16 LUGLIO LA ‘BRUNA’ E IL CARMINE DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione

Piazza Mercato si trova di fronte al porto commerciale della città di Napoli, in un’area urbana fuori dai circuiti turistici tradizionali, sebbene si tratti di una piazza nella quale si sono svolti molti dei momenti più significativi della storia partenopea.

 

Cenni Storici 

L’area era inizialmente un semplice slargo, chiamato Campo del Morcino e si trovava fuori dalle mura cittadine.

La situazione cambiò con l’arrivo degli angioini: Carlo d’Angiò ne ordinò che, in quello slargo, venisse eseguita la condanna a morte di Corradino di Svevia.[1]

Successivamente fu inglobata nell’area urbanistica e divenne una zona commerciale prendendo il nome di Foro Magno spostandovi, al suo interno, tutto il commercio che prima si svolgeva nell’area in cui si trovava l’agorà di età classica.[2]

Intorno al nuovo foro, fu costruito il primo borgo degli orefici,[3] nelle cui botteghe lavoravano gli orafi francesi giunti in città per volontà degli stessi regnanti.

 Nei secoli successivi, pur continuando ad essere il centro della vita commerciale della città, fu utilizzata per ospitare soprattutto i patiboli delle esecuzioni delle condanne a morte di diversi esponenti della storia partenopea: nel 1647 quella di Masaniello[4] e, negli anni della Rivoluzione napoletana del 1799, qui trovarono la morte per impiccagione i giovani repubblicani, tra loro Luisa Sanfelice ed Eleonora Pimentel Fonseca.

Oggi, Piazza Mercato continua ad ospitare una ricca area commerciale ed è nota anche come Piazza del Carmine poiché su di essa si innalza la Basilica dedicata alla Madonna del Carmine o del Carmelo, detta la Bruna, icona estremamente venerata dai napoletani.

 

La Basilica dedicata alla Madonna del Carmine, detta la Bruna

 

La chiesa si presenta a croce latina, navata unica e dodici cappelle laterali, sei per ciascun lato.

Conta, inoltre, due pregiatissimi organi, di cui uno posto sulla controfacciata.

 

Il soffitto è cassettonato e caratterizzato al centro dalla presenza di una statua lignea della Vergine.

È una basilica barocca, sebbene abbia origini gotiche ed è considerata la chiesa degli Artisti, poiché ha visto la celebrazione di esequie di molte personalità artistiche napoletane come Antonio de Curtis, in arte Totò.

Una datazione precisa sull’edificazione della Chiesa non esiste, è certo che fu iniziata dopo il 1283 ed i lavori proseguirono per diversi decenni del XIV sec., fino ad arrivare poi all’età barocca, durante la quale è stata rivestita dei marmi policromi tutt’oggi esistenti.

La Sagrestia è espressione dell’arte settecentesca napoletana sia negli arredi che negli affreschi, è stata voluta dai Borbone ed è dedicata ai Santi Carlo e Amalia.

 

Il barocco trionfante lo si riscontra i in particolare sull’altare, alle cui spalle è collocato il quadro con l’icona della Madonna del Carmine, detta la Bruna o del Carmelo.

Il quadro della ‘Mamma r’o’ Carmene’[5] ovvero: La Vergine del Carmine, detta La Bruna 

 

Il quadro ligneo rettangolare raffigurante la Vergine del Carmine o del Carmelo, è posto alle spalle dell’altare maggiore dell’omonima basilica e rappresenta una Madonna con Bambino. 

La Vergine è rappresentata su uno sfondo dorato che ricorda i mosaici bizantini ed   indossa un manto blu acquamarina il cui colore vuol simboleggiarne la sua Maternità Divina, su di esso è dipinta una stella pendula che ne rappresenta la Verginità perpetua, ha bordi dorati e, sulla fronte, si vede il bordo rosso della tunica che indossa sotto il manto e, della quale si vedono anche i polsini, il cui colore è il simbolo dell’amore eterno.

Il Bambino in braccio alla madre è retto da entrambe le mani, ma la sinistra si presenta più grande dell’altra, è quasi aggrappato al bordo del manto materno e, con la mano destra le tiene teneramente il volto.

La Vergine, invece, si presenta dai tratti somatici allungati e con la pelle dal colorito bruno, da cui deriva l’appellativo di Madonna Bruna.

Il Suo viso di madre, si accosta e tocca teneramente quello del Bambino, poggiando su di Lui il suo sguardo amorevole.

Il Bambino, invece, non ha un viso fanciullesco, anzi, ha un’espressione quasi austera, con lo sguardo rivolto verso l’esterno della tavola pur rimanendo, coi gesti, legato alla madre.

L’origine della tavola è stata per lungo tempo legato ad una leggenda nella quale si raccontava fosse stata realizzata dell’Evangelista Luca.

Studi diversi, hanno smentito la leggenda e l’hanno attribuita ad un anonimo toscano duecentesco.

Diversi sono stati i restauri di cui è stata oggetto, il più importante è stato ad opera del pittore napoletano Francesco Solimena.

Dalla Palestina a Napoli: dalla fede al folcklore popolare

La storia racconta che l’effige giunse a Napoli portata dai Carmelitani direttamente dal Monte Carmelo in Palestina che, dopo la prima crociata, scapparono per il timore di essere catturati dai musulmani e dopo che fu eretta la nuova chiesa carmelitana in città, il culto si diffuse velocemente tra la popolazione.

Alla sacra effige della Bruna furono attribuiti diversi miracoli, in particolare si faceva riferimento a storie di conversione, ma non mancarono calamità e terremoti per la cui cessazione si chiedeva la Sua intercessione, catastrofi che – la storia di Napoli racconta - cessavano miracolosamente, a seguito delle preghiere o dell’esposizione della tavola.

 

L’incendio al Campanile del 15 Luglio

 

Il campanile risale al 1631, è alto 75m ed è considerato il più alto tra quelli presenti in città.

Alla Vergine del Carmelo è anche dedicato l’incendio al Campanile, uno spettacolo pirotecnico che si tiene ogni anno la sera del 15 luglio, vigilia della Solennità a Lei dedicata.

La storia racconta che durante gli anni di Masaniello si era soliti costruire un carro a cui dare fuoco per ricordare la vittoria dei cristiani durante la battaglia di Goletta contro gli infedeli.

Masaniello era uno dei capi addetti all’accensione del fuoco al fortino che innestava lo scoppio; secondo alcuni storici, era per lui l’occasione per dar vita alle sue rivolte.

Col passar degli anni, ed in particolare con l’avvento dei Barbone, il carro fu sostituito dal campanile: lungo i suoi 75m d’altezza, vengono ancora oggi posizionati fuochi pirotecnici che si accendono attraverso uno stoppino che accende il primo razzo che, a sua volta, innesca la miccia di tutti gli altri dando vita all’incendio ed illuminando a giorno la piazza. 

Alla fine dello spettacolo è tradizione che si aprano le porte della Basilica affinché i fedeli presenti possano entrare e ringraziare la Vergine.

 

Le celebrazioni del 16 Luglio

 Il 16 luglio – nel Giorno Solenne a Lei dedicato – stendardi e gonfaloni mariani vengono esposti e portati in processione lungo le vie cittadine, soprattutto quelle dei quartieri popolari.

Il culto mariano della Vergine del Carmine si intreccia col culto di Maria Santissima dell’Arco,[6] collegandosi quotidianamente con quello del popolo napoletano che invoca la Madre di Dio chiamandola semplicemente Mamm r’ ‘o Carmene. [7]

Mamm r’ ‘o Carmene è infatti una delle espressioni più utilizzate nel linguaggio partenopeo quando c’è un momento di timore, di difficoltà, quando Le si vuole chiedere aiuto; rivolgersi alla ‘Mamma del Carmine’ è come rivolgersi alla propria madre; è un vero e proprio intercalare del popolo napoletano.

Conclusioni

La devozione alla Madonna del Carmine, a Napoli, è fortemente sentita.

Le celebrazioni in Suo onore, sono seconde solo a quelle del Santo Patrono Gennaro del 19 settembre.

Carmine, Carmela, Bruno Carmine od anche Carmine Bruno, sono i nomi che – dopo Gennaro – più si riscontrano tra i napoletani.

Sono espressione di una devozione popolare che ha origini lontane, che trova nel passato remoto le sue radici, nel presente i motivi per portarle avanti, nel futuro la speranza per continuarle.

 

 

 

 

Note

[1] La storia racconta che la madre, Elisabetta di Wittelsbach tentò invano di salvare il figlio, attraverso il pagamento di un riscatto, ma fu inutile poiché al suo arrivo la condanna a morte era stata già eseguita. Era il 28 ottobre 1268. Per dargli degna sepoltura, la regina chiese ed ottenne che fosse sepolto nella Chiesa dei Carmelitani antistante la piazza. Tutt’oggi la Chiesa ne custodisce i resti. 

[2] Area in cui sorge la Basilica di San Lorenzo Maggiore voluta proprio dal casato angioino.

[3] Tutt’oggi esistente nella sua collocazione originaria.

[4] Secondo le cronache del tempo, il capo popolo Tommaso Aniello detto Masaniello, viveva alle spalle della Piazza; oggi – in quel luogo – c’è una targa in sua memoria.

[5] Mamma del Carmelo.

[6] Entrambi i culti – sebbene riferiti alla Vergine Maria e riconosciuti dalla Chiesa di Roma, sono tradizionalmente associati a culti popolari.

[7] ‘Mamma del Carmine ‘ovvero rivolgersi alla Vergine del Carmine per chiederLe aiuto come lo si chiede ad una mamma.

 

 

 

Sitografia

www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/18972 consultato in data 29/05/2022

www.santuariocarminemaggiore.it/icona-madonna-bruna-2/ consultato in data 29/05/2022

www.touringclub.it/evento/napoli-da-piazza-mercato-alla-chiesa-del-carmine-0 consultato in data 01/06/2022


IL PARNASO PT. II

A cura di Andrea Bardi

 

Apollo

Al centro della composizione, il dio della poesia, Apollo, le cui fattezze – è stato ripetuto più volte e mai con l’ausilio di prove dirimenti – sembrerebbero quelle del celebre suonatore di lira Giacomo da San Secondo. L’associazione tra la pratica poetica, un’attività che è ispirata dal divino – NUMINE AFFLATUR è l’iscrizione in due cartigli retta dai putti del tondo a fresco sul soffitto – e il dio, protagonista anche del piccolo riquadro con lo scuoiamento di Marsia (fig. 2), risale al VI secolo a.C, ai tempi del cosiddetto inno omerico. Nel testo, che narra della conquista del monte da parte di Apollo, il dio è Musagete (guida delle Muse). Successivamente, in epoca medievale, il posto di Apollo venne preso da Ermes, dio che, contrariamente ad Apollo, simboleggiava la dimensione tecnica della poesia e della musica. 

 

Partendo dall’elemento tecnico, il primo dato da tenere in considerazione è il tipo di strumento maneggiato dal dio. Allontanandosi dal canone, il pittore, che in altre occasioni si è mantenuto all’interno della tradizione (si pensi alla statua di Apollo della Scuola di Atene o ancora al disegno preparatorio per Apollo oggi al Muséè Wicar di Lilla, fig. 3), fa imbracciare al dio una viola da braccio – strumento che compare, associato ad Apollo, per la prima volta in una miniatura del 1250 – in luogo della lira. 

Una seconda particolarità dell’affresco vaticano va rintracciata nello sguardo del dio, non più perfettamente frontale o volto verso il basso, bensì proteso verso l’alto. Nella Tebaide (Libro VI, vv.355-357), Stazio, nel descrivere Apollo intento a suonare in compagnia delle Muse, lascia intendere che questi rivolga il suo sguardo verso la Terra. Scrive Stazio:

INTEREA CANTU MUSARUM NOBILE MULCENS CONCILIUM CITHAREQUE MANUS INSERTUS APOLLO PARNASSI SUMMO SPECTABAT AB AETHERE TERRAS

(“Mentre Apollo incantava la gloriosa compagnia delle Muse con i suoi canti, con il suo dito sulle corde, guardava in basso verso la terra dall’ariosa vetta del Parnaso”)

Un dettaglio, quello dello sguardo, assolutamente non di poco conto, dal momento in cui “alzando lo sguardo al cielo, Apollo implicitamente riconosce l’esistenza di un’autorità superiore” (trad. dall’inglese). Una possibile soluzione a tale interrogativo può essere individuata nella possibilità che Apollo stia in realtà contemplando l’armonia delle sfere che ha contribuito a creare con il suono della lira/viola.  

 

Omero

Centro nevralgico del nucleo dei poeti epici, quello di Raffaello in Vaticano è il primo esempio di omero cieco sul territorio italiano. La posizione centrale assunta dal padre dell’epica greca può essere spiegata alla luce del forte impianto neoplatonico che caratterizza gli affreschi vaticani di Raffaello. A tal proposito l’ispirazione del poeta, la cui cecità era, già nel Cicerone delle Tusculanae Disputationes vista come la causa di un’abilità immaginativa fuori dal comune, veniva letta come un esempio del furor divinus che, secondo Angelo Poliziano, animava tutti i grandi artisti e letterati e che mancava, invece, al nume tutelare dell’epica durante tutto il medioevo, quel Virgilio che “faticava a scrivere tre versi al giorno” (trad. dall’inglese). Il recupero della centralità di Omero passa, in Raffaello, non solamente per l’affresco del Parnaso, dal momento in cui anche nel trono marmoreo della Poesia sul soffitto compare, inciso, il volto del poeta. 

 

Il Parnaso: la composizione

Il già citato inno omerico (VI sec. a.C.), oltre a costituire il punto d’avvio del fortunato legame di Apollo con la poesia e con la musica, ci fornisce anche ulteriori, ed altrettanto utili indicazioni relativi alla morfologia del monte Parnaso. Questo, se nell’inno omerico presentava un’unica sommità, negli scritti di autori come Lucano e Ovidio, invece, andava a biforcarsi in due cime distinte. Tale tradizione, che venne portata avanti dallo stesso Dante, fu abbandonata da Raffaello il quale – probabilmente su suggerimento di Angelo Poliziano – recuperò la soluzione originaria. Proprio Poliziano, che con l’urbinate intratteneva frequenti contatti, aveva infatti condotto l’operazione di traduzione dell’inno dal greco.  

Circa le ipotetiche fonti figurative del Parnaso di Raffaello, un’ipotesi – remota ma tuttavia affascinante – è stata avanzata da Beth Cohen (The “Rinascimento dell’Antichità” in the art of painting: Pausanias and Raphael’s Parnassus). In un suo contributo del 1984, la studiosa ha proposto un parallelismo tra l’impaginazione complessiva dell’affresco vaticano e il perduto Ade di Polignoto, descritto da Pausania nella Descrizione della Grecia. Il parallelismo si gioca sul numero delle figure (17 nell’Ade, 19 – ad esclusione delle Muse – nel Parnaso) e sulla presenza di una figura centrale impegnata a suonare – Apollo nel Parnaso, Orfeo nell’Ade. Come quest’ultimo, anche l’Apollo raffaellesco poggia la schiena su un albero. 

 

Il Parnaso: gli strumenti musicali

In un fondamentale scritto del 1955 (Archeologia musicale nel Parnaso di Raffaello), Emanuel Winternitz ha chiarito definitivamente la questione relativa alla fonte figurativa degli strumenti musicali impiegati da alcune delle Muse. Essa va rintracciata, per lo studioso, nel cosiddetto Sarcofago delle Muse (o Sarcofago Mattei, fig. 3) del Museo delle Terme di Roma, risalente al 290-280 a.C. Nella cassa Mattei, il fronte è occupato da cinque Muse. Le restanti quattro, invece, si dividono i due lati minori, ed ognuno dei due gruppi è inoltre accompagnato dalla figura di un poeta.

 

Nel sarcofago in questione, infatti, gli strumenti musicali sono presenti nel medesimo ordine con cui appaiono nell’affresco vaticano, pur con alcune differenze. In alcuni casi, come nel caso della cetra di Erato, si tratta, secondo Winternitz, di “pura e semplice trasposizione”.  In altri casi, invece – si pensi allo strumento a corde impugnato da Saffo – ci sono delle incongruenze (un corno che, presente nell’affresco, non risulta nel sarcofago). Nel caso della tromba di Euterpe, invece, lo studioso nota una ricombinazione di alcuni particolari della tromba con altri tipici della tibia. La compresenza di elementi dell’uno e dell’altro strumento rendono inoltre difficoltosa l’identificazione univoca della Musa, dal momento in cui la tromba era lo strumento proprio di Calliope, la musa dell’epica. Queste incongruenze – che non coinvolgono la lira da braccio di Apollo – vengono lette dallo studioso come errori trascurabili e ricondotti “a ragioni di carattere allegorico”. 

 

 

 

Bibliografia

Paul Barolsky, Raphael’s “Parnassus” scaled by Bembo, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 19, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 2000, pp. 31-33. 

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695. 

Alberto Casadei, Vincenzo Farinella, Il Parnaso di Raffaello. Criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, in “Ricerche di Storia dell’Arte”; n. 123, Roma, Carocci, 2017, pp. 59-72. 

Beth Cohen, The “Rinascimento dell’Antichità” in the art of painting: Pausanias and Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 3, no. 4, Chicago, The University of Chicago Press, 1984, pp. 29-44.

Adam T. Foley, Raphael’s Parnassus and Renaissance: afterlives of Homoer, in “Renaissance Quarterly”, 73, New York, The Renaissance Society of America, 2020, pp. 1-32. 

Luba Freedman, Apollo’s glance in Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 16, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 1997, pp. 20-25. 

Kathi Meyer – Baer, Musical Iconography in Raphael’s Parnassus, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, vol. 8, no.2, Wiley – The American Society for Aesthetics, 1949, pp. 87-96. 

Antonio Paolucci, Raffaello in Vaticano, “Art Dossier”, n. 298, Firenze – Milano, Giunti, 2013. 

David Rijser, The Stanza della Segnatura, the Middle Ages and Local Traditions, in Karl A.E. Enenkel, Konrad Adrian Ottenheym (a cura di), The Quest for an appropriate Past in literature, art and architecture, Leida, Brill, 2019, pp. 106-126. 

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.  

Paul F. Watson, On a window in Parnassus, in “Artibus et Historiae”, vol. 8, no.16, Cracovia, IRSA, 1987, pp. 127-148. 

Emanuel Winternitz, Archeologia musicale nel Parnaso di Raffaello, in “Ecclesia”, n. 9, Città del Vaticano, 1955, pp. 452 – 457.  

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/ 

http://projects.mcah.columbia.edu/raphael/htm/raphael_parnas_draw.htm 

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-73 

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-74 

https://www.royalacademy.org.uk/art-artists/work-of-art/study-for-the-parnassus-fresco-in-the-vatican-1 

https://m.museivaticani.va/content/museivaticani-mobile/en/collezioni/musei/stanze-di-raffaello/stanza-della-segnatura/stanza-della-segnatura.html 

https://www.treccani.it/vocabolario/parnaso 


MARGHERITA CAFFI: PITTRICE DI FIORI

A cura di Alice Savini

 

 

La storia dell’arte è notoriamente maschile e pochi sono i nomi di donne pittrici che hanno superato l’anonimato, riemergendo da secoli di dimenticanza: tra queste, vi è la pittrice milanese Margherita Caffi. 

Nata come Margherita Volò, faceva parte di un’importante famiglia di pittori, quella dei Vincenzini, che fondarono la prima bottega specializzata in nature morte di Milano, condizionando con il loro linguaggio espressivo i collezionisti milanesi di questo genere pittorico della metà del XVII secolo fino al primo quarto del XVIII secolo, coinvolgendo tre generazioni di pittori e pittrici.

Fu il padre Vincenzo Volò a dare il via alla bottega in cui lavorarono molti dei suoi figli avuti con Veronica Masoli, sposata nel 1647.  Questi, originario della Franca Contea, regione della Borgogna, si trasferì a Milano dopo il 1635. Pittore di nature morte, fu particolarmente abile nel creare composizioni floreali tantoché gli fu attribuito l’epiteto di “Vincenzino dei fiori”. Questo epiteto divenne una sorta di marchio commerciale a dimostrazione del grande successo raggiunto dalla bottega: gli stessi figli di Vincenzo si facevano chiamare con orgoglio come “Vincenzino” e “Vincenzina”, come fece la stessa Margherita Caffi che si appropriò di tale denominazione a partire dal 1682. In pochi anni Vincenzo riuscì ad allargare le proprie frequentazioni e ad ottenere l’appoggio e l’apprezzamento di una clientela altolocata. Morto il padre nel 1672, furono i figli, Giuseppe (1662- post 1700), Francesca Vincenzina (1657- 1700) e Giovanna (1655-1680), a portare la bottega famigliare ai massimi livelli durante gli ultimi decenni del XVII secolo. (Alcune opere di Vincenzo Volò sono conservate oggi alla Pinacoteca Castello Sforzesco e nel Museo Ala Ponzone di Cremona).

 

Margherita Volò, poi Caffi, era la primogenita di Vincenzo Volò, nata nel 1648, di cui il padre curò la formazione pittorica presso la propria bottega e da cui lei ereditò l’amore per le raffigurazioni floreali: Margherita rimase infatti per tutta la vita una fiorante, seguendo una naturale inclinazione e sviluppando uno stile unico che, diversamente dai fratelli e sorelle, si discostava da quello paterno. Di lei si scrisse: ‹‹rara di lei abilità in dipingere fiori sopra qualsivoglia stoffa di seta, e sopra tele, e carte: e segnatamente sulle pergamene, le quali assai ricercate le erano, e a caro prezzo pagate›› (Lancetti).

 

Tappa fondamentale per la sua vita privata e lavorativa fu il matrimonio, avvenuto il 15 ottobre del 1667 con il pittore cremonese Ludovico Caffi, di cui assunse il cognome. Margherita lasciò Milano per trasferirsi a Cremona dove vi rimase solo per tre anni finché fu costretta a fuggire in seguito all’accusa di omicidio pendente sulla testa del marito; si spostò quindi a Piacenza (1670), poi a Bologna (1672) e infine di nuovo a Piacenza. Di questo periodo di lei si scrisse: ‹‹Si portò poi Ludovico con la sua dilettissima consorte a Bologna, ed applicatosi da dovero col pennello acquistossi assai credito nel figurare quadri sopra de quali la gloriosa pittrice v’intrecciava fiori così bene accordati che misto più nobile non si poteva desiderare›› . In questo periodo lavorò con il marito, realizzando quadri a quattro mani che ebbero grande fortuna commerciale. Questi spostamenti contribuirono alla nascita di un linguaggio pittorico autonomo, a una crescita professionale che la portò lontano dagli espedienti delle sorelle e fratelli rimasti sempre a Milano, tantoché la sua fama si diffuse oltre i confini del ducato milanese, conquistando i mercati dell’Emilia e del Veneto (grazie all’appoggio del cognato Francesco Caffi che riuscì a diffondere il nome di Margherita anche a Venezia), conquistando molti collezionisti e committenti del calibro dei Medici a Firenze, dei Borromeo a Milano, gli Este a Modena e i Gonzaga a Mantova. Ad esempio, per Francesco II d’Este, Margerita realizzò ben 29 tele destinate al casino delle Quattro Torri e alcune per Cesare Ignazio d’Este, cugino del duca.

 

Ritornò a Milano stabilmente solo dopo il 1682, con il marito e i numerosi figli. Qui incominciò ad aiutare la bottega famigliare che nel frattempo aveva accusato la perdita di Giovanna (1680), e collaborò in molti lavori e commissioni con la sorella Francesca Vincenzina, come conferma un quadro di Collezione privata (rintracciato da Ferdinando Arisi) in cui sono riconoscibili distintamente le mani delle due sorelle. 

Il 1697 fu un anno di estrema importanza per Margherita e la sorella Francesca Vincenzina: entrambe furono ammesse alla prestigiosa Accademia di San Luca di Milano, insieme ad una sconosciuta Lucrezia Ferraria. L’onore a loro concesso fu un evento straordinario che non si ripeté più per molti anni a seguire, infatti, l’Accademia era rigidamente maschile e solo nel 1696 fu concessa l’ammissione di donne pittrici, sia come accademiche che come aggregate. Le due sorelle furono scelte sia per il loro valore di frescanti e per la celebrità raggiunta ma anche grazie al benvolere di Federico Maccagni, ex cognato in quanto marito di Giovanna e consigliere della stessa Accademia.

Nel 1691 Margherita rimase vedova e andò a vivere vicino alla madre che viveva con Giuseppe e le altre sorelle. Sembra che Margherita, insieme al fratello, contribuisse al sostentamento famigliare attingendo da quanto ereditato dal marito e ricavando redditi dalla sua professione. Il nuovo secolo vide ridursi, in seguito alla morte di Francesca Vincenzina, ai soli Margherita e Giuseppe lo sparuto gruppo superstite dei Volò pittori di nature morte. Da questo momento in poi, le notizie sulla Caffi si fanno più scarse, sembra che la fama che l’aveva avvolta fino a quel momento sia scemata e la sua produzione divenne limitata. Morì il 20 settembre 1710 nella parrocchia di Santo Stefano Maggiore a Porta Orientale. 

 

È lo stile unico, mai monotono e in piena evoluzione di Margherita che ne decreta la fama raggiunta. Le espressioni floreali, delicate e vaporose sembrano uscire dall’oscurità dello sfondo, in uno stile definito dai critici “piumoso” per il vibrare continuo di luci, forme e colori. I fiori da lei dipinti sono leggiadri, vivaci e sbrigliati realizzati con pennellate lunghe e strisciate, quasi un preludio della pittura di tocco e di macchia. La particolare cura con cui realizza gli effetti di trasparenza dei petali e i riflessi cangianti e metallici dei vasi istoriati riescono a conseguire una ‹‹luminosa polverizzazione della materia››, anche grazie alla sua predilezione per l’utilizzo di toni caldi e colori rossi.

Lodata da storici e critici già nel Settecento, solo recentemente la sua opera è stata in parte rintracciata e comincia a essere rivalutata, ma un profilo artistico è ancora da farsi. I suoi quadri si trovano sia in collezioni private (a Cremona e a Reggio-Emilia), che in musei pubblici, quali il Museo Civico Ala Ponzone di Cremona (Fiori, opera firmata e datata “Marg.ta Caffi fecit 1684”), all’Accademia Carrara di Bergamo e presso la Collezione dei Principi Borromeo di Milano.

 

Le altre donne della bottega: Francesca Vincenzina e Giovanna

Alla morte di Vincenzo Volò furono soprattutto le due figlie rimaste a Milano a prendere in mano le redini della bottega. Francesca e Giovanna, indicate negli inventari del tempo come “le Vincenzine”, adottarono un linguaggio pittorico legato a quello del padre, realizzando nature morte miste con frutti e ortaggi. Le Vincenzine continuarono ad ampliare i rapporti di conoscenza e legami professionali con artisti noti del tempo quali Federico Maccagni (nel 1679 sposo di Giovanna), Giovanni Saglier (notizie dal 1671 al 1733), Luigi Pellegrini detto lo Scaramuccia o il Perugino (1616-1680), padre Andrea Pozzo (1642-1709), Giorgio Bonola (1657-1700). Il loro impegno comune fu essenziale per tutti gli anni Settanta, durante i quali lavorarono per l'aristocrazia cittadina, ma soprattutto per Vitaliano VI Borromeo: la partecipazione di Giovanna e Francesca Vincenzina all'arredo del palazzo dell'Isola Bella attesta l’importanza raggiunta dalle due pittrici. Il grande mecenate, ideatore e costruttore del giardino e del palazzo dell'Isola Bella, nel corso degli anni Settanta aveva commissionato decine di piccoli quadri a fiori alle due “Vicenzine”. Con la morte di Giovanna, a causa di un parto difficile, nel 1680 Francesca Vincenzina divenne il perno intorno al quale ruotò l'attività di bottega nel senso autentico del termine: dopo averne retto le sorti negli anni Settanta insieme alla sorella, in una comunione di lavoro pressoché totale, ella la condusse nel decennio successivo, mantenendone in parte le caratteristiche, lavorando fianco a fianco con il più giovane Giuseppe.

Come già ricordato sopra Francesca Vincenzina fu una, insieme alla sorella, tra le tre donne entrate nell’Accademia di San Luca nel 1697; sposata nel gennaio del 1689 con Nicolao Smiller, morì nel 1700 in una località sconosciuta fuori da Milano.

 

 

Bibliografia

V. Zani, in ‘Natura morta lombarda’, catalogo della mostra a cura di A. Veca, Milano 1999, 160 ' 165, nn. 42-45

Gianluca Bocchi, Il Soggiorno bolognese di Ludovico e Margherita Caffi, in “Strenna Piacentina 2013”, 2013

Gianluca Bocchi, Ricerche genealogiche e indagini storico-artistiche intorno a una famiglia di pittori milanesi del XVII secolo: i Vicentini, Arte Lombarda, n. 175, 2015, pp. 47-69

Gianluca Bocchi, Vincenzo Volò pittore di nature morte di origini borgognone e alcuni aspetti della sua attività milanese, Arte Lombarda, 170-171, 2014

Gianluca Bocchi, Ulisse Bocchi, Naturaliter: nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e il XVIII secolo, Galleria d’Orlane, 1998

 

Sitografia

CAFFI, Margherita in "Dizionario Biografico" (treccani.it)

https://mercanteinfiera.com/antiquariato/dipinti-antichi/dipinti-700/natura-morta-it-10/margherita-caffi-1647-ca.-1710-attr.-nature-morte-con-fiori/ 


FIRENZE: LA CINTA MURARIA TRECENTESCA PT I

A cura di Federica Gatti

 

Alcune delle torri che possiamo ancora vedere a Firenze erano in origine incluse all’interno del perimetro delle mura cittadine progettate nel 1284 e distrutte alla fine del XIX secolo, per permettere la costruzione dei viali di circonvallazione. Queste torri rendevano merlato il perimetro delle mura e svettavano ad un’altezza superiore in prossimità delle porte di accesso, le cosiddette “torri portiere”. Nel 1284 iniziarono i lavori di costruzione delle mura con la realizzazione delle porte a Nord dell’Arno: 

“e murarsi allora da la torre sopra la gora infino a la porta del Prato, la qual porta era prima cominciata insino all’anno MCCLXXIIII, coll’altre porte mastre di qua da l’Arno”[1]

ovvero

“quella di Santa Candida di là di Santo Ambruogio, e quella di San Gallo in sul Mugnone […] e quella d’incontro a le Donne che essi dicono di Faenza ancora in sul Mugnone”[2].

Secondo il progetto originario della cerchia arnolfiana le torri dovevano interrompere le mura ogni 200 braccia, essere alte 40 braccia e larghe 14, ed essere aperte anche dalla parte della città. Il numero delle torri effettivamente costruite lo possiamo rintracciare nelle cronache e nelle rappresentazioni dove, tuttavia, vengono identificate con una cifra variabile.

Giovanni Villani riferisce che nel 1324 

“troviamo che ‘l detto spazio de le cinque sestora de la città di Firenze, a le nuove cerchia di mura […] havi VIIII porte con torri di LX braccia alte, molgo magne, e ciascuna con antiporto, che le IIII soo mastre e le V postierle; e havi in tutto torri XLV con quelle de le porte, murata la frontierea diSardigna”[3], omettendo il tratto di Oltrarno che era ancora in costruzione. 

Molto utile in questo senso sono la pianta di Firenze di Pietro del Massaio, miniatura del 1469 circa, l’affresco di Giovanni Stradano raffigurante l’assedio di Firenze del 1529, collocato in una delle pareti della sala di Clemente VII di Palazzo Vecchio, ma soprattutto la Veduta della Catena, per la quale, in base a quanto è possibile vedere, lungo le mura dovevano innalzarsi una cinquantina di torri: le torri a guardia delle porte maestre e quelle a guardia delle porte secondarie, chiamate postierle. 

 

Nonostante le divergenze sul numero effettivo, i documenti sono concordi nel segnare e nominare le porte maggiori che, partendo da Nord sono: Porta a San Gallo, Porta a Faenza, Porta al Prato, Porta a San Frediano, Porta a San Pier Gattolini o Romana, Porta a San Giorgio, Porta a San Miniato, Porta a San Niccolò, Porta alla Giustizia, Porta alla Croce, Porta a Pinti. 

Per muoversi da una torre all’altra si poteva percorrere il cammino di ronda che si trovava sulla parte sommitale delle mura, mentre ai piedi era scavato il fosso allagato: proprio per questo motivo ogni porta era dotata di un’antiporta, o cassero, per la difesa, e di un ponte. Quest’ultimo era di notevoli dimensioni, a due o tre arcate, e collegava la porta alla strada di circonvallazione esterna, oppure alle strade radiali di comunicazione. Questi ponti, anche se non più visibili, sono ancora esistenti perché sono stati inclusi da Giuseppe Poggi nella costruzione dei viali di circonvallazione. Dalle documentazioni di questi lavori troviamo descritta la struttura e la dimensione del ponte della Porta al Prato.

Sull’altezza delle porte si possono fare solo ipotesi perché vennero “scapitozzate” in previsione dell’assedio delle truppe imperiali del 1529 per impedire ai nemici, che le avrebbero abbattute, di trovare cumuli di macerie che sarebbero potuti diventare ponti per entrare facilmente in città. L’unica eccezione fu la Porta a San Niccolò, che non venne abbattuta perché collocata ai piedi della collina di San Miniato e difficilmente usabile dalle truppe filomedicee avrebbero per entrare in città. Le torri principali dovevano essere alte 40 braccia, almeno il doppio rispetto a quelle secondarie, e dovevano avere un coronamento merlato aggettante verso l’esterno della città in luogo dell’altana attualmente visibile, ad esempio, nella Porta al Prato. 

Il percorso della cinta muraria trecentesca è parzialmente visibile nella città di Firenze, soprattutto nella zona di Oltrarno, dove le mura sono state atterrate solo in parte; nella parte nord della città solo riconoscibili solamente le singole torri portiere.

Partendo dalla zona sud-orientale di Firenze, sulle rive del fiume Arno, troviamo la torre della Zecca, “torre terminale” proprio perché posta nelle vicinanze del fiume, laddove le mura si arrestavano.

 

Il nome della torre sembrerebbe derivare dalla presenza al suo interno dell’Officina della Zecca, ovvero il laboratorio dove venivano coniate le monete delle Repubblica fiorentina grazie alla energia idraulica fornita dall’Arno. In precedenza era stata chiamata “torre Guelfa” o “del Tempio”, dal nome della chiesa della Compagnia de’ Neri dove si fermavano i condannati a morte prima del patibolo. La torre trecentesca, di struttura semplice e compatta, è munita di piccole feritoie ed è caratterizzata dalla presenza, sul lato orientale, di due archi a tutto sesto che, prima dello scapitozzamento cinquecentesco, dovevano essere tre come nella torre a San Niccolò.

 

Su uno dei lati è presente una lapide con un’iscrizione dantesca, ripresa dal XIV canto del Purgatorio: “…per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona / e cento miglia di corso nol sazia”. 

L’interno della torre è caratterizzato da più piani coperti con soffitti voltati in laterizio, fino ad arrivare al terrazzo senza merlatura, accessibile tramite alcune strette scale in pietra. Una caratteristica importante della torre delle Zecca è che, dal piano terra, tramite una scala con ringhiera in ferro, si accede al piano interrato caratterizzato dalla presenza di una fittissima rete di corridoi voltati che si estendono per una vasta area: queste strutture costituiscono uno dei sistemi fognari più importanti della città.

 Ad est la porta più vicina al fiume, alla fine dell’attuale via de’ Malcontenti, era denominata Reale, dal nome del ponte che sarebbe dovuto sorgere in quell’area, poi chiamata San Francesco, dal vicino convento francescano.

 

Successivamente venne nominata Porta alla Giustizia perché, sotto di essa, transitavano i carri con i condannati a morte, che provenivano dal Bargello o dal carcere delle Stinche ed erano diretti alle forche poste nel Pratone della Giustizia, appena fuori dalla porta. Benedetto Varchi nel XVI secolo scriveva: “e questa è piuttosto postierla che porta maestra, non perché non sia grande e ben murata come l’altre, ma perché, oltrachè non ha borgo, non è di passo”[4].

 

La seconda porta era la Porta Guelfa, “grossa torre alta simigliantemente LX braccia e larga braccia XXII” [5], collocata all’altezza dell’attuale sbocco di via Ghibellina su viale della Giovine Italia, distrutta a partire dal 1870, ma visibile in una fotografia positiva su carta albuminata dei Fratelli Alinari. 

 

Il nome venne dato per distinguerla dalla porta aperta nelle precedenti mura, Porta Ghibellina collocata all’incrocio tra via Ghibellina e via Verdi. 

La terza porta conduceva ad Arezzo e nel Casentino e veniva chiamata Porta alla Croce da una venerata Croce al Gorgo, posta nel punto dove l’Arno libero di esondare disegnava un gorgo e luogo dove realmente venne decapitato San Miniato nel III secolo.  

Essa, precedentemente denominata Santa Candida, per la vicinanza della chiesa in onore della santa, poi Porta di Sant’Ambrogio, dal nome della vicina chiesa, dava accesso a “un lunghissimo borgo pieno tutto dall’una parte e dall’altra di case e botteghe”[6]. Ha una pianta quasi quadrata, un fornice a sesto ribassato sormontato da un arco a sesto acuto nel lato interno che non arriva a terra ma poggia su capitelli posti nei piedritti; il fronte esterno, invece, è aperto da un imponente arco a tutto sesto. Si suppone che la torre, che adesso vediamo isolata al centro di piazza Beccaria, fosse stata disegnata da Arnolfo di Cambio nel 1284: la datazione viene confermata dall’acquisto dei terreni per la costruzione della stessa porta nel marzo 1284. Sparita la statua di Zanobi di Strada, è rimasta la lunetta interna realizzata da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio nel XVI secolo, raffigurante la Madonna tra San Giovanni Battista e Sant’Ambrogio; su di essa sono rimasti anche lo stemma di chiave con il giglio del comune e un’epigrafe, collocata sul lato occidentale e datata 1310, contenente le dimensioni della porta stessa:

 “ANNI DNI MCCCX.INDICTIO E.VIII.LA VIA.DEL COMVNE DENTRO.ALE MURA. E BR.XVI.ELEMVRA.GROSSE BR.III ET MEZZO.E FOSSI.ANPII. INBOCCHA COLGIETTO.BR.XXXV.ELAVIA.DI FVORI SULEFOSSE.BR.XIII ET MEZZO. ELEFOSSETTE DALAVIA. ELECAMPORA. BR.II ET MEZZO.E COSI DEESSERE.INTVTTO BR.LXX.ET MEZZO”[7]

 

Originariamente sembra che la porta dovesse innalzarsi su tre piani, raggiungendo un’altezza di circa 60 braccia, come si vede nella Veduta della Catena, ma venne abbassata per non esporla a tiri dell’artiglieria imperiale nell’assedio del 1529, perdendo la sua funzione militare e acquistando quella di centro di esazione del dazio, fino alla demolizione delle mura. L’abbassamento della torre fu dovuto ad Antonio da Sangallo, che la ridusse fino a 35 metri di altezza: la scelta fu giustificata da ragioni difensive derivate dall’avvento delle moderne artiglierie, per cui vi posizionò delle cannoniere a maggior protezione della città sempre esposta a passaggi di truppe straniere. Il nuovo tetto, a quattro falde in laterizio, posa su quattro pilastri angolari e su una capriata lignea posta diagonalmente e nella parte centrale, sopra alla copertura, si trova un pinnacolo su cui rotea una banderuola metallica con lo stemma mediceo.

La quarta porta prese prima il nome di Fiesolana e poi divenne Porta a Pinti, la quale “non ha borgo, ma solamente alcune case, dirimpetto alle quali a un trar di mano è il bellissimo convento de’ frati Ingesuati”[8], ovvero il convento di San Giusto alle Mura, collocato nell’attuale piazza Donatello. 

 

Alcuni storici suppongono che il toponimo “Pinti” derivi dal nome di un’antica famiglia che aveva le proprie abitazioni in questo luogo, ma viene interpretato anche come corruzione del termine “pintori”, riferendosi all’attività dei frati Ingesuati del convento di San Giusto, i quali coloravano i vetri e preparavano gli azzurri oltremare. Un’altra ipotesi ci viene offerta dal gesuita Giuseppe Richa, per il quale si trattava di un’abbreviazione, come era solito fare dai fiorentini, della denominazione del monastero di Santa Maria Maddalena delle Penitenti, detto delle Repentite. Della Porta a Pinti, distrutta nel 1865 con l’abbattimento delle mura, rimane un quadro di un pittore ottocentesco, Fabio Borbottoni, che ce la mostra dal lato della campagna: si tratta di una torre coperta da un tetto a capanna e un fornice ad arco ribassato sormontato da un arco a tutto sesto. 

Attualmente della porta rimane il giglio della Repubblica fiorentina murato in un palazzo all’angolo fra piazzale Donatello e Borgo Pinti.

La quinta porta, collocata tra la Porta a Pinti e la torre de’ Servi, era “detta per nome di Servi Sante Marie, per uno munistero de’frati così chiamati”[9], i quali fecero aprire la postierla dove oggi si trova piazza Isidoro del Lungo per facilitare l’accesso dei fedeli alla chiesa della Santissima Annunziata, ma fu presto chiusa.

 

Note

[1] Villani, Nuova cronica. Edizione critica, a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda, Parma, 1991, p. 241.

[2] Ivi, p. 202.

[3] Ivi, p. 383.

[4] B. Varchi, Storia Fiorentina di Benedetto Varchi, volume I, Borroni e Scotti, Milano, 1845, p. 328.

[5] Villani, Nuova cronica, cit., p. 382.

[6] Varchi, Storia Fiorentina, cit., p. 382.

[7] R. Manetti, M. Pozzana, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura, CLUSF/Cooperativa Editrice universitaria, Firenze, 1979, p. 128

[8] Varchi, Storia Fiorentina, cit., p. 382.

[9] Villani, Nuova cronica, cit., p. 383.

 

 

 

Bibliografia

B. Varchi, Storia Fiorentina di Benedetto Varchi, volume I, Borroni e Scotti, Milano, 1845.

P. Bargellini, E. Guarnieri, Firenze delle torri, Bonechi, Firenze, 1973.

R. Manetti, M. Pozzana, Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura, CLUSF/Cooperativa Editrice Universitaria, Firenze, 1979.

G. Villani, Nuova cronica. Edizione critica, a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda, Parma, 1991. 

F. Cesati, La grande guida delle strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più affascinante del mondo attraverso 2400 vie, piazze e canti, Newton Compton, Roma, 2003.

L. Mercanti, G. Straffi, Le torri di Firenze e del suo territorio, Alinea, Firenze, 2003.

M. Frati, “De bonis lapidibus conciis”: la costruzione di Firenze ai tempi di Arnolfo di Cambio. Strumenti, tecniche e maestranze nei cantieri fra XIII e XIV secolo, Firenze University Press, Firenze, 2006.

L. Anchini, Alle porte coi sassi. Storia e guida alle porte delle mura di Firenze, Nicomp Laboratorio Editoriale, 2010.

A. Favini, Medioevo nascosto a Firenze. Case-torri e monumenti “minori” della città tra XI e XV secolo, Editori dell’Acero, Empoli, 2012.

A. Petroli, F. Petrioli, 1333 Firenze dove passavano le ultime mura, Edizione Polistampa, Firenze, 2017.

Luciano Artusi, Le antiche porte di Firenze. Alla scoperta delle mura che circondavano la città, Semper, Firenze, 2005.

Claudio Paolini, Hosea Scelza, Borgo Pinti. Una storia fiorentina e la sua chiesa, Edizione Polistampa, Firenze, 2018.


IL CASTELLO DI CAPUA A GAMBATESA PT IV

A cura di Marco Bussoli

 

Nel percorso all’interno del Castello di Capua a Gambatesa sono state mostrate, fino ad ora, tutte le stanze minori, ovvero una serie di ambienti che, seppur senza una precisa funzione accertata, lasciano intendere il loro impiego come studioli o locali privati della corte ducale. Una volta nell’atrio del palazzo, però, oltre a poter intraprendere il percorso che dalla Sala delle maschere permette di attraversare tutto l’appartamento, si può anche accedere direttamente all’ambiente di rappresentanza di questo luogo, il Salone delle Virtù. Per un nobile della caratura di Vincenzo di Capua un ambiente come questo, in cui si esaltano i propri pregi, fa parte di una tradizione ben consolidata.

 

Sei virtù sono rappresentate sulle pareti della grande stanza, poste su un alto basamento, in una cornice architettonica quanto mai variegata, fatta di modanature, elementi bugnati e tendaggi annodati, elementi già presenti anche negli ambienti minori; alle figure sono poi intervallati dei riquadri contenenti delle vedute paesaggistiche di vario genere e tema.

 

La parete sud e gli echi imperiali

Delle quattro pareti, la più significativa è, forse, quella di sud, in cui si celebrano le virtù che il Duca ha in comune con gli Imperatori romani, ovvero la Fortezza e la Carità. Questo intento è esplicitamente dichiarato da due elementi: i profili di Domiziano e Traiano, che sovrastano le porte, e la veduta delle rovine del Foro romano e del Colosseo. La Fortitudo riprende in modo diretto il modello vasariano della Concordia affrescata nella Sala dei Cento Giorni al Palazzo della Cancelleria, anche se qui gli attributi di quest’ultima sono sostituiti dalla colonna spezzata, segno di fortezza. Il modello di Caritas non è però Vasari, ma Michelangelo: la virtù si contraddistingue per una fisicità prorompente e che, pur essendo rappresentata frontalmente, presenta numerose torsioni e panneggi elaborati, spesso anche ridondanti, restando però materna nei confronti delle piccole figure ai suoi piedi.

 

Questa figura, in realtà, contiene comunque una citazione vasariana nel gesto del braccio che tiene l’infante, visibile anche in un affresco della casa del pittore-storico ad Arezzo. Tra queste figure allegoriche, e similmente a quanto accade sulle altre pareti, vi è la veduta paesaggistica del foro romano, che riprende in modo fedele, pur con degli adattamenti, una veduta di Hieronymus Cock, pubblicata in Olanda nel 1551. La vista è poi arricchita da due gru, poste nell’angolo in basso in prossimità della Fortitudo, che simboleggiano vigilanza. Infine, i profili degli imperatori Domiziano, al fianco della Fortitudo, e Traiano, al fianco della Caritas, ispirati probabilmente, se pur con molte licenze, alla serie de I dodici Cesari di Marcantonio Raimondi.

 

Le pareti Nord ed Est

Quasi interamente conservate sono le pareti Nord ed Est, che pur presentando importanti lacune permettono l’individuazione dei soggetti rappresentati. Riconoscibile solo grazie alla scritta che la sovrasta è affrescata la Prudencia sulla parete Est: questa non presenta, infatti, alcuno dei tipici attributi di questa virtù, come lo specchio, il serpente o i due volti. Lo storico Antonio Pinelli ha individuato, però, in questa figura gli attributi della speranza, la Spes, mancante nel salone ed è riuscito anche ad individuare il modello vasariano a cui Donato Decumbertino sembra aver riferimento, ovvero la tavola con la Speranza dipinta per Palazzo Corner-Spinelli a Venezia nel 1542.

 

Sulla parete Nord sono presenti altre due virtù, entrambe in posizione distesa, trovandosi al di sopra di un’apertura. Si tratta della Pax, lacunosa, che brucia le armi, e della Iustitia, che regge una spada ed una bilancia. Al di sotto della Giustizia, come in una nicchia, è raffigurata una Primavera monocroma, che richiama direttamente l’Estate della Sala del Pergolato, mentre regge un fascio di spighe. Infine, su entrambe le pareti sono presenti delle vedute paesaggistiche in cui il filo conduttore è la presenza di un albero rigoglioso e di uno spezzato, una probabile allusione ai cicli della natura.

 

La parete Ovest

Per quanto lacunosa, la parete Ovest riporta una serie di elementi significativi: gli elementi di oltre un quarto della parete sono illeggibili, lasciando intuire soltanto la virtù qui presente, la Fides, e cancellando oltre metà della veduta paesaggistica.

 

Della Fides non è possibile vedere la figura che la personificava, ma sono ben visibili il boccale e il libro, suoi attributi. Il paesaggio, diverso dalle vedute sulle altre pareti e differente anche dalla vista romana, ha al suo centro un labirinto ed una piccola figura femminile che si intravede davanti ad esso, assieme ad altri piccoli personaggi, in parte non visibili; sullo sfondo, come in altri affreschi del Castello, si distingue un paesaggio insulare con un vulcano in eruzione. Liana Pasquale, nella pubblicazione curata da Daniele Ferrara, individua anche in questo caso il riferimento ad un’acquaforte di Hieronymus Cock, Il labirinto cretese dalla serie Paesaggi biblici e mitologici del 1551-1558, ma resta cauta sul soggetto della vista, accogliendo, seppur con delle riserve, le ipotesi fantasiose di Franco Valente, che vi vede una lettura dell’Arcadia di Jacopo Sannazzaro. Per Antonio Pinelli si può, invece, con tranquillità attribuire questo episodio “alla mitica origine del labirinto cretese”, individuando nella donna davanti al labirinto la figura di Pasifae, e nella figura al centro del labirinto Dedalo.

 

L’ultimo elemento che chiude questa parete è un trompe-l’oeil simile a quello osservabile nella Sala delle Maschere che riporta la paternità degli affreschi; in questo caso, però, l’iscrizione sembra essere divisa in due parti: in alto, scritto in caratteri più ampi, si legge “VIVENCI|US PRIMUS|DUX TERMULA|R[UM] DOMUS CAPUAE IL[LUSTRIS]|LIBERATOR”, mentre in basso si legge “DONATUS MINIMU[S] DI|SCIPULOR[UM] PINSIT”. Bisogna innanzitutto puntualizzare che Vincenzo non fu il primo duca di Termoli, ma il terzo – dopo Ferdinando e Andrea – e che comunque il senso di questa frase non sembra essere molto chiaro. Pur vagliando i diversi significati possibili, certo è che si tratta di un’esaltazione del signore. È oggi noto che questa iscrizione copre quella precedente, che recitava “IO DO[NATO] PINTORE|DECUMBERTINO” aprendo così altri possibili ipotesi su conflitti tra committente e pittore o da far pensare che l’iscrizione leggibile su quest’ultimo possa essere rivelatrice di umiltà nei confronti dei suoi collaboratori.

 

A riprova di ciò un'altra iscrizione nella sala, tra una delle porte e il busto di Domiziano, recita “DONATUS O[M]NIA ELABORAVIT”, derubricando il pittore a mero esecutore. Si aprono così le ipotesi su chi possa aver ideato il programma iconografico di questo ciclo, che secondo Pinelli può essere individuato solo nella figura dell’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua, fratello del committente, un uomo che aveva compiuto approfonditi studi umanistici e che aveva contatti anche a Napoli e Roma. Non bisogna però, per questo, togliere meriti a Donato Decumbertino, che ha in più occasioni espresso le sue capacità nelle pitture del Castello: gli echi fortemente attualizzanti della sua pittura non possono che attribuirsi alle sue capacità.

 

Donato Decumbertino nel Cinquecento italiano

Come anticipato, l’iscrizione sulla porta del Salone delle Virtù vorrebbe ridurre Decumbertino a semplice braccio di programma pittorico ben strutturato. Seppur con delle incongruenze tutti gli affreschi presentano, però, degli elementi di novità che non possono essere attribuibili alle esperienze del committente o di un consulente iconografico, bensì alle capacità del pittore stesso. Alla luce di quanto visto, pur non conoscendo il luogo e l’anno di nascita del pittore, questo si deve essere sicuramente formato a Roma negli anni ’40 del Cinquecento, soprattutto presso la bottega di Giorgio Vasari, da cui non ha solo affinato le sue tecniche, ma ha anche acquisito dei modelli da riutilizzare, come ha fatto per la Fides e la Prudencia nel Salone di Gambatesa, pur essendo la seconda una Spes camuffata.

L’appartenenza alla bottega vasariana non ha influenzato Donato solo in modo diretto: egli ha avuto modo di vedere ed assorbire anche altri modelli, uno tra tutti quello dell’incisione paesaggistica fiamminga, di cui sicuramente circolavano nell’urbe bozzetti e prototipi. Ne può essere un esempio l’uso delle incisioni di Hieronymus Cock, tutte pubblicate al suo ritorno nelle Fiandre dopo il 1550, ma usate dal pittore di Gambatesa con sapienza, uscendo dalla logica, anche qui presente, che nelle periferie le innovazioni tardino ad arrivare. Il gusto per queste vedute a volo d’uccello inizia a diffondersi in Italia proprio negli anni in cui il Castello viene decorato, ma vede poi una forte crescita solo a partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo.

Il Castello di Gambatesa diventa così una forte emergenza non solo nel ridotto panorama regionale, ma anche in quello nazionale, mettendo in mostra una serie di innovazioni inedite per la metà del Cinquecento.

 

 

 

Le foto sono state scattate dall'autore dell'articolo

 

 

 

Bibliografia

- Antonio Pinelli, La tela del ragno e l’eloquenza del pappagallo. Le intriganti trame visive di Donato Decumbertino a Gambatesa, in Eliana Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Carocci, Roma 2020

- Eliana Carrara, La bottega vasariana e la narrazione mitologica, in Eliana Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Carocci, Roma 2020

- Liana Pasquale, Donato, pittore tra mistero ed esuberanza, in Daniele Ferrara (a cura di), Il Castello di Capua a Gambatesa. Mito, Storia, Paesaggio, Campobasso 2011

- Tommaso Evangelista, Donato, i pittori fiamminghi e un’idea di Roma nel ciclo pittorico del Castello di Gambatesa, in Daniele Ferrara (a cura di), Il Castello di Capua a Gambatesa. Mito, Storia, Paesaggio, Campobasso 2011

 

Sitografia

- https://www.musei.molise.beniculturali.it/musei?mid=870&nome=castello-di-capua (25-10-2021)


LA “MAGIONE”: STORIA DI UNA COMMENDA FAENTINA

A cura di Francesca Strada

 

 

La "Magione"

Nella città di Faenza, più precisamente nell’area di Borgo Durbecco, sulla via che porta verso Forlì, è possibile ammirare una chiesa molto antica, si tratta della Commenda, intitolata a Santa Maria Maddalena a nota anche come “la Magione”.

Seppur danneggiata dai bombardamenti, sopravvisse alla Seconda guerra mondiale e ancora oggi è capace di narrare al visitatore attraverso le sue splendide vestigia la sua storia secolare fatta di cavalieri e pellegrini di passaggio.

 

Storia

Sebbene non si conosca la data esatta della sua fondazione, è noto che fosse già presente dal 1137, anno in cui viene citata per la prima volta in un documento scritto. E’ quindi possibile che un primo nucleo della chiesa fosse stato edificato già a partire dagli inizi del XII secolo, benché i resti più antichi dell’attuale edificio risalgano soltanto al secolo successivo. Appartengono al Duecento svariate attestazioni della Commenda come ospedale per i pellegrini diretti in Terra Santa, essa fu infatti eretta assieme all’ospizio. Già a partire da questo periodo la chiesa potrebbe essere entrata nell’orbita dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, ma solo successivamente, grazie alla figura del cavaliere Fra Sabba da Castiglione il complesso ne farà parte a pieno titolo raggiungendo il suo periodo di massimo splendore.

 

 

Fra Sabba da Castiglione

Una delle figure più importanti legate alla vita della Commenda è sicuramente quella di Fra Sabba da Castiglione, nobile di origine milanese, che quivi spese gli ultimi anni della sua vita per poi morirvi il 16 marzo del 1554, come riportato nell’epitaffio all’interno della chiesa stessa. Il Castiglione fu in contatto con alcune delle personalità più influenti del suo tempo, come la marchesa di Mantova, Isabella D’Este, dalla quale ricevette anche la commissione di reperire a Rodi oggetti antichi per arricchire la sua personale collezione.

 

Il Castiglione entrò a fare parte dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel 1505, mentre 10 anni più tardi, nel 1515, divenne commendatore della chiesa di Santa Maria Maddalena. Tuttavia è soltanto a partire dal 1519 che vi si ritirò a vita privata per trascorrere lì il resto dei suoi giorni. Le uscite divennero sempre più sporadiche fino a ridursi solamente ad occasioni di grande importanza come l’incontro con Papa Clemente VII, diretto a Bologna. È del tutto plausibile che l’esperienza vissuta nei suoi anni di soggiorno romano, gli abbia fatto maturare un astio nei confronti della mondanità, da cui sembra voler fuggire barricandosi tra le mura di questo complesso. Fra Sabba si occupò attivamente dei rifacimenti della “Magione” faentina, che ancora oggi conserva evidenti tracce dell’impegno del più illuminato tra i suoi commendatori.

 

Descrizione della chiesa

La chiesa si presenta come un piccolo edificio a pianta basilicale e volta a botte, terminante in una splendida abside decorata da Girolamo da Treviso su richiesta del Castiglione. Una maestosa architettura incornicia le due scene dell’opera; nella parte inferiore si può ammirare la Vergine in Trono con il bambino e San Giovannino, a destra compare Santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata, simbolo del suo supplizio, mentre a sinistra Santa Maria Maddalena, accompagnata dal ritratto del Castiglione inginocchiato e vestito in abiti cavallereschi. Nel registro superiore è presente la rappresentazione del Padre Eterno tra gli angeli.

 

Tutt’intorno la cornice architettonica, ormai erosa dal tempo, mostra due figure, entrambe mancanti della testa, una delle quali è certamente l’Arcangelo Michele, rappresentato nell’atto di sconfiggere il Maligno. All’interno della chiesa è riconoscibile un altro ritratto monocromo del commendatore, ubicato sulla sua tomba, dove San Giuseppe lo presenta al divin fanciullo sorretto dalla Vergine. L’epitaffio è incorniciato da due figure, presumibilmente le personificazioni del Silenzio e della Preghiera (o Pietà).

 

Sulla parete destra è visibile un affresco raffigurante quattro santi, databile verso la fine del Trecento; sul lato sinistro si riscontra una scena coeva, raffigurante una Madonna in Trono con San Giovanni Battista e un committente, il cui abito ricalca elegantemente il gusto di fine secolo e inizio Quattrocento. Si noti il goticismo bolognese della rappresentazione, che dimostra un incontro con la cultura pittorica emiliana.

 

Esterno

Esternamente è presente un portico costruito per l’accoglienza dei pellegrini e databile al XIV secolo, nel tempo era stato però chiusoi ed è solo durante i restauri del XX secolo che venne riportato al suo stato originario. L’abside, vista dall’esterno, mostra due modeste monofore e una bifora, murate durante i rifacimenti cinquecenteschi. Il complesso presenta inoltre uno splendido chiostro con una scritta in cotto, sempre voluta dal commendatario milanese, e un pozzo in mattoni e spungone, ossia una pietra calcarea riscontrabile solo nel territorio romagnolo.

 

Il museo rionale

La Commenda non è solo un luogo di culto, ma anche la sede del Rione Bianco, partecipante del Palio del Niballo, che si svolge nella città manfreda, presso lo stadio Bruno Neri, ogni quarta domenica di giugno. Alcuni spazi dell’antico complesso religioso sono stati adibiti a museo, dove si trovano in esposizione gli abiti storici dei figuranti rionali, i premi vinti dal rione, bandiere delle varie edizioni e tutti i gotti prodotti artigianalmente dai ceramisti di Faenza per uno dei passaggi più significativi del Palio: la Nott de Bisò. L’evento, svolto ogni 5 gennaio, segna la fine ufficiale di un ciclo e l’inizio del nuovo ed è caratterizzato dal falò del fantoccio e dalla degustazione del Bisò, ossia il tradizionale Vin Brulè a base di Sangiovese di Romagna. Una delle particolarità dei gotti del palio è la variabilità annuale e quindi la loro unicità. Tra i cimeli esposti è di interesse il mantello con l’elefante di Annibale, utilizzato per l’edizione del 1959.

 

 

 

 

Bibliografia

Ennio Golfieri, La chiesa e il chiostro de la Commenda in Borgo Durbecco a Faenza, Stabilimento Grafico Lega, 1934

 

Sitografia

https://www.paliodifaenza.it/2018/06/borgo-durbecco-museo-rionale/

https://www.treccani.it/enciclopedia/sabba-castiglione_%28Dizionario-Biografico%29/


“L’ISOLA DI TOSCANA IN LOMBARDIA”: IL BORGO DI CASTIGLIONE OLONA

A cura di Beatrice Forlini

 

 

Castiglione Olona definita da Gabriele d’Annunzio: “L’isola di Toscana in Lombardia”, è un piccolo borgo in provincia di Varese che racchiude ancora il suo spirito rinascimentale; qui, infatti, il Cardinale Branda Castiglioni (1360 circa-1443) a partire dal 1422, grazie a una bolla di papa Martino V, e all’autorizzazione del Duca di Milano, ottenuta l’anno seguente, decide di riedificare il suo borgo natale (Fig. 3).

 

Il cardinale Castiglioni è stato un’importante figura del primo Quattrocento italiano, dapprima come legato apostolico e riformatore in diverse zone dell'Europa centro-orientale e poi attivo protagonista di alcuni dei maggiori Concili ecumenici del tempo. È stato però anche un grande cultore d’arte e a lui si deve, per esempio, la committenza a Masolino da Panicale degli affreschi della Cappella di San Clemente a Roma.

Il suo contributo maggiore però è forse proprio la trasformazione di Castelseprio da piccolo borgo fortificato a un centro nevralgico di cultura e spiritualità, dove si respira lo spirito rinascimentale del centro Italia. Il cardinale è partito proprio dai resti dell'antico castello collocato in cima al colle del paesino, antica rocca fortificata, è documentata già dall'XI secolo ma nel corso dei secoli venne più volte assediata, fino alla distruzione nel XIII secolo. Successivamente fondà una Collegiata (edificata in soli tre anni, dal 1422 al 1425) per l'educazione del clero secolare, un Ginnasio, diverse dimore signorili e una Chiesa dedicata al Corpo di Cristo (edificata a partire dal 1437) (fig. 5). Quest'ultima è particolarmente interessante in quanto è un precoce esempio della fortuna del prototipo brunelleschiano della Sagrestia Vecchia della fiorentina Basilica di San Lorenzo, in Lombardia.[1]

 

Per realizzare e decorare questi nuovi edifici il cardinale ha richiamato nella sua “officina” di Castelseprio artisti di svariata provenienza, affidandosi per l'architettura e la scultura a maestranze lombarde primi fra tutti i fratelli Pietro, Giovanni e Alberto Solari che realizzano la Collegiata e diversi altri palazzi; anche le sculture presenti nella Collegiata e nel Battistero sembrano riferibili a due artisti lombardi, ovvero  Filippo e Andrea da Carona, mentre ad affrescare le pareti della Collegiata, del Battistero e del Palazzo del Cardinale giunsero rinomati artisti toscani: Masolino da Panicale(1383-1447), il senese Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta (1410-1480) e Paolo Schiavo (1397-1478). Una scelta forse insolita per il tempo ma dovuta alla vasta e aggiornata cultura del cardinale grazie ai suoi interessi in ambito umanistico e ai frequenti viaggi in Italia e all’estero che gli permettono di vedere e prendere spunto da diverse culture. (fig. 1)

 

La Collegiata (fig.2) venne consacrata nel 1425, gli architetti che la realizzarono, i fratelli Solar, divennero in breve tampo protagonisti del rinnovamento architettonico del gotico lombardo. La chiesa è dedicata ai SS. Stefano e Lorenzo, come ricordato dalla lunetta presente sulla facciata datata 1428 che riunisce tutti i personaggi legati alla storia della Collegiata diaposti intorno alla Vergine con Bambino: oltre ai due santi sono infatti presenti anche il cardinale Branda, inginocchiato ai piedi della Madonna, e i SS. Ambrogio e Clemente.

 

A pianta longitudinale, la chiesa è suddivisa in tre navate, non presenta transetto né cappelle laterali ma culmina con un’abside semiottagonale poco sporgente dal perimetro, affrescata con storie della Vergine e dei Santi Stefano e Lorenzo, realizzate dai tre pittori toscani soprannominati.

A Masolino da Panicale si devono gli episodi della vita della Vergine affrescati sulle vele della volta, caratterizzate da volti delicati e colori luminosi, esempi suggestivi dell’innovativo passaggio pittorico tra Medioevo e Rinascimento. Essi sono di un’elevatissima qualità compositiva, luminosa e cromatica, inoltre nelle tre vele centrali le architetture si presentano complesse e fantasiosamente gotiche, caratterizzate da un ritmo innovativo che percorre univocamente l'intera decorazione; nonostante la fragilità conservativa, questi affreschi furono restaurati negli anni Venti del Novecento, strappati e trasportati su tela, ed infine ricollocati in situ nel 1972.

Per completare la Collegiata, le decorazioni delle pareti del presbiterio (dedicate ai due santi Stefano e Lorenzo) vengono affidate al fiorentino Paolo Schiavo e al Vecchietta, che al tempo era all’inizio della sua carriera artistica ma portatore di un linguaggio moderno e ben informato sulle novità di Donatello che lo porterà a diventare uno dei principali artisti senesi del tempo. Il solo Vecchietta invece opera nel palazzo signorile di Branda Castiglioni (fig. 7-8) dipingendo i murali raffiguranti Uomini e Donne famosi, oggi molto deteriorati. Inoltre, il cardinale dota la chiesa di ricchi oggetti e tesori che oggi sono conservati al museo attiguo ed entro il 1437 fu anche realizzato un monumento sepolcrale del cardinale Branda, attribuito ai fratelli Filippo e Andrea da Carona.

 

Un altro esempio di questo grandioso progetto è il Battistero (fig. 4) che sorge probabilmente sui resti di una torre angolare del preesistente castello, trasformata poi in cappella gentilizia; esso deve la propria celebrità al ciclo di affreschi del sottarco realizzati sempre da Masolino, che poi affresca anche parte del palazzo del cardinale dipingendo uno dei primi esempi di solo paesaggio (fig. 9).

 

Le scene nel sottarco del battistero (datate al 1435) rappresentano, invece, momenti della vita di San Giovanni Battista, dall’annuncio della sua nascita alla sepoltura. Questi episodi sembrano sfondare illusionisticamente le pareti con architetture e paesaggi molto realistici e suggestivi; sono inoltre ricchissimi di particolari studiati nei minimi dettagli, per i quali Masolino utilizza l’innovativa prospettiva scientifica, ideata a inizio secolo da Filippo Brunelleschi che però accostata a lavorazioni attinte dall’oreficeria, caratteristiche ancora dell’arte tardogotica. Sono presenti quindi elementi pienamente rinascimentali, nei quali si risente l'eco degli affreschi della Cappella Brancacci di qualche anno prima, a cui però si affianca una vena più gotica tipica del contesto lombardo, con la sottile descrizione dei costumi, la delicata gamma cromatica e l’altezzoso atteggiarsi dei personaggi.

Un’altra novità è rappresentata dalle decorazioni delle pareti del Battistero, dove i protagonisti della storia sacra si mescolano insieme a quelli dell’epoca contemporanea, con l’inserimento di ritratti e riferimenti a costumi e avvenimenti odierni, in cui ovviamente Branda Castiglioni ricopre un ruolo di primo piano; come nel Battesimo di Cristo, ambientato in un paesaggio che sembra non abbia termine e si perde nell’infinito, una scena carica di grazia e armonia. (fig. 6)

 

Il borgo di Castiglione Olona però dopo la morte del cardinale Branda Castiglioni, nonostante questo ambizioso progetto e le grandi maestranze intervenute, va incontro ad un lento declino. Nel XVI secolo sia il castello che la Collegiata furono saccheggiati e a metà del secolo quello che resta del castello viene smantellato. Nel 1775 invece, le pareti interne della chiesa vengono completamente ricoperte da uno strato di calce, che nel 1843 in occasione di alcuni lavori fu rimosso, facendo così venire alla luce gli affreschi della volta della zona absidale con la firma di Masolino.

Sempre nell’Ottocento continuano delle modifiche e rinnovamenti dell’assetto originale, per esempio viene cambiato l’assetto delle navate per ricreare decorazioni in stile quattrocentesco, e all’ inizio del Ventesimo secolo viene aggiunto un pulpito in pietra (su disegno dell'ingegnere Antonio Castiglioni). Nel 1927 viene realizzato un primo intervento di restauro degli affreschi dell'abside, eseguito da Mauro Pelliccioli e pochi anni dopo viene rimosso anche l'altare barocco. Come già accennato, negli anni Settanta, si procede ad un nuovo restauro degli affreschi dell'abside, con strappo e successiva ricollocazione. In anni più recenti sono stati eseguiti nuovi restauri che hanno riguardato il rosone, la facciata e la copertura, ma anche le pale degli altari (lavori eseguiti nel 2001) ed infine vengono nuovamente ritoccati gli affreschi dell'abside nel 2002.

Oggi però è possibile visitare l’intero complesso, diventato museo, di proprietà della Parrocchia della Beata Vergine del Rosario di Castiglione Olona (sotto l’Arcidiocesi di Milano) e dal 2010 ufficialmente riconosciuto come Museo dalla Regione Lombardia, immergendosi e rimanendo quasi sospesi nel magico tempo e spirito rinascimentale del Quattrocento italiano.

 

 

 

Note

[1] G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, p. 76.

 

 

 

 

Bibliografia

G. Dorfles, S. Buganza, J. Stoppa, Storia dell’arte, vol.2, 2004, Bergamo, Atlas editore.

 

Sitografia

Sito complesso museale: http://www.museocollegiata.it/wp/

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00006/


GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT I

A cura di Silvia Faranna

 

Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina

Domenico Ghirlandaio e la bottega

Chi si addentra nella chiesa di Santa Maria Novella, giunto in mezzo alla navata centrale, rimane colpito dal commovente Crocifisso (1290-1295 circa) di Giotto (1267 circa-1337) che ne domina maestosamente lo spazio, ma spostando lo sguardo leggermente più avanti, si nota la grande Cappella Maggiore, riccamente affrescata da Domenico Ghirlandaio (1449-1494) e la sua bottega (fig. 1).

Domenico Ghirlandaio fu ‹‹uno de’ principali e più eccellenti maestri dell’età sua, fu dalla natura fatto per esser pittore››[1]. Le parole di apertura della “Vita” di Domenico Ghirlandaio scritte da Giorgio Vasari (1511-1574) presentano benevolmente la figura di un artista fiorentino che fu attivo sin dal 1470 a capo di una bottega, una delle più rinomate a Firenze, insieme ai due fratelli David (1452-1525) e Benedetto (1458-1497) (fig. 2). Come si evince leggendo le parole del Vasari, l'artista preferiva di gran lunga la tecnica dell’affresco rispetto ad altre pratiche pittoriche, e ne divenne uno dei massimi esperti: incominciò la sua produzione affrescando la Cappella di Santa Fina a San Gimignano, e nel 1476-1477 l’Ultima cena nella Badia di Passignano. A Firenze lavorò al servizio delle famiglie legate alla cerchia medicea, tra le quali la famiglia Sassetti, per cui affrescò la Cappella in Santa Trinita (fig. 3) per volere di Francesco Sassetti, che precedentemente rinunciò al patronato della Cappella Maggiore in Santa Maria Novella, in seguito assunto da Giovanni Tornabuoni.

 

La famiglia Tornabuoni e la Cappella Maggiore

Giovanni Tornabuoni, conosciuto a Firenze per la parentela con Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, moglie di Piero il Gottoso e grande donna di cultura, ingaggiò il Ghirlandaio per affrescare tutte le pareti della Cappella mentre ancora stava lavorando per Francesco Sassetti in Santa Trinita; al pittore fu chiesto di eliminare i rovinati affreschi di Andrea (1308-1368) e Bernardo Orcagna, sottoposti ormai da tempo all’acqua piovana e all’umidità causati dalla cattiva conservazione del luogo. In quegli anni la Cappella apparteneva alla famiglia de’ Ricci che non voleva né restaurare l’impianto danneggiato, né cederne il patronato. Fu quindi trovato un compromesso con Giovanni Tornabuoni, il quale, pur di detenere il controllo su un luogo così importante per celebrare la sua famiglia, propose di finanziare la nuova decorazione, promettendo di inserire lo stemma dei Ricci. A conclusione dei lavori, in verità, la promessa non fu mantenuta: Giovanni Tornabuoni non fece dipingere lo stemma della famiglia Ricci e in seguito acquistò la Cappella Maggiore, dove finalmente poté celebrare se stesso e la sua famiglia (fig. 4).

 

Il metodo pittorico nella nuova Cappella Tornabuoni

Il contratto per il rifacimento della Cappella fu stipulato il 1° settembre 1485: all’interno del documento era stabilito che i lavori sarebbero cominciati nel maggio dell’anno seguente e che il pittore avrebbe avuto quattro anni per portarli a compimento. Giovanni Tornabuoni fu per il Ghirlandaio un committente molto esigente, infatti, all’interno del contratto, furono citate tutte le scene da dipingere nella parete di destra, di sinistra, nella volta e nella parete di fondo; furono scelti minuziosamente i colori; e fu deciso che per ogni singola scena il pittore avrebbe presentato al committente il disegno preparatorio, in modo che eventualmente potessero essere apportati cambiamenti in corso d’opera. Il ruolo dei disegni nello svolgimento della decorazione parietale della Cappella fu di fondamentale importanza per l’organizzazione dell’intero ciclo. I disegni conservati sono di diversi tipi: vanno dagli schizzi, caratterizzati da figure sintetizzate, formate da veloci linee indicative delle silhouettes dei personaggi e degli spazi architettonici (fig. 5,6,7) per poi proseguire con gli studi dal naturale in maniera non idealizzata dei volti, delle vesti, e di particolari specifici (fig. 8, 9).

 

Infine, i disegni erano riportati in scala 1x1 (come nei cartoni o nei cartoni ausiliari), da utilizzare per trasporre l’illustrazione sullo strato di intonaco fresco. (fig. 10)

 

Attraverso questo modus operandi diligente, il Ghirlandaio si mise al lavoro insieme ai due fratelli e al cognato Sebastiano Mainardi, il quale si occupò degli affreschi nella parte superiore, mentre il Ghirlandaio di quelli inferiori e della volta. Il ciclo di affreschi, conclusi solo sette mesi più tardi della scadenza, nel dicembre 1490, furono eseguiti secondo una sequenza serrata: prima fu affrescata la volta, poi le storie di Maria alla parete sinistra (sei riquadri e la lunetta), la parete di fondo (sei scene laterali e la lunetta in alto), e infine le storie di San Giovanni Battista sulla destra (altri sei riquadri e la lunetta). Dal 1490 in poi furono concluse le decorazioni con le vetrate, realizzate nel 1491 da Alessandro Agolanti, detto il Bidello, su disegno del Ghirlandaio, e l’altare, ma il maestro, morto improvvisamente nel gennaio del 1494, non vide mai la cappella definitivamente completata.

 

La parete di fondo e la volta

Gli affreschi, esemplari massimi della grande abilità e perizia tecnica del Ghirlandaio come affrescatore, possono essere ripercorsi grazie a un excursus attraverso la storia sacra e la storia fiorentina: analizzando le pitture si comprende come fosse passato ormai in secondo piano il soggetto sacro delle scene, in modo da esaltare il ruolo dei finanziatori e le loro possibilità economiche, oltre che politiche (non a caso sono ritratti personaggi fiorentini contemporanei nelle scene inferiori, dove sono più visibili). Del resto, ai lati delle maestose vetrate, nei primi riquadri in basso si riconoscono i due committenti: Giovanni Tornabuoni a sinistra (fig. 11), e destra la moglie Francesca Pitti (fig. 12), ‹‹che dicono essere molto naturali››,[2] inginocchiati e rivolti verso il centro della cappella, mentre si stagliano su un paesaggio collinare anteceduto da due colonnati.

 

La moglie di Giovanni, già deceduta e sepolta in Santa Maria sopra Minerva a Roma, è raffigurata orante e dall’incarnato pallido; Giovanni invece, con le mani incrociate al petto, è rivolto a tre quarti verso la cappella. I ritratti dei due committenti stanno alla base delle successive rappresentazioni affrescate accanto alle vetrate, dove il Ghirlandaio dipinse dal basso verso l’alto, a destra: San Giovanni Battista nel deserto (fig. 13) e il Martirio di San Pietro da Verona (fig. 14).

 

A sinistra, l’Annunciazione di Maria (fig. 15) e il Miracolo di San Domenico (fig. 16).

 

Sulla lunetta soprastante la parete di fondo, la scena presenta L’incoronazione della Vergine Maria con angeli, profeti e santi (fig. 17), momento di unione fra la madre di Dio e il figlio di Dio, dove, su tre livelli orizzontali sovrapposti, si dispongono i patriarchi e i profeti in trono, lasciando la vera protagonista della scena in alto: Maria viene incoronata da Cristo, con il quale è incorniciata da angeli musicanti, e viene illuminata da ‹‹un’aureola di cherubini››[3].

 

Il ciclo degli affreschi però cominciò dalla volta, dove il Ghirlandaio rappresentò i Quattro Evangelisti, seduti su nuvole e accompagnati dai loro simboli, su un fondo blu dove risaltano i raggi di luce che loro stessi sprigionano (fig. 18).

 

 

 

 

Note

[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 944.

[2] G. VASARI, Le vite...cit., p. 952.

[3] R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995, p.135.

 

 

 

 

Bibliografia

DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89.

G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995.

Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996.

VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.

SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012.

C. BAMBACH, Michelangelo divine draftman & designer, catalogo della mostra (The Metropolitan Museum of Art, New York, 13 novembre 2017- 12 febbraio 2018), New Heaven London 2018.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/


LA MASSERIA BRUSCA, IL GIARDINO DEL TEMPO SOSPESO PT II

A cura di Letizia Cerrati

 

Fu l’insigne Iconologia di Cesare Ripa a fornire la dettagliata descrizione delle personificazioni dei Continenti, soprattutto grazie alla seconda edizione del 1603 che, essendo corredata di illustrazioni, divenne la fonte principale su cui si basarono le rappresentazioni iconografiche dei Continenti per i secoli a venire.

 

Le sculture del Giardino delle Statue si attengono alle caratteristiche citate dal Ripa, a cominciare dall’America, raffigurata svestita, con capelli lunghi fino alle spalle e copricapo piumato, equipaggiata di arco e faretra. Un pappagallo poggia ai suoi piedi rimandando, come animale esotico, alla fauna tipica del luogo. Oltre a quest’ultimo si scorge un arto ferocemente mozzato, che simboleggia la brutalità che si riteneva distintiva di quei popoli, presso alcuni dei quali, come ricorda la testa amputata stretta dalla chioma nella mano della figura femminile, era diffuso il cannibalismo.

Pomona accanto ad America, era la dea della frutta, come si evince dal nome derivante dal latino pomum, questa faceva parte delle divinità minori o “dei minuti”, amava trascorrere le giornate nel suo giardino, prendendosi cura degli alberi da frutto: ne sfoltiva le chiome, li dissetava annaffiandoli e si impegnava negli innesti.

Bellissima e procace, allo stesso tempo timida e riservata, preferiva le gioie della natura e della vita campestre alla compagnia maschile, che cercava ostinatamente di evitare, arrivando persino ad erigere alti muri intorno ai suoi orti col fine di sottrarsi agli sguardi invadenti degli uomini.

Fu Vertumno, sfruttando la capacità di cambiare aspetto a suo piacimento, a farla ricredere.

Dio della trasmutazione, poteva essere chiunque pur rimanendo uno solo, come dice il suo nome che tradizionalmente si collega al verbo vertere, col significato appunto di voltare.

Alcuni ritengono che fu il dio stesso a causare il cambiamento del corso del Tevere, mentre per altri il suo nome si deve alla natura di divinità agricola, responsabile del susseguirsi e del variare delle stagioni, perciò omaggiato coi frutti del primo raccolto.

 

Regina indiscussa del Giardino è l’Europa, vestita di splendidi abiti simboli della prosperità del continente, sfoggia una sofisticata acconciatura arricchita dalla corona, reca in una mano un grappolo d’uva rappresentante l’abbondanza, mentre il modellino del tempio, rimando alla religione cristiana, avrebbe dovuto trovarsi nell’altra.

Le fa compagnia Flora, col capo cinto da una ghirlanda-corona di boccioli, dea della Primavera, del risveglio brioso dopo la mestizia invernale, della fioritura, allegoria dell’eterna giovinezza, foriera di gioia e floridezza. La dea elargisce generosamente agli uomini i prodotti della natura, tra cui l’uva, il grano, i fiori ed il miele.

Sul lato opposto troneggia Fauno, divinità silvestre, protettore dei campi, favoriva il raccolto e la fertilità del bestiame, da cui Inuus (ineo, penetrare, entrare in), uno dei tanti nomi con cui era conosciuto; come Lupercus vegliava inoltre sui pastori e sugli armenti.

Per metà uomo e per metà caprone, è scolpito come un uomo anziano, rude e segnato dagli anni, con un’espressione afflitta sul volto barbuto e provvisto di corna, con i capelli scarmigliati e le orecchie a punta. Le suddette caratteristiche fisiche sono attribuite anche al personaggio mitologico greco Pan.

Alcuni studiosi ritengono che l’appellativo latino derivi dal verbo faveo (essere propizio, favorire), altri che provenga dal verbo fari (parlare), da cui ha origine la parola fatum (destino).

Quest’ultima teoria rimanda al suo ruolo di divinità profetica, in quanto ciò che egli presagiva puntualmente si avverava; gli uomini, infatti, temevano ma supplicavano di ricevere i suoi oracoli.

L’epiteto Incubus fa riferimento al diletto che egli traeva nel tormentare gli uomini con terribili visioni oniriche.

 

Il terzo quarto di cerchio è occupato dall’Africa, effigiata seminuda, coperta soltanto da un lungo mantello panneggiato che corre dalla testa, si posa sulla spalla ed è trattenuto sul basso ventre dalla mano destra. Un sole fitto di raggi le fa da corona, una cornucopia, simbolo di fertilità, spunta dalla mano sinistra, mentre ai suoi piedi si scorgono alcuni aspidi.

È accompagnata dai due poli maschile e femminile connessi con le tematiche venatorie e campestri, Diana e Silvano.

Entrambi sono scortati dai fedeli segugi, accucciati al lato dei rispettivi busti.

Diana nella mitologia latina fu presto identificata con la greca Artemide.  Dea amante della caccia, protettrice della natura selvaggia[1], presiedeva al ciclo della fertilità femminile, vegliava pertanto sulle partorienti e sulle puerpere, sui bambini e sugli animali da latte.

Depositaria della verginità, chiese al padre alcuni doni, tra i quali la verginità eterna.

Puniva senza pietà coloro che tentavano di attentare alla sua castità (celebre è il mito di Diana e Atteone).

Vergine dall’Arco d’Argento, dea lunare, quest’attributo rappresenta la luna nuova e potrebbe essere connesso con l’influenza delle fasi lunari sulle coltivazioni; la dea esercitava infatti il suo potere anche sulla fecondità dei campi.

Venerata anche nell’aspetto di Vegliarda, si accompagnava con Ninfe, sue sacerdotesse, con le quali trascorreva le giornate nei luoghi che più amava: radure e foreste. Da queste ultime pretendeva il rispetto dell’illibatezza.

Silvano, dio dei boschi, da silva (bosco), protettore dei campi e dei pascoli, presiedeva al benessere del bestiame.

Iniziatore della pratica dell’orticoltura (plantatio), la trasmise agli uomini: per questo motivo i proprietari terrieri lo onoravano con le primizie dei loro poderi.

I signori lo veneravano nella sua triplice forma: orientalis, delimitante i confini del terreno; agrestis, operava la distinzione nel podere dell’area per il bestiame ed infine dimesticus, che distingueva l’ambiente esterno da quello intimo dell’abitazione, da quest’ultima era tassativamente escluso.

In occasione della nascita di un bambino egli era tenuto lontano dalla casa dai tre dèi minuti, in quanto ritenuto deleterio per gravide e neonati; il suo culto era inoltre proibito alle donne.

 

L’ultimo continente presente nel Giardino è l’Asia, raffigurata attenendosi alla percezione stereotipata che l’Occidente aveva di questa terra: traboccante di tesori, tessuti pregiati e spezie.

Di seta sembra tessuta l’esotica tunica riccamente ornata che indossa, impreziosita da merletti, fiocchi e da un turbante punteggiato di pietre preziose.

Allude invece alle sofisticate essenze profumate d’Oriente l’incensiere che reca nella mano sinistra.

Cerere e Bacco conversano con l’Asia; la prima, corrispondente alla Demetra greca, era la dea dei campi di grano, pertanto associata alla stagione estiva ed al pane, alimento universale, cibo fondante per l’intera umanità.

Il secondo, il greco Dioniso, era il dio inventore del vino, bevanda degli dèi, inebriante strumento di conoscenza mistica.

Due figure che incarnano dovizia e fertilità, benessere e appagamento dei sensi.

Cerere/Demetra, dal nobile animo, impersonava la produttività e l’abbondanza dei frutti della terra,

veniva celebrata come divinità che insegnò l’arte dell’agricoltura; la diffuse per mezzo di Trittolemo, inviato per il mondo con lo scopo di istruire gli uomini su come praticarla.

Sfruttando i suoi poteri, furibonda e addolorata per la scomparsa della figlia Core/Persefone, impedì alla vegetazione di crescere sulla Terra finché non raggiunse un accordo col dio dell’oltretomba che l’aveva rapita.

Il mito greco che racconta dell’unione della dea su un campo arato tre volte col Titano Giasio rievoca un rituale di fertilità praticato fino a tempi recenti nelle Penisola balcanica.

Probabilmente il Titano e la dea del grano erano soliti rinnovare il rituale apotropaico in occasione delle arature autunnali, al fine di assicurare un raccolto abbondante.

La figura di Bacco/Dioniso, dio della viziosa ebbrezza, allegoria del piacere e dell’abbandono del pudore che annebbia i sensi, è legato alla diffusione del culto della vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale.

Il dio viaggiava per il mondo, accompagnato da Sileno e dal suo seguito di Satiri e Menadi.

Le armi di queste ultime consistevano prevalentemente in bastoni con la punta costituita da una pigna e rivestiti d’edera rampicante, conosciuti come tirso.

La statua del Giardino reca in una mano un calice e nell’altra un grappolo carico di acini d’uva, come a voler rimarcare il ruolo di Bacco quale divinità a cui spetta il merito dell’affermazione della supremazia del vino come bevanda inebriante.

Il dio fu detto anche Dendrite (giovanetto-albero), linfa che nutre gli alberi, che fa aprire i germogli, celebrato durante la Festa di Primavera, nel periodo in cui la natura esplode di mille colori e profumi e tutta l’umanità è partecipe del suo risveglio.

 

Dopo un bagno di bellezza tra storia, arte e mitologia, percorrendo il viale che conduce sullo spiazzo facente fronte alla masseria, la sensazione che pervade il visitatore è quella di pienezza e di pace.

La Masseria Brusca è una piccola oasi radiosa, un luogo ameno in cui perdere piacevolmente la cognizione del tempo.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo

 

 

Note

[1] si ricollega in questo aspetto alla cretese “signora della selvaggina”

 

 

 

 

Bibliografia 

Vincenzo Cazzato, Il giardino di Statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del Mondo e degli Dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, Saggi di storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, Donzelli, Roma, 2005

Scheda Brusca Guida ADSN

Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 2020

Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani il racconto, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010


LE INCISIONI RUPESTRI IN VALLE CAMONICA

A cura di Francesca Richini

 

 

L’Arte Rupestre in Valle Camonica è il primo sito sul suolo italiano ad entrare nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO nel 1979, ed è posizionato al numero 94 della lista mondiale. La Valcamonica si estende su una superficie di circa settanta chilometri. All’interno di questo territorio sono presenti circa 300.000 simboli incisi sulla roccia che rappresentano diversi aspetti della vita preistorica: l’agricoltura, la caccia, la navigazione, riti sciamanici e simboli geometrici, risultando il luogo con più reperti di archeologia preistorica a livello europeo.

 

Le incisioni rupestri sono dei segni su superfici rocciose, levigate dai ghiacciai, dai colori grigio o azzurro-violetto eseguiti intenzionalmente. Quest’ultime sono realizzate con due diverse tipologie di tecniche: la percussione, che si ottiene battendo sulla roccia con strumenti di pietra, creati per poter incidere composti da quarzite e selce o di metallo; e il graffito ottenuto graffiando la superficie con materiali simili alla precedente tecnica ma appuntiti, producendo così risultati diversi. Lo scopo delle rocce istoriate non è chiaro. Secondo alcuni studiosi come Emmanuel Anati, la funzione delle incisioni rupestri era, probabilmente, quella didattica. Attraverso le rocce istoriate si tramandavano miti e storie che venivano commemorate durante dei riti. Forse anche per questo motivo nel territorio si ha una maggiore produzione di incisioni con sovrapposizioni, sulla stessa roccia, di periodi storici differenti. Gli studiosi sono tuttavia concordi nel ritenere che le incisioni fossero realizzate durante dei riti dalle funzioni diverse: celebrative, propiziatorie o commemorative sotto la direzione di persone importanti per la comunità come sacerdoti-stregoni-sciamani-capi.

 

Gli autori delle incisioni sono stati indicati dai romani come i “Camuni” durante il primo periodo di governo romano. Questo insieme di popolazioni sconfitte dai romani nel 16 a.C. non erano un unico gruppo di abitanti, ma comprendevano un gruppo di diverse popolazioni distribuite nella Valcamonica e nelle valli limitrofe. Le abitazioni nelle quali vivevano erano costruite con paglia, e legname. Dai ritrovamenti archeologici le capanne sembra fossero posizionate sul versante soleggiato della Valcamonica, alzate da terra e disposte in gruppi.

 

La scoperta delle incisioni rupestri

La scoperta delle incisioni avviene nel 1909 con Walter Laeng, che segnala la presenza di due grandi massi istoriati nei pressi di Cemmo. Si ingrandisce con il ritrovamento su rocce di importanti dimensioni dalla superficie liscia, resa tale dai ghiacciai, durante il periodo della glaciazione negli anni Trenta del Novecento nella località di Giadeghe grazie alla segnalazione della popolazione, per poi passare ai ritrovamenti nella media Valle a Naquane, Zurla, Foppe di Nadro. Nel secondo dopoguerra, nel 1964, nasce il Centro Camuno di Incisioni Rupestri diretto da Emmanuel Anati che sancisce la ripresa degli studi e della ricerca archeologica delle incisioni rupestri fino ad oggi.

I segni coprono un arco temporale di circa 8000 anni. Nel corso dello studio si è deciso di catalogare le incisioni secondo uno schema temporale: Età del Rame, Età del Bronzo ed Età del Ferro dovuto anche ad uno stile differente di disegni e di soggetti istoriati. In questo territorio le prime tracce di esseri umani compaiono circa tredicimila anni fa, dopo l’era glaciale, con lo scioglimento dei ghiacciai. I primi insediamenti umani sono stati fatti risalire al Neolitico, cioè nel V e VI millennio a.C.. Nel III millennio a.C., nel cosiddetto Eneolitico, si ha una diffusione di massi-menhir incisi una sorta di santuari, l’apice incisoria si ha nell’Età del Ferro, nel I millennio a.C., dove si ha la massima produzione incisoria che si affievolisce con l’arrivo dell’Impero Romano nel 16 a.C. e la diffusione della religione romana per poi riprendere, con simboli diversi, durante il Medioevo.

 

I parchi in Valcamonica con arte rupestre sono otto, distribuiti in tutta la Valle: il Parco di interesse sovracomunale del Lago Moro (Darfo B.T.), il Parco archeologico di Asinio Anvòia (Ossimo), la Riserva naturale incisioni rupestri di Ceto, Cimbergo, Paspardo, il Parco nazionale incisioni rupestri Naquane (Capo di Ponte), il Parco archeologico nazionale dei Massi di Cemmo (Capo di Ponte), il Parco archeologico comunale di Seradina Bedolina (Capo di Ponte), il Parco archeologico e minerario di Sellero, il Percorso pluritematico del “Coren delle Fate” (Sonico).

È necessario, tuttavia, sapere che le incisioni si trovano su una superficie rocciosa, spesso di notevoli dimensioni, e che si trovano all’aperto in montagna. È quindi raccomandato un vestiario comodo per poter raggiungere i siti, ma una migliore fruizione è dettata anche dall’inclinazione dei raggi solari che illuminano la superficie rocciosa. A tal proposito il versante orientale, dove si trovano i parchi di Naquane, “Coren delle Fate”, Ceto Cimbergo e Paspardo, ha la migliore esposizione solare la mattina dalle 9.30 fino alle 11.00 circa; mentre il versante occidentale, con i parchi di Seradina Bedolina, Lago Moro, Asinio-Anvoia, i Massi di Cemmo e Sellero, ha la migliore inclinazione ai raggi solari il pomeriggio dalle 13.00 fino alle 15.00 circa.

Inoltre, proprio da queste incisioni è stato preso il simbolo presente nella bandiera della Regione Lombarda: la Rosa Camuna, che è stata ritrovata oltre 90 volte sulle rocce, in particolare nel parco di Luine vicino Darfo Boario Terme. Gli studiosi della materia non sono concordi sul significato da attribuire a questo simbolo, sebbene sia molto dibattuto. Tale Valle è inoltre indicata anche come la Valle dei segni, visto che è oggetto di un fenomeno particolare che si presenta due volte all’anno, durante gli equinozi. I protagonisti di questo effetto sono due monti: il Pizzo Camino e la Concarena che creano l’effetto di un’aquila composta dai raggi del sole che pare sorgere dalla montagna.

 

 

 

 

Bibliografia

Centro Camuno di studi preistorici, I parchi con arte rupestre della Vallecamonica, guida ai percorsi di visita, tipografia Camuna S.p.A. Breno/Brescia, 2010.

 

Sitografia

https://www.unesco.it/it/patrimoniomondiale/detail/99

https://whc.unesco.org/en/list/94/

https://www.regione.lombardia.it/wps/portal/istituzionale/HP/DettaglioRedazionale/istituzione/regione/bandiera-regione-lombardia/bandiera-regione-lombardia#:~:text=La%20Rosa%20Camuna%20argentea%20su,quale%20vessillo%20ufficiale%20dell'Ente.

http://valledeisegni.it/it/storia/68

http://www.archeocamuni.it/arte_rupestre.htm