IL CASTELLO ESTENSE DI FERRARA PARTE I

A cura di Mirco Guarnieri

Introduzione

In questo articolo si parlerà dell'edificio simbolo di Ferrara e del potere degli Este: il Castello di San Michele, meglio noto come Castello Estense di Ferrara, fatto costruire durante il governo di Niccolò II d’Este, marchese di Ferrara dal 1361 al 1388.

Il Castello Estense di Ferrara: storia

Nel 1385 a Ferrara vi fu una grande sommossa popolare a causa dell’innalzamento delle tasse da parte di Niccolò II d’Este, che portò alla morte di Tommaso da Tortona, consigliere di quest’ultimo e responsabile dell’esazione delle tasse.

Per timore di perdere il controllo della città, il marchese affidò all’architetto Bartolino da Novara il progetto di una fortezza che permettesse la difesa di Ferrara e degli Este dalle rivolte interne e dagli attacchi dei nemici provenienti dall’esterno.

Da Torre-Rocca a Castello Militare

La zona di costruzione del castello si trovava tra il Palazzo Ducale e le mura settentrionali della città, dove erano situati la già esistente Torre (poi divenuta Rocca) dei Leoni, l’omonima porta d’accesso alla città e il piccolo borgo di San Giuliano, che venne raso al suolo dopo che il marchese ebbe acquistato il terreno per la realizzazione della struttura.

Torre dei Leoni e rivellino Nord. Credits: Elisa Catozzi (www.elisacatozzi.com).

I lavori di costruzione iniziarono il 29 settembre 1385, giorno di San Michele, con l’innalzamento di altre tre torri di egual grandezza e altezza (tre piani ciascuna), posizionate a quadrilatero e collegate tra loro attraverso corpi di fabbrica alti due piani: la Torre di Santa Caterina a nord-ovest, la Torre di San Paolo a sud-ovest e la Torre Marchesana a sud-est.

Di fianco ad esse vennero realizzati degli avancorpi di altezza uguale a quella dei corpi di fabbrica, e dei rivellini collegati tra loro con ponti levatoi posti a protezione delle quattro entrate che conducono al cortile interno, mentre a proteggere gli spalti posti agli ultimi piani di torri e corpi fabbricati vennero create delle merlature sporgenti sostenute da beccatelli.

Sotto la Torre dei Leoni erano presenti le carceri, riservate a prigionieri di alto rango sociale (i comuni cittadini venivano imprigionati nelle galere del Palazzo della Ragione). Al loro interno vennero rinchiusi personaggi come gli amanti Ugo Aldobrandino e Parisina Malatesta, figlio e seconda moglie di Niccolò III d’Este fatti poi decapitare nella Torre Marchesana, e Ferrante d’Este assieme a don Giulio per aver congiurato nel 1506 all’assassinio contro i fratelli Alfonso I e Ippolito I d’Este.

Gaetano Previati, Decapitazione di Ugo e Parisina, 1913 ca, Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno.

Tutta la struttura poggia sui sotterranei, realizzati con volte a botte, in funzione di magazzino e approdo delle imbarcazioni, essendo questi in collegamento con il fossato che circondava il castello e il canale oltre le mura settentrionali (attuale Corso Giovecca - Viale Cavour).

Oltre ai magazzini nei sotterranei, vi erano armerie, officine, scuderie e magazzini situati al piano terra e nel cortile, mentre al primo piano erano collocati gli alloggi delle truppe estensi.

Venne anche realizzato un passaggio rialzato, noto come Via Coperta, tra il Palazzo Ducale e il castello, per permettere agli Este di raggiungere quest’ultimo edificio in casi di pericolo.

Per comprendere al meglio com’era l’aspetto del Castello Estense di Ferrara bisogna prendere ad esempio il castello di San Giorgio a Mantova, realizzato dallo stesso Bartolino da Novara nel 1395.

Antonio Frizzi, città antica di Ferrara (acquaforte), da Memorie per la storia di Ferrara, 1787.

Da Castello militare a Residenza degli Este

Il 1° settembre 1476 Niccolò d’Este, nipote di Ercole I d’Este, duca di Ferrara, provò ad occupare il Palazzo Ducale per impadronirsi della città. Eleonora d’Aragona, moglie del duca di Ferrara, riuscì a rifugiarsi con i figli Alfonso, Isabella e Beatrice all’interno del castello di San Michele attraverso il passaggio rialzato, rendendo ogni tentativo di Niccolò vano.

Dopo questo episodio, la residenza degli Este si spostò dal Palazzo Ducale al Castello di San Michele.

L’arrivo di Biagio Rossetti nel 1483 presso la corte estense portò una ventata di innovazione e sviluppo urbanistico in tutta la città. Con l’espansione urbana rivolta a nord (Addizione Erculea), il Castello Estense di Ferrara divenne il centro della città, subendo modifiche esterne ed interne: venne raddoppiato il corpo di fabbrica tra la Torre dei leoni e quella Marchesana, le sale della fortezza divennero appartamenti per la gli Este e la loro corte, in particolare si lavorò alla decorazione dell’appartamento di Eleonora d’Aragona. Sempre per la duchessa vennero iniziati i lavori del Giardino e Loggia degli Aranci, completati sotto il governo del figlio Alfonso I. Nel cortile interno venne realizzato un loggiato, trasferendo scuderie, officine e armerie all’esterno dell’edificio, mentre iniziarono i lavori di ampliamento della Via Coperta, che portarono alla realizzazione degli appartamenti del duca, dove si trovano i più famosi Camerini d’Alabastro.

Con la morte del padre nel 1505, Alfonso I d’Este, divenne signore di Ferrara. Sotto il suo governo vennero rimodernati gli appartamenti della madre e delle sue due mogli, Anna Sforza e Lucrezia Borgia, oltre al riallestimento di altre sale per la realizzazione di un’armeria, un’oreficeria e una spezieria; si completò infine l’ampliamento dei Camerini d’Alabastro, facendoli diventare un importante scrigno ricolmo di opere inestimabili realizzate dai più grandi pittori del tempo come Battista e Dosso Dossi, Tiziano, Giovanni Bellini e tanti altri.

Ercole II, figlio di Alfonso I si occupò della decorazione delle sale del Castello Estense, facendo realizzare affreschi di assoluta bellezza da pittori del calibro di Girolamo da Carpi, Benvenuto Tisi detto “il Garofalo”, Battista Dossi e Camillo Lippi. In particolare dopo l’incendio del 1554 assieme al suo architetto di corte intervennero sulla ristrutturazione dei solai e sull’aspetto esteriore, rendendo il castello molto simile a quello che si può ammirare ora.

Castello Estense. Primo piano: Torre dei Leoni. Secondo piano: Torre Marchesana (sx) e Torre Santa Caterina (dx). Credits: Elisa Catozzi (www.elisacatozzi.com).

Durante l’ultimo governo estense, esercitato da Alfonso II, assieme all'architetto di corte si dovette lavorare alla riparazione dei danni dovuti al terremoto che colpì la città nel 1570. Vi furono rinnovamenti presso i Camerini d’Alabastro e la Sala del Governo, realizzata in precedenza dal padre, oltre alle decorazioni per la stanza dello Specchio, nonché appartamento del duca e la Cappella Ducale tra il 1590-91 .

Il Castello Estense di Ferrara dalla Devoluzione ai giorni nostri

La morte di Alfonso II nel 1597 e la mancanza di eredi diretti portarono papa Clemente VIII ad inglobare il Ducato di Ferrara allo Stato Pontificio, cacciando gli Este dalla città.

Da quel momento il Castello Estense assunse il ruolo di sede dei Cardinali legati. Non vennero apportate molte modifiche dal punto di vista architettonico, se non un balcone ligneo di piccole dimensioni, realizzato nel 1773, che permetteva la vista della Porta degli Angeli alla fine dell’attuale corso Ercole I d’Este, la Porta ad est alla fine di Corso Giovecca e la Porta Ovest alla fine del canale Panfilio (ora Viale Cavour).

Con l’arrivo dei francesi, alla fine del XVIII secolo, alcune aree del Castello Estense di Ferrara assunsero la funzione di residenze private, mentre con gli austriaci la dimora tornò ad avere il ruolo che aveva avuto sotto lo Stato Pontificio.

Con l’annessione di Ferrara al Regno d’Italia il Castello Estense venne utilizzato come sedi di uffici di enti locali e statali, per poi ricevere interventi di restauro e assumere una funzione museale dagli anni '80 del Novecento per mano della Provincia di Ferrara.

Dal 1995 il Castello Estense di Ferrara e la città fanno parte della lista UNESCO dei siti patrimonio mondiale dell’umanità.

 

Bibliografia

Marco Borella, Il Castello di Ferrara, 1987, Patrocinio Amministrazione Provinciale di Ferrara.

 

Sitografia

https://www.castelloestense.it/it/il-castello/la-storia

https://www.informagiovani-italia.com/castello_estense_ferrara.htm

 

Per le foto del Castello Estense e del cortile interno si ringrazia Elisa Catozzi


LA CERTOSA DI PADULA PARTE III: LA CHIESA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Nei precedenti articoli sulla certosa di Padula si sono tratteggiati la corte esterna, ossia il primo luogo che si offre allo sguardo del visitatore, e il Chiostro della Foresteria, uno dei primi ambienti da cui parte il percorso all’interno del monumento, ovvero un insieme di chiostro e soprastante loggiato con funzioni di accoglienza di ospiti illustri e rappresentanza del potere certosino. Nel corso del presente articolo si parlerà invece del fulcro spirituale del complesso cenobitico: la chiesa.

La porta della chiesa

Come detto in precedenza, la porta della chiesa affaccia sul Chiostro della Foresteria, ed è una delle pochissime parti originali trecentesche giunte fino a noi. Si tratta di un ampio portone a due battenti realizzato in cedro del Libano, legno molto utilizzato per il suo significato biblico di maestà e bellezza, datato 1374 e decorato da un complesso sistema di formelle, con cornici a rilievo, che corrono lungo tutta la superficie; le scene al loro interno spesso presentano motivi fitoformi, che continuano in maniera ininterrotta da una formella all’altra. All’interno delle cornici sono presenti delle lettere gotiche, che su di un battente compongono la scritta Ave Maria Gratia Plena, mentre sull’altro Cartusiensis Ordinis. Alle lettere sono abbinate le rappresentazioni di episodi mariani ed episodi della vita e del martirio di San Lorenzo. La porta secondo alcuni è opera di Antonio Baboccio da Piperno, abate scultore e orafo attivo nel Meridione in quel periodo, anche se la prima opera certamente attribuibile a lui è datata 1407 ed è il portale maggiore della cattedrale di Napoli. La porta è inserita in un portale marmoreo che reca gli stemmi della famiglia Sanseverino, databile tra la fine del ‘400 e i primi del ‘500, e che ai lati presenta una decorazione a candelabri mentre alla sommità una scritta recita “GLORIA IN EXCELSIS DEO ET IN TERRA PAX HMNB”. Tale portale si inserisce nel clima generale di rinnovamento artistico che investe Napoli e che, grazie ai rapporti di potere dei certosini con il mondo esterno, arriva fino a Padula: la realizzazione del portale infatti sembrerebbe opera della bottega di Tommaso Malvito, scultore comasco allievo del Laurana attivo dal 1484 a Napoli e autore di varie opere nella capitale partenopea, oltre che direttore dei lavori della cappella Carafa del duomo napoletano, la più importante di tutte in quanto destinata ad accogliere le reliquie di San Gennaro. La decorazione a candelabre presente nella cappella sembra infatti stilisticamente affine a quella del portale certosino.

La chiesa

Una forte scenografia barocca su un impianto gotico è la prima cosa che si nota entrando in chiesa, insieme alla presenza di un muro esattamente di fronte all’ingresso, con al centro una porta-grata, che divide in due l’aula e separa il primo ambiente da un altro situato al di là di essa.

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La costruzione della chiesa della Certosa prende avvio dopo il 1321, anno in cui il nipote del fondatore della Certosa, Tommaso III, scrive al priore della Certosa, donandogli 12 once d’oro per la realizzazione della nuova chiesa in memoria del padre e del nonno. Sempre Tommaso III sarà colui che fonderà la chiesa di San Francesco a Padula nel 1380. Sono anni in cui si assiste, nel Vallo di Diano e nella vicina Napoli, ad una fiorente attività culturale testimoniata dalla circolazione di artisti tra province richiamati da committenze prestigiose; Tommaso Malvito citato in precedenza ne è un esempio, ma in questi anni il “nome di grido” è quello di Tino da Camaino, uno dei massimo scultori senesi, allievo di Giovanni Pisano e ideatore del progetto della Certosa di S. Martino e Castel Sant’Elmo, la cui attività è documentata a Napoli a partire dal 1323. Nel 1336 è autore, su commissione diretta dei Sanseverino, della tomba di Enrico Sanseverino (figlio del fondatore della Certosa Tommaso) a Teggiano, poco distante da Padula: è lecito quindi supporre una sua presenza anche nel vicino cantiere della Certosa, altro feudo dei Sanseverino, dove proprio in quegli anni si stava costruendo o terminando la chiesa. Cosa certa è che grazie a questa committenza illustre anche nel Vallo di Diano arriva il gotico, così fortemente voluto da Roberto D’Angiò, che prenderà appunto il nome di gotico angioino.

L’impianto della chiesa della Certosa di San Lorenzo è ad aula unica rettangolare con volte a crociera (un’altra delle rare testimonianze originali della struttura trecentesca giunte fino a noi) costolonate che si appoggiano su robusti pilastri laterali, mentre sul lato destro si aprono quattro cappelle a infilata. Il muro centrale succitato, coronato da una statua di San Lorenzo in gloria, divide l’ambiente in due zone: la prima, entrando, più piccola, che era riservata ai conversi, ossia coloro che si incamminavano sul sentiero della clausura, mentre la seconda, molto più grande, era riservata ai Padri, ossia i monaci a tutti gli effetti.

L’ultima parte è quella contenente l’altare, quindi si può dire che tutto l’ambiente sia suddiviso in tre aree quadrate.

Sulla struttura gotica si innesta un ammodernamento barocco che si esplica in precise scelte decorative: un ciclo veterotestamentario nel primo ambiente, caratterizzato da scene di Profeti e santi che si affidano a Dio o muoiono per Lui, contrappunta il ciclo del Nuovo Testamento nella parte riservata ai Padri, laddove emergono con chiarezza la bontà e la misericordia divine. Il ciclo pittorico è opera del palermitano Michele Ragolìa, pittore tardo cinquecentista attivo in costiera amalfitana, a Napoli e nel salernitano, come provano le 40 tele dipinte per il convento di Sant’Antonio a Polla, distante pochi chilometri da Padula.

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Tale scelta iconografica deriva dalla volontà di rappresentare lo status delle due condizioni: quella dei conversi, ai quali bisogna rammentare che soltanto affidandosi pienamente a Dio saranno degni della loro scelta, e quella dei Padri, che a scelta compiuta godono della pienezza dell’amore divino. Ad ulteriore sottolineatura di questo concetto concorrono le scene raffigurate sui cori lignei dei due ambienti, databili ai primi anni del Cinquecento, rispettivamente 1503 quello dei Padri e 1507 quello dei conversi, fatti eseguire probabilmente sotto il priorato di Pietro Paolo Lumbolo da Gaeta (1493-1507) da tale Giovanni Gallo, artista interno all’ordine certosino. Sul coro dei Padri, formato da 36 stalli e dal programma iconografico più articolato, sono presenti infatti scene tratte dal Nuovo Testamento raffiguranti episodi della vita di Cristo dall’Annunciazione alla Pentecoste (sui dossali), scene di martirio di santi e apostoli (sugli inginocchiatoi) e le vite dei padri del deserto (sulla fascia mediana dei dossali), il tutto intervallato da iscrizioni, mentre sul coro dei conversi, più semplice, sono presenti scene di Santi, ritratti all’interno di architetture o paesaggi, e figure di Padri della Chiesa.

By IlSistemone - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41904039, coro dei Padri.

Nella parte della Chiesa riservata ai conversi trovano posto anche due altari addossati al muro divisorio (una simile scelta compositiva si ritrova nella Reale Certosa dell’Assunzione a Granada) sormontati da due busti di santi.

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Questi due altari sono simili a quello, molto più imponente e maestoso, a doppia faccia con putti ed animali aggettanti alle estremità, che si trova nella parte riservata ai Padri, opera di Gian Domenico Vinaccia della seconda metà del 600. Gli altari sono stati eseguiti con la tecnica della scagliola, ossia un impasto di gesso unito a pigmenti naturali che imitava il marmo: la particolarità di questi altari, che ne testimonia la preziosità, risiede invece nell’utilizzo di pietre dure e madreperla al posto dei coloranti naturali, che danno vita a preziosi effetti virtuosistici di grande impatto.

Il pavimento presenta un motivo tridimensionale sui toni del bianco, del grigio e del nero tranne che nella parte riservata ai Padri, ove trova posto un ammattonato maiolicato settecentesco della bottega dei Massa, gli stessi che hanno realizzato le maioliche del chiostro di Santa Chiara a Napoli. Secondo Giovan Battista Pacichelli sul fondo della chiesa si trovavano un’ancona dipinta da Luca Giordano e vari dipinti del Farelli, oggi purtroppo andati perduti a causa delle spoliazioni napoleoniche, come si nota dai grandi riquadri tristemente bianchi delle pareti. Ai lati dell’altare due dipinti ottocenteschi rappresentano uno La morte di San Brunone e l’altro Il martirio di San Lorenzo, mentre dietro l’altare trova posto la tela con San Lorenzo e San Bruno ai piedi della Vergine con Bambino.

Accanto alla chiesa vi sono quattro cappelle laterali: il capitolo dei conversi, la cappella dell’Ecce Homo, la cappella del Crocifisso e la cappella delle reliquie, che conserva al suo interno un reliquiario a parete ove il Pacichelli attesta la presenza di “[…] un braccio di San Lorenzo, una spina della Corona del Redentore, la camicia intiera di San Carlo Borromeo e altre”. Sempre in questa cappella è presente un affresco a figura intera di San Giovanni Battista che però, a causa delle trasformazioni della chiesa successive al Trecento che hanno portato all’ampliamento della finestra posta in essa, risulta oggi letteralmente decapitato.

Di DaianaDiRella - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=81833222 cappella del Crocifisso.

Dietro l’altare maggiore si colloca infine la Sacrestia, caratterizzata da grandi armadi in legno di noce e acero, che contenevano sia i paramenti sacri e sia le sculture di San Bruno, San Lorenzo, di San Michele Arcangelo e di una Madonna con Bambino, tutte opere di un certo Fra Stefano, converso della Certosa di Trisulti che pare le abbia realizzate nel 1686. La Sacrestia contiene un maestoso ciborio in bronzo, opera di Jacopo o Giacomo del Duca, che inizialmente si credeva fosse stato eseguito su disegno di Michelangelo Buonarroti, mentre studi successivi hanno smentito questa ipotesi. Il ciborio è situato su un altare che presenta un paliotto finemente decorato a scagliola.

Di Lucamato - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73040967 Sacrestia della chiesa di San Lorenzo con ciborio su altare con paliotto in scagliola.

 

Bibliografia

Braca A., Storia, arte e medicina nella Certosa di Padula: 1306-2006, pag. 155, in C. Carlone, Atti del convegno di studi, Padula, Monte San Giacomo, 28-29/01/ 2006

D’Anzilio M, Il monumento funebre Sanseverino nella pieve di Santa Maria Maggiore di Diano: alcune considerazioni, pp. 201-216, in Le Diocesi dell'Italia meridionale nel Medioevo. Ricerche di storia, archeologia, storia dell'arte, in Atti del Convegno, Benevento, Cerro al Volturno, Volturnia Edizioni 2019

Capano A, Il desertum vitae. Tra spiritualità, economia e ricerca della bellezza, pag. 189, in A. Baldini e A. La Greca, Uno scrigno per l’UNESCO. I siti, la cultura immateriale e le aree di interesse comunitario nel Cilento e nel Vallo di Diano. aspetti storico-antropologici, Torre Orsaia 2019

Restaino C, Le tarsie lignee della Certosa di Padula. Rapporti tra immagini e testi nel coro dei padri

ll Regno di Napoli in prospettiva, Volume 1, Arnaldo Forni editore

Redin G., Jacopo Del Duca, Il Ciborio Della Certosa Di Padula El Il Ciborio Di Michelangelo Per Santa Maria Degli Angeli

 

Sitografia

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http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/percorsi/percorso139/index.html

http://www.academia.eu


IL PERSEO DI BENVENUTO CELLINI

A cura di Luisa Generali

Introduzione alla vita di Benvenuto Cellini

Un posto d’eccezione nella scultura monumentale fiorentina del Cinquecento è riservato al Perseo e al suo autore Benvenuto Cellini (1500-1571), uno fra gli artisti più abili della corte di Cosimo I e sicuramente per ingegno e stravaganza anche uno dei personaggi più bizzarri dell’epoca, non meno inquieto di certi altri artisti noti per aver condotto una di vita di eccessi. A dispetto del suo talento che raggiunse vette altissime nella scultura, nell’oreficeria ma anche nella musica e nella poesia, Cellini trascorse un’esistenza tormentata a causa del pessimo carattere contraddistinto da un ego spropositato e iracondo, descritto anche da Giorgio Vasari “in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo”. Questa sua spavalda indole, che lo portò a macchiarsi più volte di omicidio, gli costò fin da giovanetto l’esilio a Siena, dove perfezionò le sue competenze come orefice già acquisite in parte a Firenze. Le disavventure con la giustizia precipitarono velocemente quando nel 1523 commise il primo delitto che lo costrinse a fuggire da Firenze e spostarsi a Roma, qui ottenne i favori e l’indulgenza di Papa Clemente VIII, per cui lavorò in qualità di maestro della zecca, e combatté in prima linea durante il sacco di Roma (1527). In seguito ad un incessante catena di accuse legate a litigi, risse, furti e omicidi nel 1537 Cellini si spostò a Parigi alla corte di Francesco I de Valois, dove il suo sogno d’artista libero e indipendente da ogni accademismo sembrò potersi finalmente realizzare, almeno fino al 1544 quando rientrò frettolosamente in patria a Firenze. Qui trovando l’accoglienza del nuovo regnante Cosimo I de’ Medici, lavorò senza sosta per ben nove anni alla commissione ducale del bronzo monumentale raffigurante Perseo, la sua fatica più grande e tormentata (fig.1).

Fig. 1 - Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-1554, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi. Credits: turistipercaso.it.

La personalità di quest’uomo, tipica del binomio che contraddistingue l’artista per eccellenza, geniale ma sregolato, prorompe pagina dopo pagina nella sua Vita dettata ad un garzone di bottega fra il 1558 e il 1566, in un momento di forte declino dopo che tutto l’entusiasmo intorno alla messa in opera del Perseo si spense repentinamente insieme alla richiesta di nuove commissioni. L’intento dell’opera letteraria, che assunse i connotati di un’autobiografia romanzata senza precedenti, è finalizzato alla legittimazione e al riconoscimento del proprio status di artista nella corte medicea, sfociando in una sorta di autocelebrazione personale che trova la sua massima ragion d’essere proprio nell’impresa del Perseo. Dai brani dedicati alla realizzazione dell’opera emerge una costante lotta nel superamento di sé stesso e dei suoi colleghi-rivali, che sprezza con la sua peculiare irriverenza: in particolare, la sfida si fa sempre più competitiva con Baccio Bandinelli (1493-1560), il preferito di Cosimo, che ripetutamente Cellini nella su Vita accusa di “sparlare”, alimentando i dubbi del duca nei suoi confronti e nella concreta possibilità di fusione del grande bronzo. Non mancano a questo proposito episodi macchiettistici nello studio dell’artista in cui lo stesso Cellini e il Duca, poco ottimista, discutono sull’effettiva criticità tecnica della scultura:

 

“[…] e venendo più spesso a casa, ch'ei non soleva, una volta infra l'altre e' mi disse: Benvenuto, questa figura non ti può venire di bronzo, perché l'arte non te lo promette. […] E Or dimmi, Benvenuto, come è egli possibile, che quella bella testa di Medusa, che è lassù in alto in quella mano del Perseo, mai possa venire? Subito io dissi: Or vedete, Signor mio, che se Vostra Eccellenza Illustrissima avessi quella cognizione dell'arte, che lei dice di avere, la non arebbe paura di quella bella testa, che lei dice, che la non venissi; ma sì bene arebbe da aver paura di questo piè diritto, il quale si è quaggiù tanto discosto. A queste mie parole il Duca mezzo adirato, subito si volse a certi Signori, che erano con Sua Eccellenza Illustrissima, e disse: Io credo, che questo Benvenuto lo faccia per saccenteria, il contrapporsi a ogni cosa: e subito voltomisi con mezzo scherno, dove tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e ' cominciò a dire: Io voglio aver teco tanta pazienza di ascoltare che ragione tu ti saprai immaginare di darmi, che io la creda.”

Il pensiero ossessivo intorno all’opera scatenò la furiosa reazione dell’artista nel celebre episodio dell’incendio della fucina durante la fusione della statua, quando, sebbene febbricitante dalla fatica, dopo aver appreso la notizia da un garzone, esplose in tutta la sua rabbia:

“O Benvenuto, la vostra opera si è guasta, e non ci è più un rimedio al mondo. Subito che io sentii le parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe sentito dal cielo del fuoco, e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi cominciai a vestire, e le serve e il mio ragazzo e ognuno, che mi si accostava per aiutarmi, a tutti io davo o calci, o pugna […]”

Dopo la buona riuscita della fusione, le fasi di cesellatura e rifinitura dell’opera perdurarono per ben cinque anni, fino al momento della “scopertura” sotto la loggia del Lanzi, il giorno 27 aprile 1554, evento tanto atteso che sancì in un tripudio di lodi ed encomi la vittoria personale di Cellini e il proprio primato sul panorama artistico fiorentino:

“Or come piacque al mio glorioso Signore ed immortale Iddio, io la finii del tutto, e un Giovedì mattina io la scopersi tutta. Subito, che e ' non era ancora chiaro il giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popol, che e ' saria impossibile il dirlo; e tutti a una voce facevano a gara a chi meglio ne diceva […].”

 

Il Perseo sotto la Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria

 

L’interpretazione in chiave allegorica del mito classico fu il tema più ricorrente nelle corti rinascimentali scelto per l’autocelebrazione delle casate, proprio come avvenne anche a Firenze con il Perseo, l’eroe figlio di Danae e Zeus che riuscì ad uccidere Medusa, l’unica sorella mortale delle Gorgoni. Secondo la mitologia greca il giovane eroe si offrì di portare la testa del mostro come dono nuziale al tiranno Polidette, regnante dell’isola di Serifo, dove era prigioniero insieme alla madre Danae. Perseo quindi partì per la sua impresa supportato da Atena ed Ermes, che gli donarono una serie di oggetti magici: i sandali alati per volare, un copricapo per diventare invisibile, una borsa di pelle per nascondere la testa del mostro, e un falcetto. Dopo varie peripezie il giovane riuscì a scovare il nascondiglio di Medusa, la terribile creatura dalla chioma di serpenti che pietrificava chiunque incrociasse il suo sguardo, frutto di una punizione scagliata da Atena che ingelosita dalle attenzioni di Poseidone per la ragazza decise di trasformarla in un mostro. Arrivato al nascondiglio delle Gorgoni, Perseo attaccò di spalle Medusa servendosi dell’immagine del mostro riflessa sullo scudo di Atena e sferrando così il colpo decisivo alla testa.

 

La lettura allegorica del mito in questo caso si riferisce alla nuova reggenza medicea, detentrice delle virtù morali che demolirono i nemici repubblicani, visti come mostri e personificati nella testa decapitata di Medusa, alzata trionfalmente dall’eroe. Pensata in un dialogo visivo e metaforico con La Giuditta e Oloferne di Donatello, l’esaltazione plateale della sconfitta degli avversari soggiogati e decapitati, diventa anche un monito intimidatorio dell’egemonia medicea. Le virtù civiche del regno mediceo sono invece pronunciate nell’integrità morale e fisica di Perseo, che Cellini interpreta in un nudo snello e vibrante, mosso dagli effetti epidermici delle masse muscolari (fig.2). La testa di Medusa esanime, di una bellezza ermafrodita, ricorda gli stessi tratti dell’eroe che mentre sfoggia il suo trofeo non si scompone, rimanendo severo e integerrimo (fig.3): questa similitudine fra i volti della vittima e del carnefice, secondo parte della critica, sarebbe interpretabile alla luce delle teorie neoplatoniche per cui l’eroe greco diverrebbe metafora dell’uomo virtuoso, chiamato a sconfiggere le sue stesse pulsioni primitive per innalzarsi verso la perfezione. Oltre l’impressionante precisione con cui è definita la muscolatura dell’addome, colpisce la perizia da orefice con cui sono trattati alcuni dettagli come l’estrema ricercatezza nella definizione dei boccoli dell’eroe, piuttosto che i capillari particolari dell’elmetto a forma di drago, oppure la cesta di serpenti che copre la testa di Medusa (fig.4).

Fig. 4 - Benvenuto Cellini, Perseo, dettaglio, 1545-1554, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi.

Non manca inoltre un po' del protagonismo di Cellini nella sua firma incisa in bella vista sulla tracolla, mentre guardando alla nuca dell’eroe, fra le insenature del casco e dei capelli si vede affiorare una maschera dalle fattezze umane, forse identificabile con lo stesso artista che attraverso questo strambo espediente manierista avrebbe lasciato celatamente una traccia immortale di sé sulla scultura (fig.5-6).

Il basamento

La grandiosità di questo monumento non è circoscritta al solo bronzo monumentale ma si estende secondo un orientamento verticale anche nel basamento e nella lastra bronzea sottostante, affrontando nelle varie componenti diverse tipologie di scultura: dall’opera a tutto tondo, alla lavorazione del marmo, passando per i bronzetti all’antica fino al basso e alto rilievo. Con il gruppo del Perseo Cellini affermava così la padronanza totale dell’arte scultorea in tutte le sue sfaccettature.

La base, di cui l’originale è conservato al Museo Nazionale del Bargello, si presenta come un elaboratissimo ricamo marmoreo, prova del virtuosismo tecnico dell’artista anche nella lavorazione della pietra (fig.7). L’opera si compone di immagini di varia natura, che spaziano da figure grottesche e macabre a un repertorio antichizzante e simbolico come avviene per le teste di capricorno, emblema assunto dal duca Cosimo I. Immagini inquietanti unite a elementi rigogliosi di vita, come le ghirlande di frutta e l’erme di Diana Efesia Polymastos (dai molti seni), simbolo per eccellenza di fertilità, vogliono forse richiamare il ciclo di morte e rinascita inaugurato da una rinnovata età dell’oro sotto il ducato cosimiano. Nelle quattro nicchie che si aprono su tutti i lati della base sono inserite “le belle figurine”, ovvero i bronzetti all’antica dedicati alle benevole presenze che intervennero nelle vicende di Perseo, a partire dalla madre Danae qui ritratta insieme al figlio fanciullo avuto con Zeus che si unì a lei sotto forma di pioggia d’oro. L’artista interpreta Danae come una Venere classica, dal nudo pingue e morbido, affiancata dal bambinetto che per attirare la sua attenzione solleva le braccia allungando l’esile corpicino (fig.8). Fra gli attori del mito si trova anche Zeus, padre di Perseo, restituito attraverso la tipica effige classica del dio severo e barbuto, avvolto in un ampio panneggio, mentre si prepara a scagliare una saetta (fig.9): l’impetuosa forza in potenza generata da Zeus sembra creare un turbine vorticoso che smuove realisticamente anche la sua chioma. Indispensabile al racconto mitico sono le due divinità amiche Atena, dea della guerra e della saggezza interpretata attraverso un nudo classico estremamente lineare e polito (fig.10), e lo scattante Ermes, fermato in uno curioso movimento ginnico, nel momento appena prima di elevarsi per spiccare il volo mentre alza le mani e piega una gamba, restando sulla punta di un unico piede (fig.11). Anche in questo caso il nudo mostra una gracilità che epidermicamente nasconde una complessa tensione muscolare.

Fig. 11 - Benvenuto Cellini, Ermes, 1552, Firenze, Museo del Bargello. Credits: Pinterest.

 

Secondo la testimonianza di Cellini nemmeno la duchessa Eleonora di Toledo rimase impassibile difronte la magnificenza dei quattro bronzetti, tanto che si oppose alla loro fruizione pubblica, volendoli per sé, al sicuro nelle sue stanze: una decisione ripudiata dallo stesso artista che di nascosto approfittò dell’assenza dei duchi per “impiombare” le statuette nella base per la quale erano nate, pronto a tutto pur di portare a termine il suo progetto. Con il consueto tono irriverente Cellini raccontò l’episodio:

 

[…] per più di dua ore non ragionorno mai d'altro che delle belle figurine; di sorte che e' n'era venuta una tanto smisurata voglia alla Duchessa, che la mi disse all ora: Io non voglio, che queste belle figurine si vadino a perdere in quella basa giù in Piazza, dove elle porteriano pericolo di esser guaste; anzi voglio, che tu me le acconci in una mia stanza, dove le saranno tenute con quella reverenza, che merita le loro rarissime virtuti. A queste parole, io mi contrapposi con molte infinite ragioni; e veduto che ella s’era risoluta, che io non le mettessi in nella basa, dove le sono, aspettai il giorno seguente, me ne andai in Palazzo alle ventidue ore, e trovando che il Duca e la Duchessa erano cavalcati, avendo di già messo in ordine la mia basa, feci portare giù le dette figurine, e subito le impiombai, come le avevano a stare. Oh! quando la Duchessa lo intese, e gli crebbe tanta stizza, che se e' non fussi stato il Duca, che virtuosamente mi aiutò, io l'arei fatta molto male.”

 

Chiude infine il complesso programma iconografico del Perseo il rilievo bronzeo raffigurante La liberazione di Andromeda, l’ultima parte del mito che viene narrata e incastonata nel parapetto della stessa loggia, attualmente sostituita da una copia mentre l’originale si trova Bargello (fig.12). Sempre secondo la leggenda, una volta che Perseo uccise Medusa scappò con la sua testa per tornare verso l’isola di Serifo, con l’intento di vendicarsi del tiranno che teneva prigionieri lui e sua madre Danae. Mentre sorvolava il paese degli Etiopi l’eroe s’imbatté in una fanciulla bisognosa di aiuto, Andromeda figlia di Cefeo e di Cassiopea, legata ad una roccia e data in sacrificio ad un mostro marino per placare la collera di Poseidone: a quel punto Perseo, forte del suo equipaggiamento, si precipitò ad uccidere il mostro liberando Andromeda che in seguito divenne sua sposa. La vicenda, narrata con l’ausilio del rilievo che passa da un grado di aggetto molto alto all’incisone, è costruita intorno alla figura centrale della fanciulla, ritratta nuda con i lunghi capelli sciolti e mossi dal vento, stretta fra il pericolo del mostro che sta per divorarla e il capannello di astanti disperati. La cifra stilistica adottata da Cellini fa riferimento alla drammaticità di certi rilievi di Donatello, da cui trae l’intensità espressiva di alcuni personaggi (sconcertante è il grido lanciato dall’uomo in fondo la scena) e la tagliente incisività del modellato. Giocando sull’alternanza tra i repentini passaggi di aggetto mossi dalla contrastante alternanza di luce e ombre, il rilievo acquista profondità e una vena narrativa nuova, molto vicina alla pittura.

Fig. 12 - Benvenuto Cellini, Liberazione di Andromeda, 1553, Firenze, Museo del Bargello.

 

Bibliografia

Cellini, Vita di Benvenuto Cellini orefice e scultore fiorentino scritta da lui medesimo, pubblicata dal Dottor Francesco Tassi, Tomi 3, Firenze 1829.

Vasari - Degl'accademici del disegno, pittori, scultori et architetti e dell'opere loro e prima del Bronzino, 1568, in Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, edizione Giunti-Newton Compton Editori 1997.

Testo digitalizzato

https://it.wikisource.org/wiki/Le_vite_de%27_pi%C3%B9_eccellenti_pittori,_scultori_e_architettori_(1568)/Accademici_del_Disegno_e_il_Bronzino

Pegazzano, Cellini e la scultura francese del Cinquecento, Firenze 2008.

Mariucci; C. Sirigatti, L. Spano, G. Uzzani, P. Zanieri, Toscana da non perdere. Guida ai 100 capolavori, Firenze 2008, pp. 32-33.

Capriotti, L alibi del mito: unaltra autobiografia di Benvenuto Cellini, Genova 2013.

Palumbo, “Un tema narrativo nella "Vita" di Benvenuto Cellini: "l’impresa" del Perseo”, in Biblioteca dell"Archivum Romanicum", 375,1 – 2011, pp. 305-317.

 

Sitografia

Camesasca, CELLINI, Benvenuto, in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979). Testo online: https://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-cellini_(Dizionario-Biografico)/

www.polomuseale.firenze.it - http://www.polomuseale.firenze.it/areastampa/files/53185184f1c3bc7c07000000/02%20SALA%20MICHE_PDF.pdf


IL FORTE DI GAVI SECONDA PARTE

A cura di Simone Rivara

Introduzione

Nel seguente articolo, con cui si intende proseguire la descrizione del Forte di Gavi del mese precedente, ad una prima introduzione sugli interventi di restauro effettuati sul complesso seguirà una descrizione dell’“ecosistema” del forte, dalla strutturazione delle sue gerarchie a questioni di natura manutentiva.

Interventi di restauro

Il Forte di Gavi fu consegnato alla Soprintendenza nel 1946. Essendo una “cava” di materiali, venne depredato nel dopoguerra e al momento dell’intervento di restauro si trovava in evidente stato di degrado. Il restauro vero e proprio fu lungo e complesso, a causa della difficile orografia del luogo (si fece largo utilizzo della manodopera per ovviare all’impossibilità di portare sul posto un numero elevato di mezzi meccanizzati), ma consentì di riportare alla luce fuciliere, cannoniere, proiettili, paramenti murari nascosti nonché la rete idrica di alimentazione delle cisterne.

I primi interventi furono effettuati nella parte seicentesca del Forte, realizzata dal Fiorenzuola: detta anche “Cittadella", al suo interno erano ubicati, oltre agli alloggi dei soldati, una cappella ed un porticato. Di quest’ultimo, chiuso nei primi anni del ‘900 (figura 1) emerse nel corso dei lavori l’antica decorazione pittorica (figura 2). Sui due lati lunghi della Cittadella, poi, per rifare le facciate dei corpi di fabbrica nord e sud, venne utilizzato un intonaco colorato in pasta e lavorato “grezzo", come si usava nel Seicento; all'interno del fabbricato a nord vennero inoltre ricavati alcuni spazi espositivi e una sala convegni, rispettivamente a partire dalle celle e da uno spazio che probabilmente doveva essere un'infermeria, dopo un lungo lavoro sui paramenti murari in pietra, sugli infissi e sulla pavimentazione. Tutti gli interventi sono stati realizzati seguendo i principi del restauro critico.

La vita nel Forte: la struttura gerarchica

"Il bravo storico è come l'orco della fiaba: dove sente odore di carne umana, lì c'è la sua preda"

(Marc Bloch, Apologia della Storia)

A capo della gerarchia nel Forte di Gavi c’era il castellano, il quale, in base ai poteri conferitigli dalla Repubblica di Genova, aveva facoltà di vita e di morte sui soldati percependo uno stipendio che, nel 1529, ammontava a quaranta lire al mese. La carica era di durata annuale: durante questo periodo il castellano doveva risiedere all'interno del Castello e solo eccezionalmente (nel caso di problemi di salute) poteva ricevere il permesso di assentarsi. Quando nel 1528 i genovesi, dopo aver preso possesso del Forte di Gavi, lo posero sotto il comando di Ettore Fieschi, diedero a quest’ultimo ordini ben precisi:

La principal cura vostra è che guardate quel loco da nemici, che vi sono pur troppo propinqui, et per salvarlo bisogna che siate molto avertente, et facciate che le guardie siano fidatissime […] voi stesso dormirete in Castello ¹

La Repubblica di Genova, dal canto suo, si impegnava ad emanare i Capituli et ordini da observare in lo Castello di Gavi, una serie di procedure (destinate al gestore del Castello) da osservare per una corretta amministrazione. Per prima cosa i Capituli imponevano ai soldati un comportamento da “homini e non da bestie", con specifici riferimenti alla creanza religiosa. Nello specifico, qualsiasi forma di bestemmia era severamente vietata e punita: in caso di trasgressione, infatti, la pena (un'ammenda in denaro di 5 soldi) poteva, nei casi di recidiva, condurre il colpevole alla pubblica fustigazione.

I Capituli regolamentavano con precisione anche il tempo libero dei soldati, i quali, in numero massimo di quattro alla volta e per un’ora sola al giorno, erano liberi dalle loro mansioni dovendo tuttavia portare sempre le armi con loro. La vendita delle armi, infatti, era addirittura punita con la prigionia. Per ciò che riguarda l’introduzione delle donne all’interno del forte, essa era subordinata non solo al benestare del castellano, ma addirittura al placet del governo genovese. Erano puniti molto severamente (talvolta anche con la morte) anche i litigi e le violenze reciproche tra commilitoni. Vietata, ovviamente, anche l’appropriazione indebita dei beni in dotazione al castello, punita con pene sia pecuniarie che corporali (sempre nei casi di recidiva).

La guardia e il sistema di sicurezza

La vita nel Forte, documentata dalle poche carte d’archivio superstiti, era fortemente regolamentata e decisamente dura. Le epidemie, come quelle di vaiolo, erano frequenti, e favorite dalle precarie condizioni igieniche a cui erano sottoposti i soldati (i quali dormivano, spesso condividendoli, in austeri giacigli riempiti con semplice paglia). Questi ultimi erano costretti a turni di guardia durissimi. Gruppi di sentinelle, selezionati con il lancio dei dadi - e il cui numero raddoppiava nelle ore notturne – presidiavano i due bastioni di vedetta (figura 4). Le guardie si aiutavano reciprocamente a mantenere un costante stato di veglia percuotendo delle tavole di legno e ripetendo queste operazioni dalle dodici alle quindici volte all’ora. Compito del capo turno, estratto anch’esso a sorte, era mantenere sveglie le guardie fino ai tre rintocchi della campana del torrione che sancivano il cambio della guardia.

Fig. 4 - Planimetria del Forte di Gavi dopo gli interventi del Fiorenzuola. Da http:/www.gavi.info/prospetto.htm.

Un aspetto curioso circa le guarnigioni militari di Gavi è costituito dal fatto che esse, fino alla fine del XVII secolo, poi, non possedevano neanche una vera e propria divisa. Fu solo nel 1654, infatti, che alle sentinelle venne fornito un cappotto rudimentale (cabano) per permettere loro di affrontare meglio le temperature più rigide. La mancanza di uniformi rendeva difficoltoso anche il riconoscimento dei soldati, che erano divisi in gruppi in base agli incarichi loro affidati. Per ovviare a questo problema i comandanti inizialmente facevano portare ai vari gruppi di soldati dei ramoscelli, collocati sul cappello o nella cinta, o una banda colorata sugli abiti. Il difficile riconoscimento dei soldati poteva causare gravi inconvenienti di gestione, o addirittura incidenti mortali, specialmente durante le battaglie. I soldati della Repubblica di Genova furono dotati di divise solo a partire dal 1721 (figura 6).

Fig. 6 - Uniforme dei soldati “scelti” di Gavi. Da Pinterest.it.

L’accesso alle risorse idriche

Il rifornimento d’acqua era un problema primario nel Forte che, data la posizione, non poteva accedere alle risorse idriche di fiumi o ruscelli. Vennero perciò predisposte grandi cisterne adibite alla raccolta dell’acqua piovana, alimentate da un complesso sistema di canali di scolo e grondaie. Le cisterne nel Forte erano quattro: la più grande, collocata nella Cittadella, poteva contenere quasi due milioni di litri d’acqua (figura 5).

Fig. 5 - Progetto per la cisterna della Cittadella.

La frequente fuoriuscita di acqua dalle cisterne rese necessaria, nel 1595, la costruzione di un nuovo sistema di condutture idriche, completata grazie all’intervento di una squadra di tre massacani (muratori), coadiuvata da diversi garzoni e manovali che comprendevano anche alcune donne. I lavoratori realizzavano i canali di scolo venivano costruiti dall’assemblaggio di prefabbricati, a loro volta realizzati dagli scalpellini della vicina cava della pedrera, trasportati fino al forte per mezzo di carri. Una volta assemblati, i condotti venivano verniciati con una speciale sostanza a base di uova, olio, vernice e ossido di ferro (molto simile a quella utilizzata nella pittura a tempera), impiegata per impermeabilizzare e facilitare lo scorrimento dell’acqua.

Note

¹Armando Di Raimondo, Il forte di Gavi (1528-1797), p. 21.

Bibliografia

Francesco Pernice, Il Forte di Gavi, Torino, Celid, 1997;

Armando Di Raimondo, Il Forte di Gavi (1528-1797), Genova, Erga, 2008;

Arturo Dellepiane, Polcevera-Lemme-Scrivia-Borbera. Itinerari di arte e di storia, Genova, Tolozzi, 1966.


ANTONIO CANOVA: IL MUSEO E LA GIPSOTECA

A cura di Alice Casanova De Marco

Introduzione

Antonio Canova nacque il primo novembre del 1757 a Possagno, un piccolo paesino alle falde del massiccio del Monte Grappa, in provincia di Treviso. Oggi la città di Possagno conserva e valorizza un notevole patrimonio artistico, costituito da dipinti, gessi, calchi, ma anche scorci di quella che era la vita quotidiana del Canova, come l’arredamento e i numerosi libri da lui consultati. Tutto ciò è racchiuso e visitabile all’interno del “Museo e Gipsoteca di Antonio Canova”, uno dei primi musei del Veneto, che vede la sua sede proprio nella Casa Natale dell’artista. Oltre alla dimora natia - divenuta ora Pinacoteca - il complesso del Museo è costituito anche da un’Ala Ottocentesca - la Gypsotheca - e da un’Ala Novecentesca, progettata dall’architetto Carlo Scarpa.

Fig.1 - Interno della Casa Natale.

La Casa dell’artista si presenta come un’abitazione tipicamente veneta, costituita da un corpo centrale che si sviluppa su più piani e da vari annessi come la cantina, i lunghi portici per il deposito dei materiali da lavoro e la stalla per gli animali da traino. L’edificio che vediamo oggi è il risultato di alcune ristrutturazioni messe in atto dopo il terremoto del 1695 - che provocò crolli e danni in gran parte della città - e le modifiche apportate dal Canova stesso tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Tra queste modifiche è ad esempio la realizzazione della Sala degli Specchi e la costruzione della Torretta, sala un tempo adibita allo studio e ad uso biblioteca (2.575 volumi), ora utilizzata come archivio per i busti di gesso realizzati dall’artista. In generale, la casa natia risulta essere di grande importanza per l’arte veneta, non solo perché conserva gli arredi originali Ottocenteschi, ma soprattutto perché ospita al suo interno una ricca raccolta di tempere e oli realizzati dall’artista. Nonostante Antonio Canova sia per lo più conosciuto come uno dei più grandi scultori neoclassici, ci furono due momenti specifici della sua vita durante i quali egli scelse di allontanarsi temporaneamente dal terreno della scultura per dedicarsi a quello della pittura. Il primo momento pittorico risale al soggiorno a Roma, avvenuto tra il 1783 e il 1790, durante il quale l’artista realizzò ad esempio Venere con lo specchio, (1785) [fig.2] una delle sue prime opere pittoriche, nella quale si nota l’ispirazione ai modelli veneziani o a Guido Reni. Rimandi al classicismo romano sono invece presenti nella seconda Venere dipinta dallo stesso, la Venere con Fauno (1792) [fig.3], la cui figura allungata ed innaturale denota la volontà dell’artista di porvi una nota personale.

Del secondo periodo, 1798-99, fanno invece parte le cosiddette “Tempere di Possagno”, una raccolta di tempere e disegni i cui soggetti traggono ispirazione dalle pitture parietali di Ercolano e vedono come protagoniste Ninfe con amorini, Muse con filosofi e poeti, e Danzatrici [Figg. 4-5]. La danza, motivo emblematico dell’arte canoviana, è il denominatore comune di queste tempere nelle quali emerge «una visione del corpo umano che si sublima nello slancio e nel ritmo» (1). Particolarmente interessante inoltre, è la tecnica e l’insieme di materiali utilizzati dall’artista per la realizzazione di queste opere, ovvero la “tempera all’uovo su tavola”, un miscuglio di pigmenti naturali, tuorlo d’uovo, qualche goccia d’acqua, aceto, alcol o latte di fico.

La Gipsoteca

La costruzione della Gipsoteca – termine che deriva dal greco e significa “raccolta di gessi” - fu voluta dal fratellastro di Antonio Canova, Gian Battista Sartori Canova (1775 - 1858), che divenuto legittimo proprietario di tutti i beni alla morte del fratello, volle raccogliere i gessi presenti nello studio dell’artista a Roma e collocarli a Possagno. Lo spostamento delle opere, iniziato nel 1829, fu un evento inusuale per l’epoca; un’operazione delicatissima e molto costosa, resa possibile soprattutto grazie alla posizione di vescovo del Sartori. Nei mesi di giugno e luglio, 103 casse sezionate e numerate dal bassanese Pietro Stecchini, contenenti gessi, dipinti e marmi lasciarono Roma per essere prima trainati da cavalli e buoi fino a Civitavecchia e poi essere imbarcati in direzione del porto di Marghera. Da qui, le opere furono stipate a Possagno, in attesa della costruzione della Gipsoteca.

I lavori di progettazione della cosiddetta “Nuova Fabbrica a uso Galleria” (2), ebbero inizio nel 1834 e furono affidati a Francesco Lazzari (1791-1891), professore di architettura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e già attivo nella sistemazione delle Gallerie dell’Accademia. Nonostante i pesanti bombardamenti del Primo conflitto Mondiale (3) [Figg. 8-9], la Gipsoteca rispecchia tuttora l’iniziale progetto di Lazzari: una grande aula basilicale composta da tre moduli quadrati di uguali dimensioni ed un maestoso abside a conclusione della sala. Il soffitto, alto e solenne, è a botte cassettonato, intervallato da tre lucernari che fungono da unica fonte di illuminazione. L’idea di voler realizzare un’illuminazione zenitale fu particolarmente originale, in quanto permise di sfruttare l'integrità delle pareti per esporre bassorilievi e busti evitando dunque di dover sacrificare dei tratti di superficie per aprire le finestre. In generale, la conformazione architettonica della struttura è di grande fascino e tende a condurre naturalmente lo sguardo dell’osservatore verso il fondo della galleria, in direzione dell’abside.

Quest’ultima, ingegnosamente rialzata, dava un tempo ulteriore spicco alla statua della Religione Cristiana (1813) [Fig. 10], mentre ora, in seguito agli spostamenti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale, mette in risalto l’imponente gruppo di Ercole e Lica (1795-1815).

Fig. 10 - Gipsoteca prima del Secondo Conflitto Mondiale. All'interno dell'abside vi è la statua della Religione Cristiana.

Nel 1836 i lavori furono finalmente completati e nel 1844 il Museo fu accuratamente allestito da Sartori il quale suddivise i gessi per soggetti e dimensioni, separando le statue sacre dalle Ninfe, dalle Veneri e dalle Danzatrici, ed organizzò l’itinerario secondo un unico percorso longitudinale.

Negli anni 1953-1957 la costruzione Ottocentesca di Lazzari fu affiancata da un nuovo spazio, la cui progettazione venne questa volta affidata al celebre architetto Carlo Scarpa (1906 - 1978). La nuova struttura nacque dall’esigenza di voler valorizzare il patrimonio canoviano che giaceva nel deposito, ed esporre in modo adeguato i modellini in gesso e in terracotta. L’ala è composta da un’alta sala a torre e da un corpo allungato che si restringe fino a condurre lo sguardo in direzione di una piscina, davanti alla quale sta il gruppo de Le Grazie. L’ambiente appare fortemente illuminato grazie alla presenza di ampie vetrate e finestre angolari, una soluzione di grande effetto scenografico, ma anche funzionale, in quanto trattandosi di statue in gesso, vi era la necessità di uno spazio molto luminoso.

Fig.13 - Aula Scarpa con dettaglio delle finestre a prisma.

Il Tempio

Fig.14 - Il Tempio di Possagno.

Da qualsiasi direzione si provenga, giunti nelle prossimità di Possagno è impossibile non notare il maestoso Tempio che si erge in cima alla collina a nord della città. Dedicato alla Trinità, come riporta l’incisione latina DEO OPT MAX UNI AC TRINO (4), il tempio è stato realizzato dove un tempo sorgeva la chiesa del paese. Antonio Canova infatti, desiderava che il tempio stesso divenisse la chiesa principale e che fosse un dono da lui offerto alla religione Cristiana. Sebbene pianificato dall’artista stesso, il disegno del progetto fu opera di Pietro Bosio con alcuni suggerimenti dell’architetto Antonio Selva, ed è caratterizzato da un insieme di tre componenti architettoniche. Nonostante sia complessivamente neoclassica, la struttura presenta un colonnato dorico – due file di otto colonne che richiamano il Pantheon di Atene – una parte centrale di forma cilindrica simile al Pantheon di Roma ed infine un’abside rialzata come quelle delle antiche Basiliche Cristiane.

 

Note

(1) M. PRAZ, G. PAVANELLO (a cura di), L'opera completa del Canova, Milano, Rizzoli, 1976, p.139

(2) Come si legge nel Libro mastro della Fondazione Canova datato 1829-36.

(3) Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1917, una granata austriaca cadde e devastò gran parte dei gessi presenti all’interno della Gipsoteca.

(4) Dio ottimo e massimo, uno e trino.

 

Bibliografia

BASSI (a cura di), Antonio Canova, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1943.

CUNIAL, M. PAVAN, Antonio Canova. Museum and Gipsoteca, Grafiche V. Bernardi, Pieve di Soligo (TV)

GUDERZO, Gipsoteche. Realtà e Storia. Atti del convegno internazionale di studi, Treviso, Edizioni Canova, 2008

PASTRO, Le fondazioni per i beni culturali in Italia: qualche esempio dalla Marca Trevigiana, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Facoltà di Scienze Economiche per l’ambiente e la cultura, Anno Accademico 2011/2012.

PRAZ, G. PAVANELLO (a cura di), L'opera completa del Canova, Milano, Rizzoli, 1976.

ROSSI (a cura di), Catalogo Illustato delle opere di Antonio Canova: Gipsoteca e Tempio di Posagno, Libreria Editrice Canova, Treviso.

 

Sitografia

www.museocanova.it

 

Immagini

www.museocanova.it

Pagina Facebook del Museo e Gypsotheca Antonio Canova


LE OPERE DI VASARI A BOSCO MARENGO PARTE II

A cura di Francesco Surfaro

Introduzione

In questa seconda parte dedicata alle opere realizzate, tra 1566 e 1569, da Giorgio Vasari su commissione di papa Pio V Ghislieri per la chiesa conventuale di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo (AL) verranno arontate le problematiche legate alla genesi e alle ipotesi ricostruttive del perduto altare maggiore vasariano.

Giorgio Vasari: una nuova commissione per Santa Croce

Il 25 febbraio del 1567 Giorgio Vasari si recò alla volta della Città Eterna per sottoporre all'intransigente giudizio del papa regnante, Pio V Ghislieri, l'opera che quest'ultimo gli aveva commissionato all'inizio dell'estate precedente per una delle cappelle laterali dell'edificanda chiesa conventuale dei Padri Domenicani di Santa Croce e Ognissanti a Bosco Marengo: l'Adorazione dei Magi. Evidentemente soddisfatto del superbo lavoro eseguito il pontefice, approfittando della presenza del suo artista ufficiale nell'Urbe, gli richiese l'elaborazione di un progetto molto più articolato e ambizioso rispetto al precedente, stavolta non per una cappella laterale, ma per l'altare maggiore della medesima chiesa boschese il quale, con ogni probabilità, doveva essere stato meditato già da diverso tempo. È noto infatti che, già dal 1562, Ghislieri - all'epoca ancora porporato - aveva in mente di far innalzare un complesso monastico nel proprio borgo natio, pensato in origine non come una sorta di "cattedrale nel deserto" (sorge infatti fuori le mura civiche), quale poi rimase effettivamente al momento della sua dipartita, ma come il cuore pulsante di un nucleo cittadino di nuova fondazione che avrebbe dovuto inglobare i centri di Bosco e della non lontana Frugarolo.

Domìnikos Theotokòpoulos detto "El Greco": Ritratto di Pio V. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

 

Come nel caso dell'Adorazione dei Magi è Vasari stesso, nella sua autobiografia e nel suo fitto carteggio intrattenuto col tesoriere segreto e Primo Cameriere pontificio Monsignor Guglielmo Sangalletti, a fornire puntualmente informazioni precise su questa nuova onerosa commissione papale, la quale andava a sommarsi alla già insostenibile mole di impegni a cui doveva far fronte in questo periodo frenetico e convulso della sua carriera:

«[...] (Il Papa) mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una macchina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte […].»

'Le Vite de' più Eccellenti Pittori, Scultori et Architettori', Autobiografia (ed.1568).

Jacopo Zucchi: Ritratto di Giorgio Vasari, 1571-74. Firenze, Galleria degli Uffizi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

In alcune missive indirizzate allo storico Vincenzo Borghini, suo caro amico, e a Francesco de' Medici, figlio di Cosimo I e futuro Granduca di Toscana, Vasari illustrò certe sue idee per la grande macchina di Santa Croce, accostando questo progetto ad analoghi altari lignei da lui realizzati in patria: l'altare dell'Eremo di Camaldoli (1540), l'altare della Badia Fiorentina (1568) e quello della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo (1564). Dei tre menzionati soltanto l'ultimo, trasferito nella seconda metà del XIX secolo presso la Badia aretina delle Sante Flora e Lucilla, è sopravvissuto - seppur con qualche sensibile rimodulazione relativa perlopiù al basamento - alle ingiurie dei secoli.

Pio V concesse a Vasari di poter lavorare al polittico presso la propria bottega fiorentina, all'interno della quale avrebbe potuto contare sull'aiuto dei suoi più fidati allievi e collaboratori. Una volta portata a compimento la commissione, i vari scomparti sarebbero stati imbarcati da Pisa alla volta di Genova e da lì inviati a Bosco via terra. Giunto a Firenze all'inizio della primavera del 1567, Vasari si mise subito all'opera disegnando studi preparatori da inviare a Roma per ottenere un parere da Sua Santità. Di questi rimangono soltanto due, entrambi relativi alla tavola centinata raffigurante il Giudizio Universale che, in origine, campeggiava sulla faccia anteriore del polittico. Il primo si conserva a Parigi, presso il Cabinet des Dessins del Musée du Louvre, l'altro invece trova la propria collocazione alla Fondazione Ratjen di Vaduz, in Liechtenstein. La bozza parigina riveste un'importanza straordinaria in quanto, assieme ad un particolare visibile sullo sfondo di una pala collocata sull'altare della Cappella di Sant'Antonino in Santa Croce, costituisce l'unica testimonianza grafica nota in grado di restituire un'idea di come doveva presentarsi la Macchina Vasariana prima dello scellerato smantellamento settecentesco.

Giorgio Vasari (e Jacopo Zucchi?): Studio preparatorio per la macchina d'altare di Bosco Marengo, 1567, inchiostro su carta. Parigi, Musée du Louvre - Cabinet des Dessins.

 

In una lettera datata 28 giugno 1567 Monsignor Sangalletti informava Vasari che il disegno preparatorio per l'altare di Bosco, identificabile forse proprio con quello del Louvre, era arrivato a destinazione con un messo d'eccezione: Battista di Bartolomeo di Filippo Botticelli. Nativo come Vasari di Arezzo, Botticelli era, oltre che un talentuoso maestro d'ascia, anche uno dei più stimati pupilli dell'artista. Fu proprio grazie all'autore de 'Le Vite' che questi si aggiudicò, con una procedura tutt'altro che trasparente, la commissione del nuovo soffitto alla veneziana del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Vasari avrebbe voluto fargli affidare anche la realizzazione dell'apparato ligneo della grande macchina di Bosco ma, per problemi di natura logistica, Pio V ignorò le pressioni esercitate dal proprio artista ufficiale volte a favorire in maniera alquanto spudorata il suo protetto e decise di conferire l'incarico ad una bottega di maestri legnaiuoli che si trovava già in loco, ovvero quella capeggiata dal fivizzanese Giovanni Gargiolli, attivo in quel tempo anche nel coro del Duomo di Santa Maria Assunta a Siena.

Per dare corpo all'altare più grande mai delineato dalla china vasariana Gargiolli si avvalse di alcuni aiuti per quanto concerneva la parte strettamente figurativa, fra questi emerge il nome di Giovanni Angelo Marini detto "il Siciliano", uno degli scultori operanti nel cantiere della Certosa di Pavia e alla Veneranda Fabbrica del Duomo di Santa Maria Nascente a Milano, la cui mano fu abile nel coniugare i modi tipici della Maniera centroitaliana ad un linguaggio inequivocabilmente legato al gusto degli ambienti meneghini.

Le ipotesi ricostruttive della Macchina Vasariana

Prima che, tra 1709 e 1710, nel corso dei lavori di rifacimento decisi in vista dell'imminente canonizzazione di Pio V, i domenicani ne decretassero lo smembramento e la parziale dispersione, la monumentale Macchina Vasariana di Bosco Marengo, capolavoro della carpenteria, della scultura e della pittura tardo-cinquecentesche, con i suoi 10,50 metri di altezza e 6,40 di larghezza si ergeva maestosa presso la crociera dell'ampia struttura longitudinale a croce latina, al di sotto della cupola ottagonale, in posizione leggermente avanzata rispetto all'arco trionfale.

Pur essendoci alcune discordanze fra le uniche attestazioni visive dell'opera antecedenti allo smontaggio (la proposta progettuale del Louvre e la Pala di Sant'Antonino), grazie ad un raffronto fra esse e alle notizie desumibili dagli scritti di Vasari e dalla "Istoria del convento di Santa Croce e Tutti i Santi della Terra del Bosco" (1783) di fra' Guglielmo della Valle, primo storico del complesso monastico di Bosco, è possibile avanzare delle ipotesi di ricostruzione non troppo lontane dalla realtà.

L'altare bifronte in legno di pioppo dorato a foglia, andato completamente distrutto nella sua parte architettonica, si presentava con un impianto prismatico a base rettangolare riccamente ornato con le già citate pitture su tavola dipinte da Vasari e dalla sua bottega, bassorilievi in noce, emblemi e sculture.

Giovanni Gargiolli (o bottega di): Emblema dell'Ordine Domenicano, 1567-69, legno di noce. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Ai lati della mensa, rialzata dal piano di calpestio mediante tre scalini, erano disposti due stemmi, uno riferito all'Ordine dei Frati Predicatori (scudo cappato di bianco e nero con una stella a sei punte, un cane pezzato che tiene una fiaccola accesa tra le fauci, un ramo di palma e uno stelo di giglio incrociati), già nel transetto sinistro, sulla porta d'accesso alla Cappella delle Reliquie ed oggi collocato presso il Museo Vasariano, e l'altro appartenente a Pio V (tre bande rosse su campo dorato), ora posizionato a mo' di fastigio sull'altare della Madonna del Rosario, nell'omonima cappella a sinistra della navata. Osservando in modo analitico lo studio preparatorio del Louvre si nota che, nella mente del progettista, entrambi gli emblemi araldici intagliati sul basamento dovevano riferirsi al pontefice committente ma, in fieri, si decise di aggiungere il blasone domenicano per omaggiare l'ordine che aveva in custodia l'intero complesso conventuale e di cui, peraltro, lo stesso Ghislieri era membro. Nel livello architettonico successivo si innestava la predella, ornata da vari scomparti raffiguranti episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento volti ad esaltare il Mistero del Sacrificio Eucaristico, accostati fra loro secondo una retorica tipologica derivante dall'esegesi patristica che consiste nel rintracciare in episodi biblici la prefigurazione di eventi narrati nei quattro Vangeli sinottici. Riguardo il tabernacolo eucaristico che costituiva il fulcro della predella non vi è certezza su quale fosse la sua reale conformazione: nel disegno del Cabinet des Dessins appare come una struttura tripartita, costituita da un corpo centrale aggettante sovrastato da un timpano centinato e affiancato da due nicchie abitate da figurine in atteggiamento orante; volgendo invece lo sguardo alla pala d'altare del tardo Cinquecento custodita presso la Cappella di Sant'Antonino si noterà che il ciborio riproduce la forma di un tempietto a base rettangolare, sostenuto da esili colonnine binate, coronato da un timpano con sommità aperta e sovrastato da un cupolino su cui svetta un piccolo globo crociato. Su un plinto con girali di foglie acantacee inframmezzati da elementi ornamentali (forse mascheroni) poggiavano coppie di semicolonne di ordine tuscanico. Lungo la trabeazione si snodava un fregio ritmicamente scandito dal susseguirsi di triglifi e metope. Completavano la decorazione del penultimo livello architettonico quattro scomparti ovoidali raffiguranti i Dottori della Chiesa. A coronamento della Macchina era posto un attico sormontato dal Crocifisso ligneo dipinto e impreziosito da inserti dorati opera di Giovanni Angelo Marini, che attualmente domina l'altare maggiore settecentesco in marmi policromi del genovese Gaetano Quadri, e da tre o forse quattro sculture di Profeti, disperse nel corso del XIX secolo. Dalla testimonianza di fra' Guglielmo della Valle si apprende l'esistenza di due porticine laterali tramite le quali i frati, attraversando delle anguste rampe di scale interne al polittico, potevano accedere al fastigio. Il domenicano aggiunge inoltre che queste porte erano provviste di «intaglij bellissimi» riferibili a Giovanni Gargiolli ritraenti un "Noli me Tangere", conservato tuttora nel Museo Vasariano di Santa Croce, e "l'Ingresso di Cristo a Gerusalemme", oggi ubicato a Castellazzo Bormida presso la Chiesa di Santa Maria della Corte. Oltre a questi due bassorilievi in legno di noce espressamente citati da della Valle, gli studiosi ne hanno individuati altri due: uno, collocato accanto al sopracitato Noli me Tangere di Santa Croce, rappresenta Cristo e la Samaritana al pozzo, l'altro, recentemente rinvenuto a Roma nei depositi del Museo Nazionale di Palazzo Venezia, ritrae la Cena a casa di Simone il Fariseo.

Il prospetto principale del fastoso apparato liturgico mostrava, come già anticipato in precedenza, la grande tavola centinata del Giudizio Universale; sul verso trovava posto una pala uguale per forma e dimensioni alla prima raffigurante il Martirio di San Pietro da Verona; i fianchi accoglievano due tavole rettangolari con coppie di Santi Domenicani, accompagnate da quattro scomparti ritraenti episodi tratti dalle vite dei medesimi santi. Presumibilmente sul fianco sinistro dovevano essere ubicati i Santi Vincenzo Ferrer e Tommaso d'Aquino con le tavolette rappresentanti "San Vincenzo che resuscita che un morto" e "La Visione di San Tommaso", mentre sul fianco destro avrebbero potuto esserci i Santi Domenico di Guzmán e Antonino da Firenze attorniati dai riquadri con "San Domenico che resuscita di Napoleone Orsini" e "L'elemosina di Sant'Antonino".

Poco chiara rimane l'esatta disposizione sulla predella dell'altare delle formelle con episodi vetero e neotestamentari che alludono al Sacramento dell'Eucaristia. Se si sceglie di attenersi alla ricostruzione offerta dalla bozza parigina pare che, sul fronte, fossero presenti quattro scomparti. Plausibilmente questi avrebbero potuto essere: "L'incontro tra Abramo e il Sommo Sacerdote Melchisedec", "La Caduta della Manna", "L'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica". A questo punto, ragionando per esclusione, il retro avrebbe dovuto accogliere "Il Sacrificio di Caino e Abele" e "Il Sacrificio di Isacco".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sul disegno del Louvre, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Se, di contro, si prende in considerazione la veduta dell'altare sullo sfondo della pala raffigurante "Sant'Antonino che libera un'ossessa", opera di un anonimo pittore di ambito lombardo, sembra che i pannelli sul recto fossero soltanto due, verosimilmente: "l'Ultima Cena" e la "Pasqua Ebraica".

Ricostruzione in 3D della Macchina Vasariana basata sulla Pala di Sant'Antonino, realizzata dal Laboratorio di Visione Artificiale dell'Università di Pavia con la tecnologia QuickTime VR. Fonte: linelab.eu.

Dei quattro ovali con i Dottori della Chiesa e dei quattro pennacchi con i Profeti posti a completamento del vertice della macchina d'altare non si conosce la sorte, meno che per un busto di vescovo variamente identificato con Sant'Ambrogio o con San Donato, rinvenuto a Tatton Park, nella Contea del Cheshire in Inghilterra.

Giorgio Vasari: Busto di Santo Vescovo (Sant'Ambrogio o San Donato?), 1569, olio su tavola. Tatton Park, National Trust. Fonte: Wikimedia Commons. Copyright fotografico: National Trust - Tatton Park.

 

La corrispondenza epistolare tra Sangalletti e Vasari proseguì fino al 10 luglio del 1569, data indicata da lui stesso ne "Le Ricordanze" come la conclusione dei lavori relativi alla sola parte pittorica. Le tavole, tuttavia, non furono inviate a Bosco prima dell'anno seguente, in quanto era necessario attendere che Gargiolli portasse a compimento i singoli elementi lignei della struttura architettonica e che venisse ultimata la copertura della crociera. Pio V avrebbe voluto che Vasari in persona sovrintendesse all'assemblaggio della macchina d'altare, ma l'artista contravvenne al volere del pontefice non seguendo i dipinti, che vennero imbarcati a Pisa per Genova nel luglio del 1570 ed arrivarono a destinazione a settembre. Né l'autore del progetto né il committente videro mai l'opera ultimata in tutte le sue componenti.

Giorgio Vasari: "Il Giudizio Universale", 1568, olio su tavola di pioppo. Cornice settecentesca di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo (1712-13). Bosco Marengo, Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti - abside della chiesa. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

A seguito dello smembramento della «macchina grandissima» il Giudizio Universale - unico fra gli scomparti a riportare la firma di Vasari e la data del 1568 - venne arricchito da una sontuosa cornice tardo-barocca in legno dorato, opera di Pietro Girolamo Chiara e Giovanni Santo, percorsa da tralci di foglie acantacee e affiancata da quattro putti (dei quali due, collocati sulla sommità, sorreggono una ferula papale, un pastorale e lo stemma di Pio V coronato da un triregno) e collocato nell'emiciclo absidale, sopra il coro gargiolliano. La Pala del Martirio di San Pietro da Verona - eseguita da Vasari in collaborazione con Jacopo Zucchi - fu collocata nel braccio destro del transetto, accanto al Mausoleo di Pio V. Le coppie di Santi Domenicani vennero posizionate ai lati dell'arco trionfale mentre le varie formelle furono dislocate fra la chiesa e il convento. Attualmente "Il Martirio di San Pietro da Verona" e gli scomparti minori del polittico sono esposti al Museo Vasariano, allestito nell'ottobre del 2011 all'interno del Complesso Monumentale di Santa Croce e Ognissanti nei locali della Sala Capitolare e della Sacrestia.

Giorgio Vasari: "Martirio di San Pietro da Verona", 1569, olio su tavola di pioppo. Bosco Marengo, Museo Vasariano. Si noti la cornice, che è ancora quella originale eseguita dal Gargiolli. Fonte: Sito ufficiale del Museo Vasariano.

La Macchina di Vasari: commissione devozionale o manifesto politico?

Nel tardo Cinquecento l'utilizzo di tavole lignee anziché di tele come supporto per la pittura suonava già anacronistico, così come appariva ormai antiquata la commissione di un polittico invece di una singola pala d'altare. Questo intento revivalistico, espresso anche nella scelta dei temi iconografici accostati fra loro secondo uno schema assai caro alla filosofia patristica, inquadra benissimo il Magistero reazionario del papa committente che, in sostanza, si prefiggeva di rinnovare la Chiesa, fronteggiare l'avanzata ottomana ed arginare la minaccia protestante ribadendo con veemenza la tradizione e applicando strumenti di feroce repressione. La Macchina Vasariana, al pari dell'Adorazione dei Magi, costituisce un manifesto politico e dottrinale del nuovo Cattolicesimo post tridentino. Se però con il tema dell'Epifania Pio V intendeva alludere sottilmente alla supremazia del potere spirituale su quello temporale, con il programma iconografico ideato per le tavole dell'altare maggiore di Bosco questi mirava ad esaltare il dogma della Transustanziazione e la dottrina della Communio Sanctorum, i quali erano stati messi in discussione dai Riformati. Non era casuale neppure che la faccia retrostante del mastodontico apparato liturgico fosse imperniata intorno alla figura di San Pietro da Verona: il santo domenicano aveva infatti combattuto strenuamente l'eresia catara sia con l'attività di predicazione sia ricoprendo la carica di inquisitore.

 

Bibliografia

GIORGIO ETTORE CAREDDU: Vasari a Bosco Marengo. Indagini diagnostiche e problematiche di restauro, tratto da "Giorgio Vasari tra parola e immagine", Aracne editrice, 2013.

ALESSANDRO CECCHI: Battista Botticelli, "Maestro di Legname" di Vasari , 2017.

MARIA CARLA VISCONTI: La Chiesa di Santa Croce a Bosco Marengo: Problemi di tutela e scelte di restauro.

GRAZIA MARIA FACHECHI: Sculture in legno: Museo Nazionale di Palazzo Venezia, Gangemi editore.

FULVIO CERVINI, CARLENRICA SPANTIGATI: Santa Croce di Bosco Marengo, Cassa di Risparmio di Alessandria, 2002.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/pio-v-papa-santo_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-gargiolli_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/marini-angelo-detto-il-siciliano/

https://www.treccani.it/enciclopedia/complesso-monumentale-di-santa-croce-e-ognissanti-di-bosco-marengo

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

http://archiviovasari.beniculturali.it/

http://www.nationaltrustcollections.org.uk/object/1298175


IL SANTUARIO DI SAN MICHELE ARCANGELO A MONTE SANT'ANGELO

A cura di Giovanni d'Introno

Il Santuario di San Michele Arcangelo: cenni storici e culto

Il Santuario di San Michele Arcangelo sorge sul Monte Drion (dal greco “quercia”), nel comune di Monte Sant'Angelo in provincia di Foggia; è un luogo intriso di sacralità e meta di pellegrinaggi sin dal Medioevo. La storia di questo santuario, che ancora oggi attira fedeli cristiani da tutto il mondo, è legata ad alcune apparizioni dell'arcangelo Michele in questa zona: le prime tre, secondo la tradizione, risalgono al V secolo e sono ricordate in un manoscritto dell'VIII secolo, il ''Liber de Apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano”.

La prima vicenda che viene raccontata in questo libro, databile al 490, è quella di un ricco signorotto di Siponto, noto con il nome di Elvio Emanuele, il cui toro più prezioso si allontanò dalla mandria pascente. Alla fine l'animale fu ritrovato dall'uomo in una spelonca; questi decise di punire la bestia scagliandogli contro una freccia avvelenata che deviò la sua rotta, colpendo lo stesso uomo. Il signorotto allora chiese l'aiuto del vescovo Lorenzo Maiorano per comprendere questo prodigioso e misterioso evento. Infine l'ecclesiastico ricevette la visita dell'Arcangelo che gli disse che era stato un atto dettato dalla sua volontà, essendo quello un luogo a lui sacro, e lo invitò a realizzare un santuario in quel punto, che già da secoli era antica sede di culti pagani, tra cui quello rivolto al profeta Calcante e al dio Apollo.

Anche la seconda apparizione vede come interlocutore del santo il vescovo Lorenzo Maiorano. Questi, nel 492, invocò l'arcangelo affinché intervenisse in favore della città cristiana di Siponto che resisteva alle violente scorrerie degli Eruli di Odoacre: l'arcangelo gli assicurò la vittoria, che fu conseguita successivamente alle sue parole di conforto. Alcuni storici tuttavia tendono a scontrarsi con la tradizione, facendo risalire questo intervento divino allo scontro avvenuto nel 662-663 tra i Bizantini e i Longobardi, capeggiati dal duca di Benevento Grimoaldo, con la vittoria longobarda conseguita l'8 maggio.

La terza apparizione avvenne nel 493,  ricollegata all'evento bellico poc'anzi citato: il ben noto vescovo, per rendere grazie all'aiuto impartito dal santo nel momento di difficoltà, decise di consacrare, come gli era stato ordinato precedentemente, la grotta nella quale si era rifugiato il toro di Elvio Emanuele. Si ottenne l'assenso di papa Gelasio I e il vescovo di Siponto, con il concorso dei vescovi pugliesi e del popolo, si recò nel luogo mistico che era stato già consacrato dal santo stesso, lasciando inoltre la sua impronta nella roccia. Si diede quindi avvio alla costruzione di un santuario a lui dedicato il 29 settembre dello stesso anno.

Con la discesa dei Longobardi in Italia e la fondazione del ducato di Benevento per mano del duca Zottone nel VI secolo, il santuario ricevette forte considerazione da parte dei dominatori Longobardi, che vedevano nella figura di San Michele quella del santo guerriero che combatte contro le forze demoniache; questi finanziarono perciò i lavori finalizzati a rendere l'ambiente sacro più efficiente ad accogliere i numerosi pellegrini che vi giungevano. Nel IX secolo, durante il periodo delle grandi incursioni, il santuario dovette subire l'occupazione dei Saraceni, debellati da Ludovico II, per poi cadere nelle mani dei Bizantini il secolo successivo. .

Il culto di San Michele Arcangelo ebbe molta risonanza anche tra i normanni, tra cui alcuni, nei primi decenni del XI secolo, iniziarono a risiedere nel Gargano per lavorare come mercenari alla difesa del  luogo sacro. Questi poi furono arruolati da Melo da Bari nella lotta contro il catepano di Bari.

Con gli svevi, anche Federico II rese grande onore al santuario, ma fu durante il periodo angioino, nei secoli XIII e XIV, che si svolsero gran parte dei lavori che portarono l'edificio ad assumere forme nuove.

Mentre nel Mezzogiorno italiano dilagava la peste, nel 1656  il vescovo lucchese Alfonso Puccinelli si rivolse in preghiera a san Michele, il quale si palesò ai suoi occhi il 22 settembre, ordinandogli di benedire le rocce della Celeste Basilica e incidere una croce le lettere M. A. (Michele Arcangelo),  affinché proteggessero i fedeli dal flagello. Così, in seguito alla salvezza della città, fu eretto un monumento nella piazza cittadina recante l'epigrafe: “Al principe degli Angeli Vincitore della peste, patrono e custode. Monumento di eterna gratitudine. Alfonso Puccinelli 1656”. Nel 1872, fu conferito al santuario la nomina di Cappella Palatina, mentre nel 2011 è entrata a far parte del patrimonio dell'UNESCO.

Il Santuario

Come già accennato, il primo nucleo del santuario risale al V secolo, per svilupparsi poi nei secoli successivi.

Ciò che si prospetta all'arrivo del visitatore è il grande piazzale (fig. 1), comunemente chiamato “atrio superiore”. A destra, è la torre angioina (fig. 2), edificata nel 1274 per volontà di Carlo I d'Angiò, in seguito della fine della conquista del Mezzogiorno italiano: egli infatti era stato sollecitato da papa Urbano IV in questa intraprendente impresa per mettere fine all'egemonia della dinastia sveva.

L'architetto Giordano e il fratello Maraldo furono gli artefici di quest'opera, realizzando una struttura a pianta ottagonale, con chiaro richiamo alle torri di Castel del Monte, che nel 1282, anno della fine dei lavori, raggiunse 40 metri d'altezza, di cui 13 deprivati per motivi ancora oggi sconosciuti.

L'edificio che appare ai nostri occhi si presenta con una raffinata decorazione, caratterizzata da una serie di arcate cieche a tutto sesto  che corrono lungo le pareti esterne, mentre i quattro piani sono divisi da cornici marcapiano, tra cui spicca quella che divide il secondo piano dal terzo molto sporgente con delle mensole che sono rifinite con fitte decorazioni. Delle bifore e delle monofore alleggeriscono la struttura.

In asse con il cancello dell'inferriata che delimita i due lati dello slargo. vi è l'ingresso al santuario (fig. 3), al quale vi lavorarono sempre sotto Carlo I, ma subì alcuni rifacimenti sia con i Durazzi del XIV secolo sia nella seconda metà dell'Ottocento.

Fig. 3

La facciata è costituita da due arcate ogivali nelle quali sono inseriti due portali a sesto acuto; il frontone è coronato da archetti pensili e decorato da due piccoli rosoni separati da un' edicola ogivale nella quale è posta la statua del miles Christi (fig. 4). I due portali hanno battenti bronzi realizzati negli anni '90 del secolo scorso da Michele Tiquinio, nei quali , in una serie di riquadri, si ripercorre la storia del santuario, dalle prime apparizioni alla visita di papa Giovanni Paolo II nel 1987. Le lunette di entrambi sono decorate: quella di sinistra del 1865 ripropone il corteo di vescovi che si diressero al grotta consacrata nel 493 ; quella di destra (fig. 5) invece è di gusto prettamente gotico, con la Madonna in trono affiancata da San Pietro e San Paolo, mentre in dimensioni ridotte è collocata nell'angolo in ginocchio la principessa Margherita, madre di Ladislao Durazzo, che commissionò l'opera nel 1395 al maestro Simone ricordato in un'incisione che corre sull'architrave:

AD HONOREM SANCTI MICHAELIS ARCHANGELI MAGISTER SIMEON DE HAC URBE FECIT HOC OPUS D.MCCCVC

(il maestro Simone di questa città compì quest'opera in onore di San Michele Arcangelo nel 1395)*

entrambi i portali sono sovrastati da una epigrafe. Quello di destra riporta le parole che, secondo il ''Liber de Apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano” l'arcangelo emise quando ricevette la visita dei vescovi pugliesi e del popolo sipontino:

NON EST VOBIS OPUS HANC QUAM AEDIFICAVI BASILICAM DEDICARE IPSE ENIM QUI CONDIDI ETIAM CONSECRAVI

(non è necessario che voi dedichiate questa Basilica che ho edificato, poiché io stesso che ne ho posto le fondamenta, l'ho anche consacrata)*

quella di sinistra invece cita la seguente frase:

TERRIBILIS EST LOCUS ISTE HIC DOMUS DEI EST ET PORTA COELI

(impressionante è questo luogo. Qui è  la casa di Dio e la porta del cielo)*

Passando attraverso i due portali, si accede ad un vestibolo dal quale parte la lunga scalinata (fig. 6) che porta alla grotta; anche quest'opera risale  ai tempi di Carlo I. La scalinata è affiancata ai lati da una serie di arcate e dai resti di alcuni affreschi quattrocenteschi. In origine diversi sarcofagi accompagnavano il fedele nella discesa verso la grotta; oggi rimane solo una loggia del XV secolo con arcate a tutto sesto trilobate e colonne tortili, nella quale si trova una splendida Madonna col bambino, posta a sorvegliare i resti del nobile Rinaldo Cantelmo (fig. 7).

Al termine della scalinata di 86 gradini, si giunge a quella che è denominata “La porta del Toro”, opera del 1652 con un affresco, oggi perduto, che ricordava la prima apparizione avvenuta in seguito alla fuga della bestia, sulla quale si erge un maestoso crocifisso e un'iscrizione che recita le seguenti parole:

HAEC EST TOTO ORBE TERRARUM DIVI MICHAELIS ARCHANGELI CELEBERRIMA CRIPTA UBI MORTALIBUS APPARERE DIGNATUS EST HOSPES HUMI PROCUMBENS SAXA VENERARE LOCUS ENIM IN QUO STAS TERRA SANCTA EST

(e' questa la Cripta di San Michele Arcangelo , celeberrima in tutto il mondo , dove egli si degnò di apparire agli uomini. O pellegrino, prostrandoti a terra, venera questi sassi perché il luogo in cui ti trovi è santo)*

L'atrio interno del santuario di San Michele, al quale si accede attraverso la porta di sopra citata, conserva numerosi sarcofagi di periodi diversi, tra cui quello del vescovo Alfonso Puccinelli ( colui che invocò il santo affinché ponesse fine al flagello che stava sterminando la popolazione) del 1658, e un prezioso sarcofago dei primissimi anni del XV secolo del Giudice e Capitano di Monte Sant'Angelo Jacopo Pulderico. Il sarcofago è sostenuto da due colonnine poggianti su dei leoni stilofori; la cassa presenta tre clipei, contenenti rispettivamente le figure della Madonna, dell'Imago Pietatis e di San Giovanni, e sopra è raffigurato il corpo del defunto. Tale struttura è inserita in una sorta di baldacchino formato da due  colonne sulle quali due angeli sollevano le cortine (fig. 8).

Fig. 8

L'atrio si conclude con il maestoso portale bronzeo (fig. 9), commissionato da Pantaleone di Mauro, nobile amalfitano, nel 1076, a maestranze bizantine che lavoravano nella capitale dell'Impero d'Oriente, Costantinopoli, le quale già negli anni Sessanta-Settanta dell'XI secolo avevano prodotto le porte per il Duomo di Amalfi, le chiese di Montecassino e San Paolo a Roma. Le porte sono divise in 24 riquadri, nei quali sono raffigurate scene veterotestamentarie e neotestamentarie con angeli protagonisti (nel primo caso, per esempio (fig. 10)); le figure sono ageminate, cioè sono stati incisi dei solchi sulla lastra di bronzo per poi essere riempiti d'argento.

Attraversando il portale, si accede all'interno della Basilica, venendo così accolti dalla grande navata (fig. 11),divisa in tre campate sormontate da volte a crociera costolonate, opera che rientra nel programma di restauro di Carlo I d'Angiò, commissionato ai fratelli Giordano e Maraldo negli ultimi decenni del XIII secolo.

Fig. 11

In questo ambiente vi sono alcuni altari del XVII secolo. Nell'abside vi è quello che custodisce il Santissimo Sacramento: è una preziosa opera in marmo del 1690, ornata da alte colonne tortili che inquadrano tre nicchie, in cui sono collocate le statue di Sant'Antonio, San Giuseppe con il Bambino, e San Nicola, mentre alla sommità, un'edicola delimitata da due volute, fa da sfondo a due statue raffiguranti l'Annunciazione (fig. 12). Un altro altare molto importane è quello di San Francesco, voluto dal Cardinale Orsini nel 1675-1677, per commemorare la memorabile visita di San Francesco che si tenne nel 1216 (fig. 13).

Una splendida cappella settecentesca si affaccia sulla navata: in essa sono custodite antiche reliquie come il pezzo di Croce donato da Federico II, dopo la sua crociata in Terra Santa.

Si entra in seguito alla grotta vera e propria consacrata direttamente dal milite divino (fig. 14). Anche in questo ambiente sono dislocati alcuni oggetti dal valore sia sacro sia soprattutto artistico. Si tratta principalmente di statue, tra le quali primeggia la statua di San Michele in marmo di Carrara, opera dell'artista toscano Andrea Sansovino, del 1507 (fig. 15): ritroviamo la classica rappresentazione del santo che brandisce la spada, intento ad uccidere quella figura demoniaca che schiaccia con il piede sinistro; vi sono inoltre una statua di San Sebastiano del XV secolo, la piccola statua coeva di San Michele detta del Pozzetto, perché situata nel punto in cui si raccoglieva l'acqua (anche in questo cosa è costruita secondo i canoni dello schema iconografico)  e la Madonna di Costantinopoli del XII-XIII secolo. La cattedra episcopale (fig. 16) invece risale all'XI secolo, è in marmo, poggiante su due leoni, con uno schienale dal disegno cuspidato e traforato, con il bracciolo che reca la lastra in bassorilievo del santo. Una serie di altari sono collocati all'interno di questo ambiente, di gusto prettamente Barocco: uno si erge nei pressi del presbiterio, sotto ad una struttura in legno e con colonne di marmo: un bellissimo frammento di affresco del XVII secolo raffigurante la madonna del Perpetuo Soccorso, alla quale è dedicato l'altare, intenta a salvare i fedeli dalle fiamme dell'Inferno, fra Santo Stefano e san Carlo Borromeo, è coperta da questo baldacchino; altri e due invece si trovano lungo le pareti rocciose, e si tratta dell'altare della Crocifissione, affiancata da due bassorilievi con San Giuseppe e San Domenico, e quello di San Pietro, con un altorilievo del santo del XII- XIII secolo.

Infine, coronano la decorazione del santuario di San Michele i bassorilievi distribuiti lungo le pareti rocciose della spelonca, come quella della Santissima Trinità composta di tre teste in unico corpo (Padre, Figlio e Spirito Santo), e quello di San Matteo facente parte di un altare distrutto (fig. 17).

Fig. 17

 

Bibliografia

Jan Bogacki, Guida al Santuario di San Michele sul Gargano, 1997, Edizioni del Santuario

 

Sitografia

https://www.santuariosanmichele.it/

http://www.ildiariomontanaro.it/home/20-attualita/1675-monte-santangelo-tra-magia-mistero-e-sacralita

http://www.abbazie.com/sanmichelearcangelo/apparizioni_it.html

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/monte-sant-angelo-santuario-di-san-michele-arcangelo-gargano

* le scritte latine e le rispettive traduzioni sono tratte dal libro di Bogacki.


LA CHIESA DI SANT’APOLLINARE A PRABI DI ARCO

A cura di Beatrice Rosa

Introduzione

Camminando sulle rive del fiume Sarca, sulla strada che conduce da Arco alla località di Prabi, potrebbe passare inosservata una piccola chiesa che, nonostante le sue dimensioni, è una delle più antiche ed importanti della zona dell’Alto Garda e del Trentino (fig. 1). Si tratta della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi di Arco.

Fig. 1 – Esterno della chiesa di Sant’Apollinare a Prabi.

La storia dell’edificio

Le prime notizie certe riguardo la costruzione della chiesa risalgono al XIV secolo ma per svariati motivi, tra cui la dedicazione a Sant’Apollinare (vescovo di Ravenna) e la collocazione all’esterno delle mura di Arco, la probabile origine della chiesa, luogo di culto ariano, può essere ragionevolmente anticipata all’VIII secolo[i].

Ciò che è certo è che nel Trecento la chiesa era officiata da alcuni monaci che risiedevano in un monastero nei suoi pressi e che a fine Quattrocento l’edificio liturgico divenne priorato dell’arcipretura di Arco. Nel XVIII secolo alcuni eremiti presero in affidamento la custodia fino a quando, nel 1782, la chiesa venne soppressa. Nel corso dell’Ottocento S. Apollinare riacquistò la sua dignità e tornò ad essere edificio di culto: evidentemente, però, non era molto frequentata dai fedeli, dato che nel 1866 la Curia arcivescovile di Trento diede l’ordine di demolirla[ii]. Fortunatamente, l’ordine non venne seguito, così oggi possiamo ancora ammirare questo meraviglioso edificio. L’aspetto della chiesa, ad oggi, non rispecchia tuttavia la sua conformazione ottocentesca; le sue sventure, infatti, non si erano ancora concluse. Durante la Prima Guerra Mondiale, a causa delle schegge di una granata che danneggiarono il tetto e parte dell’abside, parte degli affreschi che la decoravano andò perduta. In seguito a vari interventi di restauro, la chiesa è stata definitivamente restituita al culto nel 1983[iii].

L’edificio

La chiesa di Sant'Apollinare a Prabi è a pianta rettangolare, con l’aggiunta, sul lato destro, di un porticato esterno, utilizzato come riparo per pellegrini e viandanti. La presenza del porticato esterno è una testimonianza eloquente dell’importanza dell’edificio per la zona dell’Alto Garda e non solo. Dietro l’altare di pietra presente nel porticato (utilizzato anche come pronao in caso di grande affluenza di fedeli) è presente la decorazione a fresco dell’Ultima Cena (fig. 2)[iv].

Lo sguardo è immediatamente catturato da Cristo che si rivolge allo spettatore mentre tocca con la sua mano destra la spalla di S. Giovanni che, come da consuetudine, è addormentato sul tavolo. Gli altri apostoli, cinque per parte, sono rappresentati ai lati di Gesù, intenti a discutere tra loro; tra le mani, alcuni di essi reggono dei bicchieri di vino o dei coltelli appena presi da una tavola imbandita di leccornie. L’unico apostolo a non trovarsi sullo stesso lato di Cristo è Giuda, che il pittore dipinge senza aureola, di dimensioni minori e accovacciato sotto il tavolo in prossimità di S. Giovanni; scelte formali, queste ultime, portate avanti dal pittore per sottolineare il ruolo di traditore ricoperto dall’Iscariota. L’Ultima cena non è, tuttavia, l’unico affresco che decora la parete esterna dell’edificio; in basso rispetto all’opera sopracitata è infatti presente un lacerto pittorico ospitante un’Adorazione dei Magi mentre, più sulla destra, è presente un santo vescovo, individuabile come il frammento più antico della decorazione (fig. 2)[v].

Se già gli affreschi all’esterno della chiesa potrebbero stupire, quelli che si vedono una volta  varcata la soglia d’ingresso non possono che meravigliare. Anche le pareti della navata e dell’abside sono affrescate, rivelando brani pittorici che sono il frutto di campagne decorative risalenti a momenti storici diversi.

Fig. 2 – Affreschi nel protiro esterno.

La parete nord della chiesa di Sant'Apollinare a Prabi ospita gli affreschi più antichi; partendo da sinistra è presente un Cristo crocifisso tra la Vergine e S. Giovanni e un santo vescovo; al centro della parete si vede una Madonna col Bambino in trono, affiancata a sinistra da S. Margherita, riconoscibile dal drago ai suoi piedi, e da S. Antonio abate, in abiti da monaco, con la campanella e il bastone a tau nelle mani[vi]. Proseguendo sulla medesima parete troviamo una raffigurazione del martirio di S. Lorenzo: si narra che il santo diacono distribuì ai poveri tutte le sostanze della Chiesa, suscitando così l’ira del prefetto Cornelio Secolare, che fece arrestare Lorenzo martirizzandolo poi su una graticola rovente. Seguono, poi, due figure di santi vescovi e una santa (fig. 3)[vii].

Fig. 3 – Parete nord.

Nel registro inferiore della medesima parete è invece presente una schiera di santi, posizionati uno accanto all’altro e con lo sguardo rivolto verso noi spettatori. Partendo da sinistra si riconoscono S. Leonardo (fig. 4), in abiti da diacono; S. Apollinare benedicente; S. Antonio abate, riconoscibile dal saio marrone e dal bastone a tau nella mano sinistra; vicino a lui, S. Caterina d’Alessandria, con la palma del martirio nella mano sinistra e la ruota dentata nella destra; S. Paolo, con la spada e il libro; un santo vescovo e un evangelista, non identificabili in quanto carenti di attributi iconografici specifici.  È poi presente una Madonna col Bambino, affiancata da una S. Elena (riconoscibile dalla croce) e probabilmente da un S. Giovanni Evangelista (vicino a lui è infatti raffigurato S. Giovanni Battista, con il consueto cartiglio in mano che in origine quasi certamente recava le parole “Ecce agnus dei”). Le ultime due figure sulla parete sono di nuovo un santo vescovo (anche questo non identificabile) e S. Antonio abate, abbigliato da monaco, ancora una volta accompagnato dal tipico bastone a tau e dalla campanella (fig. 3)[viii].

Fig. 4 – S. Leonardo.

Anche sulla parete opposta a quella appena analizzata sono presenti decorazioni a fresco su due registri: nella parte alta è presente una Madonna col Bambino tra due apostoli e i Ss. Antonio abate e Lucia (quest’ultima riconoscibile dalla ciotolina contente i suoi occhi). La figurazione prosegue con due scene sacre: la Deposizione del corpo di Cristo e la Natività[ix]. Il registro inferiore è invece occupato dalla scena del Martirio di S. Agata: si narra che la santa venne legata e i suoi seni recisi e strappati, come vediamo proprio nell’affresco di Prabi[x]. Proseguendo verso destra sono presenti nove santi, non tutti riconoscibili. Tra i santi identificati troviamo S. Martino, in abiti eleganti e con la spada in mano; S. Dorotea, con i fiori nella mano destra; S. Nicola da Bari, in abiti vescovili; S. Francesco, con il saio e il crocifisso; con i lunghi capelli, che le coprono tutto il corpo, S. Maria Maddalena; vicino a lei,  un probabile S. Bartolomeo con il coltello nella mano destra; chiudono il corteo S. Giovanni evangelista e S. Antonio Abate (fig. 5).

Fig. 5 – Parete sud.

Come anticipato all’inizio di questo articolo, a causa delle schegge di una granata, gli affreschi della zona absidale con un Cristo in mandorla e i simboli dei quattro Evangelisti sono andati perduti. Fortunatamente si possono ancora ammirare parte degli affreschi dell’arco santo, con il lacerto dell’Annunciazione nella parte alta e due coppie di santi nella parte sottostante: S. Lorenzo e S. Apollinare da un lato, S. Cristoforo e una santa non identificata dall’altro (fig. 6)[xi].

Fig. 6 – Area del presbiterio.

Prima di uscire dalla chiesa di Sant'Apollinare a Prabi, meritano uno sguardo anche gli affreschi sulla parete d’ingresso, con S. Antonio abate (recante una fiammella sul palmo della mano e tentato dal diavolo in vesti di donna) e S. Giuseppe, sulla destra, raffigurato assieme ai suoi strumenti di lavoro[xii].

Chi è l’autore di questi affreschi?

La paternità della decorazione pittorica è stata, nel corso del tempo, oggetto di discussione; tutti gli storici e i critici sono però concordi sul fatto che gli affreschi siano frutto di mani diverse e soprattutto sulla datazione più “bassa” dell’Ultima cena, dell’Adorazione dei Magi e dei Santi del protiro esterno successivi rispetto ai brani pittorici all’interno. Già Nicolò Rasmo, nella sua Storia dell’arte nel Trentino[xiii], aveva assegnato le opere a membri della famiglia dei da Riva, fortemente influenzati dalla pittura veronese; tramite dei confronti con opere certe di Brenzone (chiesa di S. Pietro in Vincoli), Lazise, Torri del Benaco e Gargnano, la critica recente ha poi proposto di attribuire gran parte degli affreschi a Giorgio da Riva e assegnando una parte minore della decorazione al fratello Giacomo. Se quindi gli affreschi del protiro si possono datare già alla prima metà del Quattrocento, per quelli della navata, sicuramente precedenti, si può risalire con ogni probabilità a una data che oscilla tra il 1360 e il 1370[xiv].

 

Note

[i] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[ii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 94.

[iii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 94-95.

[iv] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 96.

[v] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[vii] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 220-223

[viii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[ix] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[x] R. Giorgi, Santi, Milano 2007 (“I dizionari dell’arte”), pp. 12-14.

[xi] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, pp. 100-101.

[xii] Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000, p. 101.

[xiii] N. Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982, p. 140.

[xiv] M. Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017, pp. 25-41.

 

Bibliografia

Ecclesiae: le chiese nel Sommolago, Arco 2000.

Nicolò Rasmo, Storia dell’arte nel Trentino, Trento 1982.

Marianna Raffaelli, Exempla virtutis: la pittura gotica sacra nel Sommolago, 2017.

 

Referenze delle immagini

  1. https://www.gardatourism.it/chiesa-di-sant-apollinare/
  2. https://romanicotrentinoaltoadige.wordpress.com/2017/09/15/santapollinare-arco/
  3. Beatrice Rosa
  4. Beatrice Rosa
  5. Beatrice Rosa
  6. Edoardo Fabbri

LO SCULTORE DOMENICO GAGINI

A cura di Felicia Villella

Domenico Gagini nasce a Bissone, sul lago di Lugano, ma si trasferisce in Sicilia dove esercita la sua arte insieme al figlio Antonello. Le loro opere, che riflettono la predilezione dell'epoca per forme eleganti e ricercate, vengono realizzati principalmente in marmo di Carrara, il materiale lapideo prediletto dagli scultori per la sua natura cristallina detta zuccherina.

Per tutto il Rinascimento l'arte è patrimonio di famiglia: la bottega, gli strumenti, i segreti, le conoscenze e la cultura passano di padre in figlio. Secondo il Filarete dal 1444 al 1446 a Firenze sarebbe stato allievo di Brunelleschi, tanto che nel suo Trattato di architettura si parla, infatti, di un «Domenico proveniente del lago di Lugano, discepolo di Pippo di Ser Brunelleschi».

Partecipa ad una delle realizzazioni che aprono la fase rinascimentale nel Meridione d'Italia, l'apparato scultoreo in Castel Nuovo a Napoli dell'arco di Alfonso d'Aragona; frutto del suo scalpello, in particolare, è la statua della Temperanza.

Arrivato a Palermo avvia la sua bottega d’arte, che alla sua morte lascerà al figlio Antonello. Le sue spoglie riposano nella chiesa palermitana di San Giacomo alla Marina.

Figlio d’arte Antonello, regala alla Calabria diversi capolavori, tra cui:

  • Madonna degli Angeli, Chiesa di Santa Maria Maddalena - Morano Calabro (Cosenza-1505)
  • Madonna con il Bambino, Chiesa dell'Osservanza - Catanzaro
  • Complesso marmoreo della Pietà, chiesa Matrice Maria SS. Addolorata - Soverato superiore (Catanzaro)
  • Gruppo dell'Annunciazione nella chiesa di S. Teodoro - Bagaladi (Reggio Calabria), (1504)
  • Madonna della Neve Chiesa Matrice - Bovalino Superiore (Reggio Calabria)
  • Trittico marmoreo nella chiesa di San Leoluca e Santa Maria Maggiore a Vibo Valentia (1523-24)

È attribuita al padre Domenico, invece, la Madonna delle Grazie, oggi custodita presso il Museo Diocesano di Lamezia Terme in provincia di Catanzaro.

La statua marmorea di Domenico Gagini, la cui attribuzione è legata al nome di Alfonso Frangipane, costituisce un raro esempio di scultura quattrocentesca in Calabria, rappresentativa della tradizione d’arte figurativa fiorentina.

Essa fu commissionata per il convento francescano di santa Maria delle Grazie di Nicastro, che passò alla fine del XV secolo ai domenicani, poi nel Seicento alle Clarisse, ed infine nell’Ottocento ristrutturato e riconvertito in Seminario.

La committenza francescana è documentata dallo scannello poligonale scolpito che sul lato frontale pone San Francesco nell’atto di ricevere le stimmate mentre in quelli ad esso adiacenti sono raffigurati un francescano ed una clarissa genuflessi ed oranti.

L’iscrizione posta lungo la cornice bassa dello scannello, secondo una delle tante interpretazione, intende fare una allusione alla sorte della statua, affidata a Frate Giovanni da Nicastro, mentre un’altra delle interpretazioni individua nei due oranti i committenti dell’opera, nominati come Fra’ Giovanni di Nicastro e Sarda sua sorella.

La scultura all’origine presentava delicate policromie e dosate dorature delle quali si trovano ancora le tracce nei volti, occhi, bocca e capelli e nelle bordature dei vestiti, oltre che in parti dello scannello, mentre piccole stelle dorate erano sparse sul mantello della Vergine.

Il fulcro dell’intera composizione sta nel braccio della Vergine che sostiene fermamente il Bambino, è da qui che si diparte la leggera rotazione discendente che anima la figura donando dinamicità alla scultura.

La luce scivola e si riflette sui piani levigatissimi e si corruga invece nelle sottili pieghe del drappeggio così da avvolgere il modellato con un ritmo vario e controllato, conferendo il giusto equilibrio dei toni chiari-scuri tipici della tradizione rinascimentale.

L’intero piano visivo frontale dell’osservatore è regolato da una linea curva che fa da raccordo; essa nasce dal sottile ed esile collo della Madonna e va a congiungersi alla mano del Bambinello per raggiungere il culmine nella sua gamba in movimento da cui riprende l’iniziale vivacità.

Così come per altri artisti, basti pensare al capolavoro della Pietà di Michelangelo, l’artista lavora ad un ponderato progetto che riesce a comunicare con assoluta naturalezza un dolce sentimento che fluisce dall’immagine di delicata adolescente già conscia e carica dell’arduo peso di essere madre di quel bambino che diventerà il Salvatore del mondo attraverso il suo sacrificio e la sua crocifissione, una sorta di preveggenza che pare trasparire dal sottile velo di malinconia che ricopre il suo giovane volto.

A questa lettura prettamente fatta di sensazioni bisogna assolutamente associarne una dal carattere teologico che slega, in realtà, l’opera dall’ambiente rinascimentale di cui è figlia.

L’iconografia adottata è quella della Madonna delle Grazie, concetto col tempo volgarizzato in Maria piena di Grazia.

Questo concetto viene magistralmente riprodotto da Domenico Gagini probabilmente con la riproduzione della sfera, la perfetta forma geometrica che rappresenta il rapporto tra Dio e l’umanità, intermediato dal quel “sì” che Maria pronuncia durante l’Annunciazione e attraverso il quale è stato possibile il concepimento del Salvatore.

Questo assunto teologico permette di differenziare la Madonna delle Grazie di Domenico Gagini quasi totalmente dal prototipo rinascimentale in voga nel Quattrocento in Sicilia, come nel caso della Madonna di Trapani di Nino Pisano, ultimo esponente della cultura gotica.

 

Bibliografia

Spiriti, I Gaggini. Una stirpe di artisti bissonesi, in G. Mollisi, Bissone terra di artisti, Arte&Storia, anno 8, numero 41, Editrice Ticino Management S.A., 2008, pp. 39-40.

Documenti proveniente dall’archivio dell’Architetto Natale Proto e concessi dalla Curia di Lamezia Terme.

Arslan, Arte e artisti dei laghi lombardi, Tipografia Editrice Antonio Noseda, Como 1959, pp. 78, 80, 84, 86, 88, 209, 233, 255, 259.

Romano, La Madonna con il Bambino della bottega dei Gaggini, Kalós Editrice, Palermo 2005, pp. 17-33.

Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XIV e XVI, Edizioni librarie siciliane, Palermo 1999.

Floriani, M. Panarello, La scultura del cinquecento, agenda dei beni culturali della provincia di Vibo Valentia, Amministrazione provinciale di Vibo Valentia Assessorato culturale e beni culturali, Vibo Valentia 2006, pp. 13, 15, 17.

Boccardo, C. Di Fabio, Cinisello Balsamo, Opere, artisti, committenti, collezionisti, Silvana Editoriale, 2004, pp. 48-71

Martini, Gaggini, famiglia; R. Bernini, Gaggini Antonello; Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1998, pp. 228-235.


VILLA BORGHESE A ROMA: LA STORIA

A cura di Federica Comito
Fig.1 - Villa Borghese, fotografia aerea.

Introduzione

Con i suoi 80 ettari e ben 9 entrate Villa Borghese è uno dei parchi più grandi di Roma e può essere considerato come un vero e proprio museo all’aperto. La Villa è un insieme di architetture, monumenti celebrativi, fontane, statue e giardini dalla ricca flora che desta particolare interesse (si pensi alle orchidee selvatiche che crescono nei suoi giardini o agli alberi secolari che risalgono al tempo della costruzione della villa), non a caso è uno dei parchi più conosciuti e frequentati. È proprio la fusione di arte e natura che fa di Villa Borghese un luogo di rara bellezza.

Ed è proprio questo il concetto che Scipione Borghese voleva sottolineare quando fece realizzare una lapide in marmo da collocare fuori dal proprio palazzo come un invito rivolto ai visitatori a godere delle bellezze della natura e dell’arte. L'iscrizione sulla targa, oggi custodita al Lapidario Vaticano, tradotta dal latino, suona pressapoco così:

“IO, CUSTODE DELLA VILLA BORGHESE QUESTO PUBBLICAMENTE

DICHIARO: CHIUNQUE TU SIA, PURCHÉ DA UOMO LIBERO NON TEMERE QUI

IMPACCI DI REGOLAMENTI, VA PURE DOVE VUOI, DOMANDA QUEL CHE

DESIDERI; VAI VIA QUANDO VUOI.

QUESTE DELIZIE SONO FATTE PIÙ PER ESTRANEI CHE PER IL PADRONE.

NEL SECOLO D’ORO IN CUI LA SICUREZZA DEI TEMPI RESE AURA OGNI

COSA, IL PADRONE PROIBISCE DI IMPORRE LEGGI FERREE ALL'OSPITE CHE

QUI SI INDUGI. L’AMICO ABBIA QUI IN LUOGO DELLA LEGGE IL BUON

VOLERE; SE INVECE ALCUNO CON MALVAGIO INGANNO, VOLENTE E

COSCIENTE, INFRANGERÀ LE AUREE LEGGI DELLA CORTESIA, BADI BENE CHE

IL CUSTODE ADIRATO NON GLI STRACCI LA TESSERA DELL’AMICIZIA”.

Questa è la chiara testimonianza del fatto che, già al tempo, la collezione di statue presente nel giardino era aperta a chiunque volesse visitarla e proprio su questo punto fece leva lo Stato Italiano per acquistare la Villa nei primi anni del Novecento.

Fig. 2 - La lapide marmorea con Lex Hospitalia incisa. Credits: https://www.radiocolonna.it/arte-e-cultura/2014/07/09/galleria-borghese-il-ritorno-della-lex-hospitalis-del-cardinale/.

Villa Borghese ha vissuto diverse fasi di trasformazione nel corso di ben quattro secoli, a partire dal tempo di Scipione Borghese fino ai giorni nostri. Trasformazioni che hanno interessato il carattere architettonico e paesaggistico assecondando il gusto e lo stile del tempo.

La storia

Fig. 3 - M. Greuter, Villa Borghesia incisione, 1623.

Villa Borghese nacque nel XVI secolo come residenza suburbana dei Borghese con il ruolo di sede di tutte le loro collezioni artistiche e la sua costruzione procedette fino al XX secolo. Papa Paolo V Borghese, nel 1606, affidò al nipote Scipione Caffarelli Borghese il compito di far costruire una villa extraurbana nella zona di Porta Pinciana, dove la famiglia aveva dei possedimenti terrieri acquistati nel 1580 che arrivarono ad estendersi fino a 50 ettari dopo l’acquisizione di alcune vigne circostanti. Una zona di alto valore storico se si pensa che è stata identificata come l'area dove sorgevano gli horti luculliani. La volontà di Scipione era quella di realizzare un luogo di svago e riposo circondato dal verde che accogliesse opere d’arte di ogni genere e che riflettesse il suo gusto e quello del suo tempo. Questo progetto concordava, non a caso, anche con il clima di rinascita urbanistica che aleggiava intorno al pontificato di Papa Borghese, ed aumentava la grandezza dell'intera famiglia. Nel cantiere di realizzazione del Palazzo principale o Casino Nobile (oggi Galleria Borghese), si susseguirono architetti del calibro di Flaminio Ponzio, Giovanni Vasanzio e Girolamo Rainaldi. Flaminio Ponzio lavorò direttamente sugli schizzi realizzati dallo stesso Scipione per costruire il palazzo al fine di rispettarne al meglio i desideri. Quando Ponzio morì subentrò Vasanzio e, sotto la sua direzione, si procedette con un ulteriore ampliamento, che comportò l’accorpamento di quella che oggi è conosciuta come Valle dei Platani e dell’attuale Bioparco.

I giardini

Grande importanza venne data ai giardini, infatti un ruolo fondamentale venne affidato al giardiniere Domenico Savini che, assieme a Pietro e Gian Lorenzo Bernini, affiancava gli architetti durante i lavori. Riflettendo i modelli barocchi il grande giardino fu delimitato da alte mura e suddiviso in tre zone che presero il nome di “recinti”. Il primo era lo spazio difronte al Casino Nobile ed era denominato giardino Boschereccio, il secondo era il Parco dei Daini; il terzo era chiamato Barco ed equivaleva alla parte più ampia delle recinzioni.

Non potevano mancare i “giardini segreti” ad uso esclusivo del Principe Borghese e dei suoi ospiti. In origine erano 2, chiamati "dei Fiori" e "dei Melangoli" per la presenza di specie floreali e degli alberi di arance amare che venivano lì coltivati al fine di mimetizzarne le mura. Al termine dei giardini vennero eretti due edifici: l’Uccelliera e la Meridiana.

Nel corso del XIX secolo furono aperte le porte dei giardini al passeggio dei cittadini, che vi organizzarono feste popolari.

Nel XVIII secolo, in concomitanza con il diffondersi del gusto Neoclassico, Marcantonio IV Borghese apportò alcune modifiche all’assetto della villa, in particolare nell’area del terzo recinto, dove fece costruire dei templi, aggiunse statue, fontane e arredi di vario genere, il tutto ispirato al mondo classico. Decise inoltre di abbattere i muri di cinta nella zona corrispondente a Via Flaminia e di migliorare le qualità estetiche e architettoniche della zona affacciata su Piazza del Popolo, in quanto stava diventando un luogo assai visitato. Per i lavori vennero incaricati nel 1776 gli architetti Antonio e Mario Asprucci, che si occuparono, tra le altre cose, dell’abbattimento del muro di cinta che separava l’area interessata dai lavori dagli altri due recinti.

Fig. 4 - Burghesiorum Villae Romanae ichonographia, 1776.

In generale tutti i lavori in stile neoclassico iniziati nel Settecento si protrassero nell’Ottocento. A questo momento di grande trasformazione appartengono i famosissimi propilei greci in stile ionico realizzati nel 1829, che costituiscono l’ingresso della Villa in zona Piazza del Popolo.

Col tempo la famiglia Borghese ampliò ulteriormente la villa, in particolare il principe Camillo Borghese acquistò dei terreni circostanti appartenenti ai Doria, ai Manfroni e ai Bourbon del Monte, che vennero riplasmati e integrati seguendo i progetti dell’architetto Luigi Canina. Nell’Ottocento il giardino all’italiana venne trasformato in un giardino all’inglese che si basava sull’accostamento di elementi naturali e artificiali quali grotte, tempietti, rovine ecc. A questo punto la sorte della Villa e delle sue bellezze si legò indissolubilmente alle figure degli uomini che la abitarono: Camillo Borghese sposò nel 1803 la sorella di Napoleone Bonaparte, Paolina. Il Generale, per un proprio rendiconto, convinse Camillo a vendere gran parte delle collezioni antiche al Louvre che oggi appartengono al Fondo Borghese del museo parigino. Questo momento segnò da una parte la fine del collezionismo della famiglia Borghese, dall’altra l’apertura del nuovo capitolo dedicato al ruolo dei grandi musei d’Europa.

Fig. 5 - Luigi Canina, pianta di Villa Borghese con gli interventi del 1828.

Nel 1861, con l’Unità d’Italia, la villa fu soggetta a un piano di lottizzazione e acquistata poi dallo Stato Italiano nel 1901 per "soli" 3 milioni e seicento mila lire (una cifra veramente irrisoria se si pensa che il Barone di Rothschild nel 1899 era intenzionato a pagare 4 milioni di lire per un solo quadro presente all’interno della Galleria Borghese cioè l’Amor Sacro e Amor profano di Tiziano). Solo due anni dopo, nel 1903, il Regno d'Italia cedette la proprietà della Villa al comune di Roma che la rese fruibile al pubblico. Lo Stato poi trasformò il Casino nobile con l’intera collezione di opere d’arte in un museo pubblico, l’attuale Galleria Borghese.

Una volta divenuta proprietà demaniale, la Villa fu interessata da lavori sia all’interno del parco che all’esterno. Nel 1908 venne inaugurato il ponte che ancora oggi collega la villa con il Pincio e venne arretrato di 10 m l’ingresso di Porta Pinciana per allargare il manto stradale. Nel 1911 venne celebrata l’apertura del Giardino zoologico, oggi Bioparco. Tra il 1904 e il 1905 all'interno parco furono innalzati i primi monumenti celebrativi. Negli anni Trenta il Giardino del Lago fu protagonista di un’iniziativa interessante, perché vennero progettati da Raffaele Vico dei chioschi con biblioteche da cui era possibile prendere in prestito libri da riconsegnare al tramonto.  Durante i due conflitti mondiali la villa fu lasciata in disuso e si decise di utilizzare i giardini segreti per la coltivazione di ortaggi. Nella seconda metà del Novecento sono iniziate le trasformazioni che hanno portato il parco di Villa Borghese ad assumere l'aspetto che tutti conosciamo oggi. Accanto alla Casa del Cinema, fondata nel 2004 e ospitata nella Casina delle Rose, viene infine costruito il Cinema dei Piccoli, entrato nel Guinness dei primati come il cinema più piccolo del Mondo.

Conclusione

La storia della Villa è legata indissolubilmente all’arte fin dal principio e, tuttora, traspare il carattere unitario con cui la natura si fonde alle opere d’arte. Una volta acquisita la proprietà della Villa, il comune di Roma cambiò il nome in “Villa comunale Umberto I già Borghese” in onore del Re d’Italia Umberto I di Savoia. Eppure, ancora oggi, è chiamata da tutti semplicemente Villa Borghese.

 

Bibliografia

Villa borghese, De Luca Editori d’Arte

 

Sitografia

Sovraintenzaroma.it

Villa borghese fuori da Porta Pinciana, descritta da Iacopo Manilli