IL NINFEO DI VADUE A CAROLEI, COSENZA

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Da un punto di vista Etimologico, il termine ninfeo deriva dal greco nymphâion ed era una parola usata per indicare luoghi di ristoro dotati di vasche d’acqua colme di piante acquatiche, in cui si praticava il culto delle ninfe, da cui il nome per l’appunto, le divinità femminili minori che nella mitologia classica erano venerate come genî benigni ai mortali.

In seguito il termine cominciò ad indicare sia grotte di origine naturale che di origine artificiale in cui erano presenti sorgenti di acqua naturale, ed infine, in epoca rinascimentale e poi barocca, comprese anche le fontane monumentali dalle facciate scenografiche presenti ad esempio nelle ville.

In Italia sono presenti diversi esempi, soprattutto in Campania, ma anche la Calabria presenta questa tipologia monumentale ed è il caso del Ninfeo di Vadue a Carolei, in provincia di Cosenza.

Ad oggi il complesso monumentale di Vadue Vecchia è considerato un parco storico in cui è presente un’antica residenza nobiliare restaurata, risalente probabilmente al XVII, costruita su strutture preesistenti e voluta dalla marchesa spagnola Alarcon Mendoza de la Valle; essa include un ampio cortile circondato da un’alta cinta muraria con annesse due cappelle, una casa - torre e un ninfeo con seggio e canopo interamente affrescato, ma in cattivo stato di conservazione.

Il sito insiste su un costone roccioso che parte a sud dalla confluenza del torrente Cavallo con il fiume Busento, fino a nord con la valle del Busento, sulla via Cosenza - Carolei Domanico - Amantea.

Il Ninfeo di Vadue a Carolei

Il Ninfeo è formato da una sala le cui pareti sono intervallate da una serie di aperture, la cui continuità è garantita da una seduta continua che percorre le tre pareti che danno sulla vasca, di forma quadrata, colma d’acqua; al centro si trova un calice decorato da figure antropomorfe e da un piccolo canopo formato da due alte colonne di ordine dorico. Ai lati sono presenti due aperture con architravi sormontati da nicchie la cui calotta presenta una decorazione a conchiglia, mentre probabilmente manca uno stemma nobiliare alla sommità dell’arco.

La sala si sviluppa all’interno del costone roccioso, dal quale è appunto ricavata; essa presenta una scenae frons sottolineata da un arco centrale ribassato e ricoperta da una volta a botte con superfici affrescate da cornici, ghirlande e differenti scene mitologiche, raffigurate con ambienti e personaggi proposti con abbigliamento classico.

Nonostante il compimento di un intervento di recupero, non è stato possibile bloccare lo stato di deterioramento, né ritardarlo, soprattutto nel caso degli affreschi, in parte dovuto alla natura stessa del ninfeo ricavato all’interno della roccia, una condizione che incrementa notevolmente il tasso di umidità delle pareti, interessate da diversi episodi di efflorescenza, variazioni cromatiche, infestazione di vegetali, fratture e lacune.

Tra le interpretazioni adottate relative alle rappresentazioni ancora leggibili, pare che le scene presenti su uno dei lati della volta possano rappresentare i miti di Apollo e Dafne, di Leda e il cigno e di Europa rapita dal Zeus.

Dirimpetto è raffigurata una particolare scena mitologica, forse riferita al mito di Atteone ed Artemide, è inoltre presente la sposa di Ercole, Delanira, che cavalca il centauro Nesso.

Il restauro della seconda metà del secolo XIX ha permesso di dare forza alla struttura al fine di garantire una maggiore stabilità costitutiva, ma l’assenza di manutenzione di certo non ha giovato ad un così delicato manufatto.

C’è da dire che il paesaggio in cui il manufatto è contestualizzato lascia realmente senza fiato, imboccando una stradina secondaria rispetto alla via principale che porta al centro del paesino ci si trova immersi nel verde, un boschetto che era ricco ornamento dei fasti di un tempo, in cui ben si calava un’opera come il ninfeo atta all’ozio, inteso nella sua accezione più nobile.

Un luogo sicuramente da rivalutare e da inserire in un percorso turistico più ampio che miri a considerare la residenza con cappella e ninfeo annesso un posto dal richiamo romantico in cui rivivere quello che la marchesa Mendoza sicuramente aveva intellettualmente concepito.

Figura 5 - Ninfeo di Vadue di Carolei, prospetto frontale

Bibliografia

    • F. Costabile, I ninfei di Locri Epizefiri, Soveria Mannelli (Cz), 1992
    • L. Addante, Cosenza e i cosentini. Un volo lungo tre millenni, Rubbettino, Soneria Mannelli (Cz), 2001
    • G. De Rose, Monografia sintetica della cittadina di “Ixia”. L’odiernan Carolei, Associazione sportiva Carolei di Toronto, 1979
    • C. Gattuso, R. Cozza, P. Gattuso, F. Villella, La conoscenza per il restauro e la conservazione, Franco Angeli, Roma, Ottobre 2012

 


LA REGGIA DI CARDITELLO

Più che per le sue reali valenze artistiche, che pure sono notevoli, la Reggia di Carditello rappresenta un simbolo sia dello stato dell’arte in Italia, ove solo il volontariato e la passione individuale sembrano realmente contribuire a salvare i beni dall’incuria, e sia di ciò che può fare lo Stato se solo vuole.

La real casa di Carditello, residenza di caccia dei Borbone, sorge a San Tammaro, vicino Capua, ed è opera di un allievo del Vanvitelli, Francesco Collecini, già impegnato nella costruzione del belvedere di San Leucio, che ne realizzò la costruzione dal 1787 al 1804.

Si compone di un corpo di fabbrica centrale, a due piani, e di due ali laterali, separate dalla palazzina centrale da un androne. Al piano terra ci sono le cucine, l’armeria e le sale per il personale, e attraverso due scale simmetriche si accede al piano superiore, dovevi erano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone per i ricevimenti organizzati al rientro dalla caccia. Tutti questi ambienti erano riccamente affrescati con opere di Fedele Fischetti, Giuseppe Cammarano e Philip Hackert.

Antistante il complesso si trova una pista di terra battuta, simile ad un antico circo romano, destinata alle corse dei cavalli, di forma semi-circolare, che circonda un prato centrale, al cui centro vi è un tempietto da cui il sovrano assisteva alle corse ippiche; ai due lati vi sono delle fontane ornamentali.

Prese a suo tempo anche il nome di “Reale Delizia”: il soggiorno presso Carditello era particolarmente piacevole per la Corte di Ferdinando IV, che volle trasformare la reggia da semplice residenza di caccia (come nelle intenzioni di Carlo di Borbone) a vera e propria “fattoria”, ove impiantare coltivazioni di grano ed allevamenti di bovini e cavalli.

Il nome Carditello deriva da cardo, pianta che cresceva numerosa nei pressi della reggia. Di particolare interesse è una piccola chiesa, tipicamente settecentesca, il cui interno è riccamente decorato, ed anche se oggi ne sono rimaste poche testimonianze, si intravedono ancora lacerti di affreschi, opera di Hackert.

La reggia attraversò un prolungato periodo di abbandono e vandalismo: dopo i Borbone, nel 1943 divenne una base per le truppe tedesche, e nel 2011 fu messa all’asta, senza che però nessuno la acquistasse; dal 2011 al 2013 fu sorvegliata da Tommaso Cestrone, volontario del luogo soprannominato “l’angelo di Carditello”, che se ne prese cura fino alla sua morte, avvenuta per infarto la vigilia di Natale del 2013. Si deve a lui e all’interessamento di Massimo Bray, all’epoca Ministro dei beni Culturali, se non si è persa del tutto la memoria di questo stupendo complesso, e se l’intero complesso è stato acquistato dal Ministero.

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IL DUOMO DI SALERNO

Il nome completo del Duomo di Salerno è in realtà “Basilica Cattedrale Primaziale Metropolitana di Santa Maria degli Angeli, San Matteo e San Gregorio Magno”, e nella sua lunghezza racchiude l’importanza di questa chiesa, in quanto “basilica” indica il titolo che il Papa concede ad edifici religiosi particolarmente importanti, mentre “cattedrale primaziale” indica una cattedrale il cui vescovo sia anche primate, cioè titolare di una sede metropolitana molto importante. San Matteo è inoltre il patrono di Salerno.

Costruita intorno al 1080 per volere di Roberto il Guiscardo, presenta un’architettura composita in quanto nella sua struttura sono state inserite delle novità mutuate dall’architettura carolingia, come ad esempio il transetto con tre absidi; la forma e la struttura della chiesa, a tre navate con cripta ad aula e il quadriportico, sono molto simili a quelle dell’abbazia di Montecassino.

Dalla facciata barocca ci si immette direttamente nel quadriportico, composto da una successione di colonne decorate da tondi policromi, sormontate da un loggiato con bifore e pentafore, su cui affaccia la porta in bronzo della chiesa, fusa a Costantinopoli ed originariamente ricoperta d’oro e d’argento. Lungo il portico sono stati collocati dei sarcofagi romani di notevole fattura, mentre sopra la porta, nella parete, sono incastonate le lapidi dei donatori della porta medesima. Svetta sul portico il campanile, alto circa 50 metri, di chiara derivazione arabo-normanna.

L’interno, a croce latina, è a tre navate con volta a botte, mentre il transetto è sormontate dalle originarie capriate lignee; la decorazione parietale è un insieme piuttosto armonico di vari stili, infatti all’impianto seicentesco si alternano affreschi di chiara matrice bizantina, affreschi di probabile scuola giottesca, reperti romani e bizantini e diversi amboni di pregevole fattura. Degna di menzione è la tomba del figlio di Roberto il Guiscardo, a forma di letto con baldacchino.

Ambiente altrettanto particolare e spettacolare è la cripta, restaurata in stile barocco, che conserva le reliquie di San Matteo, protettore della città, e che al centro presenta un altare sormontato da una statua bifronte del Santo, altare che permette la celebrazione della messa da ambo i lati. Al di sotto vi è la tomba del Santo, con un contenitore in cui raccogliere la cosiddetta “Manna di San Matteo”, un liquido trasparente che a volte le ossa del Santo hanno trasudato. Il particolare curioso della doppia faccia del Santo ha fatto sì che anche ai salernitani venisse affibbiata la stessa caratteristica.

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BADIA DI CAVA DEI TIRRENI

Complesso di grandi dimensioni che non si apprezza subito nella sua grandiosità, sorge in cima ad una collinetta che si trova a pochi km dal comune di Cava dei Tirreni, provincia di Salerno.

Fu fondata nel 1011 da S. Alferio Pappacarbone, un nobile longobardo che, ritiratosi su di una collina per condurvi vita ascetica, ebbe la visione della Santissima Trinità sotto forma di tre raggi luminosi che uscivano da una roccia; il prodigio e l’accorrere spontaneo di discepoli lo invogliarono a costruire un monastero con annessa una piccola chiesa.

Ampliata e trasformata in basilica a più navate al tempo di S. Pietro I abate (1079-1123), l’Abbazia si pose a capo di una vasta congregazione monastica, che formò un congregazione a parte all’interno dell’Ordine di San Benedetto, la cosiddetta “Congregazione della Santissima Trinità di Cava”. Nel 1394 il papa Bonificacio IX la elesse a vescovado, mettendola a capo di una diocesi. L’attuale basilica sorse invece nel 1761 per iniziativa dell’abate Don Giulio De Palma e su disegno dell’architetto Giovanni del Gaizo.

La facciata è settecentesca, con una facciata a salienti molto bella ed armonica, e che in un certo senso maschera le dimensioni davvero imponenti del complesso. L’interno, grazie alla pavimentazione in marmi policromi, è molto luminoso. Della basilica colpisce soprattutto l’ambone marmoreo in stile cosmatesco del secolo XII, probabilmente un dono del re di Sicilia Ruggiero II, il quale volle che la regina Sibilla, sua seconda moglie morta a Salerno nel 1150, fosse seppellita nella chiesa della badia.

Dell’allestimento originario restano due cappelle laterali, sui cui altari sono sistemate sculture di Tino da Camaino, fatte eseguire dall’abate e consigliere reale Filippo de Haya: su quello della prima cappella a sinistra, con un paliotto del secolo XI, vi è un rilievo raffigurante la Madonna col Bambino fra S. Benedetto e S. Alferio che presenta alla Madonna l’abate de Haya, mentre sull’altare della seconda cappella a destra vi sono i due gruppi delle Pie Donne e dei Soldati romani ai piedi della Croce.

Subito dopo la balaustra, sulle pareti vi sono quattro statue marmoree, tra le quali degne di nota sono quelle cinquecentesche di S. Felicita e di S. Matteo. Procedendo, a destra è la cella grotta di S. Alferio, con l'urna che ne custodisce le reliquie, a sinistra l’altare di S. Leone con la sua urna e, sulla parete, altre reliquie di santi. Gli affreschi della basilica sono opera del pittore calabrese Vincenzo Morani, che ne completò la decorazione nel 1857. Sotto i 12 altari della basilica sono deposte le reliquie dei 12 abati santi.

Accanto alla chiesa è da segnalare il chiostrino dei secoli XI-XIII, che anche se di proporzioni ridotte (non si poté crearne uno più grande nel ristretto spazio fra la grotta Arsiccia e il ruscello Selano) , è la parte più suggestiva e caratteristica della badia: sebbene abbia subìto diverse manomissioni, ricorda i chiostri fatti costruire nello stesso periodo a Salerno, e che sono caratterizzati da quadrifore con archi a ferro di cavallo, che testimoniano influenze musulmane.

Adiacente al chiostrino è la grande sala del Capitolo, del secolo XIII, in cui sono sistemati alcuni pregevoli sarcofagi romani, mentre suggestivi sono gli ambienti, di epoca diversa, esistenti nei sotterranei della badia e del chiostrino, il cosiddetto “cimitero longobardo”, adibiti a cimitero dei monaci che, per devozione, vollero esservi seppelliti.

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LA CHIESA DI PIEDIGROTTA A PIZZO CALABRO

A cura di Felicia Villella

Introduzione

In provincia di Vibo Valentia si erge la piccola chiesa di Piedigrotta a pizzo Calabro, scavata nella roccia sedimentaria, la cui origine si divide tra storia e leggenda. La tradizione narra che un veliero composto da un equipaggio napoletano in viaggio a metà del 600 nel Golfo di Sant’Eufemia, fu sorpreso da una tempesta che lo fece naufragare distruggendo l’imbarcazione contro gli scogli; l’intera ciurma, però, riuscì a raggiungere a nuoto le rive di Pizzo, portando in salvo anche l’effige della Madonna presente sulla nave ed oggi conservata all’interno della chiesetta. Come voto della scampata morte, i marinai eressero la piccola chiesa scavandola nella roccia e collocando al suo interno il piccolo quadro.

Secondo i documenti storici, invece, verso la fine dell’800, un artista locale, Angelo Barone, iniziò a scolpire nella roccia le navate che compongono la chiesetta sfruttando una precedente costruzione, secondo quanto scrive il canonico Ilario Tranquillo nel 1725, riempiendo gli ambienti con statue che riprendono scene bibliche; alla sua morte, il figlio Alfonso ne proseguì l’opera, completandola con bassorilievi ed affreschi. Purtroppo, negli anni ‘60, una serie di atti vandalici, la ridussero ad un cumulo di macerie, finché, Giorgio Barone, nipote dei due precedenti artisti e rinomato scultore, prese a cuore la ristrutturazione del monumento, terminata nel ‘68. Ad oggi, la chiesetta di Piedigrotta è il secondo monumento più visitato della Calabria dopo i Bronzi di Riace.

La chiesa di Piedigrotta a Pizzo Calabro: descrizione

Da un punto di vista architettonico, la facciata della chiesetta si presenta semplice e lineare la cui sommità è sormontata da una croce metallica e da una statua di Madonna con Bambino, il piccolo campanile laterale è adorno della campana proveniente, secondo la leggenda, dal veliero vittima di naufragio e datata 1632.

L’ambiente interno si divide in tre grotte: l’ingresso è circondato da quattro angeli che sorreggono le acquasantiere dalle basi leonine; a sinistra si trova la raffigurazione della celebrazione di una funzione religiosa con fedeli e sacerdote ad adorazione della Madonna di Pompei, l’arco di ingresso presenta due evangelisti e un grande pesce, tipico della simbologia cristiana.

A seguire, è rappresentato il miracolo di San Francesco di Paola che attraversa lo stretto di Messina sul suo mantello, frontalmente è presente Sant’Antonio di Padova fra gli orfanelli.
La grotta più grande è occupata da un presepe, la cui scena centrale è impegnata dalla natività e sullo sfondo è presente un paesaggio arabo che ospita le statue dei re Magi, questo ambiente è preceduto da due medaglioni posti frontalmente che rappresentano il Cuore di Gesù e di Maria.

A sinistra dell’altare maggiore, infine è scolpita la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci e due medaglioni raffiguranti Papa Giovanni XXIII e Kennedy, realizzati durante il restauro terminato nel ’68. Un’ultima grotta contiene la statua della Madonna di Lourdes, probabilmente ritrovata in bosco negli anni ’50 e qui collocata.

La chiesa ospita anche la statua del protettore della citta di Pizzo, San Giorgio che uccide il drago oltre a Santa Rita incoronata dall’Angelo della morte. L’altare principale ospita una copia del quadro della Madonna di Piedigrotta, l’originale è stato oggetto di un lungo restauro ed attualmente si trova nel Santuario di San Francesco di Paola in attesa di una definitiva collocazione.

Le volte sono interamente affrescate, ma le condizioni di conservazione sono veramente pessime, si distinguono un pellegrinaggio di fedeli a Lourdes, lo sposalizio della Madonna, il naufragio del veliero napoletano e la battaglia di Lepanto.

Dei cinque medaglioni affrescati, soltanto uno risulta ancora leggibile in cui è raffigurato l’Ascensione al cielo.

Bibliografia

  • Sacro e profano in coabitazione. Santi e meno santi nella chiesetta di Piedigrotta a Pizzo, "Bell'Italia", suppl. al n. 120, speciale Calabria, n. 22, aprile 1996;
  • Malferà Carmensissi, Le verità di Piedigrotta, Hodigitria, Pizzo Calabro (VV), 2008.

Sitografia

 


PALAZZO MONDO A CAPODRISE, CASERTA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

A Capodrise, provincia di Caserta, sorge un palazzo di proprietà privata, il cosiddetto Palazzo Mondo, casa-museo privata del pittore Domenico Mondo. È uno di quegli angoli di Campania e di Meridione totalmente sconosciuti, ma che nulla ha da invidiare ad altre più conosciute realtà. Palazzo Mondo è gestito dalla Associazione GIA.D.A. (Giardini e Dimore dell'Armonia), un’organizzazione culturale senza scopo di lucro costituita nel 1999 per volontà dell’Architetto Nicola Tartaglione.

Palazzo Mondo e il suo proprietario

https://www.turismo.it/cultura/articolo/art/titolo-id-18328/

Domenico Mondo, che a Capodrise nacque nel 1723, fu un pittore italiano allievo del Solimena e un prolifico disegnatore, attivo fino al 1800; fu direttore dell’Accademia Napoletana del Disegno su incarico di Fernando IV, ed uno dei migliori esponenti del Barocco napoletano, nonchè poeta dilettante ma molto apprezzato. Tra le altre cose, lavorò ad alcuni cicli di affreschi della Reggia di Caserta, ed affrescò questa dimora in uno stile particolarissimo, ove le suggestioni e le invenzioni del Barocco sono mitigate dal nascente gusto neoclassico.

Questa commistione di stili è evidente già dalla facciata, dove il rigore neoclassico si alterna all’esuberanza barocca della decorazione delle finestre e dei balconi. Particolare è l’interno, in quanto le stanza visitabili sono il frutto di un attento restauro conservativo affidato dagli attuali proprietari all’architetto Nicola Tartaglione. Gli ambienti restaurati sono la camera da pranzo, un salotto, uno studio con pareti dipinte con bordi “all’etrusca”, una sala della preghiera con una statua lignea della Madonna Pellegrina, il salotto d’angolo e una camera da letto rosso pompeiano, oggi arredata con letto a baldacchino.

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Il ciclo pittorico sulle pareti è frutto del lavoro congiunto di Domenico Mondo e dei fratelli Magri: i Magri erano “quadraturisti”, ovvero artisti specializzati nel comporre finte architetture e prospettive, in cui le figure dipinte dal Mondo si inserivano perfettamente. Tutto il piano visitabile è decorato da allegorie, rappresentazioni delle Virtù, trionfi di fiori e frutta.

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Particolare è il cortile interno che ospita un giardino “all’inglese”, ove elementi naturali (alberi, fiori etc) si alternano ad elementi artificiali (pozzi, fontane). Questo giardino ha un particolare curioso: al suo interno si coltiva una piccola camelia in vaso, fiore preferito di Lady Hamilton, moglie di Lord William Hamilton, ambasciatore inglese, che tradì diventando l’amante dell’ammiraglio Nelson; per suo volere, nel parco della Reggia di Caserta nel 1786 fu piantata una camelia, e da quel momento in tutte le dimore che sorgevano nei pressi della Reggia fu piantata una camelia, non escluso il piccolo giardino di Palazzo Mondo. Il restauro attuale, curato dall'architetto Tartaglione, ha trasformato questo cortile interno in una sorta di angolo pittoresco, a metà tra interno e esterno, dove le piante compongono una sorta di scenografia naturale tra gli elementi architettonici come le balconate.

Sitografia

 


VILLA RUFOLO A RAVELLO

Villa Rufolo è uno degli edifici storici maggiormente rappresentativi di Ravello, località tra le più rinomate della Costiera Amalfitana. Famosa in tutto il mondo per i Concerti Wagneriani che la Villa annualmente ospita nei suoi giardini, è a ragione considerata uno dei punti di forza dell’intera Costiera.

Il suo nome deriva dalla potente famiglia dei Rùfolo che ne è stata la prima proprietaria, una delle famiglie più antiche di tutta Ravello, che annoverava tra i suoi membri anche due vescovi; un altro componente della famiglia, Landolfo Rufolo, è il protagonista di una novella del Decamerone di Boccaccio, ove si citano sia i Rufolo che Ravello.

La costruzione della Villa risale all’anno 1000, allorquando i Rufolo vollero costruire qualcosa che testimoniasse il loro potere: l’accesso è costituito da un arco ogivale costruito in tufo giallo e grigio posto nella torre d’ingresso, di colore giallino, dovuto alla presenza di ceramiche macinate; attraverso un viale si arriva al chiostro, in stile moresco con colonnine che sorreggono archi ogivali.
Uscendo dal chiostro si arriva alla Torre Maggiore, che ha conservato l’aspetto originario: dalla sua cima lo sguardo spazia agevolmente su un buon tratto del Golfo.

Dalla Torre si accede ai giardini, una meravigliosa composizione su due livelli di aiuole fiorite che, grazie ai discendenti degli antichi maestri giardinieri che la composero originariamente, si è conservata pressoché intatta. I giardini inferiori ispirarono il Parsifal di Wagner, ed ancora oggi in suo onore ospitano i cosiddetti Concerti Wagneriani, nonché il Ravello Festival, caratterizzato dal palco a strapiombo sul mare.

Costeggiando il Bagno Turco e la Balnea, si arriva alla Sala da Pranzo dalla volta a crociera e, attraverso un sottopassaggio, al Chiostro, ove si incontra la Cappella, spesso sede di mostre ed eventi artistici.

Il restauro della villa, che dopo i Rufolo aveva conosciuto numerosi proprietari, si deve al mecenate ed appassionato d’arte scozzese Francis Neville Reid, che ha riportato la Villa al suo antico splendore.

Nel 2015 la Villa ha avuto 341.484 visitatori, piazzandosi al 16° posto nella lista dei siti più visitati a livello nazionale.

Sitografia

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L'ABBAZIA BENEDETTINA DI LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme, o abbazia di Santa Maria, costruita a Sant’Eufemia Vetere di Lamezia Terme, fu fondata nella seconda metà dell’anno 1000 da Roberto il Guiscardo sui resti di un monastero bizantino intitolato a Hagìa Euphémia di Nèokastronprima testimonianza di una fondazione religiosa degli Altavilla in Calabria.

La sua realizzazione rientrava nel programma di latinizzazione del territorio, un chiaro rimando al potere religioso della Santa Sede che, con il rito latino, esercitava un forte controllo economico e politico sulla zona. La costruzione fu affidata all’abate Robert de Grandmesnil, così come tramanda il diploma di fondazione che Roberto il Guiscardo concesse, acquisendone anche il controllo.

Colpita da un violento terremoto nel 1638, i ruderi attualmente visibili hanno comunque permesso di cogliere i dettagli architettonici che hanno segnato l’edificio. La chiesa è una costruzione che rispecchia i tipici schemi architettonici normanni in voga nell’Italia Meridionale; ad oggi sono ancora visibili il prospetto principale con i resti delle due torri campanarie, le tre navate, con la centrale di maggiori dimensioni separate da una serie di pilastri e quelle laterali illuminate da una serie di finestre ad arco. Inoltre, è visibile la zona presbiteriale accessibile grazie ad una scalinata ad est, definita dai transetti e dalle tre absidi, quella centrale di maggiori dimensioni rispetto le altre due.

https://lameziaterme.italiani.it/scopricitta/giornate-fai-riapre-l-abbazia-benedettina-di-sant-eufemia/

L'Abbazia benedettina di Lamezia Terme

Il presbiterio è stato scavato successivamente, riportando alla luce blocchi marmorei policromi che portavano all’altare posto, come di norma, nell’abside maggiore, dove ai lati erano presenti delle colonne di ripiego appoggiate su elementi architettonici di età romana. In questa zona è stata portata alla luce una pavimentazione realizzata in tessere marmoree policrome, opus sectile, ricavate da marmi antichi, il cui utilizzo è tipico della tradizione normanna e ha lo scopo di sottolineare l’imponenza del potere al pari dell’Impero Romano.

La chiesa era a pianta basilicale, quindi, a tre navate, triabsidata con coro gradonato e transetto sporgente. Nel versane ovest, la presenza di mura spesse 3.30 mt, fa presumere l’esistenza di matronei accessibili attraverso scale o intercapedini; le supposizioni sono dovute al fatto che i resti sono riconducibili solo alla parte superiore della chiesa, infine la facciata sud è scandita da una serie di contrafforti e monofore a tutto sesto.

Per quanto riguarda le torri, è possibile riscontrare i marcatori riconducibili all’architettura normanna, tra cui i cantonali in granito squadrati e le feritoie in pietra. Anche il monastero riprende il motivo delle finestre presenti nella chiesa, la cui muratura è composta da ciottoli di fiume di medie e grandi dimensioni legate da malta la cui composizione non è riconducibile al periodo bizantino, ma bensì al periodo di costruzione sotto il Guiscardo.

L’Abbazia benedettina di Lamezia Terme è un monumento a cielo aperto, immerso tra le terre colmi di ulivi e poco distante dal sito archeologico di Terina, una colonia greca insediatasi nel VI secolo e da cui provengono i materiali di riuso utilizzati nella costruzione dell’edificio. L’intera zona ospita nel periodo estivo spettacoli teatrali calati in una suggestiva cornice storica.

Bibliografia

  • P. Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, p. 24 – 39, A. Forni Editore, 1893.
  • P. Ardito, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, p. 61- 109, La Modernissima, Lamezia Terme, 1989.
  • R. Spadea, Luoghi e materiali al Museo Archeologico Lametino – Guida al percorso, p. 21 - 27 - 31, Nuova Lito, Carpenendolo (BS), Edizione ET, 2011.
  • G. De Sensi Sestito, Lamezia Terme tra arte e storia – Guida ai monumenti, p. 8 - 20, stampa a cura del Comune di Lamezia Terme, 2008.
  • G. De Sensi Sestito, F. Burgarella, Tra l’Amato ed il Savuto. Tomo II, p. 381- 406, Ed. Rubbettino, 2008.
  • K. Massara, I possedimenti dei Cavalieri di Malta nella piana lametina in una platea del ‘600, p. 407-452, Ed. Rubbetino, 2005.
  • E. Pontieri, L’Abbazia benedettina di Santa Eufemia in Calabria e l’Abate Roberto De Grantimesnil - i Normanni nell’Italia Meridionale, Archivio storico per la Sicilia Orientale, 1964.
  • S. Mancuso, G. De Sensi Sestito, I segni della storia - Lamezia terme, La Modernissima, 2008.
  • I. Ingrassia, F. Lombardo, L’abbazia di S. Maria di S. Vetere, pp. 66 – 67, Daidalos, 2002.

 


LA CHIESA DI SAN TOMMASO A CAVEDAGO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la chiesa di San Tommaso a Cavedago tra i monti del Gruppo Brenta e la valle di Non

Alle soglie del paese di Cavedago, sulla statale che sale dal bivio del ponte Rocchetta all'altipiano della Paganella, su un panoramico rilievo aperto verso la valle di Non e coronato dai monti del Gruppo Brenta si innalza la piccola chiesa cimiteriale di San Tommaso. Questa chiesa è stata oggetto di un importante campagna di restauro e di un inedito lavoro di ricerca storico - artistica condotto per una tesi di laurea specialistica.

Le recenti ricerche hanno confermato che questa piccola chiesa venne fondata su una strada di origine romana, tra il XIII e il XIV secolo, ad uso di viandanti e pellegrini che percorrevano questo antico percorso. La chiesa venne poi ampliata tra il 1546 e il 1547 in seguito all’accrescimento della popolazione del paese di Cavedago che si era sviluppato nei dintorni della chiesetta in età basso medioevale. La chiesa venne ampliata nelle forme in cui appare oggi, cioè in stile "gotico clesiano": stile di transizione dal gotico al rinascimento che si diffuse in Trentino durante l'episcopato del principe vescovo di Trento, Bernardo Clesio (1485-1539).La chiesa è infatti un piccolo edificio che presenta elementi architettonici derivati dallo stile gotico e dallo stile rinascimentale.

La chiesa di San Tommaso a Cavedago è caratterizzata da una struttura molto semplice, ma esemplificativa dello stile architettonico che si diffuse nelle chiesette alpine trentine tra il XV e il XVII secolo. La chiesa è caratterizzata da un ambiente ad unica navata scandita da campate coperte da volte costolonate in stile gotico, abside poligonale e presbiterio leggermente rialzato, campanile costituito da un tetto a piramide dalle forme slanciate tipicamente gotiche ed è circondata sul lato sud-est dal cimitero. La facciata della chiesa è articolata da una tettoia sorretta da pilastri in pietra e da un portale rinascimentale in pietra bianca finemente lavorato che porta incisa sull'architrave la data 1546.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/7/7f/Cavedago_-_Chiesa_di_san_Tommaso_02.jpg/1024px-Cavedago_-_Chiesa_di_san_Tommaso_02.jpg

All’esterno, anticamente privo dell’attuale tettoia sopra l’ingresso, corrono lungo la facciata una serie di riquadri affrescati, che raffigurano, da sinistra a destra: San Michele arcangelo provvisto di bilancia per pesare le anime e di una lancia con la quale probabilmente trafigge la figura del diavolo ormai scomparsa. San Michele è raffigurato in coppia con un santo - vescovo benedicente, identificato con San Vigilio, santo patrono della chiesa trentina. Al centro sono invece affrescati una coppia di Santi, di cui sono rimaste solo parte della testa e del collo.

Infine a destra, spicca un grande riquadro contenente un gigantesco San Cristoforo, raffigurato con il piccolo Gesù sulla spalla e il bastone rifiorito in mano; secondo la tradizione devozionale, preservava da morte improvvisa chi si fosse fermato a guardarlo e a recitare una preghiera in un suo onore.

All’interno della chiesa, sulla parete meridionale, sono raffigurate le immagini di San Nicola da Bari e di San Vigilo, invece sulla parete settentrionale è dipinta una Crocifissione tra Maria, San Giovanni evangelista, e le figure di una santa, forse la Maddalena. Il Cristo è rappresentato con corpo piuttosto tozzo e con i piedi fissati alla croce con doppio chiodo, come nella tradizione romanica; invece le figure vicine sono ritratte nell’atteggiamento convenzionale per esprimere il dolore, con il volto lievemente reclinato sulla mano.

Nella fascia al di sotto della crocifissione sono presenti tre altri riquadri molto frammentari: quello centrale lascia appena intravedere una figura di orante; in quello di destra si scorge una mezza figura in posizione frontale danneggiata dall’antico collocamento dell’altare laterale; e in quello a sinistra, in migliori condizioni conservative, eseguito contemporaneamente alla crocifissione, è raffigurata una singolare figura di Fabbro con copricapo a punta, in procinto di modellare sull’incudine un ferro di cavallo che, ancora caldo, tiene in mano con una lunga pinza.

La campagna di restauro e le ricerche hanno stabilito che gli affreschi che oggi decorano la piccola chiesetta risalgono al XIV secolo e sono stati realizzati in tre fasi pittoriche differenti e da diverse botteghe, provenienti dal veronese e dal bergamasco. Il San Vigilio e il Santo vescovo Nicola, affrescati in coppia sulla parete interna della navata di San Tommaso sono stati attribuiti alla corrente pittorica veronese dei primi decenni del trecento che applica modi figurativi ritardatari; mentre i santi rappresentati sulla facciata della chiesa di San Tommaso sono stati attribuiti a personalità di impronta giottesca formatesi nell'ambiente veronese.

Quest'ultima inedita attribuzione è stata determinata dall'elevata esecuzione pittorica degli affreschi della facciata di San Tommaso, che ricordagli affreschi dipinti dai seguaci del Giotto padovano nelle chiese veronesi di San Fermo e di San Zeno. Infine il gigantesco San Cristoforo raffigurato sulla facciata della chiesa di Cavedago è opera del cosiddetto Maestro di Sommacampagna, pittore itinerante di origine lombarda, attivo negli anni centrali del Trecento in valle di Non, ma non solo.

Conclude la decorazione della piccola e suggestiva chiesetta alpina, una seicentesca pala d'altare in legno dorato e policromato opera dello scultore trentino Cristoforo Bezzi da Cusiano (val di Sole) che porta al centro il recente bassorilievo con l'Incredulità di San Tommaso, opera dello scultore Egidio Petri di Segonzano.

Dietro l'altare è infine collocata un'iscrizione con la data di ampliamento della chiesa e del maestro muratore che ha eseguito i lavori: "1547 ROCHO MURARO DE LAINO".I recenti studi hanno posto l'attenzione su questo maestro muratore, Rocco de Redis, originario di Laino nella valle d'Intelvi (Como), ma residente a Tassullo, in valle di Non. Secondo quanto emerso costui ha contribuito a diffondere negli anni centrali del Cinquecento il cosiddetto stile architettonico "gotico clesiano", attraverso l'ampliamento di molte chiese della val di Non e della valle di Sole.

La recente ricerca condotta per la piccola chiesetta di San Tommaso a Cavedago ha quindi posto l'attenzione su un edificio religioso modesto nelle sue forme, ma importante nella sua storia, poiché è esemplificativa delle vicende artistiche e architettoniche che hanno vissutole piccole chiesette delle valli trentine negli anni tra il XIV e il XVII secolo.

Bibliografia di riferimento:

  • GIRARDI Silvio, “In contrada Cavedagum…”. Dai masi alla comunità, Trento, Artigianelli, 2000
  • MICHELI Pietro, Sulle sponde dello Sporeggio, Trento, Argentarium, 1977
  • REICH Desiderio, I castelli di Sporo e Belforte, Trento, Scotoni e Vitti, 1901
  • VIOLA Enrico, La chiesetta di San Tomaso a Cavedago: un atto di rispetto, 2002
  • ZENI ALESSIA, Il magister Rocco de Redis da Laino d’Intelvi nei documenti dell’Archivio di Stato di Trento, in “Studi Trentini. Arte”, 94, 2015, 1, pp. 87-96
  • ZENI Alessia, La chiesa di San Tommaso a Cavedago tra Storia, Arte e Architettura, Trento, Nuove Arti Grafiche, 2015

 


PALAZZO ZEVALLOS STIGLIANO A NAPOLI

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Palazzo Zevallos, o Palazzo Zevallos Stigliano, ubicato sulla centralissima via Toledo a Napoli, è uno degli edifici più particolari della città, oggi sede di Banca Intesa, e dalle testimonianze seicentesche si evince che dovesse essere molto diverso, e quindi facilmente riconoscibile, dagli altri palazzi della zona in quanto più alto di tutti.

Di Armando Mancini - Flickr: Napoli - Palazzo Colonna di Stigliano, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16773353

La sua costruzione, ed anche il suo nome, si devono al ricco mercante portoghese Giovanni Zevallos, descritto come un perfetto "esempio di egoismo e rapina" che grazie alla sua abilità riuscì in breve tempo ad accumulare un patrimonio immenso per l'epoca: per fame di grandezza nel 1635 comprò questo palazzo, già esistente, e man mano, con un’opera di acquisizioni durata quattro anni, si assicurò la proprietà degli altri piccoli edifici della zona. La cosa straordinaria è che Giovanni volle competere niente di meno che con Palazzo Reale, affidando quindi l’accorpamento, la “ristrutturazione” e l’ammodernamento dei palazzi ai canoni barocchi a Cosimo Fanzago, anche se ricerche più recenti tendono a suggerire il nome di Bartolomeo Picchiatti, gran Ingegnere di Corte.

Palazzo Zevallos: descrizione

A marcare la proprietà del palazzo, all’ingresso viene posto lo stemma dei Zevallos, che però durante i tumulti del 1647, che danneggiano l’edificio, va perduto. Nel 1659 la proprietà, a causa della cattiva gestione della moglie e del figlio di Giovanni Zevallos, passa ai Vandeneynden, ed attraverso il matrimonio di una Vandeneynden con un Colonna di Stigliano, a questi ultimi, che ne arricchiscono ulteriormente il prestigio con l’acquisizione di numerose opere d’arte. È di questo periodo la costruzione del portale in marmo bianco e piperno scuro, unica caratteristica mantenutasi inalterata fino ai giorni nostri.

Di IlSistemone - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22119541

Una testimonianze dell’epoca così descrive il palazzo:

“ll pianterreno si apriva con un grande atrio voltato, con pilastri e archi in piperno, dal quale era possibile raggiungere vari punti dell’edificio: a destra vi era una scala secondaria che dava accesso alle cantine e al piano ammezzato; a sinistra la scala principale che permetteva di raggiungere sia l’ammezzato che i due piani nobili; al centro invece si apriva il grande cortile attorno al quale erano disposti vari ambienti di servizio, tra cui una grande scuderia. Il primo piano nobile era composto da varie stanze tra cui una Galleria che dava sul cortile grande e un’altra – più piccola - che affacciava invece sul cortile secondario.”

Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48743228

La proprietà viene mantenuta fino al 1831, anno in cui la principessa di Stigliano, per far fronte a dei debiti, smembra il palazzo, riservandosi il secondo piano e vendendo il primo al banchiere Forquet. Tra il 1898 e il 1920 la Banca Commerciale Italiana acquista tutto il palazzo sia da Forquet che dagli altri proprietari, dando il via all’ultima trasformazione del Palazzo, completamente adeguato al gusto Liberty.

Le modifiche apportate da Luigi Platania riguardano il cortile fanzaghiano, che viene trasformato e adibito a salone per il pubblico; le pareti, che vengono tutte rivestite in marmo; il piano ammezzato, aperto e trasformato in balconate di gusto Liberty, e il grande spazio vuoto coperto dal lucernario vetrato decorato secondo il gusto degli anni; due grandi vetrate policrome sono aggiunte a schermare le arcate tra salone e vestibolo. Viene infine aggiunto il nuovo scalone d'onore monumentale.

Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39976809

BIBLIOGRAFIA

A. Cilento, Bestiario napoletano, Laterza editore 2015