LA PINACOTECA NAZIONALE DI CAGLIARI E LE OPERE DI ANTIOCO MAINAS

A cura di Denise Lilliu

 

 

La Pinacoteca di Cagliari: storia

La pinacoteca di Cagliari fa parte, dal 1992, del complesso museale della Cittadella dei musei, ed è situata nel Quartiere di Castello, uno dei quartieri storici della città. Nonostante la pinacoteca sia ubicata in un quartiere storico, l’architettura del complesso museale e della pinacoteca, progettati dagli architetti Piero Gazzola e Libero Cecchini, segue uno stile più moderno e razionalista. All’ interno della struttura, percorrendo il percorso museale, si cammina fiancheggiando le originali mura cinquecentesche. Inoltre, essendo Castello uno dei quartieri più sopraelevati dell’intera città di Cagliari, da questo punto è possibile godere di una meravigliosa vista sul resto della città e sul porto. Nei pressi della cittadella dei musei, intorno alla pinacoteca si trovano anche: Il Museo d’Arte Siamese e il Museo delle Cere Anatomiche e non molto lontano da qui è facile arrivare anche al Museo Archeologico, Torre di San Pancrazio e all’Anfiteatro Romano. Questo quartiere della città offre numerosi siti e luoghi d’arte a cui dedicare una visita ben approfondita.

 

La Pinacoteca: struttura e opere

La Pinacoteca di Cagliari custodisce una collezione d’arte sarda formatasi a seguito di donazioni private, ma anche di acquisizioni statali. Parte della raccolta, per esempio, apparteneva alla chiesa di San Francesco di Stampace, prima che questa venisse distrutta nel 1875, mentre un altro nucleo di opere è entrato a far parte della collezione in seguito alla soppressione degli enti ecclesiastici (1866). In tutto, la pinacoteca conta al suo interno più di 1200 opere, tra dipinti, gioielli, tessuti, ceramiche, sculture e arredo liturgico. E’ presente anche una collezione etnografica che per motivi di spazio viene esposta periodicamente e comprende tessuti e ricami della tradizione sarda come: mobilio, gioielli, ceramiche, armi e amuleti, tutti databili al periodo tra la fine del 1800 e inizi del 1900. La collezione pittorica della Pinacoteca, invece, può vantare lavori di artisti come Antioco Mainas, Joan Figuera, Michele Cavaro, o ancora del Maestro di Castelsardo e opere di autori contemporanei come Joan Barcelo.

La Pinacoteca è articolata, da un punto di vista strutturale, su tre piani, tutti visitabili e la suddivisione delle opere al suo interno segue un criterio cronologico. Al primo piano, infatti, sono collocate opere la cui datazione va dal XVI al XIX secolo. Al secondo piano, invece, sono ospitati quadri provenienti da raccolte ecclesiastiche, risalenti al Seicento e al Settecento. Il terzo e ultimo piano della Pinacoteca, infine, raccoglie opere pittoriche Fiamminghe, capolavori del tardogotico catalano e un’interessantissima serie di lavori del XVI secolo, usciti dalla bottega dei Cavaro, situata all’interno del quartiere di Stampace. In ogni caso, tra i pezzi più pregiati dell’intera collezione vanno sicuramente menzionati il retablo del Giudizio Universale, opera quattrocentesca del Maestro di Olzai, o ancora l’Annunciazione di Joan Mates.

 

Antioco Mainas nella Pinacoteca di Cagliari

La predella di Nostra Signora di Valverde

Ad oggi le notizie che si hanno sulla vita privata e vita lavorativa di Antioco Mainas sono veramente poche. Si presume sia stato un pittore residente a Cagliari e attivo nel mondo dell’arte presumibilmente durante il Cinquecento. Tra i centri dove opera non c’è solo Cagliari ma anche Oristano o Villasalto, nella zona del Sarrabus. Tra i suoi lavori presenti in Pinacoteca, una menzione speciale va fatta per la Predella di Nostra Signora di Valverde.

 

La predella è una parte residua di un retablo ormai andato perso, una tempera ad olio su tavola (54x243 cm) datata a metà del XVI secolo. L’opera rappresenta il Cristo risorto fra San Pietro, San Gerolamo, San’t Antonio abate(?) e San Paolo.

Come è facilmente intuibile dal nome, l’opera apparteneva alla chiesa Francescana di Nostra signora di Valverde ad Iglesias, chiesa che, rimasta trascurata per lungo tempo, ha di fatto esposto l’opera a pericoli e in primis al degrado. In seguito, fu spostata in un liceo scientifico di Iglesias, prima di andare definitivamente ad arricchire la collezione della Pinacoteca di Cagliari.

 

L’opera è composta da cinque riquadri e, come già accennato, caratterizzata dalla presenza, al centro della composizione, del Cristo risorto e sospeso su un sepolcro serrato. La sua veste sembra espandersi, aprirsi allo spazio, mentre il corpo è circondato da una forte luce.  Nella parte inferiore del dipinto, invece, ci sono 2 figure, delle guardie che osservano il Cristo con agitazione. Nei riquadri laterali, invece, troviamo a sinistra (in ordine) San Pietro e San Gerolamo, mentre a destra, al fianco di San Paolo, la cui spada brandita con la mano destra è elemento certo di identificazione, c’è un quarto santo, sui quali resistono le incertezze attributive: le ipotesi proposte, infatti, sull’anziana figura che prega, sono due, e i nomi fatti sono quelli di Sant’Onofrio e di Sant’Antonio Abate.

 

La Crocifissione del Retablo di San Francesco a Oristano

Un'altra opera di Antioco Mainas presente in pinacoteca è la sua Crocifissione, o meglio una delle tante versioni da lui realizzate nel corso della sua vita. Anche in questo caso, l’opera, una tavola a tempera e olio risalente alla metà del XVI secolo, in origine era parte di un unico grande retablo a lungo conservato nella chiesa di San Francesco a Oristano, dove era unita ad altri riquadri, probabilmente quelli dell’Annunciazione e del Transito della vergine, anch’essi custoditi in pinacoteca. Si ipotizza che alla Crocifissione spettasse la posizione centrale nell’architettura del retablo, con il Transito sul livello più alto e l’Annunciazione sul lato sinistro. Inoltre, questa versione della Crocifissione sembra avvicinarsi all’episodio analogo narrato, nel Retablo di Villamar, dai fratelli Michele e Pietro Cavaro, pittori quasi sicuramente vicini di bottega di Antioco. L’Annunciazione è molto vicina all’iconografia quattrocentesca, rappresenta una madonna seduta colta nell’atto di voltarsi e con uno sguardo come spaventato. Si trova in un ambiente interno, caratterizzato dalla presenza dietro alla madonna di un drappo verde scuro con dei motivi. Il Transito Della Vergine sembra rimandare alla tradizione della pittura Ispano Fiamminga con un grande realismo e profusione di dettagli, colori accesi e accenni dorati. Anche questa scena sembra essere ambientata all’interno.

 

Il Retablo di Santa Maria di Montserrat

Altra opera di Antioco è il Retablo di Santa Maria di Monserrat, ancora una volta a tempera e olio su tavola e stavolta proveniente dal Chiostro della Chiesa di San Francesco in Stampace a Cagliari. Anche in questo caso si nota l’influenza dei fratelli Cavaro sulle opere e sullo stile di Antioco in quel periodo della sua carriera. Nel riquadro al centro, il Cristo risorto è affiancato dalle sante Agata e Apollonia, e come nelle opere precedenti egli fluttua sopra il sepolcro, circondato da un bagliore di luce. Gli altri riquadri contengono invece altre figure di santi (Cosma e Damiano, Barbara, Lucia, Gregorio e Girolamo in due riquadri più piccoli) e due Dottori della Chiesa, riconoscibili per la presenza, al loro fianco, di piccoli edifici ecclesiastici con valore metaforico.

 

 

 

 

Sitografia

Pinacoteca - Orari e biglietti (beniculturali.it)

Pinacoteca - Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (beniculturali.it)


IL COMPLESSO MONASTICO DI SAN PIETRO MARTIRE

A cura di Ornella Amato

 

 

*Un sentito ringraziamento all’associazione Respiriamo Arte per la preziosa collaborazione

 

Introduzione

In piazza Ruggero Bonghi, a ridosso del corso Umberto I di Napoli, strada nota come “rettifilo”, incastrato tra i palazzi cittadini e poco distante dall’Università degli Studi di Napoli, si trova il Complesso Monumentale di San Pietro Martire.

La struttura conta la chiesa ed il chiostro, dove all’interno è ubicata la facoltà di Lettere e Filosofia. In tempi recenti il complesso è stato oggetto di un imponente restauro che ne ha permesso la completa restituzione alla città. IL progetto di restauro è stato realizzato nell’ambito del “Grande Progetto” UNESCO per la riqualificazione del centro storico di Napoli[1]. La chiesa appartiene al FEC (Fondo Edifici Culto) del Ministero dei Beni culturali ed è affidata all’associazione Respiriamo Arte per le visite guidate e alla Comunità di Sant’Egidio per le attività espositive e di accoglienza.

 

Brevi cenni storici: il passaggio dalla dinastia sveva agli angioini.

Nel 1220 papa Onorio III incoronava imperatore Federico II di Svevia. Il 5 giugno 1224 l’imperatore svevo emanava l’editto istitutivo dell’Università degli Studi di Napoli, un’università laica che aveva come scopo la formazione di una classe dirigente che partecipasse al governo del regno. Nel 1250 Federico II moriva e gli succedeva il figlio Manfredi, che si proponeva come continuatore della politica del padre.

Intanto ad Onorio III era succeduto Innocenzo IV che, preoccupato dagli eventi che si stavano svolgendo nel meridione della penisola, decideva di chiedere aiuto a Carlo d’Angiò, promettendogli il regno di Sicilia se lo avesse liberato dagli svevi.

Lo scontro tra gli svevi e gli angioini avvenne a Benevento dove, nel 1266, Manfredi veniva sconfitto e ucciso. Il Papa – come promesso – incoronava Carlo I d’Angiò re di Napoli e della Sicilia.

Nel 1268, Corradino di Svevia, figlio di Manfredi ed ultimo discendente di Federico II, con un piccolo esercito tentava un ultimo assalto al regno: a Tagliacozzo, in provincia de L’Aquila, veniva catturato, portato a Napoli e, in città, decapitato pubblicamente. Carlo d’Angiò aveva conquistato definitivamente il regno svevo nell’Italia meridionale, inaugurando l’età angioina.

 

Il complesso di San Pietro Martire

La dedicazione

La chiesa non è dedicata a San Pietro l’apostolo del Cristo, per il quale diverse fonti ne attestano il suo passaggio in città, ma a San Pietro da Verona, martire domenicano, morto assassinato nel 1254 per mano di due sicari che lo avrebbero ucciso con un colpo di accetta alla testa ed una pugnalata al cuore. Da qui ne deriva anche l’iconografia stessa del santo, rappresentato con l’accetta incastrata in testa e il pugnale nel petto.

 

 

La Chiesa

Il 29 aprile 1294 per volere del re di Napoli Carlo I d’Angiò furono avviati i lavori della chiesa di San Pietro Martire e, per indicazione dello stesso sovrano, il complesso intero venne destinato ai domenicani, ordine non solo particolarmente caro alla dinastia francese, ma che si era distinto negli scontri tra Stato e Chiesa, ai tempi della dinastia sveva, favorendo il papato.

La sede della nuova chiesa fu realizzata su un'area non molto distante dal mare, direttamente sotto la regia giurisdizione angioina. La struttura ecclesiastica fu ultimata circa cinquant’anni dopo, nel 1347, ma ben presto furono necessari interventi di restauro a causa di incendi e terremoti che la colpirono. Ne derivò un complesso restaurato più volte, secondo i tempi e le correnti artistiche del momento.

Nel corso del primo decennio del XVII sec., un nuovo restauro interessò la chiesa e fu realizzato dall’architetto (e frate domenicano) Giuseppe Nuvolo che realizzò anche la cupola e il chiostro.

La struttura subì ingenti danni anche durante la Seconda guerra mondiale, in particolare il 1° marzo del 1943 fu coinvolta in un bombardamento aereo: le conseguenze dell’attacco si riscontrarono soprattutto all’interno e lungo la navata centrale.

 

Struttura interna attuale dello spazio celebrativo

Della struttura trecentesca della chiesa resta ben poco. L’interno è a croce latina, navata unica e quattordici cappelle, sette per ogni lato. A seguito dell’ultimo restauro è stato ripristinato il bianco, suo colore originale.

 

L’altare maggiore è realizzato con marmi policromi ed è databile all’età barocca, mentre nel retro risalta il coro ligneo settecentesco.

 

Nei transetti laterali ci sono le tele dedicate ai domenicani: a destra il Martirio di San Pietro da Verona di Girolamo Imparato e una parte marmorea del sepolcro di Antonio De Gennaro[2]; a sinistra San Domenico che dispensa i rosari di Bernardo Azzolino.

 

La testimonianza di tutti gli interventi che si sono avuti nel corso dei secoli si riscontra in quasi tutte le cappelle, dove risaltano non solo i blocchi di piperno originali, ma anche le opere che sono state realizzate nel corso del tempo, come il bassorilievo trecentesco e la tela della Morte e Assunzione della Vergine nella prima cappella a destra.

 

Molte cappelle conservano al loro interno opere e sepolcri di personaggi legati alla casa d’Aragona, che aveva conquistato il regno di Napoli e di Sicilia nel 1442 e che aveva particolarmente a cuore l’ordine domenicano.

La settima cappella a destra, infatti, ospita i sepolcri di Pietro d’Aragona e di Isabella da Chiaromonte[3], regina di Napoli e moglie di Ferrante I.

Molti sepolcri, anche a seguito dei bombardamenti del ‘43, sono stati smembrati e le opere scultoree che li componevano sono state esposte in più cappelle, come nel caso del monumento funebre ad Antonio De Gennaro [fig.da 9 a 14], del quale risalta in particolare il dettaglio con Partenope, rappresentata qui nella più antica iconografia della sirena quale donna-uccello [fig.13].

 

A sinistra della navata centrale, risalta la cappella dedicata a San Vincenzo Ferreri, nella quale si conserva una stampa del polittico[4] dedicato al santo realizzato dal Colantonio.

 

Del polittico, oltre al santo, risalta nella predella il riquadro raffigurante Isabella da Chiaromonte in preghiera nella cappella Palatina di Castelnuovo. Nei laterali sono inoltre presenti tre lapidi marmoree dedicate alla nobile famiglia napoletana dei Pagano

 

A sinistra, invece, la quinta cappella ospita La Visitazione e L’Annunciazione di Francesco Solimena.

Dalla sagrestia, che conserva la parte superiore del monumento funebre del De Gennaro, si accede al chiostro piccolo, dal quale si può ammirare la cupola maiolicata.

 

La facciata esterna

La facciata esterna, anch’essa più volte oggetto di rimaneggiamenti e restauri, si presenta in due ordini: quello inferiore col portale marmoreo seicentesco, inscritto tra due lesene composite, e quello dell’ordine superiore, nel quale risalta il finestrone centrale.

 

Il Monastero ed il Chiostro grande: la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università

Il monastero ed il chiostro del complesso monumentale di San Pietro Martire, sebbene parte del complesso, hanno avuto una vita estremamente separata da quella della chiesa, come se si trattasse di strutture separate, sebbene inglobate in un'unica fabbrica.

 

Si trovano nell’area destra a ridosso della chiesa, in via Porta di Massa, e ad oggi ospitano la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli.

I lavori per la realizzazione risalgono alla seconda metà del XVI sec. e la struttura si presenta oggi con una forma quadrangolare, in piperno, con sette archi per ciascun lato.

 

All’inizio era un luogo nel quale convergevano accademici, nobili e filosofi. Fu soppresso nel 1808 per volere di Giuseppe Bonaparte ed in seguito divenne una fabbrica di manifatture tabacchi che restò operativa fino al 1943. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale lo danneggiarono gravemente, tanto da rischiare la demolizione. Dall’interno del chiostro risalta la cupola maiolicata che completa la chiesa.

 

Per iniziativa del Rettore dell’Università, Giuseppe Tesauro, il 13 luglio 1961 l’ormai ex- convento entrava a far parte del patrimonio architettonico dell’Università e diventava la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia. Migliaia di studenti ancora oggi attraversano quei corridoi, sfogliano libri e testi all’interno del chiostro “di Porta di Massa”- come molti ancora convenzionalmente lo chiamano - e frequentano una facoltà all’interno di un complesso, quello di San Pietro Martire, che racconta secoli della storia partenopea.

 

 

 

Dove non espressamente indicato in didascalia, le immagini fotografiche sono state realizzate dall’autrice, previa autorizzazione dell’Associazione Respiriamo Arte.

 

 

 

 

Note

[1] L’intero Centro Storico di Napoli è patrimonio Unesco.

[2] Personalità di spicco, vicino alla casa d’Aragona

[3] Le arche contenenti i resti mortali del casato d’Aragona si trovano all’interno della Sagrestia della Chiesa di San Domenico Maggiore, considerato il ‘Pantheon’ del casato spagnolo.

[4] Il polittico è conservato al Museo di Capodimonte

 

 

 

Bibliografia

Chitarrini, V. Porta A., Tancredi S., I nodi del Tempo – versione plus –, Vol. I, pp. 285-292, Ed. Lattes 2015

 

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/papa-innocenzo-iv_%28Dizionario-Biografico%29/  consultato il 13 maggio 2022

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-i-d-angio-re-di-sicilia_%28Dizionario-Biografico%29/ consultato il 13 maggio 2022

www.respiriamoarte.it consultato il 14 maggio 2022

https://www.respiriamoarte.it/luoghi/san-pietro-martire/

www.unina.it consultato il 14 maggio 2022

www.unina.it/chi-siamo/convento-sanpietro-martire consultato il 16 maggio 2022

http://www.unina.it/chi-siamo/cenni-storici consultato il 16 maggio 2022

https://sabap.na.it/terminato-il-restauro-della-facciata-della-chiesa-di-san-pietro-martire/ consultato il 16 maggio 2022

https://www.interno.gov.it/it/notizie/restaurata-napoli-chiesa-fec-san-pietro-martire  consultato il 17 maggio 2022


SAN VIGILIO E L’URNA PROCESSIONALE DEL SANTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

Questo nuovo contributo è dedicato al patrono di Trento, San Vigilio, che è stato vescovo della città dal IV-V secolo e che ogni anno viene festeggiato il 26 giugno, giorno della sua morte. In occasione della sua commemorazione è portata in processione la celebre urna processionale delle reliquie del Santo, di cui sono note le peculiarità e vicende storiche.

 

Premessa

Le vicende storiche della vita di San Vigilio risalgono a più di milleseicento anni fa, a quando la cultura scritta non era ancora diffusa e le testimonianze orali faticavano a conservare intatti i fatti storici. In particolare, le testimonianze giunte fino a noi sulla vita di Vigilio sono scarse e al limite della leggenda: due lettere di Vigilio inviate ai vescovi Simpliciano e Giovanni Crisostomo ritenute autentiche e contemporanee ai fatti, ma di difficile lettura, e la Passio Sancti Vigilii che presenta invece qualche problema critico. La Passio è una breve biografia di Vigilio che dedica particolare attenzione alla sua morte e al suo martirio, da qui il titolo di Passio (Passione). Il testo è stato scritto in epoca longobarda, tra il VI secolo e VIII secolo, a quasi due secoli dalle vicende intercorse, non è di tipo storico, ma agiografico, cioè descrive la santità e la devozione del personaggio. Dettagli questi da tenere in considerazione nel resoconto della vita del Santo che intreccia le informazioni storiche delle lettere a quelle agiografiche della Passio[1].

 

La vita di San Vigilio

Vigilio è stato vescovo della chiesa di Trento tra il IV e il V secolo; il suo episcopato è durato circa 12 anni ed iniziò tra il 388 e il 393 per poi concludersi tra il 400 o il 405, in corrispondenza della data presunta di morte. È soprattutto attraverso la Passio che conosciamo le origini del Santo, nella quale è identificato come cittadino di Trento e di stirpe romana, figlio di Santa Massenza[2], di origini romane e fratello di Claudiano e Magoriano; ebbe una formazione umanistica a Roma e forse anche ad Atene, comunque in un ambiente legato alla tradizione classica mediterranea[3].

La decisione di passare alla carriera religiosa deve essere avvenuta molto presto, in quanto il Santo, come riferisce la Passio, dimostrò grande precocità di santità, una forte dimensione caritativa e assistenziale, virtù taumaturgiche e un grande interesse per la parola e la divulgazione del Vangelo. Fu così che venne eletto vescovo a soli vent’anni dal popolo cristiano e venne consacrato dal vescovo di Aquileia nella chiesa fuori le mura della città di Trento[4].

Negli anni del suo episcopato mostrò un forte slancio missionario, evangelizzando la terra trentina, ma anche i territori adiacenti delle diocesi di Verona e Brescia. Qui egli portò la parola del Vangelo e convertì la popolazione alla fede cristiana, fondando più di trenta chiese nelle diocesi di Brescia e Verona[5]. L’evangelizzazione del Trentino pare sia avvenuta in tempi rapidi e costanti, nell’arco dei dodici anni del suo episcopato, ma in realtà deve essere avvenuta molto più lentamente e con molte più difficoltà. Tra il IV e il V secolo la popolazione delle valli trentine era ancora legata agli idoli pagani e quindi i risultati furono molto lenti e problematici, come è stato per la missione cristiana della Valle di Non. La missione nella valle avvenne per opera di tre collaboratori di Vigilio provenienti dalla Cappadocia, Sisinio, Martirio e Alessandro: la loro missione ebbe un epilogo drammatico perché vennero uccisi la mattina del 29 maggio del 397 dai contadini della zona su un rogo allestito con le travi della chiesetta costruita dai tre martiri. Il martirio dei tre missionari è comprovato dai dati storici, grazie alle lettere inviate da Vigilio al vescovo di Milano, Ambrogio, tra IV e V secolo[6].

 

Come anticipato, il testo agiografico del Santo vuole soprattutto dimostrare il martirio, la santità, la data della morte e la sepoltura di Vigilio. Il testo racconta che dopo il martirio dei tre cappadoci, Vigilio sentì ancora di più lo slancio missionario, decidendo di portare la sua opera evangelizzatrice in un’altra zona del Trentino, la val Rendena. La leggenda racconta che Vigilio si recò nella valle per predicare la parola del Signore e distruggere una statua di bronzo dedicata al dio Saturno che un ricco signore aveva posto su un suo podere. Alla notizia dell’accaduto, una folla di contadini corse contro di lui con spade e pietre che scagliò contro Vigilio portandolo alla morte. I diaconi del santo che sopravvissero raccolsero il suo corpo, lo misero su un cavallo e lo portarono in città. Nel terzo giorno dopo il martirio, una volta giunto in città, il suo corpo fu portato nella basilica che Vigilio aveva edificato presso la Porta Veronese, fuori città, e qui fu seppellito con i Santi della Cappadocia. Ad oggi vi sono molti dubbi sulla validità storica dell’accaduto, prima di tutto perché non compaiono testimonianze scritte contemporanee all’evento e, grazie agli studi effettuati da monsignor Iginio Rogger (studioso della storia del cristianesimo in Trentino), si ritiene che la morte di Vigilio sia avvenuta per motivi naturali tra il 400 o il 405 d.C. e il 26 giugno, giorno che coincide con la festa patronale di Trento. Una data che viene data per certa, in quanto pervenuta dalle fonti liturgiche e dall’uso comune; infatti, già in epoca altomedievale il 26 giungo era festa di San Vigilio[7].

La storia del Santo patrono di Trento è stata tramandata nei secoli e ha ispirato la comunità cristiana trentina e il mondo dell’arte nelle rappresentazioni di Vigilio, i cui attributi iconografici sono il sasso, gli zoccoli dei contadini, l’idolo distrutto, il Duomo di Trento, la palma del martirio, gli abiti vescovili, il libro - perché ha commentato e diffuso la Parola del Signore - e l’immagine di un giovane santo in atto benedicente (glabro o con una barba piuttosto corta), in quanto fu fatto vescovo a soli vent’anni.

 

L’urna processionale delle reliquie di Vigilio

Nel giorno della commemorazione di San Vigilio è protagonista l’urna processionale del Santo che ogni anno viene portata in processione lungo le strade del centro storico della città. Si tratta di un oggetto estremamente prezioso del Tesoro del Duomo di Trento, conservato ed esposto al pubblico presso il Museo Diocesano Tridentino.

La grande urna processionale è un fine lavoro di oreficeria del XVII secolo (1632): si tratta di un classico reliquiario a cassa in argento fuso, sbalzato, inciso, punzonato, cesellato e in parte dorato con una profusione di smalti e pietre preziose - perle, zaffiri, ametiste, quarzi, topazi e altre pietre semipreziose -.

La cassa è stata progettata per l’esposizione al pubblico delle reliquie del Santo nel giorno della sua festa, mentre la decorazione è stata pensata in funzione del suo ruolo, ovvero sull’idea che le forze taumaturgiche dei resti del Santo debbano trasmettersi all’involucro e poi ai fedeli. Oltre a ciò, la scelta di utilizzare pietre e metalli preziosi è simbolo per i fedeli della potenza divina che è trasmessa attraverso la preziosa urna[8].

 

L’urna di San Vigilio è composta da una grande cassa sostenuta da quattro piedi che ricordano le zampe d’anatra, con le pareti bombate e i lati sottolineati da festoni dorati di frutti e foglie. Nella fascia che corre sotto il coperchio si trovano due aperture chiuse da cristalli in vetro e gli scudi dorati con l’aquila della città di Trento in smalto nero. L’urna è chiusa da una copertura a modanature digradanti ed è decorata da quattro teste d’angelo alate, inoltre è sormontata da una monumentale mitra argentea. Quest’ultimo elemento decorativo è stato inserito nel XVIII secolo e presenta le forme della classica mitra indossata in occasione delle messe pontificali con le fasce che terminano con sette nappe e le estremità della mitra che culminano con grandi zaffiri. In occasione degli ultimi restauri effettuati sull’urna, una scoperta eccezionale ha cambiato la storia dell’oggetto: è emerso che la pietra inserita all’interno della ghirlanda di fiori, nella fronte principale della cassa, non è altro che un anello incastonato. L’anello porta le iniziali di papa Pio IV e lo stemma del suo casato, i Medici, risale al 1566-1572, è in oro fuso sbalzato, inciso, cesellato e reca al centro una pietra azzurra, la copia sintetica di uno zaffiro, che il papa utilizzava come oggetto ad uso personale[9].

Meritevoli di particolare attenzione sono le iscrizioni e le decorazioni della cassa. La decorazione a sbalzo è del XVII secolo ed emerge dal fondo opacizzato per mezzo di punzonature: sui lati maggiori è inciso un intreccio di volute, su cui si inseriscono delle grandi teste d’angelo sotto baldacchini, invece, sulle spalle della cassa, vi sono dei grandi medaglioni ovali lisci con le palme decussate del martirio e il monogramma di Cristo. Sulla fronte della cassa un’iscrizione a caratteri latini, dedicata a San Vigilio, ricorda il voto della città per essere stata risparmiata dalla peste del 1630[10].

La cassa venne probabilmente commissionata in seguito al voto della città e doveva essere terminata entro il settembre del 1632, ma fu presentata al pubblico solo il primo gennaio 1633, al suono delle campane di piazza. Fu realizzata dall’orafo Oswald Tischmacher[11] che incise l’urna con le proprie iniziali e si ispirò alla cultura figurativa degli orafi tedeschi, com’è dimostrato dal fatto che l’urna è priva di scene iconografiche relative al santo, una caratteristica propria dell’area culturale tedesco-meridionale. Gli interventi sulla cassa non si conclusero qui, anzi: nella seconda metà del XVIII secolo (1760-1770 ca.) venne commissionato, dal Capitolo del duomo di Trento, il più abile orafo di Trento, Giuseppe Ignazio Pruchmayer, di origini tirolesi, per rinnovare l’urna al gusto rococò dell’epoca con l’aggiunta delle decorazioni dorate, la grande mitra d’argento e l’anello di papa Pio IV[12].

 

 

 

 

 

Note

[1] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, pp. 28-31.

[2] Santa Massenza fu una martire della chiesa cristiana trentina, le cui spoglie furono conservate prima presso il Lago di Toblino e poi, nel 1145, trasferite nella Cattedrale di San Vigilio a Trento.

[3] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, pp. 32-34

[4] In realtà il metropolita che riconobbe e confermò Vigilio come vescovo di Trento fu Ambrogio della diocesi di Milano, al cui ambito apparteneva la chiesa di Trento nel IV secolo. Il consiglio del vescovo di Milano a Vigilio fu quello di svolgere un’ordinaria attività di governo; invece, Vigilio diede avvio ad un’importante e difficoltosa campagna missionaria della regione e non solo (S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, p. 37).

[5] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, p. 38.

[6] Ivi, pp. 43-45

[7] Ivi, pp. 46-55.

[8] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 181

[9] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 29, Anello di Papa Pio IV, p. 148

[10] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 182.

[11] L’orafo Oswald Tischmacher sappiamo che era attivo a Bolzano, ma era originario di Innsbruck e che si trasferì a Trento dopo la commissione dell’urna di San Vigilio nel 1642 circa (D. Floris, Scheda 9, Urna processionale di San Vigilio, p. 198).

[12] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 182.

 

 

 

 

Bibliografia

Armando Costa, San Vigilio, vescovo e patrono di Trento, Trento, Artigianelli, 1975

Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991

Wolfram Koeppe, Michelangelo Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, in Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991, pp. 178-183

Wolfram Koeppe, Michelangelo Lupo, Scheda 29, Anello di Papa Pio IV, in Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991, pp. 148-149

Domenica Primerano (a cura di), L'immagine di San Vigilio, tra storia e leggenda, Trento, Temi, 2000

Daniela Floris, Scheda 9, Urna processionale di San Vigilio, in Domenica Primerano (a cura di), L'immagine di San Vigilio, tra storia e leggenda, Trento, Temi, 2000, pp. 198-199

Severino Vareschi, S. Vigilio e l'evangelizzazione del Trentino, Trento, Bertelli, 2001


LA FONDAZIONE GIUSEPPE MOZZANICA

A cura di Alice Savini

 

 

 

La Fondazione Giuseppe Mozzanica di Pagnano (frazione di Merate LC) nasce nel 2007 per far conoscere al pubblico l’arte dello scultore e pittore Giuseppe Mozzanica (1892 -1983), protagonista dimenticato dell’arte lombarda del Novecento. Il progetto nasce per iniziativa dei tre figli di Giuseppe, Dario, Ivo e Angela, che hanno assecondato il desiderio del padre di valorizzare e far rivivere la sua opera.

La Fondazione ha il suo cuore nella Gipsoteca (aperta nel 2014), edificio fatto costruire dallo stesso artista nel 1959, scrigno e laboratorio dove sono esposti i gessi relativi alla sua produzione tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Altrettanto importante è il Polo Museale dove è possibile ammirare oggetti di lavoro, modelli, disegni, dipinti e lastre fotografiche. Infine, a completare la serie di edifici in cui si snoda la Fondazione, vi è un laboratorio dove è possibile partecipare a progetti per bambini e adulti qui organizzati.

 

Il percorso di visita (che si può prenotare dal sito internet Fondazione – Fondazione Giuseppe Mozzanica) inizia dal chiostro, dove è possibile vedere due bronzi unitamente a tre opere marmoree; da qui si entra in una serie di stanze dove sono custoditi gli oggetti di lavoro che lo scultore fabbricava da sé: martelli, scalpelli, raspe per modellare l’argilla, modellini, gessi, che riassumono il processo creativo e costitutivo delle sue opere.

 

Sempre dal chiostro è possibile accedere a una serie di stanze dedicate alla pittura dove sono conservati disegni preparatori, alcuni ritratti, vedute, paesaggi e nature morte. Proseguendo nel percorso attraverso il giardino, accompagnati da alcune teste di bronzo e da una nuotatrice pronta a tuffarsi, si arriva, dapprima, ai laboratori ludici e didattici e infine alla Gipsoteca: un luogo magico, un candido mondo di forme classiche, bianche e levigate valorizzate dalla luce naturale proveniente dalle grandi vetrate.

 

Giuseppe Mozzanica: vita di uno scultore di provincia

 

Grazie al lavoro della Fondazione è stato possibile tracciare la personalità artistica di Giuseppe Mozzanica, uno di quegli scultori lombardi della prima metà del Novecento rimasti, per necessità o per scelta, ai margini delle vicende maggiori della scultura nazionale e internazionale. Artista per certi tratti schivo e poco incline all’autopromozione, Giuseppe Mozzanica decide di lavorare nel paese di origine, dove può dedicarsi alla sua produzione indisturbato e protetto dalle verdi colline della Brianza.

Nato a Sabbioncello nel 1892 da una famiglia di contadini, scopre ben presto la passione per la scultura, a cui si avvicina grazie al lavoro nella cementeria di Carsaniga di Merate. Tra il 1907 al 1912 studia disegno libero e ornato presso le scuole domenicali di Merate, al termine delle quali decide di iscriversi alla scuola di Plastica del Castello di Milano dove studia fino al 1916 (cercando in tutti i modi di frequentarne le lezioni nonostante il divieto del padre, che lo voleva impiegato nei campi, e il capostazione che, in accordo con il padre, gli impediva di prendere il treno). A partire dal 1921 segue i corsi di plastica della figura tenuti da Giuseppe Graziosi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. È qui che lo scultore affina la sua tecnica, il suo stile intriso di naturalismo e verità, nutrito dalla passione per l’arte greco-romana e rinascimentale; impara anche ad usare la fotografia, mezzo che sarà molto utile durante il processo creativo delle sue sculture.

Nel 1923, terminato il corso a Brera, entra per la prima volta nell’ambiente artistico nazionale esponendo alcune sue sculture alla Permanente di Milano. Pur muovendosi all’interno di quella corrente accademica ancora tenacemente ancorata all’ideale classico del naturalismo e ai dogmi del simbolo e del vero, non rimane, però, ininfluente all’arte di Rodin e Medardo Rosso come testimonia la Testa di Anziana (1924), caratterizzata dalla ricerca del vero espressivo e abbracciante la poetica del non finito. La sua produzione di questi anni sembra oscillare tra verismo e classicità.

 

Da questo momento in poi partecipa a numerose manifestazioni artistiche: nel 1925 all’Esposizione Nazionale d’Arte a Milano, nel 1926 alla XV Biennale di Venezia, nel ’33 e ’35 alle Esposizioni nazionali della Permanente di Milano dove il comune acquista alcune sue opere (oggi conservate alla Galleria d’Arte Moderna).

Sono questi gli anni di massima affermazione dell’artista. Nel 1926 viene chiamato da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni a collaborare per la parte plastica del Monumento ai Caduti di Como; sebbene il progetto si fosse imposto come favorito, il comune della città scelse di guardare altrove. Anche la possibilità di esporre due statue, il Calciatore e il Vogatore, per lo Stadio dei Marmi a Roma, venne meno. Le opere erano destinate a fare da corona allo Stadio dei Marmi nel Foro Mussolini di Roma. Il progetto prevedeva 60 statue raffiguranti le diverse discipline sportive, ma all’artista venne contestato il fisico dei due atleti, che non corrispondeva ai canoni estetici della virilità fascista che voleva l’uomo più assomigliante ad un perfetto David di Michelangelo. Giuseppe, infatti, aveva preso spunto da corpi reali di giovani del posto per cui erano più vicini alla realtà che all’ideale estetico del regime.

Dopo gli anni ’40 Mozzanica si isola progressivamente dall’ambiente artistico nazionale privilegiando manifestazioni di carattere locale e privato, in cui le commissioni di carattere funerario sono più numerose.

 

La scultura

Mozzanica ha una forte propensione per un’arte che sia più vicina possibile al vero, arte che si coniughi con l’identità classica nutrita di armonia, purezza formale, pulizia e levigatezza. Nelle sue opere vi è una tensione bipolare tra il vero e l’ideale che gli permette da un lato di non cadere nel classicismo tradizionale e retorico e dall’altro di non cedere ad un eccesso di realismo, troppo diretto e crudo per le sue preferenze. Il suo linguaggio rimane quindi ancorato alla tradizione ma intriso di una vivacità e leggerezza personali, non perseguendo una classicità atemporale lontana dal quotidiano e dalla storia ma una classicità che dialoga col presente.

In grado di toccare con grande abilità tutti i generi, dal ritratto, al nudo fino alla statuaria funebre, il suo processo creativo non inizia con un disegno, ma preferisce modellare la creta direttamente guardando il modello dal vero.  È solito non lavorare a un unico lavoro, ma a più opere contemporaneamente, in modo da evitare la monotonia dell’attività quotidiana e portare una variatio. Non amando lavorare con la luce artificiale preferisce quella diffusa naturale, motivo per cui costruisce la sua gipsoteca con una serie di finestre che si aprono lungo tutto il perimetro. Amante della musica è solito ascoltare musica classica nelle sue interminabili giornate di lavoro.

Per imbastire le sculture a figure intera utilizza inizialmente la creta, mantenuta umida grazie all’aggiunta di panni bagnati, mentre per le figure minori predilige la plastilina.

L’artista aveva messo a punto un sistema formato da due torchi girevoli, legati da una catena, che potevano ruotare contemporaneamente in modo da mettere direttamente a confronto il modello umano e l’opera.  Su uno si metteva il modello nudo, mentre sull’altro la struttura in ferro sul quale modellava la creta, poi pressata e mantenuta umida, dalla quale si otteneva il gesso con la forma anatomica finale. Qualora la statua andasse rivestita, il posto del modello veniva occupato dal nudo che poi veniva ricoperto con abiti veri appuntati da spilli, si proseguiva lavorando sul modello di creta su cui modellava gli abiti e i drappeggi del suo manichino.

 

Un analogo sistema veniva utilizzato per i volti: il modello veniva fatto sedere su una sedia girevole e la creta posta su un tavolino anch’esso girevole in modo da aver modo di cogliere ogni angolazione e sfaccettatura del volto. Per le mani utilizzava calchi in gesso dal vero, in una serie di combinazioni che poi riutilizzava nelle sue composizioni.

L’elemento più importante delle sue opere restano i volti, di cui lui sceglieva quello più adatto a seconda del soggetto e dell’occasione da un suo archivio: una serie di teste, che si possono ammirare nella gipsoteca, di persone a lui vicine.

 

Una volta elaborata la struttura finale il modello era pronto per la fusione in bronzo, per la trasposizione in marmo o terracotta. Anche se per lui l’opera perfetta rimaneva sempre il modello in gesso, così come era uscito inizialmente dalle sue mani d’artista. I modelli che arrivavano nello studio erano persone molto umili, come i contadini e le contadine di Merate, fino al 1935, ed operai ed operaie delle fabbriche dopo il trasferimento a Lecco.

 

Nella prima fase della carriera predilige opere di carattere pubblico (monumenti ai caduti) e privato (ritrattistica), mentre nel dopo guerra si cimenta nella realizzazione di opere a carattere funerario, abbracciando così tutti i generi scultorei.

Nella sua produzione ritroviamo, quindi, busti e teste ritraenti bambini, adulti, vecchi, statue di corpi femminili nude e vestite come Al Sole (1937), in cui è ritratta la moglie Maria, L’Aurora, La bagnante, e corpi virili e atletici come il Vogatore, Il Naufrago, Il calciatore.

 

Anche i temi del ricordo e della morte sono trattati dallo scultore con la stessa sensibilità dei suoi nudi. Tra la sua produzione troviamo, infatti, numerosi monumenti dedicati ai Caduti e monumenti funebri.

Inizia a realizzare i primi monumenti per i caduti subito dopo la Prima guerra mondiale, nei primi anni ’20 quando studia ancora a Brera. Mozzanica, che aveva combattuto per sei mesi sull’Altopiano d’Asiago, rielabora il trauma dell’esperienza nelle sue sculture, non utilizzando il monumento ai caduti con logica celebrativa e nazionalistica, come era in voga negli anni dell’Italia fascista, ma vi raffigura i caduti nella desolata sorte di sofferenza e morte che nemmeno la vittoria può riscattare, guerra che è umiliazione e perdita. Non ritrae una vittoria o la disfatta, ma si sofferma sulla sconfitta dell’uomo in quanto tale.

 

Il tema della morte è trattato dall’artista nei numerosi monumenti funebri realizzati tra il 1930 e il 1960 lasciati dall’artista in numerosi cimiteri come quello di Como, Bergamo, Milano; anche se il gruppo più cospicuo si trova nel museo monumentale di Lecco, in cui sono conservate 55 tombe.

 

La pittura

Centocinquanta sono i dipinti catalogati dalla Fondazione, realizzati principalmente tra gli anni ’50 e ’60, anche se le prime testimonianze di interesse verso il disegno sono rintracciabili nelle esercitazioni degli anni alla Accademia di Brera, come testimoniano alcuni disegni ancora conservati.

Anche nella pittura l’artista spazia da un genere all’altro: dal ritratto ai nudi dove può concentrarsi nella figurazione o nell’introspezione psicologica, alla pittura di paesaggio, che diventa più un passatempo; senza dimenticare le nature morte di piccolo formato, a cui si dedica durante l’inverno non potendo godere del bel tempo per ritrarre i paesaggi verdeggianti.

 

 

 

 

Le foto presenti sono state scattate dall'autrice dell'articolo

 

 

 

 

Bibliografia

Il cimitero monumentale di Lecco. / Giuseppe Mozzanica, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2012

La pittura. / Giuseppe Mozzanica, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2013

Anna Chiara Cimoli, Giuseppe Mozzanica 1892-1983: la scultura, Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2007

Giuseppe Mozzanica: tra classicità e naturalismo, Banca Popolare di Sondrio, 2014

 

Fondazione Giuseppe Mozzanica

ABCittà (abcitta.org)


Il Parnaso PT I

A cura di Andrea Bardi

 

 

Dopo aver completato la Disputa e la Scuola di Atene, Raffaello procede, tra il 1510 e il 1511, a impegnare la terza parete della Stanza, quella “di verso Belvedere”[i]con l’allegoria della poesia e con la raffigurazione del Parnaso (fig. 1), associato al tondo a fresco della Poesia sul soffitto (Fig. 2).

Il monte Parnaso, collocato all’intersezione di tre regioni dell’entroterra greco – Beozia, Focide e Ftiotide – è assurto, in epoca classica, a sede del dio Apollo e delle Muse. La stessa parola luvia (un idioma parlato tra il II e il I millennio a.C. nella penisola anatolica) parnassas, infatti, sarebbe da tradurre come “casa degli dei”.

 

Il Parnaso: i personaggi

Nel grande affresco vaticano – che raggiunge quasi i sette metri di larghezza – il Parnaso è casa di un dio in particolare, Apollo, delle nove Muse e di un consesso di poeti, antichi e moderni, suddivisi in quattro grandi “zone” tematiche[ii]: in alto a sinistra, troviamo i grandi autori dell’epica classica e medievale (Fig. 3), con Omero al centro, circondato da Virgilio, Dante, Stazio – dietro Virgilio – e il giovane Ennio, seduto sulla sinistra di Dante.

 

Più in basso, Saffo (fig. 4), costituisce – assieme a Pindaro (?), Catullo (o forse Tibullo o Properzio), Orazio e Petrarca – il raggruppamento della lirica (fig. 5).

 

Sul lato opposto dell’affresco, trovano spazio i grandi tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide, fig. 6) e, più in alto, tutti gli esponenti di quei generi “mediani” come l’elegia o l’epigrammatica (fig. 6).

 

Le questioni attributive: due poeti “mediani”

Se l’individuazione degli autori classici non ha comportato particolari problematiche, vista la loro lunga e consolidata tradizione figurativa, circa i poeti “moderni” gli studiosi non hanno ancora individuato un accordo comune. Qualsiasi tentativo di ricostruzione dell’identikit di alcuni poeti – e di due personaggi in particolare – non può, però, non partire da due fonti specifiche, le Vite vasariane (1568) e la Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino (1695).

Circa la fonte vasariana, va tuttavia chiarito, sin da subito, che la sua descrizione del Parnaso non si fonda tanto sull’osservazione diretta dell’affresco, quanto dalla visione dell’incisione a bulino realizzata da Marcantonio Raimondi nel 1517 (Fig. 7), il cosiddetto Parnaso I oggi ai Musei Civici di Pavia.

 

Nell’incisione di Raimondi, che costituisce l’unica testimonianza del progetto originale di Raffaello, Vasari individua, al di sotto di una infinità di Amori igniudi con bellissime arie di viso”[iii]non presente nella versione definitiva dell’affresco, molti poeti, tra i quali riconosce Giovanni Antonio Tibaldeo  (“il Tibaldeo similmente et infiniti altri moderni”)[iv]. La presenza di Tebaldeo viene confermata da Giovanni Paolo Lomazzo che, nel Libro dei Sogni (1563), nel menzionarlo, non nasconde le sue perplessità (“tanto che a me pare che di esservi quasi non fusse degno”)[v].

A cavallo tra XVII e XVIII secolo, Bellori, oltre a confermare le indicazioni vasariane (“Incontro veggonsi due altri Laureati, che il Vasari riferisce al Tibadeo, ed al Boccaccio”)[vi] è il primo a identificare, nella figura sull’estrema destra dell’affresco, “il Sannazaro laureato in nobil sembiante, raso, senza barba”[vii].Il poeta napoletano Jacopo Sannazaro è, per Vincenzo Farinella e Alberto Casadei (Il Parnaso di Raffaello. Criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, 2017) un’ipotesi plausibile. I due studiosi, nella loro analisi, legano il personaggio sbarbato del Parnaso a una xilografia di Sannazaro contenuta nell’edizione Perna (Basilea, 1577) degli Elogia doctorum virorum (con incisioni di Tobias Stimmer)[viii] e all’effigie su una medaglia di Girolamo Santacroce.

Ancora Casadei e Farinella gettano nuova luce su un altro personaggio, l’uomo barbato dai capelli corti e neri che, in alto a destra, rivolge il suo sguardo allo spettatore. Se precedentemente questi veniva spesso associato (Vasari, Lomazzo, Bellori) a Giovanni Antonio Tebaldeo, sono i due studiosi a proporre una valida alternativa. Scartando l’ipotesi Ariosto – al tempo dei fatti ambasciatore degli Estensi e perciò inviso a Giulio II – essi chiamano in causa il poeta Jacopo Sadoleto. Autore del fortunato poemetto De Laocoontis statua (1506) Sadoleto, che all’epoca aveva poco più di trent’anni – pressappoco l’età che si può desumere dalla fisionomia del personaggio dipinto – può essere a buona ragione considerato come una figura di primo piano nella monumentale operazione celebrativa nei confronti di quella fervida stagione culturale di Giulio II, il cui ruolo di protettore delle arti e delle lettere viene sancito del resto anche dai due monocromi di base, il primo con Augusto impedisce agli esecutori testamentari di Virgilio di bruciare l'Eneide (Fig. 8) e il secondo con Alessandro il Grande fa riporre i poemi omerici in un prezioso scrigno di Dario (Fig. 9).

 

 

 

Note

[i] G. Vasari, Le Vite, p. 71.

[ii] A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello: criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, p. 62.

[iii] G. Vasari, Le Vite, p. 71.

[iv] Ibidem

[v] Le parole di Lomazzo sono riportate in A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello, p. 62.

[vi] G.P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 56.

[vii] Ibidem

[viii] A. Casadei, V. Farinella, Il Parnaso di Raffaello, p. 65.

 

 

 

 

Bibliografia

Paul Barolsky, Raphael’s “Parnassus” scaled by Bembo, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 19, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 2000, pp. 31-33.

Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.

Alberto Casadei, Vincenzo Farinella, Il Parnaso di Raffaello. Criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, in “Ricerche di Storia dell’Arte”; n. 123, Roma, Carocci, 2017, pp. 59-72.

Beth Cohen, The “Rinascimento dell’Antichità” in the art of painting: Pausanias and Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 3, no. 4, Chicago, The University of Chicago Press, 1984, pp. 29-44.

Adam T. Foley, Raphael’s Parnassus and Renaissance: afterlives of Homoer, in “Renaissance Quarterly”, 73, New York, The Renaissance Society of America, 2020, pp. 1-32.

Luba Freedman, Apollo’s glance in Raphael’s Parnassus, in “Source: Notes in the History of Art”, vol. 16, no. 2, Chicago, The University of Chicago Press, 1997, pp. 20-25.

Kathi Meyer – Baer, Musical Iconography in Raphael’s Parnassus, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, vol. 8, no.2, Wiley – The American Society for Aesthetics, 1949, pp. 87-96.

Antonio Paolucci, Raffaello in Vaticano, “Art Dossier”, n. 298, Firenze – Milano, Giunti, 2013.

David Rijser, The Stanza della Segnatura, the Middle Ages and Local Traditions, in Karl A.E. Enenkel, Konrad Adrian Ottenheym (a cura di), The Quest for an appropriate Past in literature, art and architecture, Leida, Brill, 2019, pp. 106-126.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.

Paul F. Watson, On a window in Parnassus, in “Artibus et Historiae”, vol. 8, no.16, Cracovia, IRSA, 1987, pp. 127-148.

Emanuel Winternitz, Archeologia musicale nel Parnaso di Raffaello, in “Ecclesia”, n. 9, Città del Vaticano, 1955, pp. 452 – 457.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/raffaello-santi_%28Dizionario-Biografico%29/

http://projects.mcah.columbia.edu/raphael/htm/raphael_parnas_draw.htm

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-73

https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_Pp-1-74

https://www.royalacademy.org.uk/art-artists/work-of-art/study-for-the-parnassus-fresco-in-the-vatican-1

https://m.museivaticani.va/content/museivaticani-mobile/en/collezioni/musei/stanze-di-raffaello/stanza-della-segnatura/stanza-della-segnatura.html

https://www.treccani.it/vocabolario/parnaso


TORRE DEL PALAZZO DEL BARGELLO

A cura di Federica Gatti

 

 

La torre attualmente accostata al palazzo del Bargello è l’unica torre fiorentina di origine privata che ha conservato la sua primitiva altezza proprio perché è diventata parte integrante del Palazzo del Capitano del Popolo, anche se ha mantenuto una struttura a sé stante dalla base alla merlatura.

 

La torre era di proprietà della famiglia dei Boscoli, la quale aveva possedimenti proprio nell’attuale area occupata dal Palazzo del Bargello, quindi di fronte alla Badia Fiorentina, verso la chiesa di San Procolo.

Le origini della famiglia Boscoli sono incerte: ne troviamo due diversi rami nelle città di Firenze e Arezzo, ma non è certo quale dei due derivi dall’altro, oppure se siano autonomi e distinti.

Come capostipite si tende ad individuare la figura di Enrico, vissuto nel X secolo, il quale è creduto essere il figlio di Petrone, capostipite della famiglia dei Giuochi. Furono presenza attiva nella città di Firenze dal 1260 al 1266, ma essendo di parte ghibellina vennero esiliati nel 1268 e, anche quando vennero riammessi in città, non poterono accedere alle magistrature poiché vennero successivamente considerati magnati. Nel 1434, però, Cosimo il Vecchio dei Medici aprì ad essi la via degli onori. Infatti, nel 1445 fece nominare Giovanni di Gioacchino ambasciatore a Genova e, nel 1484, Antonio di Francesco ottenne il priorato. Il personaggio più noto della famiglia fu Pietro Paolo Boscoli, membro dell’Arte del Cambio. Quando i Medici rientrarono a Firenze nel 1512, si vagheggiò di restaurare la libertà repubblicana, ma prima che la congiura prendesse forma venne trovato un foglio contenente la lista dei congiurati: Pietro Paolo, inserito in questo elenco, venne arrestato e decapitato. Dopo questo episodio la famiglia caddè nuovamente nell’ombra fino alla sua estinzione a Firenze sulla fine del secolo XVI, anche se ne rimase un ramo a Parma.

La principale torre appartenuta alla famiglia è collocata in angolo tra le attuali via del Proconsolo e via Ghibellina ed è diventata parte integrante del Palazzo del Capitano del Popolo.

Infatti, nel 1254 il comune di Firenze iniziò l’acquisizione di case e torri per la costruzione del palazzo: nel marzo dello stesso anno i Boscoli e i Riccomanni, ricca famiglia di banchieri e cambiatori di Firenze, vendettero una casa, la suddetta torre e «un palazzotto antichissimo dei Boscoli (che ben si discerne da chi fa osservazione esatta sulle mura), e fu destinato per residenza del Magistrato del Podestà»[1].

 

La torre, detta “la Volognana” dal nome del suo primo carcerato, Geri da Volognano, ebbe per tutto il Trecento e Quattrocento la funzione di prigione.

L’edificio è attualmente caratterizzato da un rivestimento di pietra, dalla presenza di catene di ferro, aggiunte in un intervento di restauro portato avanti dall’allora Soprintendenza ai Monumenti nel periodo successivo all’alluvione del 1966, e poche aperture al di sotto della cella campanaria. Nella facciata verso la Badia si ha un portale ad arco ribassato, sormontato da una lunetta finestrata con archivolto ad arco acuto, al di sopra del quale si aprono quattro finestre sfalsate, tutte rettangolari con ghiera a tutto sesto poggiante su un architrave, intervallate da file orizzontali di mensole o cornicioni. Il fronte su via Ghibellina presenta una prima apertura circa alla stessa altezza della prima dell’altro fronte e altre due finestre rettangolari al di sopra della merlatura del palazzo.

 

Nonostante abbia mantenuto la sua altezza di 57 metri, la torre ha subito varie modifiche, come la realizzazione del coronamento su beccatelli, assumendo la forma di un campanile: attualmente sulla sommità presenta una cella campanaria aperta da una monofora allungata per lato.

 

Questa contiene una campana presa dai fiorentini nel 1302 dal castello feudale di Montale, nella valle pistoiese, e denominata “la Montanina”: essa non ha funzioni legate agli aspetti religiosi, bensì chiamava il popolo a raccolta, ad esempio per farlo assistere alle pubbliche esecuzioni, e anche attualmente viene suonata solamente in occasioni di ricorrenze o eventi straordinari legati alla città. La campana, sul cui orlo si trova la dedica «In onore di Dio e per la libertà della Patria», si spezzò e nel 1381 venne rifusa a partire dallo stesso bronzo.

In seguito alla sua ricostruzione, la campana venne fatta risuonare ogni sera per segnalare il momento dopo il quale nessuno poteva lasciare la propria casa disarmato o senza lanterna; circa due secoli dopo venne emanata una legge secondo la quale ogni servitore, non in compagnia del padrone, avrebbe perso una mano se fosse stato in strada e avesse avuto armi dopo l’ultimo rintocco della campana, ovvero alle 10 di sera in inverno e a mezzanotte in estate. Questa legge cadde successivamente in disuso, ma la campana continuò a suonare la sera fino al 1848.

 

 

Le foto presenti sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Agostino Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio. Racconto storico, Stamperia Granducale, Firenze, 1840, p. 219.

 

 

 

 

Bibliografia

Gamurrini, Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre, volume terzo, nella Stamperia di Francesco Liui, Firenze, 1673.

Ademollo, Marietta de’ Ricci ovvero Firenze al tempo dell’assedio. Racconto storico, Stamperia Granducale, Firenze, 1840.

B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, volume primo, Arnaldo Forni, Bologna, 1886.

Chabod, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, vol. VII, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1930, voce “Pietro Paolo Boscoli”.

Piattoli, Encilcopedia Dantesca, 1970, voce “Lapo Riccomanni”.

Bargellini, E. Guarnieri, Firenze delle torri, Bonechi, Firenze, 1973.

Artusi, R. Lasciarrea, Campane, torri e campanili di Firenze. un insieme di notizie e aneddoti ne svelano storia, arte e cronaca, in una singolare quanto inedita prospettiva, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2008.


CAPRI TRA UOMO E NATURA: VIA KRUPP E LA GROTTA DELL’ARSENALE

A cura di Alessandra Apicella

 

 

 

Quando si parla dell’isola di Capri molte sono le bellezze naturali, architettoniche e in parte modificate dall’uomo degne di nota, come nel caso di via Krupp, una strada scavata nella roccia che collega il centro di Capri con la baia di Marina Piccola e le grotte sottostanti.

 

Frederick Alfred Krupp fu un importante imprenditore tedesco che, ereditata dalla famiglia la fabbrica di acciaieria, prevalentemente dedicata agli armamenti, nel 1889 si trasferì a vivere nell’isola azzurra per godere delle bellezze del luogo e della sua vita. Qui si occupò anche di portare avanti le sue ricerche biologiche marine sul plancton, utilizzando il suo panfilo ancorato a Marina Piccola.

 

 

La nascita del progetto della costruzione della via è indissolubilmente legata alla mera necessità pratica che Krupp si trovò ad affrontare: il dover arrivare nella baia di Marina Piccola. All’epoca la baia ed il centro di Capri, dove lui risiedeva, nello storico albergo del Quisisana, erano scarsamente collegate in quanto l’unica strada possibile era quella di via Mulo, un semplice sentiero.

Comprata una vasta area di terreno che andava dalla Certosa di San Giacomo al Castiglione, e creatovi un parco, che dopo la Prima Guerra Mondiale prenderà il nome di Giardini di Augusto, propose l’idea della costruzione della via. Nonostante gli iniziali dubbi, la proposta di Krupp alla fine venne approvata ed il progetto fu affidato all’architetto napoletano Emilio Mayer.

 

 

Il progetto prevedeva la confisca di alcune terre dal fondo della Certosa e la necessità di tagliare un’ampia parte di roccia viva fino al mare, andando a modificare in modo inevitabile l’assetto e la visibilità di quella parte dell’isola.

 

I lavori furono ultimati nella primavera del 1902 e sia i giardini che la via presero il nome del loro benefattore, per poi essere, però, modificati nel settembre del 1918, durante la Prima Guerra Mondiale. Per non mantenere il nome ed il ricordo della potenza distruttrice tedesca, furono rinominati in Via di Augusto e Giardini di Augusto. Al contrario di questi ultimi, che mantennero sempre questa ridenominazione, la via continuò ad essere nominata dalla popolazione caprese con il nome del magnate tedesco, fino a quando nel 1961 la giunta comunale decise di restituirle il nome originario.

 

La strada ha inizio dai Giardini di Augusto con un breve tratto iniziale retto per poi dipanarsi in una particolare struttura a tornanti, che raggiunge un totale di otto curve. La strada prevede poi una ripresa lineare per un lungo tratto, da cui è possibile osservare i celebri faraglioni di Capri, particolari formazioni rocciose nate dall’erosione dovuta all’acqua famose in tutto il mondo. Dal medesimo tratto si può poi scegliere di proseguire tra due sentieri, che portano rispettivamente alla grotta del Castiglione e quella dell’Arsenale. Alla fine del rettilineo è posto un cancello che segna la fine della strada, che da pedonale si tramuta in carrozzabile, confluendo nella principale Via Marina Piccola, che conduce all’omonima baia.

 

Sin dalla sua inaugurazione la strada fu utilizzata come sede espositiva per varie opere d’arte contemporanea, particolare il caso del 2010 quando l’artista Pietro Iori, con l’installazione Passo dopo Passo... nella storia e nel mito di Capri posizionò centosei orme che rappresentavano le “impronte” lasciate da personaggi di spessore che hanno influenzato la storia dell’isola. Dagli imperatori romani – quella di Tiberio è infatti la prima – ai dandy, ai musicisti e agli scrittori che fecero di quest’isola un ritrovo per l’anima.

 

Una peculiarità di questa strada e dell’intera isola di Capri va ravvisata nella sua formazione geologica molto particolare e oggetto di grande interesse dei geologi. Costituita da molti versanti calcarei rocciosi, molto complessi e friabili, è oggetto, purtroppo, di frequenti crolli di frammenti o parti delle pareti rocciose. La stessa via Krupp fu colpita da una di queste frane: nel 1976 un masso si staccò dalla parete rocciosa e danneggiò gravemente la strada, per cui le autorità comunali optarono per una chiusura definitiva. Nonostante fosse nei fatti inagibile, la strada continuò nel tempo ad attirare frotte di turisti, ammaliati dalla sua storia, struttura e bellissima vista, avventurandosi nel percorso, arginando cancelli e muretti di protezione. Un tentativo di riapertura fu attuato nel 1994, ma ben presto fu necessaria un’ulteriore chiusura. La storia di questa via proseguì tra aperture, chiusure e tentativi di lavori attraverso il consolidamento delle pareti e forme di protezione, fino ai giorni nostri. Attualmente la via risulta chiusa a tempo indeterminato dal 2016, ed è possibile osservarla solo dai soprastanti giardini, anche se qualche avventuroso un po’ sprovveduto è sempre possibile osservarlo tra i vari tornanti.

 

Per chi scavalca e si accinge al percorso, la parte rettilinea della strada cede poi il posto ad un sentiero roccioso, con enormi massi che porta su una scogliera ed infine alla grotta dell’Arsenale, di origine romana.

 

Raggiungibile anche dal mare, situata a 4 metri dal livello dell’acqua e arretrata di 20 rispetto alla linea di costa, la zona antistante la grotta presenta un chiaro intervento umano di spianamento della roccia con l’obiettivo di creare una sorta di scivolo che permettesse di tirare a secco le imbarcazioni di chi vi fosse giunto via mare. Lo spazio interno della grotta, degradante in altezza verso il fondo, presenta tre cavità al suo interno, più piccole e asimmetriche tra loro. È probabile che ce ne fossero di più, posizionate in modo simmetrico, che però non ci sono pervenute.

 

 

La più piccola, isolata ad ovest, è di pianta rettangolare e presenta una muratura in opera reticolata e rinforzi agli angoli. Le altre due, sul fondo della grotta, sono fra loro diverse: quella ad est presenta delle tracce di reticolato, mentre quella ad ovest, di pianta quasi quadrata, è interamente foderata da laterizio.  Il toponimo “Arsenale” deriva dal fatto che si credeva che la grotta fosse stata utilizzata dai romani come piccolo cantiere navale, ma mantenne questo nome anche quando ne fu identificata la reale funzione, quella di ninfeo. Come si attesta, infatti, dal ritrovamento di alcune tessere musive e rivestimenti marmorei, doveva essere particolarmente articolato nella costruzione e decorazione, poiché voluto e prediletto come luogo di ritrovo personale dallo stesso imperatore Tiberio. Probabile era anche la presenza di statue, fontane e giochi d’acqua che contribuivano a creare un’atmosfera mistica e molto suggestiva.

Data la sua lontananza dal centro cittadino e le difficoltà impervie che si devono affrontare per raggiungerla, si diffuse la notizia che la grotta e la spiaggetta antistante fossero divenute una delle mete predilette dei nudisti capresi, in cerca di un contatto più diretto con la natura e di maggiore libertà.

 

Per quanto fra loro distanti temporalmente, questi due interventi di modifica del territorio sono solo alcune delle tracce che ci restano e che hanno contribuito a creare l’immagine dell’isola conosciuta in tutto il mondo. Gli interventi più e meno invasivi, che si sono dipanati dai tempi romani fino al Novecento, si sono sempre perfettamente armonizzati al territorio e all’immagine dell’isola che si aveva, come luogo naturale di bellezza, di ritrovo culturale e intellettuale al di là dei secoli e delle mode.

 

 

 

Bibliografia

Adelia Pelosi, Percorsi Archeologici dell’isola di Capri, Edizioni La Conchiglia

Paolino Mingazzini, Le grotte di Matermania e dell’Arsenale a Capri, in “Archeologia Classica” VII 1955, pp. 139-163

 

Sitografia

https://isoladicapriportal.com/la-grotta-dell-arsenale-di-capri/

http://www.pariedispari.org/eventi/passo-dopo-passo-nella-storia-mito-capri


I MUSEI SAN DOMENICO DI FORLÌ

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione alla pinacoteca di San Domenico 

Nel centro storico di Forlì, più precisamente all’interno di Borgo Schiavonia, si trova il complesso monumentale di San Domenico, attuale sede della Pinacoteca Civica. L’importante raccolta di opere si trovava inizialmente nel Collegio dei Padri della Missione per essere successivamnete spostata nel settecentesco Palazzo del Merenda in Corso della Repubblica, oggi parte del campus universitario dell’Alma Mater Studiorum. La fondazione del convento di San Domenico risale al XIII secolo con iniziale intitolazione a San Giacomo; dopo la soppressione napoleonica, venne adibito a ospedale militare francese, per poi giungere nuovamente nelle mani dei domenicani fino alla definitiva chiusura in seguito all’eversione dell’asse ecclesiastico tra il 1866 e il 1867. Lo stato di degrado e abbandono che ne derivò, portò al crollo del tetto nel 1978, oggi restaurato.

 

La Dama dei gelsomini

Il percorso espositivo della pinacoteca mira a raccontare la storia della città sotto diversi punti di vista, soprattutto quello della Forlì rinascimentale, periodo in cui il centro romagnolo divenne particolarmente influente nel panorama artistico nazionale. Di un certo rilievo sono alcuni dei capolavori quivi ospitati, come la Dama dei gelsomini, opera di Lorenzo di Credi, nella quale si è sempre cercato di riconoscere il volto dell’indomita “Tigre di Romagna”, Caterina Sforza, senza però trovare nessuna correlazione. L’opera presenta una giovane donna abbigliata secondo il gusto dell’epoca, pur mantenendo una composta semplicità, mentre poggia delicatamente le mani su un piccolo vaso di gelsomini. la vera espressività della figura non va ricercata nel volto, bensì nelle mani e nel loro modo di tangere il vaso e coglierne un fiore.

 

L’Annunciazione di Palmezzano

Di notevole importanza per il museo sono le sale dedicate a Marco Palmezzano, artista di straordinario ingegno e cuore pulsante dell’arte forlivese. Il Palmezzano, formatosi presso la bottega dell’illustre Melozzo da Forlì, divenne ben presto riferimento per la nobiltà di Romagna, lasciando traccia della sua produzione in tutti i centri limitrofi. Nella pinacoteca di Forlì è custodito il più celebre dei suoi lavori: l’Annunciazione. L’opera, commissionata per la chiesa del Carmine, non ci è pervenuta nel suo stato originale, bensì mancante della figura del Padre Eterno; probilmente a causa di un adattamento settecenstesco mirato ad inserire il quadro all’interno di una nuova cornice, del Creatore rimangono oggi solo una parte della veste e un mano.

 

La scena si svolge in un portico di forte impatto prospettico, sotto il quale la Vergine riceve l’annuncio da parte dell’Arcangelo Gabriele, i cui riccioli dorati ricascano sulle sue splendide ali piumate. L’attenzione al dettaglio del Palmezzano pare evidente nelle pieghe dell’abito dell’angelo, che risultano particolarmente definite, ma non per questo meno reali. Maria viene colta in un gesto di sorpresa, mentre si porta una mano al petto; dinnanzi a lei, sopra a un piccolo tavolo, si trova un libro di preghiere. La scena è di una forte ariosità, resa attraverso una veduta che si estende in lontananza oltre il porticato. Si scorge la città di Forlì, riconoscibile dal campanile di San Mercuriale, incastonata in un paesaggio che non appartiene realmente al centro romagnolo, ma ricalca il gusto dell’epoca. In secondo piano, la colomba dello spirito santo si libra in aria, compiendo un volo su quelli che paiono essere gli abitanti della città, ma che in realtà sono direttamente tratti dalle Sacre Scritture.

 

L’Ebe di Canova

L’emblematica bellezza del mondo neoclassico trova nelle sapienti mani del veneto Antonio Canova la sua massima espressione. Il soggetto dell’Ebe non è una novità forlivese per il “Nuovo Fidia”, il quale aveva già rappresentato la leggiadra fanciulla in altre versioni, per un totale di quattro esemplari. La coppiera degli dèi risale al 1816, si tratta di un simbolo della gioventù, le cui vesti gonfie vengono agitate dal vento.

 

A commissionarne la realizzazione fu Veronica Zauli Naldi Guarini, figlia dei conti Zauli Naldi di Faenza e sposa del conte Guarini di Forlì. La nobildonna, debitamente istruita all’arte e alla musica dalla famiglia, fu un’eccellente committente e amica del Canova, come testimoniano alcune lettere, tanto da chiedergli di realizzare quella che è poi divenuta l’opera più importante dell’abitazione. Negli anni ’80 dell’Ottocento, la scultura venne acquistata dal Comune, finendo per attirarsi l’ira dei socialisti seguaci di Andrea Costa, i quali videro nella spesa pubblica per un bene improduttivo un affronto alla collettività.

 

Gli affreschi del refettorio

Negli anni ’90 del Novecento, sono stati rinvenuti degli affreschi sul lato nord del refettorio, raffiguranti tre scene, la cui disposizione ricorda quella di un trittico. Partendo da sinistra, i santi Pietro e Paolo donano a Domenico il bastone e il libro dei Vangeli, mentre nella scena centrale i dolenti, Maria Maddalena e un committente sono testimoni della dipartita di Cristo sulla croce. A destra, lo spettatore assiste al miracolo della resurrezione di Napoleone Orsini per mano di Domenico di Guzman. Sul lato sud, gli affreschi recuperati non presentano lo stesso stato di conservazione.

 

Le mostre

I Musei San Domenico sono noti da tempo per l’organizzazione di importanti mostre che hanno portato a Forlì opere di artisti di fama internazionale. Nell’ultimo periodo la maggior parte delle mostre ha avuto come tema centrale l’indagine di alcuni personaggi che hanno cambiato il mondo occidentale, come Ulisse, Dante e Maria Maddalena; la quale occuperà le sale espositive fino al 10 luglio 2022 con la mostra “Maddalena. Il mistero e l’immagine.”

 

Per omaggiare questa importante figura femminile sono giunte nel centro romagnolo opere come la Crocifissione di Masaccio, la Santa Maria Penitente del Guercino e la versione ottocentesca di Hayez. Per la realizzazione di questo progetto, i Musei San Domenico hanno collaborato con alcuni dei più importanti musei del mondo, tra cui il Musée d’Orsay a Parigi, i Musei Vaticani, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Rijksmuseum di Amsterdam e molti altri.

 

 

Bibliografia

Forlì. Guida alla città, Marco Viroli e Gabriele Zelli, Diogene Books

 

Sitografia

Musei di San Domenico 


LA CHIESA DI SAN FEDELE A MILANO IN UN DIALOGO TRA ARTE DEL PASSATO E DEL PRESENTE

A cura di Beatrice Forlini

 

 

San Fedele a Milano  

La chiesa di San Fedele è situata in una bellissima e tranquilla piazza (fig. 1) a pochi passi dal Duomo di Milano e da Palazzo Marino. Non lontano troviamo anche diversi altri importanti edifici esemplari delle grandi novità architettoniche della Milano di fine Cinquecento.
Questa piazza è anche celebre per la presenza della statua bronzea dedicata ad Alessandro Manzoni, opera di Francesco Barzaghi (1839-1892), eretta nel 1883; proprio qui, infatti, era solito recarsi il grande scrittore per la messa, e purtroppo nel gennaio 1873 sui gradini della chiesa cadde, ormai anziano, battendo la testa. Il colpo fu fatale per lo scrittore, che non si riprese e morì pochi mesi più tardi all’età di 88 anni.

 

La storia di questa chiesa iniziò proprio nella seconda metà del Cinquecento, quando per volere dei gesuiti e dell’arcivescovo Carlo Borromeo, venne affidata la prestigiosa commissione all’architetto e pittore lombardo Pellegrino Tibaldi (1527-1596), che a partire dal 1569 concepì un monumentale edificio a navata unica, ricco di soluzioni nuove (fig. 2-4). Egli, infatti, dopo lunghi anni passati a Roma per studio e lavoro, divenne l'architetto prediletto di Carlo Borromeo e venne nominato anche Architetto della Veneranda Fabbrica del Duomo, oltre ad essere impegnato in alcuni dei più importanti cantieri, civili e religiosi, della città meneghina.

 

La chiesa fu consacrata nel 1579, dieci anni dopo l’inizio dei lavori, ma la sua costruzione proseguì per più di un secolo dopo che Pellegrino Tibaldì lasciò il cantiere nel 1586 e partì per la Spagna; i suoi successori però non si scostarono mai troppo dai disegni originali e il cantiere passò prima sotto la direzione di Martino Bassi,  poi di Francesco Maria Richini nel 1629 che cominciò i lavori del coro, e ancora ad Antonio Biffi nel 1684 che iniziò ad erigere la cupola, ed infine a Pietro Pestagalli che nell’Ottocento terminò la facciata e realizzò l’altare maggiore. Il volto di S. Fedele, rimane però di impronta Cinquecentesca e Controriformista (fig. 3) nonostante gli interventi si siano protratti per così tanti anni; fa eccezione soltanto il pesante coronamento della facciata che risale infatti a metà Ottocento.
Dopo la soppressione dell’ordine dei gesuiti nel 1814 la Chiesa passò sotto il controllo della vicina chiesa di Santa Maria della Scala, successivamente abbattuta per far posto al Teatro alla Scala. Dopo la Seconda guerra mondiale San Fedele tornò invece ai gesuiti che avviarono una serie di attività sia sociali sia culturali e artistiche, dando vita alla Fondazione Culturale San Fedele.

 

La storia di questa Chiesa benché piena di memorie antiche non si ferma allo spirito Cinquecentesco, infatti, qui oggi convivono in stretto dialogo con le decorazioni, le strutture architettoniche e i dipinti, alcune opere di arte contemporanea di noti artisti; è infatti presente un piccolo itinerario museale all’interno della Chiesa (inaugurato il 31 dicembre 2014 dopo alcuni restauri) a cura di Andrea Dall’Asta SJ, direttore della Galleria San Fedele e dell’architetto Mario Broggi.

Questo progetto è legato alla storia della Galleria San Fedele, fondata negli anni Cinquanta dalla omonima Fondazione dei gesuiti. Il fondatore, Padre Arcangelo Favaro, si propose come interlocutore del dialogo tra arte e fede,  trasformando così la Chiesa di San Fedele in un vero e proprio laboratorio sperimentale ed espressivo in cui hanno collaborato artisti del calibro di Carlo Carrà, Lucio Fontana(fig. 6) e Mario Sironi; dimostrando così che la cosiddetta: «arte “sacra” non era morta ma necessita solo di una “conversione” di linguaggio, che non poteva essere separato da un messaggio, reinterpretato però secondo i linguaggi del tempo odierno».[1] E ancora artisti come David Simpson, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Sean Shanahan, Claudio Parmiggiani e Nicola De Maria sono stati interpellati negli anni più recenti per riflettere su temi fondamentali della fede con opere site specific pensate appositamente per gli spazi della chiesa.

 

Tutte queste opere sono esposte in alcuni punti strategici della chiesa, in un itinerario molto interessante che comprende anche le cosiddette “stanze di contemplazione” ovvero la cripta e il sacello, ma anche la sacrestia e la cappella delle ballerine (fig. 8) così chiamata perché fino agli anni Ottanta le danzatrici del vicino teatro alla Scala la sera prima del debutto erano solite portare dei fiori sull’altare della Madonna del latte, un affresco del XIV secolo.

 

Tra le opere esposte, nella prima cappella sulla sinistra, troviamo la grande pala della Deposizione di Cristo di Simone Peterzano (1533-1599) (fig. 5), che sarebbe diventato maestro del giovane Caravaggio alcuni anni più tardi, il dipinto è caratterizzato da una luce vibrante che definisce ogni figura, da un naturalismo rinascimentale ancora percepibile nello sfondo ma soprattutto da un manierismo coloristico pienamente cinquecentesco. La prima cappella che si incontra sulla destra presenta invece un altare dedicato ad Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dell’ordine dei gesuiti, raffigurato nella pala realizzata da Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano (1573-1632) tra i principali artisti del capoluogo lombardo del XVI secolo; la pittura del Cerano si distingue per un carattere intensamente espressivo e uno stile tardo manierista e mistico che rendono la composizione densa di colore e fortemente chiaroscurale come ben si percepisce in questa tela.

 

Un'altra menzione spetta alla realizzazione di altre due opere più tarde, raffiguranti dei momenti fondamentali per la storia della chiesa, a testimonianza degli stretti legami tra San Carlo e la Compagnia di Gesù, ovvero: La posa della prima pietraLa traslazione delle reliquie (fig. 7) destinate ai lati del presbiterio, commissionati nell’ultimo trentennio del Seicento ad Agostino Santagostino (1635-1706) insieme al fratello Giacinto.

 

Infine, è giusto menzionare la sacrestia lignea di San Fedele, intagliata in legno di noce nel XVII secolo dai fratelli Taurino. Si tratta infatti di uno degli esempi più pregevoli di intaglio ligneo presenti a Milano con sculture realizzate in circa trent’anni di lavoro e che mantengono inalterata la loro grandiosa e lucida robustezza.

 

 

 

 

Note

[1] Sito museo San Fedele, Sezione Sede: https://www.sanfedeleartefede.it/sede/

 

 

 

 

Sitografia

Scheda SIRbeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00026/

Sito museo San Fedele: https://www.sanfedeleartefede.it


IL CASTELLO DI CAPUA A GAMBATESA PT III

A cura di Marco Bussoli

 

La riflessione già affrontata in questa sede sul programma decorativo del Castello di Gambatesa, a partire dall’atrio, è molto articolata. Se gli affreschi dell’atrio, per quanto lacunosi, possono fornire degli spiragli interpretativi, per le altre stanze del castello non si può dire lo stesso, soprattutto a causa dei danni e delle lacune pittoriche. Il percorso seguito di descrizione e analisi che verrà qui seguito ricalca quello museale, partendo dall’atrio e dirigendosi verso il Salone delle Virtù attraverso le stanze minori.

 

La sala del camino

Il nome attribuito a questa sala, detta del camino, può portare in errore. La sala infatti non nasce con un camino su una delle quattro pareti, e questo fu probabilmente costruito nell’ottocento. Di ridotte dimensioni, tre delle pareti di questo ambiente sono caratterizzate da aperture che conducono ad altre sale, facendo così studiare all’artista una decorazione che si potesse adattare bene a questa morfologia. Lo spazio è stato, quindi, diviso in due parti: quella superiore è decorata da gigantesche e colorate foglie di acanto, mentre quella inferiore è occupata da un motivo di arazzi affrescati e clipei incorniciati da finte modanature.

 

Se la parte alta è quella che stupisce maggiormente l’avventore per i suoi decori così inusuali, quella inferiore presenta dei curiosi accorgimenti, come i chiodini dipinti per fissare gli arazzi o la tenda, dipinta in modo da far trasparire la sua pesantezza, che, accanto alla porta, sembra accompagnare verso la stanza successiva. Accanto a questa tenda così finemente dipinta, è possibile vedere parte di uno dei clipei, su cui è ritratto il profilo di un guerriero con in testa un elmo, su un fondo dorato. Valente identifica nel profilo un ritratto del committente, Vincenzo di Capua, e Carrozza vi vede, invece, una celebrazione di Giovanni di Capua, morto nella battaglia di Seminara del 1495. Queste ipotesi non trovano però nessun solido indizio per essere confermate.

 

Sala dei Paesaggi

La sala dei Paesaggi prende questo nome dagli affreschi che ne caratterizzano il registro più alto, che raffigurano delle ampie vedute di città, rovine ed ambienti naturali. Il registro basso della decorazione, invece, ospita fasce di bugne in pietra che si alternano a intarsi di pietre colorate.

 

Il registro alto della decorazione è caratterizzato da dei quadri riportati in affresco, con le loro cornici dipinte, e da delle modanature a fasce con rosette. Solo due dei paesaggi sono quasi interamente leggibili e raffigurano l’incendio di una città, che dà un nome alternativo a questa stanza (sala dell’incendio) e un paesaggio collinare con alte torri diroccate e un tempietto. Soprattutto sull’episodio dell’incendio, le ipotesi figurative sono più di una. Carozza individua l’incendio di Sodoma, con la piccola figura in primo piano che indicherebbe la trasformazione in statua di sale di Sara, moglie di Lot. Valente, invece, vede un’evocazione del Sacco di Roma nel 1527. Se la prima ipotesi sembra essere più calzante, entrambe non sembrano essere convincenti del tutto, confermando tuttavia la posizione di Donato Decumbertino nel panorama romano.

 

A metà del ‘500 una serie di pittori fiamminghi come Jan van Scorel e Marten van Heemskerck, diffusero un nuovo tipo di rappresentazione del paesaggio, con ampie vedute dall’alto, a volo d’uccello, più ariose e luminose, anche in notturna. Il pittore di Gambatesa, quindi, fa propri questi modelli e li ripropone nel castello, introducendo un elemento che fino agli anni ’80 del secolo non sarà presente da nessun’altra parte: la grande dimensione di queste viste e la scelta della tecnica ad affresco.

 

Sala delle Maschere

Della sala delle maschere si è già abbondantemente parlato introducendo i temi del Castello, proprio perché questo spazio è affrescato con una serie di simboli che rimandano alle capacità del committente, ma soprattutto perché qui il pittore appone la sua firma, qualificandosi attraverso i simboli della ragnatela e del pappagallo. Se i fregi decorati sono, quindi, già stati analizzati, lo stesso non si può dire per le viste che questi incorniciano.

 

Le pareti nord ed est sono decorate con viste di paesaggi fluviali e collinari all’interno dei quali trovano posto delle antiche rovine antiche, mentre sulle pareti ovest e sud campeggiano due vedute cittadine, con figurette abbigliate alla maniera del secolo. L’affresco posto a sud è quello che più incuriosisce l’attenzione degli studiosi, dato che riporta una chiara rappresentazione del Vaticano, che però contiene una serie di elementi non riscontrabili nella realtà. Il pittore sembra fissare un momento della costruzione della Cattedrale di san Pietro, soprattutto in due elementi, il tamburo della cupola ed un campanile, arrivando a dipingere anche i ponteggi. La Roma rappresentata non è però mai esistita: il tamburo della cupola e il campanile disegnato non sono mai esistiti, ma sono come delle suggestioni dei progetti sangalleschi del cantiere. Antonio da Sangallo il Giovane è, infatti, stato l’architetto papale per dieci anni, dal 1536 alla morte di Peruzzi, e se molti dei suoi interventi su san Pietro non ci sono pervenuti a causa delle demolizioni di Michelangelo, suo successore nella fabbrica e suo accanito detrattore, ci sono arrivati i suoi disegni ed il suo modello ligneo. Ciò che Donato dipinge non è quindi il cantiere vero e proprio della Cattedrale romana, quanto piuttosto una serie di rimandi ai disegni ed ai modelli visti durante la sua permanenza nell’urbe, al tempo in cui operava nello studio di Vasari.

 

Sala del Pergolato

L’ultima delle sale minori del Castello, la sala del Pergolato, è tutta incentrata sulla finzione di uno spazio aperto, come una sorta di terrazzino, chiuso da un ordine in pietra e coperto da un pergolato ligneo, che si apre su diverse viste. Il soffitto, allusivo del pergolato, raffigura piccole travi lignee cui si intrecciano rami di vite e da cui pendono grappoli d’uva, ed è ispirato al modello fornito da Giovanni da Udine in una loggia del palazzo Apostolico. La quinta architettonica dell’ordine corinzio, sormontato dall’architrave e chiuso da una balaustra, si apre ad ovest su uno dei tanti paesaggi fluviali dipinti a Gambatesa; qui oltre alle antiche rovine è anche rappresentato, con un ribaltamento non del tutto corretto, un ponte in legno sul fiume, visto dal basso.

 

Ciò che qui incuriosisce è però la parete nord, che non si apre sullo stesso paesaggio di quella ovest, ma guarda verso una laguna in cui sta infuriando una battaglia navale. Il suggestivo riferimento per la battaglia, sembra essere la Battaglia di Otranto del 1481, in cui Alfonso d’Aragona libera la città dall’assedio turco, che aveva già portato alla morte di ottocento martiri cristiani. L’evento era particolarmente caro ai di Capua, dal momento che, durante gli scontri, aveva eroicamente perso la vita Matteo, loro antenato. Pietro Antonio di Capua, vescovo di Otranto e fratello di Vincenzo, aveva inoltre da poco avviato la beatificazione dei martiri otrantini. L’elemento di dubbio, che rende questa ipotesi incerta, è però l’esecuzione dell’affresco: alla rapida manualità che spesso Donato e i suoi aiuti manifestano, non corrisponde una caratterizzazione evidente di ciò che si sta dipingendo: la mezzaluna che corona la lanterna di poppa delle navi ottomane o il disegno della città salentina, non rendono evidentemente manifesto il soggetto del dipinto.

 

A chiudere le decorazioni di questa stanza restano un camino su cui è apposto lo stemma ducale dei di Capua – dal Balzo e una finta libreria, in cui sono affrescati non solo libri, ma anche elementi di lavoro, come una lavagnetta ed una lampada ad olio. La presenza di questi simboli e del camino, unita all’invenzione pittorica del pergolato, fa supporre che questo ambiente potesse essere lo studio del duca, un ambiente piccolo e riscaldato, capace però di trasportare la mente di chi vi staziona in altri luoghi.

 

Le stanze minori del castello danno un’idea della cifra stilistica del pittore scelto per le decorazioni: Donato Decumbertino è capace di attingere ad una serie vastissima di modelli, di combinarli tra di loro e di riuscire, in questo modo, ad innovare, senza mai lasciare da parte la molteplicità di significati che ognuno degli elementi porta con sè, come fa, evidentemente, nella sala delle Maschere.

 

 

 

 

Bibliografia

A. Pinelli, La tela del ragno e l’eloquenza del pappagallo. Le intriganti trame visive di Donato Decumbertino a Gambatesa, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020

A. Monciatti, Una misconosciuta immagine di San Pietro in Vaticano, tra Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo e Vasari, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020

D. Ferrara (a cura di), Il Castello di Capua a Gambatesa. Mito, Storia, Paesaggio, Campobasso 2011.

 

Sitografia

https://www.musei.molise.beniculturali.it/musei?mid=870&nome=castello-di-capua (25-10-2021)