accessibile e godibile. La prima parte della casa-museo venne aperta ai visitatori già a partire dal 27 aprile 1909, mentre tra il 1917 e il 1918 venne pubblicata la prima parte del catalogo del museo, dal titolo Il Museo Stibbert: catalogo delle sale delle armi europee, in due volumi e corredato di 237 tavole illustrative. 

Fin da subito, la nuova disposizione delle opere all'interno del museo piacque molto alla critica poiché le opere avevano ognuna il proprio spazio ed erano disposte in maniera, almeno a detta di Lensi, meno caotica rispetto al lavoro di Stibbert. In realtà si trattò di un riordino che, soprattutto a partire dagli anni '30, si rivelò piuttosto invadente e poco rispettoso di quelle che erano state le volontà testamentarie del collezionista. Lensi organizzò le opere in 67 sale andando ad alterare pesantemente la disposizione lasciata da Stibbert, soprattutto a discapito dei mobili ottocenteschi che vennero in gran parte spostati nei depositi. Soltanto a partire dal 1977, sotto la direzione di Lionello Boccia, il museo venne dotato di un buon sistema di illuminazione e tornò ad avere un aspetto più simile a quello che doveva avere nel 1906.

 

La collezione del Museo Stibbert è considerata ancora oggi una tra le più importanti d’Europa, con circa 50.000 oggetti, per la maggior parte frutto del nucleo originario lasciato da Stibbert e incrementata da alcuni doni e acquisti successivi. Stibbert, dunque, grazie alla sua capacità di controllare per circa cinquant’anni le offerte del mercato antiquario di tutta Europa, realizzò l’ambizioso progetto di trasformare la villa di Montughi nel “suo Museo”.

 

 

 

 

Bibliografia

E. Colle, S. Di Marco, Il collezionista di sogni, Electa Storie, Milano, 2016.

A. Lensi, Il Museo Stibbert: catalogo delle sale delle armi europee, Tipografia Giuntina, Firenze, 1917.

A. Lensi, Il Museo Stibbert a Firenze, in "Emporium", vol. XXXV, n. 208, aprile 1912, pp. 256-268.

A. Lensi, Quaderni di ricordi, Centro Stampa 2P, Firenze, 1985.

A. Lensi, Quaderni di ricordi 1871-1918, Centro Stampa 2P, Firenze, 1996. 

 

Sitografia

http://www.museostibbert.it/  (sito del Museo Stibbert)


GLI AFFRESCHI DELLA VERGINE IN SANTA MARIA DELLA PACE

A cura di Francesca Richini

 

 

La storia della Vergine è narrata nel Protovangelo di Giovanni, meglio conosciuto come Vangelo apocrifo, in cui viene affrontato l’annuncio dell’arrivo di Maria sia a Gioacchino, il futuro padre, e ad Anna, la futura madre, che riesce a rimanere incinta in età avanzata grazie all’intervento divino. In esso è narrata altresì la crescita della Madonna fino al matrimonio con Giuseppe. 

 

La storia di Maria viene illustrata in una cappella a quest'ultima dedicata, la quale si trova a Milano sul lato destro della chiesa francescana amadeita di Santa Maria della Pace. La chiesa, che si trova oggi in via S. Barnaba dietro al complesso del tribunale, è costruita nel 1466 per volere di Amedeo Mendes da Silva con l’aiuto di Bianca Maria Visconti Sforza su progetto dei fratelli Solari e contiene al suo interno un insieme di opere del Quattrocento e Cinquecento lombardo. La costruzione, che nel corso degli anni passa nelle mani di diversi proprietari, è attualmente di proprietà dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro ed è visitabile solo la mattina del primo giovedì del mese. Questa venne privata di alcune opere pittoriche per la chiusura della struttura religiosa, avvenuta nel 1805 ed in seguito alla decisione di trasferire parte dei dipinti nella Pinacoteca di Brera con l’intenzione di preservarli. La descrizione della disposizione originaria delle opere presente nelle fonti prevedeva la Nascita della Vergine al centro sopra l’altare, sulla parete di destra le Storie di Gioacchino e Anna e sulla parete di sinistra l’Adorazione dei Magi. Come completamento, nella parte superiore, vi erano un lunettone con al centro un tondo affiancato da due pennacchi. Rimane incerta invece la presenza della finestra e la sua collocazione. 

 

Sono sopravvissuti al tempo anche tre angeli musicanti raffigurati in pennacchi, l’Annunciazione e l’Angelo annunciante e due tondi che raffigurano l’Assunzione della Vergine e la Presentazione di Gesù al tempio. Di queste opere non si ha una chiara idea della disposizione, ma vi sono solo delle ipotesi per cui si ritiene che la coppia dell’Annunciazione e dell’Angelo annunciante sia collocata sopra alla Natività e i rimanenti angeli musicanti sopra alle altre pareti.

La cappella fu voluta da Veronica Cavalcabò madre di Gaspare e Giacomo Trivulzio come testimonia sia il testamento della donna datato 1523, dove si dichiarava il lascito di 1000 lire imperiali al fine di terminare la decorazione della cappella nella chiesa di Santa Maria della Pace da lei iniziata, sia il pagamento anticipato di 55 lire per il pittore Gaudenzio Ferrari da parte di Gaspare Trivulzio. L’opera terminata nel 1543, come testimonia il pagamento all’artista, dopo pochi anni necessita di restauro a causa dell’umidità.

Le opere si trovano oggi nella Pinacoteca di Brera, ivi trasferite nel 1808 in seguito alla chiusura della chiesa per il decreto napoleonico del 1805. Gli affreschi sono stati staccati con la tecnica a massello per poi essere trasportati su tela, ad esclusione della Natività della Vergine che è rimasta su tavola. Proprio il trasferimento degli affreschi dalla sede originaria al museo rende difficile la collocazione originaria delle opere.

Gaudenzio Ferrari, autore delle opere pittoriche della cappella, nasce nella bassa Valsesia a Valduggia, nella provincia di Vercelli, intorno all’anno 1471. Autore prolifico ha una produzione prevalentemente lombarda e piemontese, tra le sue opere si possono citare gli affreschi del tramezzo nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Varallo così come parte delle cappelle del Sacro Monte di Varallo e gli affreschi presenti nella chiesa di Vercelli. Una parte delle sue opere milanesi possono essere ammirate nella Pinacoteca di Brera, ad esempio la Madonna con il Bambino, il Martirio di Santa Caterina e gli affreschi sopra citati che narrano la storia della Vergine.

 

Le opere presenti nella cappella 

 

La Nascita di Maria Vergine, restaurata, è un olio su tavola i cui soggetti sono solo femminili. I gesti e gli sguardi collegano le donne presenti nell’opera; in primo piano è presente il bagno della Vergine con un’ancella che versa l’acqua in una piccola vasca mentre un’altra è intenta a controllarne la temperatura ed una terza tiene tra le braccia la neonata, al limite della tavola si ha una figura tagliata che tiene sopra il capo un contenitore di non chiara funzione. Più avanti un’ancella porta un vassoio con la colazione per la puerpera dove sono presenti un piatto con delle uova, un pezzo di pane, un bicchiere e una brocca. Di fianco un’altra donna sta versando dell’acqua in un bacile per far lavare le mani a Sant’Anna, quest’ultima già intenta a immergere le mani nell’acqua è sorretta da un’ancella mentre un’altra le sistema il cuscino. Sullo sfondo è presente un caminetto spento e una piccola finestra aperta. Probabilmente ai lati di quest’opera erano presenti da una parte la Presentazione di Maria al Tempio e dall’altro la Visitazione (che non sono esposti).

 

Le Storie dei Santi Gioacchino e Anna, esposte a Brera, che si rifanno al testo del Protovangelo di Giacomo, o Vangelo apocrifo, sono composte da tre pannelli: al centro vi è l’affresco più grande con l’Annuncio della nascita di Maria a Gioacchino e Anna, mentre ai lati a destra la Cacciata di Gioacchino dal Tempio e a sinistra il Lamento di Anna con la Serva. 

 

I soggetti di questo trittico sono i genitori della Madonna, che sono dipinti singolarmente nei pannelli laterali ed insieme nel pannello centrale. L’uso dello stesso colore delle vesti permette di individuare i soggetti: Gioacchino dalle vesti color bordeaux e bianco e Anna con il manto color giallo ocra. Nel pannello centrale in primo piano è rappresentato Gioacchino, accompagnato dal gregge e da un paio di pastori, mentre porge il viso ad un angelo che giunge dall’alto che gli annuncia la fine dell’infertilità di Anna; sulla destra Anna è raffigurata in un giardino con il capo rivolto verso l’angelo che la avvisa di essere in dolce attesa, sullo sfondo davanti alle mura di una città avviene l’incontro tra i coniugi.

La terza parete della cappella illustra l’Adorazione dei Magi, ai due lati si ha il Corteo dei Magi mentre al centro l’Adorazione, tema narrato sia nel Protovangelo di Giacomo sia nel Vangelo. 

Ambientata all’aperto l’Adorazione pone al centro la Madonna con il Bambino in braccio, una posa simile alle opere pittoriche del tempo, sulla sinistra della Vergine S. Giuseppe sta ricevendo dalle mani di un bambino uno dei doni, mentre davanti a Maria è inginocchiato uno dei Magi che sta toccando i piedi del Gesù. 

Alla destra della Madonna, sul limitare del l’affresco, è illustrato un Mago mentre si toglie il cappello ed offre un dono, davanti a quest’uomo, in primo piano, c’è un bambino con in pugno una scimitarra e ai suoi piedi un cagnolino che sembra guardare lo spettatore. Il terzo Mago è rappresentato nel pannello di sinistra, tiene con una mano il dono mentre uno schiavo ai suoi piedi gli sta allacciando la calzatura, invece sul retro è dipinto un cavallo bianco con due persone. 

 

 

Nel pannello di destra è raffigurato un cavaliere in sella ad un cavallo, davanti una figura si china su un animale esotico.

La vicinanza della cappella dedicata alla Vergine a quella intitolata a San Giuseppe, dipinta da Bernardino Luini, si deve probabilmente alla volontà di porre una continuazione pittorica della storia genitoriale di Gesù. Questo tema era, inoltre, ampiamente narrato nell’Apocalypsis Nova, il volume scritto da Amedeo Mendes fondatore dell’ordine dei frati amadeiti e di Santa Maria della Pace, la chiesa dove originariamente si trovavano entrambi i cicli pittorici che sono ora fruibili nella Pinacoteca di Brera.  

 

 

Le foto prive di crediti sono state dall'autrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

G. Agosti J. Stoppa, Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, Officina Libraria, Milano, 2018

 

Sitografia

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00210/

https://www.treccani.it/enciclopedia/menes-silva-amadeo-de_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/gaudenzio-ferrari_%28Dizionario-Biografico%29/

https://pinacotecabrera.org/collezione-online/opere/storie-di-gioacchino-e-anna/

https://pinacotecabrera.org/collezione-online/opere/adorazione-dei-magi-3/

https://pinacotecabrera.org/collezione-online/opere/nascita-di-maria-vergine/

https://www.gironi.it/testi-sacri/protovangelo-di-giacomo.php