IL CODEX PURPUREUS, O CODICE PURPUREO

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

Il Codex Purpureus è un manoscritto onciale greco, conservato nel Museo Diocesano di Rossano (Cs). Comprende un evangelario con i testi di Matteo e di Marco e una serie di miniature che lo rendono uno dei più antichi esemplari di manoscritti miniati del Nuovo Testamento conservatisi. Il Codice riporta testi vergati in oro ed argento ed è impreziosito da 14 miniature, accompagnate in calce da cartigli descrittivi, che illustrano i momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. Il Codex Purpureus Rossanensis riveste uno straordinario interesse, sia dal punto di vista biblico e religioso, che da quello artistico, paleografico e storico-documentario. L’evangelario appartiene al tipo di produzione libraria color porpora, a cui appartengono anche i Vangeli cosiddetti Beratinus, Sinopensis ed il Petropolitanus. Deve il nome “Purpureus” alla peculiare colorazione rossastra delle pagine (in latino purpureus).

Fig. 1 - Codice Purpureo, Frontespizio.

Il Codex

Con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine in pergamena sottilissima di agnello, è l’esempio più cospicuo e più rappresentativo del genere. Il formato attuale del manoscritto misura mm. 300x250 mentre lo specchio scrittorio è di mm 215x215 ca. I fogli sono in pergamena accuratamente lavorata, tinta di colore purpureo, con discromie che talvolta si possono ritenere originarie, ma in più casi dovute a fattori diversi, soprattutto umidità. Il manoscritto è formato di regola da quinioni, cioè 40 fascicoli di 10 fogli, iniziati con lato carne, disposti secondo la legge di Gregory (carne contro carne e pelo contro pelo) e segnati nell'angolo inferiore interno sul recto del primo foglio. Restano escluse da questa struttura le pp. 1-18, che sono parti introduttive, e le pp. 239-242, contenenti, a p. 241, il ritratto di Marco. Il Codex Purpureus Rossanensis, nella lista internazionale dei manoscritti rari ecclesiastici, porta il suffisso alfabetico Ф e il numero 043. Contiene l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, mutilo quest’ultimo dei vv. 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo. La scrittura in cui è vergato il testo dei Vangeli è la maiuscola biblica, si tratta di forme grafiche che si caratterizzano a partire dal tardo II secolo d.C. Nel Codice di Rossano la maiuscola biblica mostra caratteri artificiosi, modulo monumentale, forte chiaroscuro e orpelli decorativi che ne indicano, da una parte, la collocazione cronologica tarda, dall’altra la funzione ideologico-sacrale ad essa sottesa. In funzione di vera e propria scrittura distintiva è adoperata, invece, la maiuscola ogivale diritta, nella quale sono state redatte le scritte relative al repertorio iconografico, gli indici dei capitula, il colofone del Vangelo di Matteo, i riferimenti ai canoni eusebiani, le indicazioni di contenuto nei margini superiori, alcune integrazioni, le lettere/cifre di segnatura dei fascicoli. Si tratta, ancora una volta, di una scrittura di ascendenza antica, ma definitasi più di recente, grosso modo nel V secolo e testimoniata nel mondo bizantino più a lungo della maiuscola biblica, fino al secolo XI. Tali scritture si devono ritenere opera di una stessa mano. L’inchiostro adoperato è aureo per il titolo e le tre righe iniziali della prima pagina di ciascun vangelo, argenteo per tutto il resto. Le miniature conservate nel Codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo, una funge da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, mentre l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina. Tutte le miniature vennero dipinte su una pergamena meno fine di quella usata per il testo dei Vangeli. Ad essa fu applicata una tinta purpurea diversa da quella adoperata per le pagine destinate al testo. La pergamena più spessa forniva una base più solida ai colori, mentre la tinta più opaca impediva alla miniatura dipinta sulla facciata di un foglio di essere vista rovesciata sull'altra facciata. Il Codex Purpureus è strutturato in modo che miniature e testo risultino raggruppati in fogli distinti.

Purtroppo non ci sono elementi per poter stabilire con sicurezza la datazione del Codice Purpureo, il luogo in cui fu realizzato e l’identità di chi lo portò a Rossano. La maggior parte degli studiosi, basandosi sullo stile del manoscritto, per quanto concerne la datazione, concordano un periodo compreso tra il il IV e il VI-VII secolo. Il secolo più accreditato è il VI. Dal confronto con altri manoscritti coevi si evince che, molto probabilmente, il codice è stato realizzato in Siria, forse ad Antiochia, oppure in un centro dell’Asia Minore, come Efeso, Cappadocia, Costantinopoli o forse ad Alessandria d’Egitto. Si ipotizza che il codice sia arrivato a Rossano nel VII secolo, a causa del primo iconoclasmo, e che sia stato condotto a Rossano da un gruppo di monaci greco-orientali che custodivano il prezioso testo Sacro. Il testo fu ritrovato nel 1864 all'interno della sacrestia della Cattedrale di Maria Santissima Achiropita di Rossano. Fu segnalato per la prima volta dal Giornalista Cesare Malpica. Nel 1879 il codice fu studiato per la prima volta, dal punto di vista scientifico, dai tedeschi Von Gebhardt e Adolf Harnack, i quali lo sottoposero all'attenzione della cultura internazionale. Nel 1907 il Codice venne esaminato dallo storico dell’arte e architetto Antonio Munoz. Il primo restauro fino ad ora documentato fu condotto nel 1919 da Nestore Leoni che provvide a consolidare e stirare la pergamena servendosi di gelatina stesa a caldo, rendendola trasparente in maniera irreversibile. Tra i più rilevanti studiosi italiani si segnalano quelli di Dei Maffei (1978), e Cavallo (1987); quest’ultimo viene ricordato per la realizzazione del facsimile e del commento analitico del Codice.

Il Codex Purpureus di Rossano è un documento d’inestimabile valore storico archeologico. Grazie alle sue tavole policrome perfettamente conservate, è considerato il più antico libro illustrato del mondo. Nell'ottobre del 2015 è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità ed inserito dall’Unesco tra i 47 nuovi documenti del registro della memoria mondiale.

Fig.2 - Codice Purpureo, l’ingresso di Gesù a Gerusalemme.

Bibliografia e Sitografia

Dè Maffei F., Il Codice Purpureo di Rossano Calabro, in Atti del Congresso Internazionale su S. Nilo di Rossano, 28 settembre-1 ottobre 1986, Rossano-Grottaferrata, 1989, pp. 365-376.

Filareto F., Renzo L., Il codice Purpureo di Rossano, perla Bizantina della Calabria, Museo Diocesano d’Arte Sacra Editore, Rossano 2001.

Leone G., La Calabria dell’arte,: Città Calabria Edizioni, gruppo Rubbettino, 2008, pp. 4-6.

Malpica C., La Toscana, l'Umbria e la Magna Grecia, Napoli 1846, pp. 313.

Muñoz A., Il Codice Purpureo di Rossano e il frammento Sinopense, con XVI tavole in cromofototipia, VII in fototipia e 10 illustrazioni nel testo, Roma, Danesi Editore, 1907.

Rotili M., Il Codice Purpureo di Rossano, Cava dei Tirreni 1980.

 

Sitografia

http://www.artesacrarossano.it/codex.php


SANTA MARIA IN VAL PORCLANETA

Introduzione

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta è uno dei più interessanti esempi di arte romanica abruzzese, in cui confluiscono influenze arabo-ispaniche, bizantine e longobarde. E' situata alle pendici del Monte Velino a m. 1022 di altezza, raggiungibile percorrendo una caratteristica mulattiera che la collega al vicino paese di Rosciolo, frazione di Magliano de' Marsi.

La chiesa di Santa Maria in Val Porclaneta fu eretta nella prima metà dell'XI secolo. Accanto alla dedicazione alla Vergine il tempio conserva il nome antico della valle, "Porclaneta", la cui origine è variamente interpretata: termine in uso nella lingua ebraica, con significato di "baratro"; dal greco "poru clanidos" (manto di tufo); culto locale della divinità pagana di "Porcifer" (o "Purcefer"). La chiesa, inclusa in un più ampio complesso conventuale, era posta sopra il castello di Rosciolo, feudo dei Conti dei Marsi. Nel 1080 il conte Berardo figlio di Berardo, conte dei Marsi, donò al monastero di Montecassino il monastero di Santa Maria in Valle Porclaneta. Alterne vicende interessarono la chiesa nel corso dei secoli: la distruzione avvenuta nel 1268 in concomitanza con la battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò; un periodo di abbandono da parte dei monaci nel 1362; le dispute fra i Conti dei Marsi e l'abbazia di Farfa per la proprietà del cenobio; l'acquisizione del complesso da parte della famiglia Colonna e la rivendicazione regia nel 1765; la distruzione del monastero fino ai restauri piuttosto invasivi del 1931.

L'acquisizione di Santa Maria in Val Porclaneta

Ma facciamo un passo indietro: torniamo all'acquisizione della chiesa da parte di Montecassino. Subito dopo i Benedettini avviarono la ricostruzione del complesso abbaziale nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare; a differenza della chiesa, del monastero non rimane più alcuna traccia. Nonostante l'appartenenza cassinese, la chiesa non riflette lo stile caratteristico che contraddistingue le fondazioni legate più o meno direttamente alla committenza dell'abate Desiderio di Montecassino.
La facciata a due spioventi è preceduta da un atrio coperto con unica arcata a tutto sesto e con tetto a due falde; nei pilastri laterali due iscrizioni attestano le identità del "benefattore e donatore ... Berardo figlio di Berardo" e "dell'illustre Nicolò" che dovette curare la costruzione dell'edificio. Attraverso il portico si raggiunge l'ingresso principale: un portale dalle linee piuttosto semplici in cui spicca la presenza di una graziosa lunetta ogivale, affrescata nel XV secolo con una raffigurazione della Madonna col Bambino tra due Angeli adoranti. Degna di nota è poi la decorazione esterna dell'abside, riedificata in forma poligonale nel Duecento ed ornata da semicolonne disposte in tre ordini; delimitano i registri due cornici, lavorate a foglie di acanto e palmette dritte nel primo registro, con semplici modanature nel secondo. Chiude la composizione una teoria di archetti ciechi, alternativamente a pieno centro e trilobi. I capitelli delle semicolonne sono decorati da raffinati motivi vegetali di tipo borgognone; nel secondo ordine fungono da base alle semicolonne dei leoni stilofori.

Descrizione

La chiesa presenta una pianta di tipo basilicale, suddivisa in tre navate da massicci pilastri quadrati e terminante con un'abside semicircolare; tre scalette immettono nel presbiterio, rialzato per via della cripta rettangolare che si sviluppa nello spazio sottostante. A destra dell'ingresso è posto il sepolcro del maestro Nicolò, con la lapide scolpita dallo stesso artista. Di grande valore artistico sono poi l'ambone, il ciborio e l'iconostasi. L'ambone di Rosciolo è uno dei più begli esempi di scultura medievale abruzzese, scolpito con influenze orientali e bizantine, dai maestri Nicodemo e Roberto di Ruggero nel 1150. L'ambone è scolpito in pietra rivestita di stucco, con cassa quadrata che poggia su piedritti ottagonali. La decorazione presenta dei bassorilievi che ritraggono scene del vecchio testamento. Il ciborio, con intarsi di derivazione moresca e una rara iconostasi in legno sorretta da quattro colonnine con capitelli decorati e fusti tortili, è attribuibile sempre a Roberto ed esser datato, in riferimento all'ambone, in prossimità del 1150. Molti dei motivi decorativi presenti nell'ambone sono riproposti nel ciborio. L'elemento di arredo liturgico più antico tra quelli presenti nella chiesa è la bellissima iconostasi, realizzata con buona probabilità alcuni anni prima dell'arrivo di Roberto e Nicodemo per l'ambone ed il ciborio. All'interno della chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta si conservano interessanti affreschi, opera di artisti locali, che raffigurano diversi soggetti sacri, spesso ripetuti. Il gruppo più numeroso di essi si data al XV secolo e comprende, tra le altre, ben sette rappresentazioni della Madonna con Bambino in trono, dislocate sui pilastri delle navate, nonché sulle pareti del transetto e del presbiterio: di queste, due conservano iscrizioni che permettono di assegnar loro una data di esecuzione più precisa (1444 e 1461). Allo stesso lasso di tempo si possono datare anche un Cristo crocifisso con S. Giovanni Evangelista e la Madonna sorretta delle pie donne posto nella parete sinistra della navata centrale. Due immagini di S. Antonio Abate si trovano nella navata centrale (secondo pilastro) e nel transetto: la prima presenta in alto un'iscrizione che permette di identificare correttamente il santo raffigurato, il quale, in questo caso, ancora non presenta la tipica iconografia che troviamo invece nel secondo dipinto, forse di poco posteriore. Infine, ascrivibile allo stesso secolo è una rappresentazione di S. Sebastiano presente nel presbiterio. Al secolo precedente si può far risalire un altro affresco, raffigurato sul quarto pilastro della navata centrale, che raffigura S. Lucia, resa identificabile dall'iscrizione posta nella parte superiore del dipinto stesso. Al XIII secolo è databile una Crocifissione di Cristo conservata nel presbiterio.


VILLA PANDOLA SANFELICE A LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Di Mocogia - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47546851

Lauro (in verde più scuro sulla cartina), piccolo paese della provincia di Avellino che dista circa 40 km dal capoluogo, è situato al centro del cosiddetto Vallo di Lauro, una valle incassata al di sotto delle cime dei monti Cresta e Pizzo D'Alvano (entrambi sui mille metri) che per la sua posizione strategica ha costituito da sempre un luogo di conquista per le varie dinastie che si sono susseguite nei secoli, dai Normanni fino ad arrivare agli Orsini, ai Del Balzo e ai Pandola. In tempi recenti Lauro viene ricordata per essere la città natale di Umberto Nobile, generale dell'Aeronautica famoso per la sfortunata esplorazione nel 1928 del polo Nord sul dirigibile "Italia", da cui venne tratto il film "La tenda rossa" del 1969 diretto da Mikheil Kalatozishvili.

Fig. 2: il dirigibile Italia https://www.osservatorioartico.it/la-storia-del-dirigibile-italia/

Villa Pandola Sanfelice

Villa Pandola Sanfelice si trova appunto nel comune di di Lauro, ed è situata sulle antiche mura a ridosso del Castello Lancellotti. Originariamente era di proprietà dell'Ordine del Beneficio di S. Maddalena, e fu acquistata dalla famiglia Pandola nel 1753, favorevole all'unificazione d'Italia e al Risorgimento; la dimora rimase della famiglia fino al matrimonio nel 1966 dell'ultima discendente di casa Pandola, Emilia, quando essa passò ai Sanfelice,di tradizione filoborbonica. La casa rispecchia questa pluralità di visioni, in quanto in essa sono contenuti sia cimeli militari che rimandano ai moti risorgimentali, sia arredi che rispecchiano un gusto più tradizionale e filomonarchico. Tutta la storia della famiglia è contenuta in un libro, "Emilia e i suoi: una famiglia del sud dentro il Risorgimento", scritto dall'ultima discendente di casa Pandola, l'irlandese Emilia appunto, nata Higgins e trasferitasi a Napoli nei primi dell'Ottocento.

Fig. 1: villa Pandola Sanfelice, l'esterno https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Villa Pandola Sanfelice: la casa

L’ingresso è preceduto da un viale dall'andamento sinuoso, fiancheggiato da aranci, limoni, numerosi arbusti floreali quali rose e gelsomini, palme di diversi tipi e alberi centenari, immerso in uno splendido scenario naturalistico digradante in una piccola altura boscosa. L’ingresso è costituito da una grande stanza che fa da collegamento e contemporaneamente divisione a due saloni, l’uno detto “degli Specchi”, l’altro “delle Battaglie”, dal soggetto dei quadri presenti, a cui segue una piccola cappella. Sia la hall che i saloni sono impreziositi dagli arredi originali d’epoca, ma soprattutto dai pavimenti di maioliche napoletane originali del XIX secolo.

Dal piano terra, attraverso uno scalone di marmo, si giunge al primo piano o piano nobile, dove sulla sinistra si può ammirare la cosiddetta “Sala della musica”, il cui pavimento è tutto di maioliche sui toni del terra bruciata a disegni geometrici: domina la stanza, immersa in una calda luce beige grazie alla tappezzeria di seta a colori neutri, un pianoforte della prima metà dell’ ‘800 cosiddetto "Gran Concerto", su cui sono esposti dei violini.

Fig. 2: la sala della musica https://www.turismo.it/cultura/articolo/art/campania-alla-scoperta-di-villa-pandola-sanfelice-id-19030/

Successivamente, in una disposizione ad infilata, si trova il “salotto verde”, dal colore predominante degli arredi, impreziosito da un camino di marmo bianco scolpito di foggia semplice ma elegante. Alle pareti, quadri a carattere naturalistico raffiguranti uno la foce del Garigliano (fiume che segna il confine fra Campania e Lazio), l’altro Torre Astura (torretta fortificata laziale). Il pavimento è di cotto, che contrasta piacevolmente con la tappezzeria bianca.

Fig. 3: sala verde
https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

Degna di nota è la camera da letto principale, detta “dell’Ammiraglio” in quanto sul letto campeggia un quadro raffigurante una battaglia: arredi originali dell’epoca e un letto sormontato da un baldacchino completano l’insieme; tutti i mobili sono originali, in stile Impero.

Fig. 4: camera da letto https://www.dimorestoricheitaliane.it/dimora/villa-pandola-sanfelice/

La Villa contiene, ed occasionalmente espone, cimeli, antiche uniformi militari, documenti e corrispondenze, abiti di corte e testimonianze delle simpatie filoborboniche della famiglia Sanfelice, che contrastano piacevolmente con gli arredi di gusto risorgimentale, come ad esempio i quadri di noti liberali dell'Ottocento, come Carlo Poerio, appesi alle pareti.

Tutta la struttura è insomma pervasa dal fascino multiforme della Storia, che un attento restauro a cura delle attuali proprietarie ha saputo conservare pressoché intatto.

 

SITOGRAFIA

www.osservatorioartico.it

http://dimorestoricheitaliane.it/vacanze-location/villa-pandola-sanfelice/

http://www.irpinia.info/sito/towns/lauro/villapandolasfelice.htm

http://www.nobili-napoletani.it/sanfelice.htm

http://www.ottopagine.it/av/agenda/74047/lauro-tutto-pronto-per-la-pubblicazione-di-agora.shtml


CHIESA DI SANT'ADRIANO A SAN DEMETRIO CORONE

A cura di Antonio Marchianò

Introduzione

La fondazione della chiesa di Sant'Adriano è legata alla figura di S. Nilo di Rossano, uno dei maggiori protagonisti del monachesimo greco dell’Italia meridionale del X secolo. Nel 955 S. Nilo dopo un periodo di duro ascetismo nella valle del Mercurion si trasferì a San Demetrio e su un terreno di proprietà della famiglia fondò il suo ascetario, divenuto poi un cenobio, accanto a un piccolo oratorio già esistente dedicato ai santi martiri Adriano e Natalia. S. Nilo rimase qui fino al 980.

Fig. 1- Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone.

Dopo la sua partenza la chiesa fu distrutta durante un’invasione saracena. Successivamente fu ricostruita da S. Vitale da Castronuovo anche se molti sostengono che questa è un’ipotesi sbagliata. Nel 1088 il duca normanno Ruggero Borsa figlio di Roberto il Guiscardo donò il monastero, con tutti i suoi edifici, alla abbazia benedettina di Cava dei Tirreni. Questa dipendenza fu importante per la storia edilizia della chiesa, durò per diciotto anni. Nel 1106 lo stesso Ruggero Borsa sottrasse il monastero alla Badia di Cava dei Tirreni e lo restituì ai basiliani.  In epoca normanna, tra la metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, il monastero raggiunse uno stato patrimoniale di floridezza economica e fu ricostruito ex novo. In questo periodo venne costruito il pavimento in opus sectile. Si presume che l’intera pavimentazione fosse decorata in origine con disegni geometrici, di cui oggi solo la metà è giunta a noi, mentre il rimanente è rivestita con mattonelle, frutto dei restauri del XX secolo. Oltre al pavimento in opus sectile troviamo quattro lastre figurative medievali: un leone e un serpente che si contendono una preda irriconoscibile(fig.3), un serpente che si avvolge in tre spire, un felino(fig.2) non si sa se una pantera o un gatto), un serpente avvolto nelle spire. Paolo Orsi sostiene che i materiali utilizzati nel pavimento forse sono provenienti dall'antica città di Copia non lontano da San Demetrio Corone.

All'interno della chiesa di Sant'Adriano non solo il pavimento presenta delle decorazioni, ma anche le pareti. In origine gli affreschi decoravano tutte le pareti della chiesa, ma solo una parte è giunta fino a noi; furono scoperti fortuitamente nel 1939, durante gli interventi di restauro di Dillon. Lo studioso li rinvenne al di sotto di uno strato di calce apposto probabilmente dagli stessi monaci del monastero alla fine del Settecento, forse per cancellare ogni traccia dell’antica presenza bizantina. Gli affreschi sono stati datati fine dell’XI secolo inizi del XII secolo. Il ciclo si svolge lungo la navata centrale, nei sottarchi e nei muri circostanti agli archi delle navate minori. Il programma figurativo è prevalentemente iconico e attinge al repertorio agiografico dell’Italia meridionale. Negli intradossi degli archi vi sono raffigurati santi stanti e isolati. Purtroppo le figure non hanno iscrizioni e questo rende assai difficile la loro esatta identificazione.

La chiesa di Sant'Adriano presenta quattro archi per ogni lato. Al di sotto di ogni arco sono inserite due figure di santi separate da un clipeo con motivo floreale (fig.4), per un totale di sedici santi, di cui solo dodici esistenti per intero, due frammentari e due totalmente scomparsi. Altri affreschi si trovano nel muro interno della navata nord dove troviamo una serie di santi, tutti di sesso maschile, mentre nella navata sud troviamo figure di sante, le uniche identificate: S. Giuditta, S. Anastasia e S. Irene

Fig. 4- Chiesa di Sant’Adriano, santi separati da un clipeo con motivo floreale.

In questa navata troviamo anche una scena narrativa: la presentazione della Vergine al tempio (fig. 5). La scena è composta da numerose figure, la Vergine condotta al tempio dai Gioachino e S. Anna affidata al sacerdote Zaccaria vicino ad un ciborio, una processione composta da sette fanciulle con lampade accese. L’altare maggiore della chiesa è datata 1731, attribuito a Domenico Costa. Sopra campeggia una tela del martirio di Sant'Adriano probabilmente opera del pittore Francesco Saverio Ricci. Nelle due nicchie ai fianchi della tela, sono collocati due busti lignei del 1600 raffiguranti Sant'Adriano e Santa Natalia. Nell'altare a sinistra è raffigurata la Madonna con San Nilo e San Vito, mentre in quello di destra è raffigurato San Basilio.

Fig. 5- Chiesa di Sant’Adriano, presentazione della Vergine al tempio.

Nella chiesa di Sant'Adriano sono presenti anche delle sculture: un capitello bizantino del X secolo adattato ad acquasantiera, una conca ottagonale presumibilmente d’epoca normanna e un coperchio del X secolo. Si tratta di opere di botteghe locali, facente parti di quell'arte che l’Orsi definisce basiliano calabrese, in quanto influenzata dalla cultura bizantina al tempo dei normanni. La chiesa ha subito nei secoli varie perdite e rifacimenti, ma nel complesso non ha perso del tutto la sua bellezza al suo interno di elementi bizantini e normanni.

 

Bibliografia

Cuteri, A., Percorsi della Calabria bizantina e normanna, itinerari d’arte e architettura nelle provincie calabresi, Roma, 2008.

Dillon, A., La Badia greca di S. Adriano. Nuove indagini sul monumento e notizie della scoperta di un ciclo di pitture bizantine, Reggio Calabria 1948, pp. 7-27.

Garzya Romano, C., La Basilicata, La Calabria, in Italia romanica, IX, Milano1988, pp. 101-108.

Lavermicocca, N., San Demetrio Corone (Rossano): la chiesa di S. Adriano e i suoi affreschi, in “Rivista di studi bizantini e slavi”, III, (1983), p. 262.

Orsi, P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze, 1929, pp. 155-158.

Pace V., Pittura bizantina in Italia meridionale (sec. XI-XIV), in “I bizantini in Italia”, 1982, pp.427-494.

Pensabene, P., Il riuso in Calabria, in i normanni in finibus Calabriae, a cura di Cuteri, F. A.,  Soveria Mannelli 2003, pp. 77-94.

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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IL CASTELLO DI SAN MAURO DI CORIGLIANO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Il castello-masseria di S. Mauro di Corigliano Calabro è un imponente complesso che rappresenta uno dei più interessanti modelli di architettura rinascimentale dell’intera Calabria. Il fabbricato odierno, risalente al XVI secolo, dovrebbe insistere sui resti di un edificio medievale, probabilmente un monastero. Secondo le fonti questo edificio fu costruito presso la distrutta Copia-Turio, probabilmente edificata intorno al 190 a. C. dal Senato Romano, i cui ruderi fornirono le pietre usate per la costruzione delle sue mura.

La trasformazione in palazzo fortificato avvenne nel XVI secolo ad opera dei Principi Sanseverino. I lavori di recupero e riammodernamento della struttura furono eseguiti sotto il Ducato di Giacomo Saluzzo, per tutto il Seicento ed il secolo successivo. Gli interventi cercarono di mantenere inalterati gli ornamenti originali, come lo stemma dei Sanseverino rimasto intatto presso l’ingresso.

Castello San Mauro

Vengono ripristinate tutte le coperture, sostituite le travi ormai logore con nuove e ampliata la sacrestia della Chiesa di S. Antero.

Nel 1828 con il passaggio di proprietà sotto Giuseppe Campagna, ha inizio il lento abbandono della masseria. Solo il vecchio frantoio viene convertito in concio nel 1829 per la lavorazione della liquirizia, attivo solo fino al 1836.

Alla fine dell’Ottocento furono installate alcune macchine per la lavorazione dei cereali, sostituendo il mulino-frantoio con quello proveniente dal convento dei carmelitani, all’ingresso del centro abitato.

Ne seguono pochi interventi di manutenzione, così come riportato da un’iscrizione datata 1875 posizionata nel muro attiguo alla facciata principale.

Ad aggravare ulteriormente la situazione di declino a cui il monumento è stato sottoposto, sono da aggiungere gli inadeguati lavori di sbancamento risalenti agli anni 90 che non hanno rispettato il paesaggio che da più di 500 anni costituiva un tutt’uno con la masseria.

Da un punto di vista strutturale il fabbricato è composto da due corpi di fabbrica contigui a doppia corte, circondati da muri di cinta chiusi dal torrione merlato a forma quadrata, in cui sono visibili frammenti di pitture. In particolare nel primo frammento è visibile lo stemma dei Sanseverino, in parte ricoperto dall’intonaco, in un secondo frammento, invece, è visibile il capo di una Madonna con bambino, il resto dell’opera è stato modificato a causa dell’ampliamento del portone.

Nel corpo occidentale, in cui è situato un ingresso, spicca un torrione adornato da beccatelli e merlature che dà su un ampio cortile addossato al palazzo residenziale. Ad est della corte si sviluppa il corpo orientale in cui ritroviamo un ampio spazio quadrangolare ad uso frutteto.

Nel complesso si tratta di una struttura quadrangolare che poggia su un ampio tratto pianeggiante, posto ad occupare circa un ettaro di terreno, circondato da un cospicuo aranceto.

Al primo piano del palazzo residenziale è collocato l’alloggio padronale al quale è possibile accedere per mezzo di una scala a doppie braccia realizzata in pietra di Genova. Gli ambienti sono tutti voltati, vanno sicuramente menzionate la sala del trono, la camera degli specchi finemente decorata e una sala con camino.

L’esterno ha una ripartizione ritmica costituita da marcapiani, cornici e finestre, oltre ad una sola loggia coperta alla quale si accedeva attraverso due rampe di scale, di cui oggi ne esiste solo una.

Probabilmente la parte sinistra dell’ingresso è stata danneggiata da un incendio come ne testimoniano i segni impressi sulla facciata. Il piano inferiore, invece, era occupato da locali di servizio come la cucina, i magazzini e la cantina. Il cotto della pavimentazione, o meglio i sui resti, lasciano intravedere una serie di archi detti gattaiolati, che isolavano il pavimento da terra con una sorta di camera d’aria.

Il fabbricato nella sua completezza si affaccia, in ultimo, su un’ampia corte quadrangolare il cui ingresso è caratterizzato da una torre quadrata munita di piombatoi per la difesa. La corte era delimitata sui restanti tre lati da ventidue sottani, occupati dagli alloggi dei salariati e dal massaro. Il materiale usato per la costruzione delle arcate è quello più facilmente reperibile nel territorio, si tratta di mattoni d’argilla e ciottoli di fiume ben incastonati, oggi a vista a causa dell’inevitabile degrado dell’intonaco. Anche se la composizione degli archi rimanda ai classici chiostri, la tipologia è differente, infatti a sud sono presenti pilastri a base quadrata con archi a tutto sesto, a nord, invece, una prima serie di pilastri a base ottagonale così da formare quattro archi a tutto sesto, una seconda serie di pilastri a base cruciforme che vanno a formare nove archi su cui insiste una cuspide triangolare che lascia immaginare quello che doveva essere l’enorme copertura del magazzino.

Ad incorniciare il tutto è presente un muro perimetrale merlato costituito da una serie di inferriate e due porte d’accesso al giardino collegate alla corte del palazzo da un grande portale con contrafforti, corrispondenti ai magazzini a destra del palazzo.

Biografia e sitografia

  1. Grillo, Antichità storiche e monumentali de Corigliano Calabro, Cosenza, 1965
  2. Perogalli, M. P. Ichino, S. Bazzi, Castelli italiani: con un repertorio di oltre 4000 architetture fortificate, Bibliografica, 1979
  3. Barillaro, Calabria, Guida artistica e archeologica, L. Pellegrini, 1972

https://www.bisignanoinrete.com/il-castello-di-san-mauro-dei-principi-sanseverino-a-corigliano-calabro/

https://iluoghidelcuore.it

http://icleonetti.it/sito-storico/ipertesti/schiavonea/sanmauro.html

Appunti personali lezioni di restauro A.A. 2008-09


LA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

È risaputo: la devozione del popolo napoletano per San Gennaro è talmente grande da eclissare qualsiasi altro “rapporto” che si possa avere con gli altri 51 patroni della città; San Gennaro è amato, insultato, invocato, “vissuto” quasi nel quotidiano come se fosse una persona reale sempre al proprio fianco. Ed ovviamente le vicende che riguardano i monumenti e le testimonianze artistiche legate al santo sono le più strane ed avvincenti, al confine fra realtà e leggenda. Esempio perfetto sono le vicende della costruzione della Cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo di Napoli.

La Cappella del Tesoro di San Gennaro

A seguito di guerre e pestilenze i napoletani fecero infatti un voto a San Gennaro, promettendo che se il santo avesse allontanato dalla città le eruzioni del Vesuvio, le pestilenze, i terremoti e le guerre la città lo avrebbe “ricompensato” costruendo una nuova e più bella Cappella del Tesoro all’interno del Duomo; per solennizzare questa promessa, essa fu redatta davanti ad un notaio il 13 gennaio 1527 dalla “deputazione”, una sorta di commissione creata ad hoc. Nel 1608 la costruzione della Cappella fu affidata all’architetto Francesco Grimaldi, già attivo a Napoli per altri incarichi; i problemi più grandi si ebbero però al momento della decorazione, in quanto il ciclo pittorico fu voluto affidare a pittori non napoletani, in un tentativo di accaparrarsi le migliori maestranze europee. Tale idea suscitò però le ire dei pittori napoletani ed un insieme di sabotaggi ai danni degli artisti chiamati: il cavalier d'Arpino rinunciò, Guido Reni lasciò Napoli dopo l'accoltellamento di un suo aiutante, Francesco Gessi scappò. Arrivò il Domenichino, cominciò a lavorare ma, dopo una lettera di minacce, fuggì anche lui. Tornò più tardi e completò alcune opere, ma il 6 aprile 1641 improvvisamente morì, avvelenato secondo alcuni. Altri artisti chiamati furono Giovanni Lanfranco, minacciato, e i napoletani Luca Giordano, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera, detto "Spagnoletto". Tra varie vicende, la Cappella fu completata ed inaugurata nel 1646.

Descrizione

Essa è a croce greca, in stile barocco, separata dal resto del Duomo dal cancello in bronzo dorato di Cosimo Fanzago, costruito in circa 40 anni, particolarissimo in quanto è un vero e proprio strumento musicale (se si batte con una moneta il cancello si sentono le note musicali) e da una fascia marmorea sul pavimento, che ribadisce un’altra particolarità della Cappella, ossia la sua appartenenza alla città di Napoli e non alla Curia.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21878993

Vi sono sette altari: uno maggiore (opera del Solimena) situato al centro e che racchiude al proprio interno le ampolle con il sangue del Santo, due laterali e quattro minori, posti alla base degli archi che reggono la cupola.

Di © José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39192953

Tutt’intorno vi sono diciotto sculture bronzee di Santi posti intorno alla scultura di San Gennaro sull’altare maggiore, mentre in totale, compresa sacrestia e cappella della Concezione, vi sono 54 busti reliquari in argento, raffiguranti i santi patroni della città e sempre di scuola napoletana, tra i quali spiccano le attribuzioni a Lorenzo Vaccaro, Giuseppe Sanmartino e Andrea Falcone. Il ciclo di affreschi, come detto, è opera prevalentemente del Domenichino (i pennacchi della cupola e tutta la fascia superiore della cupola), esclusa la parte centrale della cupola, opera di Giovanni Lanfranco, e la pala d'altare di destra (il San Gennaro esce illeso dalla fornace) opera del Ribera.

Di ErwinMeier - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74706408

Dall’altare di destra parte un corridoio, affrescato a trompe-l'œil, che conduce alla sacrestia della Cappella e alla cappella della Conciliazione: la sacrestia, arredata con armadi seicenteschi lignei contenenti i paramenti sacri e sormontati da dipinti su rame, presenta una decorazione candida in stucco con putti e figure che culminano in un affresco ovale di Luca Giordano.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064266

La cappella della Concezione invece presenta una decorazione a marmi e stucchi, con un altro dipinto ovale sulla volta opera del Farelli. Sull’altare maggiore vi è un’opera di Stanzione, che sostituì quella che avrebbe dovuto fare il Domenichino ma che non riuscì a portare a termine a causa della sua morte.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45064267

http://www.museosangennaro.it/it/35/gli-affreschi

http://www.museosangennaro.it/it/34/la-cappella

http://www.cappellasangennaro.it/

 


TORTORA E I SUOI PORTALI MISTERIOSI

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Tortora è il primo paese nord-occidentale della Calabria, vanta una notevole vista sul Mar Tirreno e possiede una posizione geografica strategica grazie al confine con la Basilicata. Il territorio rientra nel territorio del Parco Nazionale del Pollino ed è suddiviso in tre realtà, il centro storico, le frazioni montane e la zona marina, sostanzialmente il paese si estende lungo il Golfo di Policastro, fino ad arrivare a Laino Borgo. 

Da un punto di vista storico, il territorio è stato soggetto alla presenza dell’uomo già dal Paleolitico inferiore, come attestano i numerosi reperti rinvenuti nella zona nota come il Rosaneto risalenti a circa centocinquantamila anni fa. Dal VI al IV secolo a.C., Tortora, meglio nota con il nome di Blanda, fu in seguito abitata dagli Enotri, un popolo preromano. 

L’attuale denominazione del paese è successiva e deriva dalla cospicua presenza dell’omonimo volatile nella zona, che ne ha fatto il simbolo principale dello stemma araldico comunale.

I portali di Tortora

Il centro storico vanta una ricca collezione di portali lapidei, a partire dal più misterioso appartenente alla Cappella del Purgatorio, una costruzione di modeste dimensioni risalente al 1200 circa il cui impianto originario è costituito da un’unica navata quadrata di 8mt circa di lato e da una piccola abside posta di fronte l’ingresso.  Sormontata da un tavolato ligneo dipinto raffigurante le anime del Purgatorio, la navata conduce alla zona presbiteriale ed è separata da essa da un arco a tutto sesto. La facciata, presenta un unico ingresso incorniciato da un mirabile e laborioso portale scolpito con raffigurazioni esoteriche, una nicchia sovrastante lo stesso e due aperture laterali, il tutto capeggiato da un campanile a vista. 

Il portale, del 1688 che con il portone ligneo rappresenta l’unico esempio di arte basiliano-calabrese si presenta come un arco a tutto sesto, la cui parte superiore poggia su due pilastri dalla forma squadrata e nell’insieme rappresentano la volta celeste. I pilasti culminano in due capitelli decorati da un quadrifoglio e una figura animalesca, adagiati su due piedritti, mentre alla base sono scolpiti due leoni accovacciati, a guardia dell’ingresso.

Un ulteriore portale è quello di Palazzo Feudale, che si presenta come un arco a tutto sesto, nella cui chiave di volta è inserito lo stemma in ceramica smaltata della famiglia spagnola Vargas, in esso è rappresentato un braccio che afferra una clava, al di sopra di uno scorcio di mare stilizzato il tutto incorniciato da una bordatura giallo oro e un drappeggio cremisi. L’arco poggia su due mensole lineari mentre i piedritti terminano su due muretti. Il Palazzo, posto in Corso G. Garibaldi, è appartenuto al Principe Vargas Muchaca di Casapesenna, una famiglia feudataria di origine spagnola.

Situato in Via Bruzia, Portale Arleo incornicia l’ingresso di un palazzotto a più livelli, attualmente sfruttato ad uso abitativo. Nessuna notizia storica ci permette di delineare i contorni di una precisa indagine anamnestica, in conformità con il resto dei portali presenti nel territorio dal punto di vista stilistico, si fa risalire intorno alla seconda metà del X secolo, prima metà dell’XI. Oggetto di un errato restauro che ha ulteriormente assottigliato le morfologie dei decori presenti, il portale si presenta come un arco a tutto sesto, culminante in una chiave di volta dalle sembianze antropomorfe, ma dalla funzione apotropaica, si tratta probabilmente di una gorgone o di una Marcolfe. È formato da quattro parallelepipedi smussati ad angolo vivo, e una coppia di piedritti sormontati da due capitelli decorati da una colomba o da una tortorella in alto rilievo, il tutto sorretto da due pilastrini quadrangolari anch’essi decorati da una coppia di cani da guardia. Il resto delle decorazioni si rifà a motivi floreali stilizza che accompagnano nell’insieme l’intero portale. 

Ad incorniciare un suggestivo sottopassaggio sito in Vico Giuseppe Garibaldi troviamo Portale Leoncini, realizzato sfruttando il congiungimento tra due palazzotti privati, dei quali però non si hanno notizie storiche attendibili, così come nulla è stato tramandato riguardo la manovalanza e la data di realizzazione del portale. In conformità con quanto detto precedentemente, per somiglianza stilistica, anche questo portale si fa risalire al periodo compreso fra il X e l’XI secolo.

Realizzato come un arco a tutto sesto, il portale è capeggiato da una chiave di volta apotropaica su cui aleggia il blasone, ricondotto ad una casata familiare che ha come stemma un leone rampante colto di profillo sorretto da un albero posto al centro del blasone. L’arco si sviluppa su due basi quadrangolari squadrate decorate su due facce da croci templari e capitelli recanti una coppia di colombe incastonate in una cornice ottagonale. I piedritti sono decorati da fiori penduli stilizzati che si raccordano specularmente nella chiave di volta. 

Procedendo per Corso Giuseppe Garibaldi, all’entrata di un’ampia corte di un palazzotto signorile, Portale Lomonaco risale all’alto Medioevo e fu testimone nel 1860 della sosta di Giuseppe Garibaldi nel palazzo. L’elemento architettonico presenta un arco a tutto sesto costituito da sei conci decorati da motivi floreali stilizzati che si arrampicano lungo l’intero profilo dell’arco, culminando in una chiave di volta anch’essa floreale. Le mensole sono circondate da ghirlande lapidee, mentre i piedritti sono formati da tre conci in cui si ripete un motivo di foglie alternate a fiori. Il blasone posto in alto rispetto al portale raffigurante lo stemma di famiglia, è stato posto in un secondo momento rispetto alla costruzione del portale. In esso sono raffigurati due leoni rampanti posti ai lati di un albero centrale.

Infine, preso la Chiesa dedicata all’Annunziata, in una zona esterna al centro abitato, di fianco all’entrata nella chiesetta è presente un portale lapideo dalle semplici fattezze, precedente un lungo corridoio affrescato che conduce all’antico chiostro. Il portale si presenta costituito da conci squadrati privi di decorazioni, sui quali è incisa la data di fine lavori, 1628.

 

 

Celico G., Moliterni B., Luoghi di Culto e di Mistero, p. 133-162, Grafica Zaccara, 2003.

Cooper J. C., Dizionario dei Simboli, p.    Franco Muzzio Editore, 1988.

Salem G. N., Leon L. M., I Quattro Soli - Dal Simbolo al Mito - Appunti di Antropologia Iniziatica, p. 49-94 , L’Oleandro Arga Editore, 2008.

Giacomini A., Il libro dei segni sulle pietre, Carmagnola, 2001.

Celico G., Scalea tra duchi e principi, mercanti, filosofi e santi, Soveria Mannelli, pp. 15 e 17, 2000.

Tesi di Laurea triennale della Dott.ssa Daniela Sarubbo - SIMBOLI E MISTERI TRA LE INCISIONI

Progetto di Valorizzazione del Comune di Tortora, AA 2013/14 Università della Calabria

<h3><strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>";

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Villa Cimbrone

Uno dei più spettacolari edifici di Ravello, villa Cimbrone prende il suo nome dallo sperone roccioso, il cosiddetto “Cimbronium”, su cui è posata. Notizie della villa si hanno intorno al 1300, probabile epoca della sua costruzione, quando era di proprietà della potente famiglia degli Acconciajoco, che per varie vicissitudini furono costretti a cederla ai Fusco; questi ultimi, imparentato con i Pitti e i D’Angiò, se ne innamorarono talmente da mantenerne il possesso per più di 500 anni. Al corpo originario della villa furono man mano aggiunti delle cappelle private ed altri edifici, ma a caratterizzarne profondamente l’atmosfera fu il giardino: villa Cimbrone infatti, a differenza del restante territorio di Ravello che è principalmente roccioso e scosceso, offre vaste superfici coltivabili, che hanno permesso di realizzare un parco di ben sei ettari. La costruzione del cosiddetto Terrazzo del Belvedere e l’impianto del giardino sono di epoca rinascimentale, mentre al ‘700 si possono far risalire alcuni interventi nel corpo di fabbrica principale, come i saloni di rappresentanza: questi ultimi in particolare hanno decorazioni che si rifanno al giardino esterno. Alcuni fenomeni storici, come l’epoca napoleonica e il brigantaggio, uniti ad episodi come il terremoto che colpì la Costiera amalfitana alla fine del Settecento, determinarono un periodo di grande abbandono per Villa Cimbrone, svenduta per gravi problemi economici alla famiglia degli Amici di Atrani. L’epoca d’oro per la villa, però, si raggiunge nell’800, quando una buona parte dell’edificio viene comprata da un ricco banchiere inglese, Ernest William Beckett (1856-1917) 2° Lord Grimthorpe, giunto a Ravello per curare una grave forma di depressione. Lo splendore del luogo, il clima mite e i panorami mozzafiato influirono positivamente sul banchiere, che acquistata la villa nel 1904 decise di farne il posto più bello del mondo, e grazie al suo architetto di fiducia Nicola Mansi, commissionò numerosi interventi volti a ripulire e ridisegnare l’aspetto della villa ma soprattutto del giardino, che fu arricchito da statue, fontane e padiglioni decorativi, mentre il lavoro di appassionati botanici internazionali riuscì a far convivere insieme piante tropicali e mediterranee, che furono posizionate in maniera tale da “scandire” il giardino in tanti “episodi”. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio fu confiscato e visse un secondo periodo di abbandono, a cui pose rimedio la famiglia Vuilleumier, che acquistò la struttura nel 1960, ripristinandone man mano l’antico splendore e creandovi un hotel di lusso.

http://www.villacimbrone.com/it/thevuilleumiersperiod.php

http://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/95623-villa-cimbrone-la-piu-spettacolare-ditalia-ravello/<h3>

<strong>GALLERIA FOTOGRAFICA</strong></h3>

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LA CATTOLICA DI STILO, REGGIO CALABRIA

A cura di Felicia Villella

Introduzione: descrizione dell'edificio

La Cattolica di Stilo, una cittadina in provincia di Reggio Calabria, è un edificio risalente al X secolo a pianta centrale, approssimativamente quadrata, con croce inscritta del tipo “puro”, cioè priva del prolungamento ad oriente, per la profondità del bema, e a occidente, per il nartece; modello planimetrico tipico del periodo medio-bizantino, attestato anche a Costantinopoli. La croce è evidenziata all’esterno dalle falde del tetto ed è centrata grazie alla presenza di cinque cupole di uguale diametro, di cui solo la centrale si differenzia per un leggero scarto in altezza.

Lo schema architettonico a cinque cupole, diffuso nella Grecia continentale e insulare, così come nelle province orientali dell’Asia Minore, si può considerare una soluzione regionale del caratteristico impianto medio bizantino originatosi a Costantinopoli. La soluzione adottata nella Cattolica e a Rossano, con ogni probabilità, fu introdotta in Italia dal Peloponneso o dall’Epiro, dove simili tipologie sono numerose soprattutto lungo la costa.

La Cattolica di Stilo: l'interno

Quattro colonne sono poste all’interno, di cui tre in marmo: due in cipollino, una in lumense e l’altra in granito. Sulla prima a sinistra è presente l’iscrizione: “Non c’è Dio all’infuori di Dio solo”, essa poggia su una base ionica capovolta, innestata su di un capitello corinzio in pietra calcarea del III-IV sec. d.C.; la prima a destra poggia, invece, su di un capitello ionico capovolto.

I capitelli delle quattro colonne di tipo paleo-bizantino a piramide tronca, con sagoma rigonfia, costole e nervature a rilievo, rimandano ai capitelli di molte basiliche d’Oriente. Secondo la storiografia potrebbero provenire o dalle rovine romane dell’antica Stilide, nei pressi di Stilo, o tale reimpiego testimonia altri esempi diffusi in molte costruzioni dei secc. X-XI in Grecia quale la Kapnikarea di Atene.

Internamente la suddivisione in nove spazi simili e la particolarità dello sviluppo verso l’alto creano uno spazio moltiplicato, tipica espressione di questo edificio che lo accosta ad analoghi esempi della Grecia insulare, facendo propendere per una loro datazione attorno agli ultimi anni del X secolo. 

La datazione della Cattolica di Stilo non è però del tutto chiara, difatti la storiografia avanza proposte contraddittorie che oscillano dal sec. X-XI al XIII inoltrato. Particolare dovuto agli affreschi riaffiorati fra gli strati palinsesti dell’intonaco interno, che testimonierebbero come l’interno venne decorato interamente per ben due volte se non addirittura tre; la prima tra la fine del sec. X e gli inizi del XI; la seconda alla fine del sec. XII e gli inizi del successivo e nel sec. XIII maturo o agli inizi del XIV secolo.  

Gli affreschi della Cattolica di Stilo

Al primo strato risalente al secolo X, inizi dell’XI, corrisponderebbero le figure di una santa martire nello sguancio destro della prothesis (absidi: la centrale, corrispondente al bema, era destinata ad accogliere l’altare; l’abside a sud, diakonikon, custodiva gli arredi sacri, le vesti dei sacerdoti e dei diaconi; l’abside a nord, prothesis, il rito preparatorio del pane del vino) e di due santi sulla parete occidentale, uno dei quali regge un cartiglio con iscrizione greca, che sono stati accolti come santi guerrieri riguardanti una crocifissione. 

Se così fosse, tale programma iconografico rivelerebbe la presenza di una scena cristologica che è ben attestata nell’ecumene bizantina comparendo anche a Hosios Lucas, in Grecia, sia nella cripta che nel Katholikon; mentre nell’Italia meridionale appare segnalata a partire dal X secolo a Grottaglie, Sanarica, Casarello e Ugento. 

È da notare che le figure appaiono dipinte al limite della goffaggine e non recano segni di delimitazione di campi, quindi sembra di trovarsi davanti a una pagina miniata, tale da ipotizzare che il pittore fosse un miniaturista. 

Tra le raffigurazioni, l’Ascensione presente nella volta del bema ne nasconde una più antica. La progettazione compositiva denota un’evidente incoerenza del gioco degli sguardo fra gli apostoli, alcuni rivolti con la testa all’annuncio proclamato dalla coppia di angeli sottostanti la mandorla, a sua volta sorretta da altri quattro angeli in volo. All’interno di essa, il Cristo seduto su di un segmento che appiattisce la porzione di circonferenza del globo ha una posa che echeggia l’Omologo di Santa Sofia a Salonicco, dal volto nobile e sereno.

Gli angeli dalle ali saettanti, hanno un tono più dimesso e lasciano ipotizzare l’affresco ad opera di una maestranza italo-greca. Gli apostoli, collocati sui margini laterali, e solo parzialmente conservati, conservano preziose tracce della sottostante sinopia.

Gli studi storico-artistici pertinenti agli strati palinsesti d’affresco, hanno rilevato come l’ultima decorazione realizzata nell’edificio risalga al Quattrocento, probabilmente attorno alla metà, ponendosi tra le rare testimonianze pittoriche della cultura tardogotica di matrice catalaneggiante, per altri versi testimoniata nella Regione attraverso tavole dipinte e oreficerie. Purtroppo non si conosce il nome del suo autore, la cui formazione artistica, comunque, è stata ipotizzata di scuola locale.

La definizione cronologica – anche degli altri affreschi – della Cattolica è, quindi, alquanto problematica perché va studiata esclusivamente su confronti stilistici, inoltre, nulla si conosce sull’origine dell’edificio, la committenza e le funzioni da esso svolto.

Si è proposto che fosse il Katholicon di “monastero in grotta”, oppure la Katholikè di Stilo, la Cattedrale, qualora il centro reggino fosse stato sede episcopale, o la chiesa matrice. È da rilevare, inoltre, che nel XVII secolo la Cattolica viene designata tra le parrocchie della città, per passare poi sotto la giurisdizione della chiesa matrice.

Per Paolo Orsi il nome indica “…una chiesa eremitica, officiata da monaci basiliani, che qui vivevano in preghiera e morivano in povertà e qui si facevano seppellire.”; per altri storici ancora, il nome equivale ad universale, titolo che si dava alle chiese matrici parrocchiali munite di fonte battesimale.

Biografia
Appunti personali lezione di Storia dell’Arte Calabrese


IL CASTELLO LANCELLOTTI DI LAURO (AV)

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Situato a Lauro, provincia di Avellino, su uno sperone roccioso chiamato “primo sasso di Lauro” che domina la vallata, il Castello Lancellotti balza agli occhi immediatamente per due ragioni: innanzi tutto per la sua imponenza, e poi per l’ecletticità della sua struttura.

È una costruzione sorta sulle rovine di una precedente struttura di epoca romana, e la sua particolarità consiste nella perfetta coesistenza di vari ordini e stili, senza per questo perdere di armonia e bellezza.

Figura 1: http://www.avellinotoday.it/eventi/storie-inverno-castello-lancellotti.html.

La struttura originaria del castello risale al 976, quando si parla di un certo Raimundo signore del “Castel Lauri”, anche se non si capisce bene dalla denominazione se quel “Lauri” si riferisca al castello o al comune. Quello che è certo è che in quel tempo la precedente struttura non esisteva più.

Il maniero nel tempo ha cambiato vari proprietari, come i principi del principato di Salerno o i Sanseverino, conti di Caserta, nel periodo normanno. Si hanno notizie più certe su di esso nel 1277, quando viene incluso dalla cancelleria angioina nelle proprietà di Margherita de Toucy, cugina di Carlo I d’Angiò. L’anno dopo diventa proprietà dei Del Balzo, famiglia di origini provenzali ma presente ad Avellino, che acquisirono tutta la contea. Costoro, in particolare, erano proprietari di ben trecento castelli in un’area compresa fra Salerno e Taranto, e potevano viaggiare fra queste due località senza mai lasciare i propri domini. (http://www.nobili-napoletani.it/del_Balzo.htm) Successivamente ai Del Balzo vi furono gli Orsini, conti di Nola, nel periodo aragonese, i Pignatelli e i Lancellotti, che ne acquisirono la proprietà nel 1632 da Camillo II Pignatelli e che sono gli attuali proprietari. La storia del castello subì una brusca interruzione la notte del 30 aprile 1799, quando fu dato alle fiamme dalle truppe francesi intervenute a sedare una rivolta giacobina. Una prima parte fu ricostruita nel 1870-1872 ad opera del principe Filippo Lancellotti, mentre i lavori terminarono definitivamente intorno al ‘900.

Figura 2: https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

Il maniero presenta elementi in stile gotico, rinascimentale, barocco, monumenti di epoca romana e un giardino all'italiana, fusi insieme in un complesso armonioso. A circondare la struttura vi sono le mura merlate, su cui sono poste diverse porte di accesso, fra cui spicca il portale rinascimentale a bugnato.

Figura 3: <a href="https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1079030-d2422076-i255138824-Castello_Lancellotti-Lauro_Province_of_Avellino_Campania.html#255138824"><img alt="" src="https://media-cdn.tripadvisor.com/media/photo-s/0f/35/1c/08/il-portone-di-accesso.jpg"/></a><br/>

A colpire lo sguardo è l’imponenza delle torri quadrangolari, in particolare quella della Torre principale che supera i sedici metri di altezza e che svolgeva la funzione di primo luogo di difesa in caso di attacco. Dalle porte si accede alla corte interna, formata da elementi di epoca romana. In essa si trovano la cappella, il chiostrino interno e la biblioteca, che può annoverare più di mille volumi. Fra i libri più preziosi vi sono opere di Cicerone, Tacito, Seneca, Dante, Manzoni, e i libri mastri della famiglia.

Figura 4: https://grandecampania.it/castello-lancellotti/. La corte interna.
Figura 5: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-giardino.jpg. Particolare fontana

Dalla biblioteca, tramite il chiostrino interno a cinque colonne, che richiama quello di un monastero, si accede alla Cappella privata, con il soffitto a capriate lignee, in cui coesistono diversi stili. Si va dall'affresco del Pantocratore assiso sul globo nel catino absidale, tipico dell’età normanna, a una distribuzione delle colonne tipiche di una basilica paleocristiana, ma sormontate da una balaustra di stampo rinascimentale.

Molti gli ambienti visitabili e che fanno parte dell’area abitata, mentre altri ambienti sono stati adibiti a Museo storico. Tra le stanze più caratteristiche ci sono sicuramente le Scuderie, in cui sono esposte carrozze del XVIII e del XIX secolo insieme ad un cavallo in legno e finimenti originali.

Figura 8: http://www.orticalab.it/Castello-Lancellotti-di-Lauro. Scuderie

Ambiente imponente per decorazioni e dimensioni è la cosiddetta Sala d’Armi: vi si accede da due porte che uniscono visivamente e raccordano i vari ambienti, grazie alla decorazione a boiserie sulla zoccolatura delle sale, sempre uguale. Sotto il soffitto cassettonato corre una fascia ricoperta da “quadri” con paesaggi e gli stemmi delle varie casate proprietarie del castello, con cartigli vari. Grandi affreschi posti in maniera speculare e varie picche ed alabarde esposte completano il quadro di questa elegante, ma molto funzionale, sala in cui il lusso e i richiami guerreschi convivono perfettamente. Ad una delle pareti vi è anche un affresco che raffigura il grande incendio che distrusse il castello nel 1799.

Figura 9: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala-d-Armi.jpg. Sala d’armi

Altro ambiente molto imponente è la Sala da Pranzo, che mostra uno splendido soffitto cassettonato con stelle sulle travi. La decorazione alle pareti, caratterizzate da un parato giallo e rosso che si conclude con delle nappine sulla boiserie, riprende idealmente i drappeggi dei tendaggi, mentre una terrazza in trompe l’oeil che corre lungo tutto il bordo del soffitto “apre” otticamente la sala, dandole luce e aria. Uno scenografico camino sormontato da una figura femminile in finto marmo, probabilmente una rappresentazione della Prosperità, completa la stanza.

Figura 10: https://rosmarinonews.it/wp-content/uploads/2019/10/Castello-Lauro-Sala.jpg. Sala da pranzo

A completare l’elenco degli ambienti vi sono il Salone Rosso, che conserva oggetti farmaceutici di origine siriana, la Sala del Biliardo, la camera da letto e la Stanza del Cardinale, che ancora sono parzialmente arredati con oggetti e mobilio d’epoca.

Dalle Sale si accede al grande terrazzo panoramico, che offre una meravigliosa vista sul Vallo di Lauro.

 

SITOGRAFIA

https://rosmarinonews.it/in-viaggio-con-roberto-il-castello-lancellotti-di-lauro/

https://www.ecampania.it/avellino/cultura/castello-lancellotti-lauro-galleria-fotografica

https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/170104-castello-lancellotti-lauro-av-le-residenze-storiche-piu-visitate-della-campania/

http://www.castellidirpinia.com/lauro_it.html

https://www.italiaparchi.it/castelli-e-ville/castello-lancellotti.aspx