LA CATTOLICA DI STILO, REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione: descrizione dell'edificio

La Cattolica di Stilo, una cittadina in provincia di Reggio Calabria, è un edificio risalente al X secolo a pianta centrale, approssimativamente quadrata, con croce inscritta del tipo “puro”, cioè priva del prolungamento ad oriente, per la profondità del bema, e a occidente, per il nartece; modello planimetrico tipico del periodo medio-bizantino, attestato anche a Costantinopoli. La croce è evidenziata all’esterno dalle falde del tetto ed è centrata grazie alla presenza di cinque cupole di uguale diametro, di cui solo la centrale si differenzia per un leggero scarto in altezza.

Lo schema architettonico a cinque cupole, diffuso nella Grecia continentale e insulare, così come nelle province orientali dell’Asia Minore, si può considerare una soluzione regionale del caratteristico impianto medio bizantino originatosi a Costantinopoli. La soluzione adottata nella Cattolica e a Rossano, con ogni probabilità, fu introdotta in Italia dal Peloponneso o dall’Epiro, dove simili tipologie sono numerose soprattutto lungo la costa.

La Cattolica di Stilo: l'interno

Quattro colonne sono poste all’interno, di cui tre in marmo: due in cipollino, una in lumense e l’altra in granito. Sulla prima a sinistra è presente l’iscrizione: “Non c’è Dio all’infuori di Dio solo”, essa poggia su una base ionica capovolta, innestata su di un capitello corinzio in pietra calcarea del III-IV sec. d.C.; la prima a destra poggia, invece, su di un capitello ionico capovolto.

I capitelli delle quattro colonne di tipo paleo-bizantino a piramide tronca, con sagoma rigonfia, costole e nervature a rilievo, rimandano ai capitelli di molte basiliche d’Oriente. Secondo la storiografia potrebbero provenire o dalle rovine romane dell’antica Stilide, nei pressi di Stilo, o tale reimpiego testimonia altri esempi diffusi in molte costruzioni dei secc. X-XI in Grecia quale la Kapnikarea di Atene.

Internamente la suddivisione in nove spazi simili e la particolarità dello sviluppo verso l’alto creano uno spazio moltiplicato, tipica espressione di questo edificio che lo accosta ad analoghi esempi della Grecia insulare, facendo propendere per una loro datazione attorno agli ultimi anni del X secolo. 

La datazione della Cattolica di Stilo non è però del tutto chiara, difatti la storiografia avanza proposte contraddittorie che oscillano dal sec. X-XI al XIII inoltrato. Particolare dovuto agli affreschi riaffiorati fra gli strati palinsesti dell’intonaco interno, che testimonierebbero come l’interno venne decorato interamente per ben due volte se non addirittura tre; la prima tra la fine del sec. X e gli inizi del XI; la seconda alla fine del sec. XII e gli inizi del successivo e nel sec. XIII maturo o agli inizi del XIV secolo.  

Gli affreschi della Cattolica di Stilo

Al primo strato risalente al secolo X, inizi dell’XI, corrisponderebbero le figure di una santa martire nello sguancio destro della prothesis (absidi: la centrale, corrispondente al bema, era destinata ad accogliere l’altare; l’abside a sud, diakonikon, custodiva gli arredi sacri, le vesti dei sacerdoti e dei diaconi; l’abside a nord, prothesis, il rito preparatorio del pane del vino) e di due santi sulla parete occidentale, uno dei quali regge un cartiglio con iscrizione greca, che sono stati accolti come santi guerrieri riguardanti una crocifissione. 

Se così fosse, tale programma iconografico rivelerebbe la presenza di una scena cristologica che è ben attestata nell’ecumene bizantina comparendo anche a Hosios Lucas, in Grecia, sia nella cripta che nel Katholikon; mentre nell’Italia meridionale appare segnalata a partire dal X secolo a Grottaglie, Sanarica, Casarello e Ugento. 

È da notare che le figure appaiono dipinte al limite della goffaggine e non recano segni di delimitazione di campi, quindi sembra di trovarsi davanti a una pagina miniata, tale da ipotizzare che il pittore fosse un miniaturista. 

Tra le raffigurazioni, l’Ascensione presente nella volta del bema ne nasconde una più antica. La progettazione compositiva denota un’evidente incoerenza del gioco degli sguardo fra gli apostoli, alcuni rivolti con la testa all’annuncio proclamato dalla coppia di angeli sottostanti la mandorla, a sua volta sorretta da altri quattro angeli in volo. All’interno di essa, il Cristo seduto su di un segmento che appiattisce la porzione di circonferenza del globo ha una posa che echeggia l’Omologo di Santa Sofia a Salonicco, dal volto nobile e sereno.

Gli angeli dalle ali saettanti, hanno un tono più dimesso e lasciano ipotizzare l’affresco ad opera di una maestranza italo-greca. Gli apostoli, collocati sui margini laterali, e solo parzialmente conservati, conservano preziose tracce della sottostante sinopia.

Gli studi storico-artistici pertinenti agli strati palinsesti d’affresco, hanno rilevato come l’ultima decorazione realizzata nell’edificio risalga al Quattrocento, probabilmente attorno alla metà, ponendosi tra le rare testimonianze pittoriche della cultura tardogotica di matrice catalaneggiante, per altri versi testimoniata nella Regione attraverso tavole dipinte e oreficerie. Purtroppo non si conosce il nome del suo autore, la cui formazione artistica, comunque, è stata ipotizzata di scuola locale.

La definizione cronologica – anche degli altri affreschi – della Cattolica è, quindi, alquanto problematica perché va studiata esclusivamente su confronti stilistici, inoltre, nulla si conosce sull’origine dell’edificio, la committenza e le funzioni da esso svolto.

Si è proposto che fosse il Katholicon di “monastero in grotta”, oppure la Katholikè di Stilo, la Cattedrale, qualora il centro reggino fosse stato sede episcopale, o la chiesa matrice. È da rilevare, inoltre, che nel XVII secolo la Cattolica viene designata tra le parrocchie della città, per passare poi sotto la giurisdizione della chiesa matrice.

Per Paolo Orsi il nome indica “…una chiesa eremitica, officiata da monaci basiliani, che qui vivevano in preghiera e morivano in povertà e qui si facevano seppellire.”; per altri storici ancora, il nome equivale ad universale, titolo che si dava alle chiese matrici parrocchiali munite di fonte battesimale.

Biografia
Appunti personali lezione di Storia dell’Arte Calabrese


IL NINFEO DI VADUE A CAROLEI, COSENZA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Da un punto di vista Etimologico, il termine ninfeo deriva dal greco nymphâion ed era una parola usata per indicare luoghi di ristoro dotati di vasche d’acqua colme di piante acquatiche, in cui si praticava il culto delle ninfe, da cui il nome per l’appunto, le divinità femminili minori che nella mitologia classica erano venerate come genî benigni ai mortali.

In seguito il termine cominciò ad indicare sia grotte di origine naturale che di origine artificiale in cui erano presenti sorgenti di acqua naturale, ed infine, in epoca rinascimentale e poi barocca, comprese anche le fontane monumentali dalle facciate scenografiche presenti ad esempio nelle ville.

In Italia sono presenti diversi esempi, soprattutto in Campania, ma anche la Calabria presenta questa tipologia monumentale ed è il caso del Ninfeo di Vadue a Carolei, in provincia di Cosenza.

Ad oggi il complesso monumentale di Vadue Vecchia è considerato un parco storico in cui è presente un’antica residenza nobiliare restaurata, risalente probabilmente al XVII, costruita su strutture preesistenti e voluta dalla marchesa spagnola Alarcon Mendoza de la Valle; essa include un ampio cortile circondato da un’alta cinta muraria con annesse due cappelle, una casa - torre e un ninfeo con seggio e canopo interamente affrescato, ma in cattivo stato di conservazione.

Il sito insiste su un costone roccioso che parte a sud dalla confluenza del torrente Cavallo con il fiume Busento, fino a nord con la valle del Busento, sulla via Cosenza - Carolei Domanico - Amantea.

Il Ninfeo di Vadue a Carolei

Il Ninfeo è formato da una sala le cui pareti sono intervallate da una serie di aperture, la cui continuità è garantita da una seduta continua che percorre le tre pareti che danno sulla vasca, di forma quadrata, colma d’acqua; al centro si trova un calice decorato da figure antropomorfe e da un piccolo canopo formato da due alte colonne di ordine dorico. Ai lati sono presenti due aperture con architravi sormontati da nicchie la cui calotta presenta una decorazione a conchiglia, mentre probabilmente manca uno stemma nobiliare alla sommità dell’arco.

La sala si sviluppa all’interno del costone roccioso, dal quale è appunto ricavata; essa presenta una scenae frons sottolineata da un arco centrale ribassato e ricoperta da una volta a botte con superfici affrescate da cornici, ghirlande e differenti scene mitologiche, raffigurate con ambienti e personaggi proposti con abbigliamento classico.

Nonostante il compimento di un intervento di recupero, non è stato possibile bloccare lo stato di deterioramento, né ritardarlo, soprattutto nel caso degli affreschi, in parte dovuto alla natura stessa del ninfeo ricavato all’interno della roccia, una condizione che incrementa notevolmente il tasso di umidità delle pareti, interessate da diversi episodi di efflorescenza, variazioni cromatiche, infestazione di vegetali, fratture e lacune.

Tra le interpretazioni adottate relative alle rappresentazioni ancora leggibili, pare che le scene presenti su uno dei lati della volta possano rappresentare i miti di Apollo e Dafne, di Leda e il cigno e di Europa rapita dal Zeus.

Dirimpetto è raffigurata una particolare scena mitologica, forse riferita al mito di Atteone ed Artemide, è inoltre presente la sposa di Ercole, Delanira, che cavalca il centauro Nesso.

Il restauro della seconda metà del secolo XIX ha permesso di dare forza alla struttura al fine di garantire una maggiore stabilità costitutiva, ma l’assenza di manutenzione di certo non ha giovato ad un così delicato manufatto.

C’è da dire che il paesaggio in cui il manufatto è contestualizzato lascia realmente senza fiato, imboccando una stradina secondaria rispetto alla via principale che porta al centro del paesino ci si trova immersi nel verde, un boschetto che era ricco ornamento dei fasti di un tempo, in cui ben si calava un’opera come il ninfeo atta all’ozio, inteso nella sua accezione più nobile.

Un luogo sicuramente da rivalutare e da inserire in un percorso turistico più ampio che miri a considerare la residenza con cappella e ninfeo annesso un posto dal richiamo romantico in cui rivivere quello che la marchesa Mendoza sicuramente aveva intellettualmente concepito.

Figura 5 - Ninfeo di Vadue di Carolei, prospetto frontale

Bibliografia

    • F. Costabile, I ninfei di Locri Epizefiri, Soveria Mannelli (Cz), 1992
    • L. Addante, Cosenza e i cosentini. Un volo lungo tre millenni, Rubbettino, Soneria Mannelli (Cz), 2001
    • G. De Rose, Monografia sintetica della cittadina di “Ixia”. L’odiernan Carolei, Associazione sportiva Carolei di Toronto, 1979
    • C. Gattuso, R. Cozza, P. Gattuso, F. Villella, La conoscenza per il restauro e la conservazione, Franco Angeli, Roma, Ottobre 2012

 


LA CHIESA DI PIEDIGROTTA A PIZZO CALABRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

In provincia di Vibo Valentia si erge la piccola chiesa di Piedigrotta a pizzo Calabro, scavata nella roccia sedimentaria, la cui origine si divide tra storia e leggenda. La tradizione narra che un veliero composto da un equipaggio napoletano in viaggio a metà del 600 nel Golfo di Sant’Eufemia, fu sorpreso da una tempesta che lo fece naufragare distruggendo l’imbarcazione contro gli scogli; l’intera ciurma, però, riuscì a raggiungere a nuoto le rive di Pizzo, portando in salvo anche l’effige della Madonna presente sulla nave ed oggi conservata all’interno della chiesetta. Come voto della scampata morte, i marinai eressero la piccola chiesa scavandola nella roccia e collocando al suo interno il piccolo quadro.

Secondo i documenti storici, invece, verso la fine dell’800, un artista locale, Angelo Barone, iniziò a scolpire nella roccia le navate che compongono la chiesetta sfruttando una precedente costruzione, secondo quanto scrive il canonico Ilario Tranquillo nel 1725, riempiendo gli ambienti con statue che riprendono scene bibliche; alla sua morte, il figlio Alfonso ne proseguì l’opera, completandola con bassorilievi ed affreschi. Purtroppo, negli anni ‘60, una serie di atti vandalici, la ridussero ad un cumulo di macerie, finché, Giorgio Barone, nipote dei due precedenti artisti e rinomato scultore, prese a cuore la ristrutturazione del monumento, terminata nel ‘68. Ad oggi, la chiesetta di Piedigrotta è il secondo monumento più visitato della Calabria dopo i Bronzi di Riace.

La chiesa di Piedigrotta a Pizzo Calabro: descrizione

Da un punto di vista architettonico, la facciata della chiesetta si presenta semplice e lineare la cui sommità è sormontata da una croce metallica e da una statua di Madonna con Bambino, il piccolo campanile laterale è adorno della campana proveniente, secondo la leggenda, dal veliero vittima di naufragio e datata 1632.

L’ambiente interno si divide in tre grotte: l’ingresso è circondato da quattro angeli che sorreggono le acquasantiere dalle basi leonine; a sinistra si trova la raffigurazione della celebrazione di una funzione religiosa con fedeli e sacerdote ad adorazione della Madonna di Pompei, l’arco di ingresso presenta due evangelisti e un grande pesce, tipico della simbologia cristiana.

A seguire, è rappresentato il miracolo di San Francesco di Paola che attraversa lo stretto di Messina sul suo mantello, frontalmente è presente Sant’Antonio di Padova fra gli orfanelli.
La grotta più grande è occupata da un presepe, la cui scena centrale è impegnata dalla natività e sullo sfondo è presente un paesaggio arabo che ospita le statue dei re Magi, questo ambiente è preceduto da due medaglioni posti frontalmente che rappresentano il Cuore di Gesù e di Maria.

A sinistra dell’altare maggiore, infine è scolpita la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci e due medaglioni raffiguranti Papa Giovanni XXIII e Kennedy, realizzati durante il restauro terminato nel ’68. Un’ultima grotta contiene la statua della Madonna di Lourdes, probabilmente ritrovata in bosco negli anni ’50 e qui collocata.

La chiesa ospita anche la statua del protettore della citta di Pizzo, San Giorgio che uccide il drago oltre a Santa Rita incoronata dall’Angelo della morte. L’altare principale ospita una copia del quadro della Madonna di Piedigrotta, l’originale è stato oggetto di un lungo restauro ed attualmente si trova nel Santuario di San Francesco di Paola in attesa di una definitiva collocazione.

Le volte sono interamente affrescate, ma le condizioni di conservazione sono veramente pessime, si distinguono un pellegrinaggio di fedeli a Lourdes, lo sposalizio della Madonna, il naufragio del veliero napoletano e la battaglia di Lepanto.

Dei cinque medaglioni affrescati, soltanto uno risulta ancora leggibile in cui è raffigurato l’Ascensione al cielo.

Bibliografia

  • Sacro e profano in coabitazione. Santi e meno santi nella chiesetta di Piedigrotta a Pizzo, "Bell'Italia", suppl. al n. 120, speciale Calabria, n. 22, aprile 1996;
  • Malferà Carmensissi, Le verità di Piedigrotta, Hodigitria, Pizzo Calabro (VV), 2008.

Sitografia

 


L'ABBAZIA BENEDETTINA DI LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme, o abbazia di Santa Maria, costruita a Sant’Eufemia Vetere di Lamezia Terme, fu fondata nella seconda metà dell’anno 1000 da Roberto il Guiscardo sui resti di un monastero bizantino intitolato a Hagìa Euphémia di Nèokastronprima testimonianza di una fondazione religiosa degli Altavilla in Calabria.

La sua realizzazione rientrava nel programma di latinizzazione del territorio, un chiaro rimando al potere religioso della Santa Sede che, con il rito latino, esercitava un forte controllo economico e politico sulla zona. La costruzione fu affidata all’abate Robert de Grandmesnil, così come tramanda il diploma di fondazione che Roberto il Guiscardo concesse, acquisendone anche il controllo.

Colpita da un violento terremoto nel 1638, i ruderi attualmente visibili hanno comunque permesso di cogliere i dettagli architettonici che hanno segnato l’edificio. La chiesa è una costruzione che rispecchia i tipici schemi architettonici normanni in voga nell’Italia Meridionale; ad oggi sono ancora visibili il prospetto principale con i resti delle due torri campanarie, le tre navate, con la centrale di maggiori dimensioni separate da una serie di pilastri e quelle laterali illuminate da una serie di finestre ad arco. Inoltre, è visibile la zona presbiteriale accessibile grazie ad una scalinata ad est, definita dai transetti e dalle tre absidi, quella centrale di maggiori dimensioni rispetto le altre due.

https://lameziaterme.italiani.it/scopricitta/giornate-fai-riapre-l-abbazia-benedettina-di-sant-eufemia/

L'Abbazia benedettina di Lamezia Terme

Il presbiterio è stato scavato successivamente, riportando alla luce blocchi marmorei policromi che portavano all’altare posto, come di norma, nell’abside maggiore, dove ai lati erano presenti delle colonne di ripiego appoggiate su elementi architettonici di età romana. In questa zona è stata portata alla luce una pavimentazione realizzata in tessere marmoree policrome, opus sectile, ricavate da marmi antichi, il cui utilizzo è tipico della tradizione normanna e ha lo scopo di sottolineare l’imponenza del potere al pari dell’Impero Romano.

La chiesa era a pianta basilicale, quindi, a tre navate, triabsidata con coro gradonato e transetto sporgente. Nel versane ovest, la presenza di mura spesse 3.30 mt, fa presumere l’esistenza di matronei accessibili attraverso scale o intercapedini; le supposizioni sono dovute al fatto che i resti sono riconducibili solo alla parte superiore della chiesa, infine la facciata sud è scandita da una serie di contrafforti e monofore a tutto sesto.

Per quanto riguarda le torri, è possibile riscontrare i marcatori riconducibili all’architettura normanna, tra cui i cantonali in granito squadrati e le feritoie in pietra. Anche il monastero riprende il motivo delle finestre presenti nella chiesa, la cui muratura è composta da ciottoli di fiume di medie e grandi dimensioni legate da malta la cui composizione non è riconducibile al periodo bizantino, ma bensì al periodo di costruzione sotto il Guiscardo.

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme è un monumento a cielo aperto, immerso tra le terre colmi di ulivi e poco distante dal sito archeologico di Terina, una colonia greca insediatasi nel VI secolo e da cui provengono i materiali di riuso utilizzati nella costruzione dell’edificio. L’intera zona ospita nel periodo estivo spettacoli teatrali calati in una suggestiva cornice storica.

Bibliografia

  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • R. Spadea, Luoghi e materiali al Museo Archeologico Lametino – Guida al percorso, p. 21 - 27 - 31, Nuova Lito, Carpenendolo (BS), Edizione ET, 2011.
  • G. De Sensi Sestito, Lamezia Terme tra arte e storia – Guida ai monumenti, p. 8 - 20, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme, 2008.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381- 406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino, 2005.
  • E. Pontieri, L’Abbazia benedettina di Santa Eufemia in Calabria e l’Abate Roberto De Grantimesnil - i Normanni nell’Italia Meridionale, Archivio storico per la Sicilia Orientale, 1964.
  • S. Mancuso, G. De Sensi Sestito, I segni della storia - Lamezia terme, La Modernissima, 2008.
  • I. Ingrassia, F. Lombardo, L’abbazia di S. Maria di S. Vetere, pp. 66 – 67, Daidalos, 2002.

 


VILLA ZERBI A REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Reggio Calabria è il centro urbano più popoloso della Calabria, è situato all’estremità meridionale della penisola tra le pendici dell’Aspromonte e la sponda orientale dello Stretto di Messina, vantando una notevole varietà ambientale, ma famoso per il suo affaccio sulla Sicilia, tanto che il suo lungomare è stato definito il chilometro più bello d’Italia.

In queste terre, secondo la tradizione, i coloni calcidesi fondarono Rhegion verso la metà dell’VIII secolo a. C., iniziandola ad una lunga serie di invasioni e dominazioni da parte di diverse popolazioni. Oltre alle ricche testimonianze archeologiche che insistono sul territorio, Reggio Calabria è stato lo scenario di continue ricostruzioni dovute all’elevata sismicità della zona, culminante nel terremoto dei primi de ‘900 che ha portato alla riedificazione e alla rielaborazione di diversi edifici importanti, tra cui un imponente palazzotto nobiliare che si affaccia proprio sullo stretto conosciuto col nome di Villa Saverio Genoese Zerbi.

Villa Zerbi

Nota soprattutto col nome di Villa Zerbi, si tratta di un imponente edificio storico che sorge presso il lungomare Falcomatà, nell'area in cui, prima del 1860, era presente un’antica villa barocca appartenente alla famiglia nobile dei Genoese. Distrutta dal terremoto del 1908, la villa fu riedificata con un complesso progetto redatto dagli ingegneri Zerbi, Pertini e Marzats, nel 1915.

Villa Zerbi, prospetto anteriore

Costruito con caratteristiche completamente differenti rispetto al precedente, il nuovo edificio risponde a scelte architettoniche, stilistiche e strutturali diverse rispetto alle altre costruzioni presenti lungo il viale, in esso risaltano soprattutto i decori neobarocchi e le finestre bifore che adornano i prospetti, dal sapore arabeggiante; anche la scelta cromatica delle pareti esterne spezza con i colori dei palazzi adiacenti. Si tratta di un rosso mattone che primeggia e dei toni avana del travertino che per lo più vanno a costituire i dettagli decorativi, le spigolatura, le delimitazioni dei livelli e la recinzione che contiene il giardino dell’edificio.

Sviluppata su un corpo centrale di forma trapezoidale, la villa si articola su due livelli ed è adornata da un vasto giardino adiacente che culmina nelle dependance ricavate dalle estremità della recinzione esterna l’abitazione.

Gli ambienti interni seguono un asse ruotato di sette gradi, creando una eclettica planimetria dalla forma irregolare a cuneo, che si aggiunge ad un prospetto elaborato, dal quale, a causa della sua complessità, è stato necessario puntare sull’uso di elementi prefabbricati nella costruzione a decorazione della facciata.

I prospetti si presentano con un’articolazione che permette di riconoscere varie tipologie costruttive quali loggiati e elementi a torre, ecc.

Villa Zerbi, dettaglio decorativo con vista sulla loggetta

Lo stile architettonico si rifà ai modelli veneziani del secolo XIV; le decorazioni architettoniche si snodano tra archi in stile gotico, colonne che sorreggono gli archi dei loggiati, colonnine impiegate per le balaustre dei balconi e merli che dominano il terrazzo e risaltano per la tinta cromatica dell’intonaco, di un rosso bruno acceso. La villa è strutturalmente realizzata in cemento armato con murature collaboranti, mentre l’esterno si presenta in malta pigmentata con graniglie di varia pezzatura.

La posizione in cui è posto l’edificio lo espone allo smog cittadino e all’aerosol marino, con conseguente danneggiamento della struttura. In particolare sono soprattutto le decorazioni architettoniche ad essere maggiormente soggette all’azione delle polveri a causa della tipologia di superfici tendenti all’assorbimento e al deposito superficiale e ad una maggiore superficie specifica esposta al rischio.

La villa si presta bene ad essere la location ideale per mostre temporanee ed eventi culturali, tanto da essere stata già usata, nel corso degli anni, come la sede di un polo culturale che ha visto numerose esposizioni artistiche all’intero delle sue sale, come nel caso delle mostre della Biennale di Venezia nel Sud Italia.

Villa Zerbi, veduta dal lungo mare Falcomatà

Bibliografia e sitografia

  • GattusoC., GattusoP., VillellaF., Villa Zerbi. The application of a critical and diagnostic process for the identification of diseases, Atti di Convegno IV Conference Diagnosis, Conservation and Valorization of Cultural Heritage, Napoli, 12/13 Dicembre 2013.
  • Lo Curzio M., Nicolini R., Cali P., Ginex G., Tripodi D., Villa Genoese Zerbi 1915-1925 - Conoscenza, didattica e restauro nel progetto di architettura, Comune Reggio Calabria, Università Mediterranea RC, Villa Genoese Zerbi per l’arte, 2005.
  • Serafini P., Arte contemporanea nei contesti architettonici e urbanistici del Sud Italia, Economia della cultura, pp. 283-292, 2009.
  • Zevi L., Manuale del restauro architettonico, Mancoswed., Roma, 2001.
  • http://www.reggiocal.it
  • http://turismo.reggiocal.it/HomePage.aspx

LA CERTOSA DI SERRA SAN BRUNO

A cura di Felicia Villella

Introduzione: la Certosa di Serra San Bruno in provincia di Vibo Valentia

Il comune montano di Serra San Bruno, situato nel territorio delle Serre in provincia di Vibo Valentia in Calabria, deve la sua fama alla presenza in passato del monaco Bruno di Colonia, fondatore dell'Ordine dei Certosini e della ivi presente Certosa di Santo Stefano del Bosco nel territorio serrese, grazie alla donazione offerta dal Conte Ruggero d’Altavilla detto il Normanno.

Serra, una cittadina agglomerata tra il XII e il XV secolo, assume la caratteristica conformazione labirintica dei centri medievali, il cui impianto urbano nello specifico è caratterizzato da una parte molto più antica, il quartiere detto di Terravecchia e un nucleo formatosi in tempi relativamente più recenti, alla fine del Settecento, detto rione Spinetto.

Attraverso l’antico percorso che si sviluppa tangenzialmente rispetto al nucleo medievale di Terravecchia è possibile raggiungere, anche a piedi, la Certosa di Serra San Bruno, fondata nel 1091, circondata da spesse e alte mura e totalmente immersa nella natura.

È possibile ammirare i resti dalla facciata anche da vicini tumoli di terreno che circondano la struttura, proprio perché vige la clausura dell’ordine che qui trascorre le proprie giornate in preghiera, dedicandosi alla cura dell’orto, della produzione di birre e liquori e di icone bizantine, acquistabili nel vicino emporio.

L’edificio, di cui attualmente non resta che un affascinante rudere, era destinato ai monaci conversi, rivolti al contatto diretto con la gente, mentre i monaci dediti alla preghiera ed al silenzio erano stanziati nella più lontana Santa Maria del Bosco, dove trovò in seguito sepoltura anche San Bruno.

Una serie di eventi portò il monastero nelle mani dell’ordine dei Cistercensi e solo nei primi anni del Secolo Cinquecento riuscì a far ritorno sotto l’ordine certosino.

La chiesa antica fu distrutta quasi interamente dal sisma del 1783 che colpì tutta la Calabria, durante il quale crollarono interamente l’ordine superiore della facciata, dunque il tetto e la copertura, la cupola e gran parte delle mura perimetrali, lasciando in piedi solo gli i grandi archi della crociera e le arcate laterali della navata centrale; a completare la disastrosa opera di madre natura, seguirono azioni di spoglio da parte degli abitanti del luogo, finalizzati alla realizzazione di ulteriori edifici nel paese, religiosi e non, ma anche di abitazioni private.

Da un punto di vista architettonico la monumentale facciata, realizzata in granito locale, rivela ancora oggi la maestosità dell’impianto a tre navate dell’imponente edificio. Essa è, di fatti, ripartita verticalmente in tre fascioni, poggianti su un alto basamento continuo contenente le lesene doriche.

Ad incorniciare il portale centrale sono due nicchie coronate da un timpano, che riprende quello dell’ingresso in scala ridotta, che hanno contenuto, in passato, le statue dei Santi Bruno e Stefano oltra ad una di minori dimensioni che sormonta l’ingresso stesso.

Varcato il passaggio di apertura si incontrano le sole due arcate laterali rimaste di due pareti che dividevano l’edificio nelle suddette tre navate, la centrale di maggiore dimensione rispetto alle due laterali; queste strutture mantengono parzialmente il loro rivestimento in granito, mentre in altri punti si rivela la costituzione muraria interna, composta da pietrisco e laterizi pieni. Di fronte ad una tale struttura architettonica, appare chiaro ed evidente l’impianto manierista di impronta tipicamente michelangiolesca che aleggia sull’intera facciata.

L’esterno, ad oggi, si ritrova circondato da ventitré arcate intervallate da pilastri lineari, che delineano i tre lati dei resti del monumentale chiostro al cui interno è collocata una seicentesca fontana granitica composta da un’ampia vasca basale dal cui centro si sviluppa un lungo fusto che sorregge due vasche di dimensioni inferiori, l’ultima poggiata su una serie di figure antropomorfe e coronata da un bocciolo stilizzato.

I resti della chiesa rinascimentale sono collocati all’interno della Certosa e non sono direttamente visitabili a causa della condizione di clausura dell’intera struttura, è possibile però visitare il museo adiacente, in cui sono custoditi alcuni ritrovamenti provenienti dall’antica chiesa e dove è possibile ammirare un modellino che restituisce in scala la condizione del monumento.

Inoltre la città di Serra San Bruno può essere considerato nel suo insieme un museo a cielo aperto, proprio perché la maggior parte dei monumenti ecclesiastici e i più antichi edifici civili sono stati realizzati usando parte del materiale di spoglio proveniente dalla certosa, tra cui altari angeli e statue poste a decorazione dell’imponente struttura rinascimentale.

Si tratta sicuramente di un luogo magico ricco di storia in cui è possibile ritrovarsi percorrendo un itinerario dapprima cittadino attraverso la visita alle principali chiese del paese che culmina nella visita presso la Certosa e il suo museo, per poi spostarsi nella vicino Santa Maria del Bosco completamente immersa nella natura.

Bibliografia e sitografia

  • Cagliostro R. M., Atlante del barocco in Italia.Calabria, De Luca Editori d'arte, Roma, Vol. 1, 2002, pp. 1-742, ISBN: 88-8016-453-8.
  • Cagliostro R. M., Arte e architettura a Serra San Bruno, "Daidalos", Rivista Trimestrale, n. 1, 2001, pp. 55-59, ISSN: 1594-0578.
  • Zinzi E., I Cistercensi in Calabria. Presenze e memorie, Istituto Regionale per le Antichità Calabresi Classiche e Bizantine , Rossano, pag. 157, Rubbettino Editore, Soneria Mannelli 1999.
  • Baldacci O., La Serra, in Memorie di geografia antropica, vol IX, I, Roma, 1954.
  • Calabretta Don L., Serra San Bruno, vol. I e II, Sud Grafica, Davoli M.na (CZ), 2000.
  • Caminada dom B.M., La Certosa di Serra San Bruno - Scritti storici, Monteleone, Vibo Valentia, 2002.
  • Ceravolo T., Luciani S., Pisani D., Serra San Bruno e la Certosa. Guida storica artistica naturalistica, Qualecultura, Vibo Valentia, 1997.
  • De Leo P., Per la storia della Certosa calabrese di S. Stefano del bosco, in Certose e certosini in Europa, atti del Convegno alla Certosa di S. Lorenzo (Padula, 22-24 settembre 1988), vol I, pp.239-245, Sergio Civita Editore, Napoli, 1990.
  • Gritella G., La Certosa di S. Stefano del bosco a Serra San Bruno. Documenti per la storia di un eremo di origine normanna, Edizioni L'Artistica, Savigliano, 1991.
  • Principe I., La Certosa di Santo Stefano del bosco a Serra San Bruno. Fonti e documenti per la storia di un territorio calabrese, Frama Sud, Chiaravalle C., 1980.
  • http://www.comune.serrasanbruno.vv.it
  • http://www.certosini.info
  • http://www.museocertosa.org

IL CASTELLO NORMANNO-SVEVO DI NICASTRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

I resti del castello normanno – svevo si stagliano nel quartiere di Nicastro, sito in Lamezia Terme, provincia di Catanzaro, Calabria.
Considerando che con manufatto artistico si intende tutto ciò che di bello, nelle sue più svariate accezioni, può essere prodotto per mano dell’uomo, credo che la scelta di ricadere su una struttura architettonica, che in sé racchiude secoli di storia, sia calzante. Un edificio custodisce in sé l’armonia delle sue parti, lo studio matematico delle proporzioni, quello ingegneristico della quotidianità a cui un monumento può andare incontro e infine rispetta il gusto estetico di un epoca, di una famiglia che ne commissiona la realizzazione e il potere che quest’ultima vuole trasmettere attraverso di essa.

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Il castello normanno-svevo di Nicastro: descrizione

In un breve accenno di stampo geografico, possiamo dire che il quartiere di Nicastro – dal latino neo, nuovo e castrum, accampamento – è uno dei tre comuni che uniti nel 1968 ad oggi costituiscono la città di Lamezia Terme. Nel fulcro storico del rione San Teodoro di Nicastro, arroccato tra i fiumi Canna e Niola, sull’estremità di uno sperone roccioso di costituzione scistosa, si colloca il castello risalente all’XI-XII secolo dopo Cristo sui resti di quello che doveva essere un precedente edificato in materiale deperibile, opera del popolo normanno.

È sotto Roberto il Guiscardo che si dà il via alla costruzione dell’edificio in forma stabile e concreta, secondo un processo di latinizzazione che prevedeva la conversione delle terre calabre da lui dominate. In seguito, si assiste ad un susseguirsi di integrazioni e modifiche ad opera di dinastie postume che adattano la fortezza al gusto personale e alle esigenze strategiche del tempo.
Primi fra tutti gli Svevi; Federico II gli conferisce l’aspetto attuale, inserendolo nell’elenco dei castra exempta direttamente controllati dalla Corona. Compare il mastio esagonale, accompagnato dalla cinta muraria e da tre torri, una circolare e due sub-circolari sul prospetto anteriore; si aggiungono ampliamenti e zone sviluppate su più livelli a carattere residenziale.

La cappella, invece, è di probabile attribuzione Angioina, così come alcuni interventi di manutenzione e restauro delle mura e dell’ingresso, come dimostrano i laterizi presenti ed introdotti prevalentemente sotto Carlo I.

L’ultima evoluzione stilistica e strategica apportata al monumento si deve agli Aragonesi, che costruiscono i bastioni e introducono nel sistema difensivo al palazzo una serie di feritoie progettate secondo il sistema del fuoco incrociato.
Con il terremoto del 1638 e poi quello del 1783, l’edificio è vittima dell’abbandono e dell’uso del materiale costitutivo per la ricostruzione del borgo abitativo sottostante.

Ad oggi il complesso si sviluppa per una lunghezza di circa 100 mt e una larghezza di 60 mt, restano pressoché intatti il maschio e l’accesso principale che conduce alle quattro torri di realizzazione stilistica e architettonica differenti fra di loro: una delle due torri prossime all’entrata è caratterizzata da una struttura abilmente concepita composta da massi di notevoli dimensioni nella parte inferiore della muratura e di dimensioni ridotte in relazione all’altezza a cui sono soggette, permettendo la formazione di una struttura snella e alleggerita nella parte superiore del manufatto; la seconda torre, invece, è costituita da massi di dimensioni ridotte e laterizio. Delle restanti due torri poste anteriormente rispetto al prospetto principale risalta soprattutto la prima di forma circolare, ma che nasconde una pianta interna poligonale; mentre l’ultima presenta una base a scarpa lanceolata e resti di intonaco nella parte inferiore; entrambe risultano essere edificate con pillori e pietrame erratico di medio-piccole dimensioni e ritocchi postumi in laterizio.

Conclusione
Ridotto a poco più di un rudere, il castello di Nicastro, si trova sotto la tutela della Soprintendenza per i beni archeologici della Calabria ed è stato oggetto di una serie di campagne di scavo che hanno portato alla luce diverse sezioni dell’edificio ancora non indagate, oltre a reperti di varia natura, quali ceramiche e vasellame di uso quotidiano.
Usato prevalentemente per la realizzazione di spettacoli all’aperto durante le festività, molti degli abitanti del posto ignorano l’importanza di un così imponente complesso a dominio della città.
Attualmente il castello poggia ancora sullo sperone roccioso su cui è stato edificato in passato, è possibile intravederlo dal centro della città a dimostrazione della sua resistenza e della sua volontà di essere testimonianza di un passato glorioso del territorio e di un sapere del costruire che sfida il tempo e le intemperie.

Bibliografia e sitografia

  • C. Gattuso, F. Villella, R. Marino Picciola, Il castello di Nicastro –il piano diagnostico. Esempio di articolazione, Atti del Convegno Diagnosis of Cultural Heritage, Napoli, 15-16 Dicembre 2011.
  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Bonacci, Scritti storici lametini, p. 41 – 60, La Modernissima, Lamezia Terme, 1993.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • M. Mafrici, Il Castello di Nicastro – in una Calabria sconosciuta, Anno I Aprile/Giugno, n°2, Reggio Calabria, p. 90 – 94, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme,1978.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381 -406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino,2005.
  • http://www.comune.lamezia-terme.cz.it
  • http://www.lameziastorica.it