DONATELLO “POLIMATERICO”
A cura di Silvia Faranna
Donatello: il maestro del Rinascimento tra legno, terracotta, bronzo e marmo
Donato di Niccolò di Betto (1386 circa – 1466), conosciuto come Donatello, può essere considerato il padre del nuovo linguaggio artistico rinascimentale, come ha evidenziato Luisa Becherucci: ‹‹Con l’opera di Donatello […] la tradizione scultorea […] appare in tutta la sua matura pienezza››[1]. Una ‹‹matura pienezza›› che si evince dal naturalismo e dalla ‹‹caratterizzazione psicologica››[2] fiorite nelle opere di Donatello, realizzate attraverso tecniche e con materiali differenti, ‹‹et con il porre, et con il levare››[3], riportando le parole di Leon Battisti Alberti. Infatti, il corpus artistico donatelliano è molto vasto e variegato: se ne riconoscono le opere in legno, stucco, terracotta, bronzo e ovviamente marmo.
Il Crocifisso in legno di Santa Croce di Donatello
Tra le opere giovanili del maestro, esemplare è il Crocifisso realizzato intorno al 1408, destinato in origine alla Cappella del Beato Gherardo da Villamagna e dal 1571 posizionato nella Cappella Bardi di Vernio in Santa Croce (fig. 1).
La storia del crocifisso ligneo non può che essere ricondotta all’aneddoto vasariano che vide coinvolti i due amici, Donatello e Brunelleschi; al di là della veridicità della storia, il testo lascia comprendere le differenze stilistiche dei due maestri, e contestualmente testimonia la loro vicinanza. Maestoso il Crocifisso di Brunelleschi, stanco e sofferente quello di Donatello; una differenza fondamentale che avrebbe portato Donatello, secondo il Vasari, ad affermare che a Brunelleschi ‹‹è conceduto fare Cristi et a me i contadini››[4] (fig. 2).
Il Crocifisso donatelliano è un crocifisso ligneo policromo, scavato in legno di pero, in cui si riconoscono gli strascichi della formazione ghibertiana nella resa del perizoma.
La sofferenza del Cristo non è dimostrata solo dal sangue che percorre gli arti (mani, braccia, costato e piedi), ma anche dalla muscolatura: il suo corpo è affaticato come il suo volto, dove le labbra carnose e schiuse, gli occhi semiaperti e i capelli bruni divisi in ciocche si mostrano all’opposto dell’eleganza del Crocifisso di Brunelleschi (fig. 4).
La Madonna col Bambino del Museo Bardini: alla scoperta della terracotta
Il contributo dello storico dell’arte Luciano Bellosi fu fondamentale per ampliare il corpus donatelliano con le opere in terracotta, cosicché negli ultimi trent’anni sono state individuate diverse opere realizzate in coroplastica; tra queste, la Madonna Bardini (conosciuta anche come Madonna della mela) è una delle più rappresentative (fig. 5).
Databile intorno al 1420-1423 circa, alla fine del XX secolo fu trovata in un edificio nel Mugello e fu poi acquistata dall’antiquario Stefano Bardini. Si tratta di un altorilievo scontornato, realizzato in terracotta policroma, dipinto e dorato, di cui colpisce la resa graduale dell’aggetto delle figure: partendo dal basso lo spessore è minore, per poi aumentare progressivamente (fig. 6).
La sensazione che si percepisce è quella di essere guardati dalle due figure; un aspetto voluto dall’artista che aiuta a comprendere che in origine il rilievo fosse collocato in alto. Infatti, Maria si sporge verso il basso, mentre il piccolo e vivace Gesù si contorce e tira via il velo alla madre, la quale riesce a frenare il figlio con una mano, e con l’altra mano invece cerca di intrattenerlo con un melagrana dorata (fig. 7).
Fortunatamente i colori e le dorature sono in gran parte originali e tutt’oggi coprono il rossastro della terracotta.
Gli Spiritelli “parigini” in bronzo del Musée Jacquemart-André
Se c’è un soggetto che Donatello ha amato rappresentare con qualsiasi materiale, quello è certamente lo “Spiritello”. Di origine antica, gli Spiritelli sono bambini nudi e alati, allegri e sorridenti, danzanti, musicanti, protagonisti di molte opere del maestro. Tra gli Spiritelli realizzati in bronzo spiccano gli Spiritelli portacero (1436-1438) del Musée Jacquemart-André di Parigi, in origine posizionati sulla Cantoria realizzata da Luca della Robbia su commissione dell’Opera del Duomo di Firenze (fig. 8,9).
La loro originaria posizione ha indotto in errore Giorgio Vasari che nelle Vite ricondusse i due Spiritelli bronzei a Luca della Robbia, ma dai documenti si evince che fu Donatello l’artista pagato per realizzare i due Spiritelli, che ad oggi si mostrano appollaiati su dei supporti marmorei non originali; bisogna però immaginarli disposti sul pergamo, intenti a illuminare l’organista attraverso le candele, in modo da garantirgli la lettura dello spartito (fig. 10).
La posizione delle gambe pingui, abbellite con nastri e ghirlande, non passò inosservata all’epoca: rievocazioni dei due Spiritelli si ritrovano sia nel Gesù bambino nella Madonna col Bambino (1438-1440 circa) di Paolo Uccello (fig. 11), che nella Madonna di Tarquinia (1437) di Filippo Lippi (fig. 12).
Sottilissimo e leggerissimo marmo: la Madonna del Pugliese-Dudley
Grande quanto la copertina di un libro, questo piccolo marmo è stato per molto tempo attribuito a Desiderio da Settignano, ma solo recentemente è stato ricondotto da Francesco Caglioti a Donatello[5] (fig. 13).
Vasari stesso, nella vita di Fra Bartolomeo, relazionò il marmo alla mano dell’artista: ‹‹Aveva Pier del Pugliese avuto una Nostra Donna piccola di marmo, di bassissimo rilievo, di mano di Donatello, cosa rarissima››[6]. Sebbene non sia nota la committenza del rilievo marmoreo, si conosce invece Piero del Pugliese, il committente degli sportellini dipinti da Fra Bartolomeo, raffiguranti l’Annunciazione, la Natività e la Presentazione al Tempio per costruire un piccolo tabernacolo (fig. 14).
In questo marmo “in miniatura” Maria, seduta di profilo, è tutta rivolta al figlio, il quale, sempre attivo, si attacca alla veste fatta di panneggi leggeri, sottilmente intagliati ma comunque palpabili, a cui si unisce il velo che copre il capo della Madonna. Ma è ‹‹l’effetto sentimentale addirittura terebrante››[7] che Donatello seppe far risaltare attraverso il suo stiacciato così sottile – quasi in competizione con la pittura – che si staglia su uno sfondo neutro (fig. 15).
Artisti da Leonardo (fig. 16) a fra Bartolomeo, dal Bronzino (fig. 17) fino ai Gentileschi (fig. 18), seppero acquisire la lezione donatelliana, continuando a dimostrare come Donatello fosse stato così grande da lasciare la sua scia fino al Seicento e oltre.
La maestria e il virtuosismo di Donatello si riconoscono nel modo in cui seppe agevolmente modellare materiali diversi, con i quali creò opere innovative, per cui Vasari lo riconobbe come: ‹‹[…] non pure scultore rarissimo e statuario maraviglioso, ma pratico negli stucchi, valente nella prospettiva […] Et ebbono l'opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch'oltre furono tenute più simili all'eccellenti opere degl'antichi Greci e Romani, che quelle di qualunche altro fusse già mai››[8].
Note
[1] L. BECHERUCCI, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970, p. 26.
[2] A. GALLI, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013, p. 89.
[3] L.B. ALBERTI, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782, p. 323.
[4] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 697.
[5] Per approfondire lo studio di Francesco Caglioti a riguardo: Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.
[6] G. VASARI, Le vite…cit., p. 1176.
[7] F. CAGLIOTI, I secoli della Madonna Dudley, in Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022, p. 398.
[8] G. VASARI, Le vite…cit., pp. 694-695.
Bibliografia
L.B. Alberti, Della architettura della pittura e della statua, traduzione di Cosimo Bartoli, Bologna 1782.
Becherucci, G. Brunetti, Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, 2 voll., Milano 1969-1970.
Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo (Firenze, Casa Buonarroti, 30.6-19.10.1992), a cura di P. Barocchi, Milano 1992, pp. 72-78 n. 14.
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997.
Caglioti, Tra dispersioni e ricomparse: gli “Spiritelli” bronzei di Donatello sul pergamo di Luca della Robbia, in Santa Maria del Fiore: the Cathedral and its Sculpture, atti del convegno (Firenze, Villa I Tatti, 5-6 giugno 1997), a cura di M. Haines, Fiesole 2001, pp. 263-287.
Lalli, P. Moioli, M. Rizzi, C. Seccaroni, L. Speranza, P. Stiberc, Il Crocifisso di Donatello nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Osservazioni dopo il restauro, in “OPD Restauro”, 2006, 18, pp. 13-38.
Galli, «Pressoché persone vive, e non più statue», in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400- 1460, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo - 18 agosto 2013; Parigi, Musée du Louvre, 26 settembre 2013 - 6 gennaio 2014), a cura di B. Paolozzi Strozzi, M. Bormand, Firenze 2013.
Caglioti, L. Cavazzini, A. Galli, N. Rowley, Reconsidering the young Donatello, in «Jahrbuch der Berliner Museen», LVII, 2015.
Donatello, il Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi-Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo-31 luglio 2022), a cura di F. Caglioti, Firenze 2022.
LA CHIESA DELLA SS. ANNUNCIATA A PIANCOGNO
A cura di Francesca Richini
La chiesa della Ss. Annunciata a Piancogno
In Valcamonica in provincia di Brescia, nel comune di Piancogno, è possibile visitare una chiesa francescana dedicata alla Vergine Annunciata con opere del pittore Pietro da Cemmo. La costruzione religiosa è circondata a nord-est dai monti S. Fermo, Concarena e Pizzo Camino, ad ovest dal monte Pizzo Camino e dal Passo Croce Domini e, posizionata a 752 m sul livello del mare, ha una panoramica su tutta la media valle.
La Chiesa, fondata da Amedeo Mendes da Silva, deve la sua posizione a due terziari francescani: Orlando da Borno e Giovanni Bernardi, autorizzati nel 1465 da una Bolla del pontefice Paolo II a costruire una casa presso un dormitorio preesistente. La tradizione vuole che questi due frati avessero scritto al Beato Amedeo pregandolo di recarsi sul colle di San Cosma per fondare il convento. Esiste una Bolla del 1469 di papa Paolo II nella quale egli chiede ai due frati di cedere il terreno in favore del Mendes: “per abitazione sua e dei suoi compagni, e presso di questa poter costruire la chiesa con cimitero, i chiostri con umile campanella…”. Ma esiste altresì un documento che vede la presenza del Beato presso il convento di San Pietro a Bienno.
La chiesa al tempo si trovava nel territorio della Serenissima e, inizialmente, la costruzione di tale complesso non fu vista di buon occhio dalla Repubblica Veneta tanto che Amedeo, venendo dalla rivale Milano, venne accusato di essere un “explorator Mediolanensium” e dovette subire un processo che gli valse l’innocenza e lo autorizzò alla costruzione di conventi in tutto il territorio veneto.
Il complesso, sorto presso la precedente chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, non ebbe un unico progetto né venne costruito contemporaneamente, come testimonia un capitello datato 1483 nel cortile maggiore. Abitato fino al 1601 dai frati Osservanti Amadeisti, passò ai frati Minori Riformati che vi rimasero fino al 1808, soppresso da Napoleone. Fu poi riaperto nell’anno 1842 e venne affidato ai frati Cappuccini.
Esterno della chiesa della Ss. Annunciata a Piancogno
Scendendo la scalinata ricostruita recentemente, al termine si trova un piccolo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes, qui in precedenza si trovava il cimitero, ora spostato, dove riposano i due frati: Orlando da Borno e Giovanni Bernardi. Opposto al piccolo santuario si trova una porta che conduce in uno dei due cortili. La chiesa dotata di entrata laterale, a causa della sua posizione a ridosso della montagna, ha un portico, ricostruito nel XV secolo. Al centro vi è l’entrata in arenaria rossa e con porta in legno massiccio e al di sopra dell’ingresso nel sottarco si ha un affresco eseguito da fra’ Damaso Bianchi nel 1952 con la raffigurazione dell’annunciazione da parte dell’arcangelo Gabriele alla Madonna.
Interno della chiesa
Entrati nella chiesa si ha una navata lunga 22 metri e larga 8 suddivisa in tre campate. Di fronte all’entrata, nella parete posta a nord, si trovano tre cappelle, chiuse con cancelli in ferro battuto.
Inoltre compare, nella sua maestosità, la parete divisoria fra la navata e il coro. Quest’ultima totalmente affrescata e dotata di tre archi raffigura i Profeti in alto e sui pennacchi del portico ed è suddivisa in 33 riquadri, di cui il centrale con la crocifissione di Cristo che spicca in grandezza.
L’affresco rappresenta alcuni eventi della vita di Gesù, riprodotti con un ordine non chiaro e dall’interpretazione controversa, partendo dall’alto si dovrebbero trovare: un Profeta, l’Annunciazione di Maria (mal conservata, in quanto una parte è andata perduta), un altro Profeta, la Visitazione di Maria ad Elisabetta, la Natività, la Circoncisione, l’Adorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, il Battesimo o Gesù che parla ai dottori, le nozze di Cana, la Crocifissione, l’entrata in Gerusalemme, la cacciata dei mercanti dal Tempio, il battesimo di Giovanni il Battista, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Ultima Cena, la Lavanda dei Piedi, Gesù nell’Orto degli Ulivi, la Cattura di Gesù, Gesù al tribunale di Anna, Caifa si strappa le vesti, la Flagellazione, Gesù al tribunale di Pilato o Gesù al tribunale di Erode (o viceversa), Ecce Homo. Al di sotto dei riquadri nei pennacchi si collocano a sinistra la Carità, che con una mano sostiene la Storia di Gesù, e a destra la Pietà corrispettivamente indicate dai nomi scritti sopra; al centro, sempre nei pennacchi, i Profeti Geremia a sinistra e Isaia a destra accompagnati da lunghi cartigli. Al termine del cartiglio di Isaia si trova la data 1479.
L’autore dell’affresco non è certo, alcuni storici sostengono sia stato eseguito dalla scuola di Pietro da Cemmo o dal pittore in persona, altri da un pittore di cultura ferrarese. Nonostante la grande discussione, sembra essere fortemente accreditata l’opinione di Pietro da Cemmo come autore che firma, invece, gli affreschi del coro.
Sotto il portico al centro, invece, si ha l’apertura che conduce al coro. Sul lato a sinistra, verso nord, sono rappresentati i quattro protomartiri santi francescani, i quali sono raffigurati dentro dei medaglioni nella volta: san Francesco, sant’Antonio da Padova, san Bonaventura e san Ludovico Vescovo. Sulla parete di fondo si trova l’Assunzione in cielo della Madonna attorniata da angeli e dai quattro Evangelisti. Mentre di fianco alla finestra è stato dipinto il Beato Amedeo raffigurato con in mano l’Apocalypsis Nova accompagnato da due scritte: “Aperietur in tempore” e il suo detto: “Teneo fidem rietur in Jesum Christum”
Nella volta in mezzo sono presenti i quattro Patriarchi: Abramo, Giacobbe, Melchisedek e Mosè; mentre nella volta a destra si collocano i quattro Evangelisti entro medaglioni. Invece nella lunetta sulla parete di fondo è presente la Crocifissione con la Madonna, san Giovanni Evangelista, sant’Antonio da Padova e san Francesco, mentre sulla parete sud si ha l’episodio di san Francesco che riceve le stimmate. Il coro, interamente affrescato da Pietro da Cemmo, è datato 1475 e firmato dall’autore. Quest’opera rappresenta l’unica opera firmata e datata dall’autore, utile, quindi, alla ricostruzione della carriera pittorica dell’artista.
Nel sottarco sono raffigurati san Luigi IX di Francia, santa Chiara, san Ludovico, sant’Antonio da Padova, san Francesco, san Bernardino da Siena ed altri santi non ancora identificati. Al centro della volta vi è il Padre Eterno e da sotto la sua figura dipartono cerchi concentrici raffiguranti schiere di ordini angelici, mentre nello spicchio centrale si ha la Madonna dell’Umiltà che copre con il suo manto i frati in preghiera del primo, secondo e terzo ordine. Il lato nord del coro invece è incentrato su Maria, si trovano la Natività della Vergine nella lunetta e nel riquadro sottostante lo Sposalizio, qui nell’ architrave è dipinta la scritta: “HOC PETRVS PINXIT OPVS DE CEMO JOHANNES 1475”. Nelle due lunette sono presenti l’Annunciazione con a sinistra l’Arcangelo Gabriele e a destra la Madonna in preghiera. Sulla parete sud è rappresentata la Presentazione di Maria al tempio che sull’architrave reca la scritta “A E H S X C V D F 1475 PETRVS AD HBIF. S PKENX”, mentre al di sotto è raffigurata l’Assunzione della Vergine.
Amadeo Mendes da Silva
Il Beato Amadeo è stato l’iniziatore della Congregazione amadeita, scrittore dell’Apocalypsis Nova e fondatore di edifici religiosi nel ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia, rispettivamente: la Chiesa di Santa Maria della Pace a Milano nel 1466, la Chiesa di S. Maria Bressanoro a Castelleone nel 1460, il Convento della Santissima Annunciata a Borno nel 1469 e Santa Maria delle Grazie a Quinzano nel 1468.
Amadeo Mendes nacque nel Nordafrica forse a Ceuta nel 1420 circa, di lui non si hanno notizie certe né della famiglia di provenienza né di ciò che fece sino al 1452, anno nel quale ottenne la licenza di passare all’Ordine dei francescani minori e di recarsi in Italia ad Assisi. Arrivò a Milano nel convento di S. Francesco ed in breve la sua fama di guaritore e visionario giunse fino al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, di cui diventò sia il confessore privato sia la persona fidata per risolvere missioni delicate. Proprio grazie alla protezione di Bianca Maria ottenne la possibilità di fondare i conventi prima elencati.
Il frate, noto come “frater Amedeus Hispanus”, animato da una volontà di riforma fondò, oltre ai conventi, una nuova “organizzazione”. Atto che venne malvisto dall’Ordine dei francescani minori e che fece nascere diverse tensioni: tanto da coinvolgere il papa. Nonostante la mancanza di appoggio degli Osservanti il frate riuscì ad ottenere nel 1471 la protezione del papa Sisto IV, Francesco della Rovere, utile affinché la Congregazione, appena fondata, avesse la possibilità di allargarsi. Amadeo Mendes morì in seguito ad un malore mentre stava andando a Roma il 10 agosto 1482, nel convento milanese di S. Maria della Pace.
Un Beato all’Annunciata
Persona di rilievo per il Convento, è stato il Beato Innocenzo da Berzo. Nato nel 1844 a Niardo in Valcamonica da subito dimostrò un’inclinazione alla vita religiosa. Entrò nel seminario di Brescia dove venne ordinato sacerdote. Divenne vicerettore del seminario, si dedicò al ministero delle confessioni presso Berzo, per poi approdare alla vita claustrale presso il convento dell’Annunciata, qui analizzato. Morì nel 1890 per malattia nell’infermeria di Bergamo, dove era stato trasferito. Venne beatificato da papa Giovanni XXIII nel 1961.
Beato Innocenzo da Berzo è solitamente illustrato con il saio francescano, con il capo inclinato e la schiena leggermente ricurva e le mani unite. Inoltre, è solitamente affiancato dall’Ostensorio del Santissimo Sacramento a cui era devoto. Tuttora se ci si reca in visita al Convento dell’Annunciata è possibile visitare la cella del Beato al piano superiore, dove si possono trovare appese alla parete di entrata le immagini di una grazia ricevuta.
Bibliografia
Bertolini A., Panazza G., Arte in Val Camonica: Monumenti e opere, Piancogno, V. I, Grafo Edizioni, Brescia, 1980, pp. 52-77.
Serafico Lorenzi, L’annunciata, Litonova, Gorle (BG), 1997.
Sitografia
https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1r050-00086/
https://www.treccani.it/enciclopedia/menes-silva-amadeo-de_%28Dizionario-Biografico%29/
ENZO PAZZAGLI E IL SUO PARCO D’ARTE CONTEMPORANEA PT II
A cura di Arianna Canalicchio
Nulla serve pensare se ciò che pensi si perde in te
AUTOPRESENTAZIONE
Tutto puoi trovare in te inaspettatamente
e può sovvertire il tuo modo di esistere.
[…]
Non cancellando
mai le proprie illusioni
che sono la forza della vita
permettendo così
di realizzare e materializzare
le proprie speranze.[1]
Situato alla periferia di Firenze, non lontano dalla stazione di Rovezzano, il parco d’Arte Contemporanea Enzo Pazzagli venne inaugurato dall’artista nel 2008 e accoglie gran parte delle sue sculture realizzate dagli anni ’70 fino al 2018. Sebbene inizialmente fosse stato pensato come una vera e propria galleria in cui invitare quasi esclusivamente ospiti ed acquirenti, ad oggi il parco è visitabile e lo spettatore è introdotto al lavoro dell’artista da una delle sculture forse più nota di Pazzagli e divenuta nel tempo l’icona del suo lavoro: il Pegaso (fig. 1). Commissionatogli nel 1975 come simbolo della Regione Toscana dall’onorevole Lelio Lagorio, primo a ricoprire la carica di presidente regionale, il Pegaso, alleggerito dagli inserti in plexiglass, sembra pronto a librarsi in cielo mentre la luce gioca con la superficie di metallo e i colori. Due versioni di questo lavoro si trovano esposte nel parco, una terza, cronologicamente l’ultima ad essere stata realizzata e considerata dall’artista come definitiva, si trova invece a Novoli, esposta nel giardino della sede della Regione.
A partire dalla fine degli anni ’70, il lavoro di Pazzagli cominciò ad essere sempre più diffusamente apprezzato, tanto che nel 1979 ottenne Il primo riconoscimento ufficiale e davvero significativo per la sua carriera: il premio Le Muse[2] per la scultura. Nello stesso anno il corrispettivo premio per la poesia venne invece assegnato a Mario Luzi. Molto importante per l’artista fu anche l’incarico nel 1983 di realizzare un altare per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caprese Michelangelo, piccolo borgo in provincia di Arezzo di poco più di 1.000 abitanti, che nel 1475 aveva dato i natali a Michelangelo Buonarroti. Pazzagli realizzò l’opera Un paese racconta con la quale affronta il tema della sofferenza delle madri che pregano per il ritorno dei figli dalla guerra. È una preghiera carica di speranza ma profondamente sofferta, che da secoli si rinnova ogni volta che un conflitto allontana i figli da casa. Il tema della guerra torna anche in Omaggio al medico militare, scultura che si trova nel parco e che raffigura una sagoma pseudo-umana che porta le lunghe dita affusolate al volto in un urlo silenzioso che richiama alla memoria quello celebre dell’opera di Edward Munch. Se, dunque, nei primi anni ’80 troviamo dei temi importanti e profondi, non mancano però soggetti più leggeri: realizzò infatti una serie di ritratti-scultura per attori come Roger Moore, Monica Vitti, Luciano Salce e Ugo Tognazzi, che aveva avuto occasione di conoscere nella sua galleria di Punta Ala e con i quali intratteneva rapporti di amicizia.
Un lavoro molto delicato e poetico è Coppia con bambino (fig. 3), forse tra le sue sculture più astratte. L’opera raffigura le sagome di due persone, un uomo e una donna, con al centro il figlio, sovrastato da un cerchio, simbolo dell’unione generatrice della coppia. Tra le opere più significative del parco vi è sicuramente il Gran Concerto (fig. 4), che con i suoi 8,20 metri di altezza e diverse tonnellate di peso, è sicuramente la scultura più grande della collezione. Orientate verso l’alto, le lunghe barre metalliche che compongono l’opera rappresentano le linee del pentagramma sopra le quali tutte le componenti più piccole, circa 290 pezzi, scrivono la musica che darà vita al concerto. L’opera fu esposta per la prima volta nel 1995 per una mostra personale dello scultore tenutasi a Montevarchi, in provincia di Arezzo. A partire dagli anni ’90 realizzò anche dei veri e propri gruppi scultorei nei quali le diverse figure dialogano tra loro; nel parco sono esposti Conversazione in piazza e i Pellegrini per il Giubileo. La prima venne pensata ed esposta nel 1995 in una piazza di Arezzo e raffigura varie sagome, ognuna delle quali con un nome, come Vanitosa, Curiosa, Ciao, Allegria e altri, che dialogano tra loro proprio come un tempo si era soliti fare nelle piazzette di paese. Con questo lavoro Pazzagli ricorda proprio questa abitudine, a suo dire ormai morta nelle grandi città, di ritrovarsi alla fine della giornata nelle piazze per stare insieme e condividere un momento di incontro. Il gruppo fu la prima opera installata all’interno del parco dopo i lunghi lavori di bonifica e venne posizionato all’interno della scultura naturale Trinità, là dove i cipressi disegnano la bocca della maschera centrale. Nel giardino sono presenti, distribuiti tra gli alberi, anche alcune versioni più piccole delle sagome di Conversazione in piazza. Pazzagli lavorò spesso in serie, realizzando, come si vede in diversi altri esempi, sculture con lo stesso soggetto ma di dimensioni diverse o con differenti colori per gli inserti in plexiglass.
Il secondo gruppo di sculture, intitolato Pellegrini per il Giubileo, venne realizzato in occasione del Giubileo di Roma del 2000. L’opera era stata ultimata, in realtà, già l’anno precedente e dunque si trovava dal 1999 ad Arezzo. Lo scultore utilizza dei grandi tubi metallici di scarto che, aperti e posti verticalmente danno vita a quattro figure profondamente stereotipate. Da un lato Oriente, la sagoma blu con occhi a mandorla e macchina fotografica al collo, da un altro Occidente, l’uomo bianco vestito con lo smoking e il papillon, da un altro ancora Africa, una donna con in grembo un bambino e in fine Capellone, il ragazzo ribelle e contestatore dai capelli lunghi. Sono dunque quattro persone che dai quattro angoli del mondo convergono nel momento di unione a cui, secondo la fede cattolica, siamo chiamati dal Giubileo. Un’opera, dunque, che parla di amicizia e di condivisione in senso non soltanto cattolico ma ben più universale.
A partire dai primi anni 2000, dopo l’acquisto del terreno in cui aveva deciso di costruire il parco, Pazzagli cominciò a dedicarsi a una serie di lavori su scala più piccola, tornando a quelli che erano stati gli inizi della sua attività di scultore. Abbandonate le sagome alte diversi metri, lavorò al gruppo delle Particelle celesti (fig. 7). I riferimenti cosmici avevano da tempo caratterizzato le sue opere ma qui si uniscono con un altro dei temi centrali del suo lavoro: l’utilizzo di materiali poveri e soprattutto di avanzo. Le Particelle celesti sono infatti realizzate con elementi di scarto presi da Pazzagli nelle fonderie e uniti insieme dagli inserti in plexiglas. Sono delle strutture molto delicate e ne troviamo alcuni begli esempi, oltre che all’ingresso del parco, ancora una volta nella hall dell’Hotel Mediterraneo a Firenze. Accanto a una delle pochissime opere in pittura visibili realizzate da Pazzagli, troviamo infatti una serie piuttosto consistente di questi lavori donati dall’artista alla proprietà dell’Albergo.
Artista in parte dimenticato dopo la morte, Pazzagli continua ad essere conosciuto soprattutto a Firenze, Arezzo e nella provincia, grazie alla presenza di alcune delle sue sculture in piazze e rotonde e per lo stile ludico e facilmente riconoscibile, ma già uscendo dalla Toscana non sono in molti a conoscerlo. I motivi possono essere in realtà diversi: in un mondo in cui la scultura contemporanea sta andando sempre più verso immagini astratte, forse la sua opera così profondamente figurativa può risultare fuori tempo, eppure la lista di artisti che ancora oggi usano la figura è ben lunga. Penso che in tal senso possa aver avuto un peso la sua scelta di gestire personalmente i propri affari senza affidarsi a un gallerista, ma che, soprattutto, sia stato determinante lasciare tutto il suo lavoro all’interno del parco senza assicurarsi che qualcuno ne portasse davvero avanti il lato di galleria commerciale. Rimane comunque la possibilità di ammirare il parco e di muoversi tra le sue sculture apprezzandole nella natura, proprio così come lui avrebbe voluto.
Le foto qui presenti eccetto la numero 4 sono state scattate dall'autrice dell'articolo.
Note
[1] Parte della poesia di presentazione scritta da Enzo Pazzagli in occasione della mostra fiorentina a Palazzo Medici Riccardi del 2014. Cfr. Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014, p. 1.
[2] Il premio che ancora oggi viene consegnato dal Comune di Firenze venne istituito da Giuliana Plastino Fiumicelli nel 1965, quando era sindaco Giorgio La Pira. Si tratta di un riconoscimento assegnato a personalità che si sono distinte nei vari campi delle “muse”, dall’arte, alla scienza, alla poesia per arrivare fino a televisione e cinema. Tra i nomi più importanti che negli anni sono stati premiati ricordiamo Salvatore Quasimodo, Maria Callas, Ingrid Bergman, March Chagall, Gabriele Lavia, Enzo Cucchi e molti altri.
Bibliografia
La maggior parte delle informazioni sono tratte dagli appunti lasciati da Pazzagli come guida al suo parco d’arte.
Enzo Pazzagli: Trent’anni di scultura, catalogo della mostra al chiostro di Cennano - Museo Paleontologico, (25 marzo - 28 maggio 1995), Montevarchi (AR), 1995.
Il grillo parlante è volato dal Parco d'arte E. Pazzagli al Parco di Pinocchio, catalogo della mostra a Palazzo Medici Ricciardi, Galleria delle Carrozze (12 aprile-5 maggio 2014), Industria grafica Valdarnese, Firenze 2014.
Tommaso Paloscia, Enzo Pazzagli Spirito e Materia, Nuova grafica fiorentina, Firenze 1980.
CREDITI FOTOGRAFICI:
Fig. 1: Arianna Canalicchio
Fig. 2: Arianna Canalicchio
Fig. 3: Arianna Canalicchio
Fig. 4:
Fig. 5: Arianna Canalicchio
Fig. 6: Arianna Canalicchio
Fig. 7: Arianna Canalicchio
Fig. 8: Arianna Canalicchio
IL CASTELLO DI CAPUA A GAMBATESA PT II
A cura di Marco Bussoli
Per quanto non ancora sufficientemente studiato, il Castello di Gambatesa presenta una serie di tematiche, non solo figurative, molto complesse ed articolate, che non possono essere trascurate, soprattutto in sede divulgativa. Per questo motivo si procederà alla descrizione e all’analisi dell’apparato pittorico stanza per stanza, prendendo, qualora fosse necessario, dello spazio per riflessioni e spunti di studio.
Il Castello di Capua e il suo programma
Per quanto il feudo di Gambatesa fosse importante per la crescita della famiglia di Capua, il centro principale dei duchi era Termoli, in cui però non vivevano, risiedendo nel palazzo di San Martino in Pensilis, un comune limitrofo. Col passare del tempo si fece sempre maggiore l’esigenza di un luogo di rappresentanza, individuato nel Castello di Gambatesa, che viene via via trasformato.
Pur non conoscendo con esattezza la cronologia degli interventi è noto che gli affreschi furono eseguiti nel 1550; la data indicata da Decumbertino nel clipeo è infatti passibile di una serie di interpretazioni, come fa notare S. Monda nel suo saggio.
Il ciclo di affreschi, seppur frammentato e non sempre leggibile, sembra voler esaltare la figura del signore; questi temi sono molto comuni nelle pitture dei palazzi signorili. Il programma iconologico non è ricostruibile per intero, ma si possono azzardare una serie di ipotesi: se il grande Salone delle Virtù parla chiaramente all’osservatore delle doti di Vincenzo di Capua, le vedute di città e di paesaggio nelle altre sale sono più enigmatiche, così come lo sono del resto i riferimenti mitologici (tratti da Ovidio) presenti in alcuni affreschi.
La complessa iconologia deve essere stata immaginata da una figura che possedeva gli strumenti necessari a tale scopo. Sembra improbabile, a questo punto, che tale architettura simbolica possa essere stata opera di Vincenzo il quale, pur essendo uomo colto di corte, non aveva una cultura umanistica così ben strutturata. Resta da valutare, dunque, la figura del pittore stesso, Donato Decumbertino, che precisò, nella Sala delle Virtù, che tutto l’apparato fosse a lui dovuto: la frase Donatus om[n]ia elaboravit allude anche ad un aspetto più pratico del suo lavoro.
L’ipotesi più plausibile è quella che vede in Vincenzo di Capua il solo committente, che porta con sè l’intentio dell’opera, mentre spetterebbe ad un umanista la parte dell’inventio; quest’ultimo potrebbe essere individuato in Pietro Antonio di Capua, fratello del duca nonché arcivescovo di Otranto, personalità estremamente colta il cui cursus honorum comprende anche la partecipazione al Concilio di Trento. Una simile ipotesi può essere validata dalla vicinanza del duca Vincenzo al fratello; questa vicinanza rientra inoltre tra le ragioni che hanno a lungo spinto gli studiosi a ricercare un legame tra Donato Decumbertino e Gianserio Strafella.
Temi ovidiani al Castello di Gambatesa
L’analisi degli affreschi del piano nobile del Castello può essere fatta in vari modi. In questa sede si sceglie, però, di procedere considerando nuclei tematici e funzionali. Partendo dall’atrio e dalle stanze più private, ambienti accomunati dalla presenza di temi ovidiani e, passando per le stanze minori, nelle quali le lodi al duca si fanno meno esplicite, si arriva infine al già menzionato Salone delle Virtù.
Una volta entrati nel castello si approda nell’atrio, un grande spazio quadrato, ripartito in quattro parti delle quali alle tre voltate a crociera viene assommato l’ultimo quadrante che contiene la scala che porta agli ambienti del secondo piano. Da questo spazio, restando al piano terra, si può invece accedere direttamente al Salone delle Virtù, o intraprendere il percorso attraverso le stanze minori del piano.
L’ipotesi più accreditata vuole che le volte fossero, in origine, tutte decorate. Al giorno d’oggi solo quella di sud-ovest conserva gli affreschi in tre delle quattro unghie. Da ciò che rimane delle decorazioni emerge un chiaro legame con gli affreschi della Loggia di Psiche dipinta alla Farnesina da Giovanni da Udine: trionfi di frutta e foglie vengono usati per sottolineare l’elemento architettonico della volta, creando così dei riquadri pronti ad accogliere episodi figurativi. Pur non potendo nemmeno immaginare quali fossero le immagini su tutte le volte, per la porzione superstite il tema appare ben chiaro: gli amori di Zeus.
Gli episodi ancora visibili sono: Io posseduta da Zeus nelle sembianze di una nuvola, Zeus rapisce Europa trasformato in un toro bianco e, visibile solo in parte, Danae posseduta da Zeus sotto forma di pioggia d’oro; nel quarto di volta mancante poteva essere inserita la seduzione di Antiope o la trasformazione del dio in cigno per amare Leda. Si può poi sottolineare come tutti questi episodi fossero stati raffigurati da Aracne nella sua tela, creando così un legame con il clipeo della Sala delle Maschere.
Gli amori di Zeus erano un tema molto diffuso nei palazzi nobiliari, come ad esempio nella villa affidata da Agostino Chigi a Baldassarre Peruzzi (la già citata villa Farnesina); non stupisce quindi la loro presenza nel Castello. Forse, come ipotizza Monda, su suggerimento dello stesso Donato Decumbertino, che poteva aver fornito altre interpretazioni del tema in altri cantieri (Roma), pur riservandosi la facoltà di innovare alcuni aspetti delle figure.
In merito a questo M. Carrozza, nel suo saggio, ipotizza come questi amori potessero essere interpretati come una completa subordinazione dell’uomo alla volontà divina ed alla potenza fecondatrice di questa. L’ipotesi, sicuramente suggestiva, non è però dimostrabile.
La complessa storia di Io
Quello di Io è uno dei racconti, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, in cui più miti si incastrano in modo scatolare, definendo un intreccio molto complesso. Donato Decumbertino dipinge uno degli episodi iniziali della vicenda, in cui Zeus, invaghitosi della fanciulla, si nasconde in una coltre di nubi per possederla dopo che questa aveva tentato una fuga dal dio. Il legame con la narrazione di Ovidio sta nel particolare della nuvola, non presente in nessun’altra fonte antica; questo dettaglio, però, ha sempre avuto un forte riscontro in epoca rinascimentale, finendo per essere uno degli episodi del mito più raffigurati.
Donato Decumbertino si distacca dalle raffigurazioni canoniche di questo episodio, che vedono il dio uscire dalla nuvola con sembianze umane, disegnando Zeus in forma umana ma come se fosse fatto di nuvola, avvicinandosi così alla rappresentazione che ne aveva fatto Correggio, che aveva raffigurato il dio in forma di nuvola mentre si avvicinava ad Io.
Il ratto di Europa
Anche l’episodio di Europa rapita da Zeus è molto rappresentato nel Rinascimento, in modi che si attengono più o meno al mito ed alle sue varie versioni in circolazione. Anche dello stesso Ovidio erano due le scritture dell’episodio, quella delle Metamorfosi e quella dei Fasti. La differenza tra le fonti era nella posizione della fanciulla, che, se in un caso si regge con una mano sulla groppa e con l’altra tiene una delle corna del toro bianco, nell’altro si regge al suo collo e tiene la propria veste.
La soluzione figurativa presente in Molise si distacca, nuovamente, da quella più canonica, che vedeva la ragazza vestita, come nel Ratto di Europa del Pinturicchio (1508-1508), o con il seno scoperto, come nella versione fornitaci da Baldassarre Peruzzi nella Villa Farnesina (1508), nella quale la fanciulla è rappresentata totalmente nuda, mentre, in groppa al toro, scruta l’orizzonte. In questo caso, non esistendo esempi simili , si può quindi pensare che l’artista stesse consapevolmente modificando l’iconografia di questo mito.
Danae e la pioggia dorata
L’ultimo episodio raffigurato nella volta fa parte del più grande racconto sulla nascita di Perseo, figlio della principessa Danae che, rinchiusa in una torre da suo padre Acriso, re di Argo, viene fecondata da Zeus trasformato in pioggia d’oro. Da questa fecondazione nasce poi Perseo che seguendo la profezia uccide suo nonno Acriso.
Il racconto di questa vicenda ebbe una fortuna enorme nell’antichità, venendo ripreso già da Pindaro, Sofocle ed Euripide, e conoscendo poi una grande fortuna anche dal punto di vista figurativo, come dimostrano le numerose tele dipinte da Tiziano, tra le quali vi sono quella del Museo di Capodimonte di Napoli (1545) e quella del Museo del Prado (1553). In questo caso la pittura di Donato Decumbertino si attiene ai modelli precedenti, in particolare al disegno su due lekythoi, vasi slanciati, conservati ad Atene e Corinto. L’unico elemento che si distacca dal mito e dalle figurazioni precedenti è l’ambientazione all’esterno della storia, ma questa scelta si può ricondurre entro questioni compositive più ampie: così facendo, infatti, il pittore riesce ad uniformare tutti i racconti sulla volta anche dal punto di vista cromatico e di atmosfera; un simile espediente era già stato adottato da Peruzzi, per questo stesso episodio, nella Sala del Fregio ancora in villa Farnesina.
Lo studiolo e l’episodio di Mercurio ed Erse
L’ultima stanza visitabile seguendo il percorso museale è lo studiolo. Di questo piccolo ambiente non si conosce in realtà la reale funzione, ma la presenza del caminetto e la vicinanza con le vecchie cucine fa suppore la presenza o di uno studio o di una camera da letto. Per quanto molto lacunosa, la decorazione murale è leggibile e si svolge su due registri: su quello superiore corre un fregio decorato a festoni, inserti di vegetazione e mostri, mentre quello inferiore è occupato da un paramento architettonico arricchito da cariatidi.
La struttura architettonica rappresentata incornicia delle aree affrescate con scene amorose, tra le quali una, troppo lacunosa, potrebbe trattare dell’episodio di Amore e Psiche o Amore e Venere, mentre l’altra, pur mancante della parte centrale, racconta un episodio della storia di Mercurio ed Erse.
La vicenda è molto complessa, ed è narrata da Ovidio appena prima dell’episodio di Europa. Mercurio si innamora di Erse e decide di far intercedere sua sorella Aglauro al suo posto. Questa però, vittima di Invidia, si oppone e viene trasformata in pietra dal dio.
Castello di Gambatesa, Studiolo/Camera – il mito di Mercurio ed Erse.
Un riferimento che contribuisce all’identificazione del soggetto, e che Donato segue alla lettera, è una stampa dal soggetto analogo, realizzata nel 1527 da Gian Giacomo Caraglio su disegno di Perin del Vaga. Questa stretta corrispondenza con la fonte presa a modello andrebbe analizzata con maggiore cura, in quanto si oppone decisamente alla forte carica innovatrice dimostrata nell’atrio. Per fare ciò, tuttavia, altri studi di approfondimento si rendono necessari.
Bibliografia
A. Pinelli, La tela del ragno e l’eloquenza del pappagallo. Le intriganti trame visive di Donato Decumbertino a Gambatesa, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020
S. Monda, Vicende e figure ovidiane nel ciclo di affreschi del Castello di Gambatesa, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020
D. Ferrara (a cura di), Il Castello di Capua a Gambatesa. Mito, Storia, Paesaggio, Campobasso 2011.
Sitografia
https://www.musei.molise.beniculturali.it/musei?mid=870&nome=castello-di-capua (25-10-2021)
LUCA GIORDANO
A cura di Ornella Amato
Luca Giordano: il passaggio dal caravaggismo al barocco nella città di Napoli attraverso la sua formazione e le sue opere
Introduzione
Luca Giordano, figlio di Antonio e Isabella Imparato, nacque a Napoli il 18 ottobre 1634. Il padre aveva una piccola bottega di arte pittorica e, oltre ad essere un pittore, era anche un mercante di opere d’arte. Fu probabilmente con lui che Luca imparò fin da giovane l’arte pittorica. Infatti, Bernardo De Dominici racconta che il padre Antonio lasciò incompleti due putti per gli affreschi che gli erano stati commissionati nella Chiesa di Santa Maria La Nova e che il piccolo Luca, a soli 8 anni, li completò in maniera egregia.
Luca Giordano[1] si formò inizialmente all’ombra del Vesuvio, in una città che aveva visto l’opera rivoluzionaria del Caravaggio, ma che stava vivendo un momento storico estremamente particolare. La città stava infatti attraversando gli anni del vicereame Spagnolo e della rivoluzione di Masaniello e nel panorama artistico era giunto – già nell’estate del 1616 - il pittore Jusepe de Ribera, noto poi alla critica come Lo Spagnoletto, uno dei massimi esponenti della pittura napoletana e del caravaggismo stesso. La pittura del Ribera e gli eventi che coinvolgeranno Napoli saranno la base per la formazione artistica del Giordano stesso.
Gli eventi storici
La rivolta napoletana antispagnola nel biennio 1647-48 e la drammatica epidemia di peste che colpì la città nel 1656 divennero materiale per gli artisti che nelle opere a loro commissionate - soprattutto ex voto per la città liberata dal morbo – intrapresero una “ripulitura” della loro tavolozza dai toni cupi tipici del crudo naturalismo del Caravaggio per sostituirli coi cromatismi della corrente barocca.
Ne consegue che la peste del 1656 finì col diventare un momento di divisione tra le due correnti artistiche: da un lato il caravaggismo, che inizia quasi ad essere accantonato, e dall’altro il barocco, che inizia ad affermarsi sempre di più.
Le prime opere documentate
Le prime opere documentate del Giordano risalgono all’anno 1653 e riprendono lo stile di Caravaggio prima e del Ribera poi, come ad esempio La morte di Seneca o La flagellazione. Per quest’ultima, i richiami allo stesso soggetto caravaggesco sono estremamente evidenti: il Cristo alla colonna, i flagellanti in abiti contemporanei e il fascio di rami usato per flagello sono tutti dettagli che rimandano proprio alla Flagellazione commissionata al Merisi dalla famiglia De Franchis.
Negli anni immediatamente successivi lavorò alla decorazione delle lunette della cappella del Tesoro di San Gennaro all’interno del Duomo.
Una delle opera che probabilmente influenzò lo stile del Giordano fu la Porta San Gennaro, una delle porte della città di Napoli, affrescata tra il 1657 ed il 1659 da Mattia Preti e rappresentante il santo patrono che intercede presso la Vergine per la fine del morbo del 1656. In realtà non sappiamo quanto il modo di lavorare del Preti dovette colpirlo, ma di certo la “velocità di esecuzione” del Preti diventerà la sua caratteristica tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Luca fa presto”.
La formazione oltre Napoli
Fuori da Napoli, il giovane Giordano si spostò prima a Roma e poi a Venezia, ma successivamente lavorò anche a Firenze e in Spagna, dove tutt'oggi si trovano alcune delle sue opere.
Le esperienze romane si riveleranno fondamentali per completare la sua formazione: l’incontro con Pietro da Cortona lo portò infatti ad adottarne le morbidezze cromatiche e formali. A Roma ebbe anche modo di studiare da vicino gli affreschi di Raffaello in Vaticano e le opere di Annibale Carracci e di consolidare la sua fama di copista e disegnatore.
Il soggiorno nella Serenissima durò circa sei mesi, interrotto solamente da un momentaneo ritorno a Napoli negli anni ’70. Lo studio dell’arte veneta, probabilmente in concomitanza con la sua naturale predisposizione al disegno e la conoscenza delle opere di Tiziano, contribuì poi alla creazione di quello che sarà poi il suo stile definitivo.
Le commissioni pubbliche e le opere della maturità
Grazie alla sua abilità pittorica, alle cromie utilizzate, alla fama crescente e alla velocità di esecuzione, dagli anni ‘60 agli ’80 del XVII secolo le commissioni si moltiplicano: rare sono le chiese napoletane e della provincia all’interno delle quali non sia presente un suo affresco o una sua tela.
Durante la sua carriera Giordano predilesse il tema sacro, che interpreta con disinvoltura ed è proprio in queste tematiche che risalta la sua evoluzione pittorica: ne sono dimostrazione i Santi protettori di Napoli adorano il crocifisso e soprattutto San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste (1660-61) al Museo di Capodimonte, dove è conservata anche la coeva Sacra Famiglia che ha la visione dei simboli della Passione (1660).
Nella tela di Capodimonte è da notare l’influenza del Preti, in particolare nei corpi dei morti di peste rappresentati nella parte inferiore della composizione, dove è rappresentata una donna col seno scoperto sulla quale un bambino cerca di avvicinarsi, probabilmente per succhiare il latte dal seno materno. Una scena estremamente simile si riscontra nel bozzetto del già citato affresco pretiano.
Le committenze private
Le committenze giordanesche non annoverano solo opere pubbliche degli ordini religiosi del ‘600 napoletano, ma anche di privati.
La volontà di ascesa sociale porta le famiglie di magistrati e dell’alta borghesia - come già era successo con i De Franchis e il Merisi ai tempi della realizzazione della Flagellazione – a rivolgersi ai pittori “più in voga del momento”.
Una serie di tele – tutt’oggi in collezioni private – dai soggetti non solo sacri, ma anche profani, concorsero ad elevare ulteriormente la fama del Giordano; tra queste si ricordano: il Trionfo di Bacco, il Convito degli Dei, Diana e Atteone[2].
Il decennio 1670-1680 lo vede impegnato in Toscana: ospitato a Firenze da Andrea del Rosso, realizzò gli affreschi della cupola della Cappella Corsini e di Palazzo Medici Riccardi. Dopo queste commissioni crebbe la fama internazionale del pittore, che soggiornò per un decennio in Spagna, con incarichi sia a Madrid che a Toledo.
Nel 1702, al suo rientro definitivo a Napoli, non mancarono lavori a tema profano, ma le commesse furono soprattutto di carattere religioso: tra le tante si ricorda il ciclo di affreschi con Le storie di Giuditta realizzato nel 1704 per la cappella del Tesoro della Certosa di San Martino.
L'artista morì a Napoli il 12 Gennaio 1705 e venne sepolto nella chiesa di Santa Brigida, di cui nel 1678 ne aveva affrescato la cupola.
Conclusioni
Il lavoro “veloce e perfetto” del Giordano fu molto apprezzato dai suoi contemporanei. La sua personalità pacata, antitesi di quella del Caravaggio, e la fama di una “persona per bene”, fecero di lui l’artista a cui rivolgersi senza remore.
La sua briosa tavolozza, ripulita del buio del naturalismo crudo del Caravaggio, lo rende il pittore per eccellenza dell’età barocca a Napoli. I toni splendenti del barocco, infatti, si sposano perfettamente con le forme che l’artista dona con grazia ai suoi personaggi, a qualunque tematica essi appartengano.
Dall’8 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021, Napoli gli ha dedicato la mostra “Luca Giordano – dalla Natura alla Pittura”, presentando un percorso espositivo nel quale i capolavori dell’esponente della pittura barocca napoletana sono stati riproposti alla città che gli ha dato i natali, sebbene non si possa parlare di una completezza: la capacità di disegno e la velocità di esecuzione hanno di certo contribuito alla smisurata quantità di commissioni ricevute, da cui deriva l’impossibilità della realizzazione di un catalogo che sia unico e definitivo.
Note
[1] La prima biografia di Luca Giordano è stata scritta da Bernardo de Dominici, nel testo Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani stampato per la prima volta tra il 1742 e il 1745.
[2] Cit.: V. Pacelli La Pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Cap.III pag. 149. Ed. Scientifiche Italiane
Bibliografia
Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, cap. 3, Il passaggio dal naturalismo al Barocco: protagonisti ed eventi. Luca Giordano: l’affermazione barocca a Napoli, pp. 141-149, Ed. Scientifiche italiane 1996
Sitografia
https://www.ecodellesirenetour.it/luca-giordano-pittore-uomo-e-leggenda/
https://www.museionline.info/pittori/luca-giordano
PITIGLIANO. LE OPERE E GLI ARTISTI, PARTE II
A cura di Luisa Generali
Dopo una prima introduzione al borgo di Pitigliano ci addentriamo negli ambienti di palazzo Orsini, che dal 1998 ospita il museo diocesano con un allestimento che, attraversando l’intero edificio, consente di apprezzare gli ambienti e gli apparati decorativi degli interni: appena varcata la soglia dell’atrio esterno saremo infatti subito accolti da un magnifico soffitto affrescato con la ruota dello zodiaco (fig.1), tema caro al rinascimento, che alla superstizione e al mito univa gli interessi verso la scienza. L’immagine della ruota con i simboli dell’oroscopo, che si sviluppa in parte proprio sopra la magnifica scalinata che conduce al piano superiore, è immessa in un cielo stellato a sua volta corredato di elementi decorativi geometrici e figurativi, tra cui sui pennacchi troviamo motivi a grottesche, altro tema caro alla cultura figurativa rinascimentale. Questi affreschi, come la maggior parte delle decorazioni parietali meglio conservate, sono da riferirsi al periodo più avanzato della storia del palazzo, riconducibili ai secoli XVI -XVII; appartengono infatti all’intervento dei Medici, detentori della contea e del palazzo dal 1604 fino XVIII secolo, tutta una serie di ambienti con soffitti e pareti dipinti secondo un gusto molto ricco, contraddistinto spesso da tendaggi e parati fittizi, “velari d’arredo”, restituiti vividamente grazie agli espedienti della pittura illusionistica (fig.2-3). Si alternano a questi interventi più recenti anche alcune decorazioni parietali quattrocentesche risalenti alla dominazione degli Orsini, come nello Studiolo del Conte voluto dallo stesso Orsini (fig.4-5-6). Attribuito alla mano di un ignoto pittore Quattrocentesco di formazione a metà tra l’area toscana-senese e un certo sintetismo di parte viterbese, il ciclo pittorico si rifà ai famosi esempi del ciclo degli uomini illustri, raffigurando nei medaglioni diversi personaggi della casata. Tra queste personalità è indicato da un cartiglio Totila “Flagello di Dio”, re degli Ostrogoti, ricordato come condottiero impavido, figura leggendaria rimasta nella storia per il coraggio, la cui presenza qui voleva forse alludere al paragone con le importanti imprese belliche compiute da Niccolò III. Il pittore cerca di restituire anche una certa verosimiglianza prospettica attraverso l’espediente del clipeo cassettonato a cui si affacciano i personaggi, mentre nel fregio più in alto accanto ad alcuni giocosi puttini sono alternate nature morte raffiguranti vari oggetti, tra cui dei libri rappresentati in maniera illusionistica generando l’effetto del trompe-l'oeil (pittura illusionistica, letteralmente “inganna l’’occhio”). La stanza del conte di Pitigliano si inserisce quindi a tutti gli effetti tra gli esempi di studioli privati rinascimentali, luoghi simbolo della cultura umanistica dove il riposo e lo esercizio intellettuale del sovrano si conciliavano appieno con l’arte circostante.
Tra le opere più significative ospitate nel museo troviamo in ordine di tempo la statua lignea raffigurante la Madonna col Bambino, capolavoro di Jacopo della Quercia (1374-1438). Proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino a Santa Flora l’opera rappresenta perfettamente lo stile dello scultore, che alla formazione senese distinta dalla leggiadria e grazia gotica coniuga gli studi classici dell’area fiorentina anticipando i moti dell’animo della scultura rinascimentale. L’impronta di Jacopo della Quercia è ben evidente soprattutto nella figura della Vergine, la cui vitalità nel volto si associa al movimento mosso del manto che pervade il corpo per intero restituendo un effetto di maestosa eleganza(fig.7-8). Oltre alla forma l’artista vuole dare risalto anche alla sfera emotiva raccontando l’intimità di un momento, con il gesto fanciullesco di Gesù che con il braccio tenta di avvicinarsi a Maria, mentre lei lo corrisponde con un amorevole sguardo.
È invece da attribuire alla mano di una maestranza fiorentina (forse alla bottega di Donatello) il Tabernacolo Eucaristico in marmo corredato dallo sportellino centrale in metallo proveniente dalla cattedrale della vicina Sovana (fig.9). L’edicola si caratterizza in più registri dove la lavorazione a rilievo impreziosisce e delinea tutte le varie componenti di questa piccola architettura. Nell’opera si trovano elementi figurativi puramente rinascimentali ripresi dal linguaggio antico, come le due lesene con capitello corinzio che delimitano la zona centrale insieme a una serie di ornamenti, quali ghirlande, corone e motivi a palmette. Chiude in alto un coronamento semicircolare dove al centro è rappresentato il sacramento eucaristico, mentre nella parte inferiore il tabernacolo è terminato da una sorta di peduccio aggettante su cui è scolpito il blasone del Vescovo Tommaso Piccolomini. Ma la straordinarietà di questo antico arredo liturgico è data dalla perfetta conservazione dello sportellino centrale, opera coeva di oreficeria fiorentina in metalli preziosi quali rame, argento e oro (fig.10): la lavorazione di tali materiali costituisce un disegno chiarissimo a più livelli, dove in primo piano spicca in alto rilievo il Vir dolorum, ovvero l’immagine di Cristo ancora per metà nel sepolcro affiancato da due angeli in preghiera, in un momento ancora di transizione tra la morte corporea e la resurrezione. Mentre in primo piano si sviluppa quindi il tema sacro principale, lo sfondo della lamina di metallo diventa una sorta di “foglio metallico” su cui incidere i simboli della passione di Gesù. Tra le immagini più iconiche riconosciamo la corona di spine, il bacio di Giuda, le mani di Pilato, la colonna della flagellazione, il gallo, i dadi, la lancia e la scala. In alto negli angoli si fronteggiano il sole e la luna entrambi dall’ aspetto umanizzato, metafora della partecipazione dell’intero universo alla passione.
Viene datata alla prima metà del Cinquecento la statua in legno di pioppo, pregevole opera di bottega veneto-lombarda che omaggia a figura intera Niccolò III Orsini in vesti marziali (fig.11). La provenienza di area settentrionale è da attribuire al ruolo dell’Orsini, grande condottiero per la Repubblica veneta, ricordato dalla Serenissima come uno tra i più grandi comandanti dell’esercito veneziano e per questo omaggiato con un monumento funebre nella Basilica di San Giovanni e Paolo, accanto ai sepolcri dei Dogi. Originariamente policroma, la scultura celebrativa soprattutto delle virtù militari del signore evoca in modo realistico le caratteristiche fisiche dell’Orsini confermate anche dalla ritrattistica che ci è giunta, e si sofferma con molta attenzione sui dettagli dell’armatura, anche questi particolarmente attenti al dato reale.
Tra le opere di Palazzo Orsini non si potrà non notare inoltre un piccolo ma raffinatissimo pezzo della bottega dei Della Robbia (XV secolo), di provenienza dubbia, e forse unico superstite di una pala in rilievo nei classici toni monocromi della terracotta invetriata raffigurante una Madonna con Bambino (fig.12). Colpisce la delicatezza di questo unico frammento in cui il solo fatto di poter osservare il volto di Maria non lascia spazio ad altre distrazioni; anche se di dimensioni ridotte è infatti immediatamente riconoscibile la maestria che caratterizza questa famiglia di artisti nel definire con pochi tocchi di colore un ovale perfetto dalla bellezza immacolata e al contempo viva di sentimenti.
Concludiamo questa rapida panoramica tra le opere del museo con la tavola raffigurante L’Assunzione di Maria di Girolamo di Benvenuto (1470-1524), figlio di Benvenuto di Giovanni, famiglia di artisti senesi che subì precocemente l’influenza della scuola fiorentina (fig.13). L’opera rappresenta al centro il miracolo dell’Assunzione, in cui la figura di Maria appare ieratica e salda nella sua monumentalità, avvolta in un velo bianco che presenta un elegante motivo arabescato: ai lati una schiera di santi e angeli musici presenzia all’evento divino mentre sul piano terreno assistono alla scena i santi Tommaso, Girolamo e Francesco. La tavola, proveniente dal convento della SS. Trinità di Selva, conserva la stessa identica composizione dell’Assunzione della Vergine nella chiesa dei Santi Sebastiano e Fabiano ad Asciano, affresco attribuito alla mano di Benvenuto di Giovanni, a cui si pensa però che abbia collaborato anche il figlio (fig.14). Sebbene il tentativo ben riuscito di una perfetta imitazione, nell’opera di Pitigliano Girolamo di Benvenuto sembra superare gli insegnamenti paterni dimostrando una maggiore consapevolezza dei volumi e nella modulazione delle luci e ombre. L’utilizzo della tecnica a tempera su tavola restituisce inoltre una lucentezza dei colori molto più viva che produce un effetto smaltato e permette di giocare su la preziosità di certi dettagli; se infatti ad una prima occhiata l’apparizione miracolosa sembra il solo accadimento, ad uno sguardo più attento si potrà notare sullo sfondo un brulicare di quotidiane situazioni che ingentiliscono la scena collocandola in uno scenario terreno (fig.15-16-17). Gran parte del fondale è occupato da un paesaggio marino circoscritto da lievi montuosità e popolato da imbarcazioni più o meno grandi di cui sorprendono certe minuscole particolarità realizzate con l’attenzione di un miniaturista: sulla terra ferma cavalieri, gentiluomini a passeggio e strutture architettoniche di fantasia impreziosiscono lo scenario stemperando con le leggerezze della vita quotidiana l’austerità del momento divino; colpisce inoltre la maestria dell’artista nella realizzazione di certe figurine in nero dai tratti stilizzati, definiti con brevissimi tocchi di pennello e rapide lumeggiature.
Bibliografia
I trionfi degli Orsini: gli affreschi ritrovati, a cura di Marco Monari, Pitigliano (Gr) 2013.
Corridori, Il Palazzo Orsini di Pitigliano nella storia e nell’arte: dai conti Aldobrandeschi ai conti Orsini, dai granduchi di Toscana ai vescovi di Sovana, Firenze 2004.
Sitografia
Su Jacopo della Quercia: https://www.treccani.it/enciclopedia/jacopo-di-piero_%28Dizionario-Biografico%29/#:~:text=JACOPO%20di%20Piero%20(Jacopo%20della,334
Su Benvenuto di Giovanni: https://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-di-giovanni_%28Dizionario-Biografico%29/
Su Girolamo di Benvenuto: https://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-di-benvenuto-di-giovanni_%28Dizionario-Biografico%29/
VALLE DI NON. STORIA E ARTE DEL PALAZZO ASSESSORILE DI CLES
A cura di Alessia Zeni
Tra i luoghi più frequentati della borgata di Cles, capoluogo della suggestiva Valle di Non, vi è Piazza Municipio, al centro del paese. La piazza è circondata da edifici storici e tra questi emerge la dimora castellana di Palazzo Assessorile, oggi sede espositiva, centro di eventi e convegni, luogo per concerti, laboratori teatrali e cerimonie. Un vero e proprio castello, trasformato in dimora signorile, al centro del paese.
Storia del Palazzo Assessorile di Cles
Il Palazzo venne probabilmente costruito nel XIII secolo come casa-torre con recinto; nel primo documento, datato 2 maggio 1356, il Palazzo è descritto come una torre di tre piani con locali per conservare riserve alimentari e per dare ospitalità a soldati e viandanti.
Il Palazzo fu per qualche tempo in possesso dei signori di Sant’Ippolito che nel 1447 lo cedettero alla famiglia nobile dei da Cles che vi fece ampliamenti e restauri. Nella seconda metà del Quattrocento, il barone Giorgio de Cles intraprese una ristrutturazione complessiva, realizzando un maestoso palazzo civico con lo stemma dei Cles dipinto in facciata e la data 1484 (Fig. 2). Nel Cinquecento il Palazzo divenne una nobile dimora, grazie all’opera di Aliprando Cles, cavaliere e nobile dell’Impero Asburgico, capitano delle Valli di Non e di Sole, e nipote di Bernardo Cles, cardinale e principe-vescovo di Trento dal 1514 al 1539. Aliprando decise di trasferire la sua dimora nel palazzo, dove abitò insieme alla moglie Anna Wolkenstein e dove fece decorare le sale dai maggiori artisti del periodo. La dimora fu trasformata in un’elegante residenza rinascimentale e le pareti furono ornate con affreschi che dovevano esaltare l’unione matrimoniale e il prestigio delle due famiglie.
Nel 1677 la Magnifica Comunità di Cles acquisì il palazzo per il rappresentante del Principe Vescovo di Trento, l’Assessore delle valli di Non e Sole, che all’interno vi amministrava la giustizia della valle; da questo momento la residenza degli antichi nobili da Cles fu chiamata Palazzo Assessorile.
Nel 1814, in epoca napoleonica, il terzo piano di Palazzo Assessorile venne ufficialmente adibito a carcere, anche se in realtà era utilizzato in tal modo già da decenni, e tale rimase fino al 1975. All’interno delle stanze signorili del terzo piano furono erette delle divisorie e le pareti furono rivestite con un doppio tavolato in legno di larice per rendere meno malsana la detenzione.
Con l’avvento del Regno d’Italia l’edificio passò ad uso della Giudicatura di Pace che vi stabilì i magazzini del Sale e dei Tabacchi. Nel 1962 i piani del Palazzo vennero adibiti a uffici comunali, archivi, azienda elettrica, carceri e alloggio per il custode. Infine, nel 2009 furono effettuati importanti lavori di restauri all’intero del Palazzo Assessorile e grazie a questi interventi sono stati scoperti i pregiati affreschi che ornavano le pareti del terzo piano del Palazzo, oscurati dalle modifiche che lo avevano visto diventare carcere dal 1814 al 1975.
Il Palazzo Assessorile di Cles
La struttura esterna di palazzo Assessorile appare oggi molto austera e tipicamente medievale, gli unici elementi di decoro sono dati dall’elegante balconcino e dalle bifore arabescate che marcano il secondo piano della facciata (Fig. 1).
All’interno, invece, emergono ambienti sontuosi ed eleganti, riccamente decorati dagli affreschi di gusto rinascimentale del maestro Marcello Fogolino, autore degli affreschi di Castel Cles e del Magno Palazzo di Trento (Castello del Buonconsiglio). Il Palazzo è suddiviso in quattro piani: al pianoterra e al primo piano vi erano i locali di deposito e di servizio, al secondo piano i locali pubblici, dove la famiglia Cles amministrava il territorio e riceveva i suoi delegati, mentre all’ultimo piano vi erano i locali privati della famiglia, poi trasformati in carcere, i cui affreschi sono stati scoperti nell’ultimo restauro.
Il pianoterra
La Sala della Colonna, situata a pianoterra, è caratterizzata da quattro volte a crociera che si appoggiano su un pilastro centrale a conci di pietra a vista. In epoca medievale il Palazzo era una casa-torre, una struttura di dimensioni ridotte rispetto all’edificio odierno e il cui perimetro corrispondeva alle mura di questa sala. La struttura medievale del Palazzo è rimasta invariata fino agli interventi voluti da Giorgio de Cles, intorno al 1484, quando la casa-torre fu attaccata e gravemente danneggiata dalle rivolte contadine del 1407 e del 1477.
Il primo piano
È oggi adibito a spazio espositivo. A nord-ovest si ripropone la struttura della casa-torre con un’altra Sala della Colonna, posta in corrispondenza di quella al piano terra. A sud si aprono tre stanze, costruite con l’ampliamento di fine Quattrocento, recanti resti di una decorazione a tappezzeria bianca e rossa, colori del casato Cles, e labili tracce di affreschi risalenti al Medioevo. In epoca medievale questo piano era la sede della cucina e delle stanze delle donne di servizio.
Il secondo piano
Salendo la scala verso il secondo piano si entra in una serie di sale riccamente decorate ad affresco, grazie alla committenza di Aliprando de Cles e della moglie Anna Wolkenstein. Nel Cinquecento Aliprando de Cles, nipote del famoso Cardinale Bernardo Cles, decise di utilizzare il palazzo come residenza per sé e la moglie Anna Wolkenstein. All’epoca, i nobili risiedevano fuori dall’abitato per paura delle rivolte popolari, ma il Capitano e la Contessa, con un atto di coraggio e di fiducia, decisero di stabilirsi proprio in questo palazzo, al centro di Cles. L’austero palazzo medievale divenne così una maestosa residenza rinascimentale con stanze ornate di originali tappezzerie e preziosi affreschi. Le immagini, i colori, le simbologie, raccontano la meravigliosa storia d’amore di Aliprando e Anna e tutte le sale del palazzo sono magnificamente affrescate con tappezzerie bianche e rosse e grottesche con scene mitologiche.
Una stanza incantevole per i magnifici affreschi attribuiti a Marcello Fogolino è la Sala Baronale o del Giudizio (Fig. 3). La stanza è interamente affrescata con motivi decorativi bianchi e rossi e un fregio affrescato nella fascia superiore con figure allegoriche che richiamano la fedeltà, la castità, la passione e l’abbondanza dell’amore coniugale, ma anche l’ammonimento del non cedere alle passioni terrene. Qui spicca la personificazione dell’Amicizia, rappresentata come una figura femminile vestita di rosso, simbolo della concordia coniugale, della carità e dell’amore verso il prossimo. Al centro della cornice il cartiglio con la scritta “Quam fauste nil fictum in aurum semper idem”, che significa: “Quanto faustamente niente di finto si amalgama all’oro rimane sempre uguale”. La frase non sembra ricondursi ad una precisa fonte letteraria, ma è chiaro l’augurio alla coppia di Aliprando e Anna.
Luogo nevralgico di tutto il palazzo, sempre al secondo piano, è il Salotto del balcone, vero gioiello dell’arte cinquecentesca trentina. Il Salotto del balcone è completamente dedicato alla grandezza del barone Aliprando, il cui nome campeggia in tutta la stanza attraverso crittogrammi e leoni bianchi e rossi, tratti dallo stemma di famiglia (Fig. 4).
Nella stanza occidentale del secondo piano merita particolare attenzione il piccolo locale dell’erker, un tempo luogo intimo riservato alle donne della famiglia Cles, ma oggi scelto come luogo di celebrazione dei matrimoni civili. Ambiente reso intimo dalla volta a crociera dipinta con la raffigurazione delle Quattro Stagioni e decorata da romantiche frasi che suonano come un vero e proprio augurio per le coppie che si accingono a cominciare una vita insieme. Nelle lunette della crociera è rappresentato l’Inverno, personificato da un vecchio con la barba lunga (Fig. 7); la Primavera vestita di verde e giallo-oro accanto a due amorini, uno bendato con arco e frecce e l’altro che regge una fiaccola (Fig. 6); l’Estate è rappresentata da Cerere che regge una cornucopia da cui traboccano fasci di spighe e frutta; infine, l’Autunno da Bacco circondato da putti che gli porgono grappoli d’uva e servono vino (Fig. 5). Nelle vele della crociera sono, invece, dipinti dei versi in volgare, su cartigli srotolati, in un cielo notturno e stellato con le raffigurazioni della luna e del sole: “Da queste luci il splendore nostro rinasce” e “Cossi risplende dun cortese il nome”.
Il terzo piano
Già dalla fine del Cinquecento, dopo che Anna e Aliprando lasciarono gli appartamenti della dimora castellana, il terzo e ultimo piano tornò alla sua funzione carceraria e i detenuti vennero reclusi nelle stanze affrescate sulle cui pareti incisero firme, pensieri, date, disegni e drammatiche testimonianze (Fig. 8). Con i lavori di restauro conclusi nel 2009, il terzo piano ha completamente cambiato la propria fisionomia carceraria e gli antichi affreschi sono tornati alla luce.
Il terzo piano ospitava le stanze più riservate, la Stanza degli dèi (Fig. 10), la Stanza di Apollo (Fig. 9), la Stanza del Camino e altri locali che sono stati affrescati in modo sublime recuperando motivi mitologici e rappresentazioni bibliche (Fig. 11).
Ma a dominare l’ultimo piano è la Stanza di Anna adornata con rari affreschi a monocromo che inneggiano al nome e alla figura della baronessa Anna Wolkenstein, rappresentata insieme alla sua corte in una magnifica Caccia col falcone. Questi affreschi sono un inno figurativo all’emancipazione della donna, che in quel periodo stava diventando un tema molto sentito: da queste immagini si deduce che Anna doveva essere una donna di grande spessore culturale e politico e non certo la semplice consorte di Aliprando (Figg. 12-15).
Un palazzo dalle mille sfaccettature storiche e artistiche; punto di riferimento per la comunità della Valle di Non, poiché da qui si amministrava il territorio, si intrecciavano relazioni fra popoli e culture dell’intera Europa e oggi cuore nevralgico delle attività culturali dell’intera vallata.
Bibliografia
Nicolò Rasmo, Affreschi e sculture. Beni Culturali del Trentino. Interventi dal 1979 al 1983, PAT, 1983, p. 54
Domenica Primerano, Bernardo Clesio Signore del Rinascimento, Trento, 1984, pp. 89-96
Lucia Longo, Grottesche e motivi dell’antico nei fregi di alcune dimore gentilizie, Trento, Artigianelli, 1999
Luca Siracusano, Il Palazzo Assessorile di Cles e le grottesche fogoliniane, in Eleonora Callovi, Luca Siracusano (a cura di), Val di Non storia, arte e paesaggio, Trento, Temi, 2005, pp. 101-103
Roberto Luchini, Palazzo Assessorile a Cles, in “Val di Non Antica Anaunia - Le Tre Venezie”, 20, 129, Treviso, La Grafica Faggian, 2014, pp. 94-101
Marcello Nebl, Palazzo Assessorile si presenta, Cles, Comune di Cles, 2015
LA PALA SFORZESCA
A cura di Alice Savini
La Pinacoteca di Brera è uno scrigno di tesori che raccoglie secoli e secoli di storia di Milano; per ogni quadro esposto si può andare oltre la qualità pittorica e compositiva per addentrarsi nelle vicende storiche dei personaggi che hanno scritto la storia della città di Milano, come nel caso de La Pala Sforzesca.
Si tratta di una tavola dipinta a olio di notevoli dimensioni (cm 230 x 165) esposta nella sala XV della Pinacoteca di Brera. La sua storia è legata a quella dell’uomo più potente della Milano di fine Quattrocento: Ludovico il Moro.
Ludovico il Moro Duca di Milano
Ludovico il Moro, il cui vero nome è Ludovico Maria Sforza, nasce il 27 luglio del 1452, quarto figlio di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Alla morte del padre nel 1466, il fratello maggiore Galeazzo Maria diviene Duca di Milano. Morto assassinato Galeazzo Maria, il suo posto viene preso, nel 1476, da Gian Galeazzo Maria Sforza, suo figlio, che aveva solo sette anni. Ludovico cerca di opporsi alla reggenza della madre di Gian Galeazzo Maria, Bona di Savoia, che di fatto affida il ducato a Cicco Simonetta, suo consigliere di fiducia. Insieme al fratello Sforza Maria, tentano di batterlo con le armi ma inutilmente: Ludovico è costretto all’esilio in Toscana mentre il fratello muore avvelenato. Poco tempo dopo si riconcilia con la cognata Bona riuscendo poi ad allontanare Simonetta e la stessa Bona, che si stabilisce nel castello di Abbiate (Abbiate Grasso). Incomincia così il periodo di reggenza in vece del nipote. Dotato di grandi abilità diplomatiche e senza scrupoli, il potere di Ludovico accresce sempre di più: si allea con Lorenzo il Magnifico, intrattiene buoni rapporti con papa Alessandro VI Borgia e con il re di Napoli Ferdinando I, la cui nipote, Isabella d’Aragona, sposa Gian Galeazzo Maria. Ludovico, invece, sposa nel 1491 la figlia del duca di Ferrara Ercole I d’Este, Beatrice, e diventa padre di due figli, Massimiliano e Francesco. Fu un periodo molto prolifico per le arti a corte, grazie alla presenza di Bramante e del toscano Leonardo Da Vinci. Proprio il secondo ritrae Cecilia Gallerani, amante di Ludovico il Moro, nel celebre Ritratto di dama con l’ermellino (attualmente conservato a Cracovia) e ritrae Lucrezia Crivelli, molto probabilmente un'altra amante del Moro, nella Belle Ferronnière (quadro attualmente esposto al Louvre). Ludovico si fregia del titolo di duca anche se in realtà, a livello formale, esso spetterebbe a Gian Galeazzo, nel frattempo trasferitosi a Pavia dove ha creato una sua corte. Nel 1494, alla morte sospetta del nipote Gian Galeazzo Maria, Ludovico può finalmente regnare da solo, anche se il periodo prospero dura poco: dopo una serie di alleanze, tradimenti e battaglie, che lo vedono impegnato contro Firenze e Venezia, il ducato viene conquistato e occupato dalle truppe francesi nel 1499. Mentre Milano perde la propria indipendenza, dando inizio a un dominio straniero che durerà più di tre secoli e mezzo, Ludovico viene catturato dai francesi a Novara il 10 aprile. Viene tenuto prigioniero fino al giorno della sua morte, quando si spegne all'età di 55 anni nel Castello di Loches, in Francia, il 27 maggio 1508.
La Pala Sforzesca
La pala viene realizzata su commissione di Ludovico il Moro dopo il 1494, per ribadire la legittimazione del potere dopo la morte sospetta del nipote, attuando una vera e propria opera di propaganda. Destinata per la chiesa di Sant’Ambrogio a Nemus, entra a Brera nel 1808 a seguito delle soppressioni napoleoniche.
In una sfarzosa cornice architettonica ricca di elementi decorativi preziosi, si sviluppa una sacra conversazione con Madonna e Bambino in trono accompagnati dai Dottori della Chiesa: Sant’Ambrogio (con l’attributo tradizionale dello staffile), San Gregorio Magno (in abiti papali), Sant’Agostino (reggente in mano un libro) e San Girolamo (vestito con il manto rosso). In aria si librano due angeli recanti tra le mani la corona ducale, posta sulla testa delle Vergine. Alla scena assistono, inginocchiati in un rigido profilo dal sapore arcaico, il nuovo duca di Milano, Ludovico il Moro, Beatrice d’Este e i due figli: il primo, ancora in fasce, è il primogenito, Ercole Massimiliano, figlio di Beatrice; l’altro è Cesare, figlio illegittimo del Moro avuto con l’amante Cecilia Gallerani. La presenza di un figlio illegittimo in un ritratto ufficiale può sembrare strana oggi, ma ai tempi erano alquanto tollerati. Inoltre, la moglie Beatrice non nutrì mai nei suoi confronti alcun tipo di ostilità, lasciandolo crescere nella corte insieme ai propri figli. Il secondogenito del Duca, Francesco, se si considera il 1494 come anno di esecuzione della tavola, non poteva essere ritratto nel dipinto poiché ancora nel grembo materno.
Il Moro è presentato alla Vergine e al Bambino da Sant’Ambrogio, vescovo e protettore di Milano; il gesto ha un forte valore simbolico in quanto il santo, in questo modo, diviene garante per il duca posto di fronte alla Vergine e al Bambino, che si protende verso di lui in atto benedicente. Il nuovo Duca sta per essere incoronato con la preziosa corona dorata, indicando quindi una legittimazione divina del suo potere temporale.
I ritratti dei duchi sono spesso accostati a quelli che si trovano nel dipinto di Donato di Montorfano nel refettorio delle Grazie, sulla parete opposta a quella dove si trova l’Ultima Cena, per la stessa posizione e la rigidità delle figure. Nel dipinto, il chiaroscuro accentuato nella definizione dei volti e gli esibizionismi prospettici sono evidenti forzature degli insegnamenti di Leonardo e Bramante. A queste componenti si aggiungono gli arcaici ritratti araldici di profilo, l’ostentazione degli ori, dei gioielli e dei tessuti della corte più ricca d’Italia: il risultato è un dipinto caricato all’estremo, ancora legato a un passato glorioso che sta progressivamente scomparendo e segnando la fine della signoria milanese degli Sforza.
Il Maestro della Pala Sforzesca
Il mistero che cela la tavola è il nome del suo autore. L’opera è stata variatamente attribuita a Vincenzo Foppa, Bernardo Zenale o Ambrogio de Predis; per alcuni critici viene considerata, per l’armoniosa modulazione chiaroscurale, vicina alla scuola leonardesca. Ad oggi è attribuita a un anonimo Maestro della Pala Sforzesca (notizie dal XV secolo al XVI secolo) la cui mano è stata ritrovata anche in altre opere, e la cui pittura è caratterizzata da una decorazione sfarzosa data da un ampio utilizzo della foglia oro, dal sapore tardogotico, unita alla sensibilità realistica della tradizione foppesca e ai contrasti chiaroscurali di matrice leonardesca.
Attraverso diversi riscontri stilistici gli studiosi sono stati in grado di attribuire una serie di opere alla mano del Maestro della pala Sforzesca, alcune di queste sono: La Madonna con bambino con Santo e Donatore del Museum of Fine Arts di Huston, la Madonna in Trono con donatori e Santi alla National Gallery di Londra, una Madonna con Bambino alle Gemäldegalerie di Berlino e i tondi con gli Apostoli custoditi alla pinacoteca del Castello Sforzesco.
Bibliografia
Silvia Bellini, in Brera: guida alla Pinacoteca, a cura di Laura Baini, Milano, Electa, 2004
Mina Gregori, Pittura a Milano: Rinascimento e Manierismo, Milano, Cariplo, 1998
Ludovico Sforza, detto il Moro, duca di Milano, Enciclopedia Treccani
Sitografia
https://cultura.biografieonline.it/dama-ermellino-leonardo/
https://cultura.biografieonline.it/louvre/
https://cultura.biografieonline.it/leonardo-belle-ferronniere/
LA TORRE DI ORIOLO DEI FICHI
A cura di Francesca Strada
Introduzione
Tra i posti di maggior interesse del comune di Faenza spicca sicuramente la Torre di Oriolo dei Fichi, situata nell’omonima frazione rurale sui primi accenni di appennino romagnolo. Si tratta di un sito abitato fin dall’antichità, il cui nome discenderebbe presumibilmente da “Auriolus”, termine derivante dal latino, usato per indicare un piccolo torrente; in dialetto romagnolo locale, infatti, è in uso il termine “Uriòl” per definire i piccoli corsi d’acqua. Al XVI secolo risale la prima attestazione del toponimo completo “Oriolo dei Fichi”, verosimilmente riconducibile alla coltivazione della pianta da frutto, ampiamente praticata in questa zona anche al giorno d’oggi.
Storia
Alcuni ritrovamenti lapidei nei pressi della Torre hanno portato all’ipotesi, che in epoca romana quivi sorgesse una necropoli; in seguito, più precisamente durante il periodo di dominazione dell’Esarcato d’Italia, sarebbe sorto sull’area un piccolo complesso d’avvistamento per il controllo della Romagna. Dall’attuale torre sono infatti chiaramente visibili Forlì, Monte Poggiolo, Bertinoro e, nelle giornate più limpide, è possibile scorgere il grattacielo di Cesenatico. Nel corso del Basso Medioevo, in questo luogo sorse un castello di modeste dimensioni, che torreggiava sull’Oriolo di allora, ovvero un piccolo comune rurale indipendente dalla città manfreda. La modesta fortificazione venne sostituita nel secolo successivo con la torre attuale, voluta dalla famiglia Manfredi, signori di Faenza.
La Torre
La torre di Oriolo presenta una forma unica al mondo, si tratta di un esagono irregolare con due punte rivolte verso le aree da cui poteva provenire un potenziale attacco nemico, lo scopo era quello di ridurre la potenza del colpo di eventuali palle di pietra; l’edificio presenta anche una muratura dello spessore di 2,8 metri. Un’ottima strategia di difesa adottata dai costruttori è quella di porre l’accesso ad un piano più elevato, in tal modo sarebbe stato impossibile per un ariete lo sfondamento della porta, garantendo più a lungo la difesa della torre. La scala a chiocciola, che consente l’accesso a tutti i piani dello stabile, si avvolge attorno al pozzo, dal quale era possibile attingere l’acqua ad ogni piano dell’edificio.
Entrando, ci si ritrova nell’ambiente più utilizzato dalla guarnigione militare: la Sala delle Guardie. La stanza è provvista di una nicchia di grandi dimensioni con dei fori nelle pareti laterali, adoperati per montare un soppalco, allo scopo di ricavare più giacigli per i soldati. La posizione della nicchia non consentiva alla luce di illuminare i letti, permettendo di riposare diurnamente a coloro che avevano svolto il turno di guardia notturno. L’ambiente è anche provvisto di un gabinetto d’epoca e di una postazione di tiro.
Scendendo all’ambiente inferiore, si giunge alla Sala del Forno, così chiamata per la presenza del forno per la preparazione del pane. Quivi è possibile vedere la cisterna interrata, che presenta due insoliti blocchi in spungone, una roccia reperibile solo in Romagna, che proverebbero dai resti di uno degli edifici preesistenti, essendo la fortificazione quattrocentesca realizzata in mattoni. La cisterna venne riempita di terra nel XIX secolo, poi rimossa nei primi anni duemila, riuscendo a riportare alla luce dei reperti ceramici databili tra il Trecento e il Cinquecento, probabilmente piatti e stoviglie utilizzati dai soldati.
Sopra all’ambiente destinato alle guardie, è presente la Sala del Castellano, così chiamata perché destinata al capitano delle guardie; essa, infatti, è dotata di un gabinetto personale di una dimensione maggiore rispetto a quello inferiore, di un ripostiglio, di scomparti nel muro e di un grande camino, in uso ancora oggi durante alcune festività come i Lòm a Mêrz, un’antico rito delle campagne. La Sala del Castellano diede alloggio per una notte anche a Cesare Borgia, durante l’ultimo periodo di dominazione sul territorio. La stanza, coronata da una volta a botte, conserva una parte di intonaco del XIX secolo, aggiunto dalla famiglia Caldesi, il quale non fu rimosso durante i restauri perché conservava alcune incisioni novecentesche, testimoni della fase di incuria del secolo scorso.
Salendo di un altro piano, si accede ad uno spazio molto particolare; si tratta, infatti, di un corridoio circolare con svariate postazioni di tiro, costruito attorno ad una polveriera. Questo ambiente, meglio noto come il Corridoio dell’Archibugiere, non è databile al periodo di dominio manfredo, bensì alla dominazione veneziana e lo si deduce dalle misure delle postazioni, le quali corrispondono a quattro braccia venete ciascuna. L’arma impiegata per la difesa era generalmente l’archibugio, dal quale deriva il nome stesso del corridoio; si trattava però di un mezzo che produceva una grande quantità di fumi che in un ambiente così angusto avrebbero rishciato di soffocare i soldati. Da qui la scelta di dotare ogni postazione di un camino che permettesse la fuoriuscita dei gas.
La polveriera, nella sua posizione centrale, godeva di una notevole protezione dagli attacchi nemici, evitando così un’eventuale esplosione. Il piccolo stanzino sembrerebbe essere antecedente e riconducibile alla famiglia Manfredi, esso è dotato inoltre di una stupenda volta a spina di pesce, attribuita proprio a quel periodo.
Salendo ulteriormente, si accede allo splendido terrazzo panoramico, da cui si gode di una vista completa dei comuni circostanti. Sono ben visibili anche alcune fortificazioni, come quella di Monte Poggiolo, dalle quali era possibile comunicare con segnali luminosi. L’importanza strategica dell’appostamento divenne sempre più rilevante con l’alleanza stretta tra i Manfredi e i Medici di Firenze, i quali controllavano la zona del sopraccitato avamposto di Monte Poggiolo. L’aspetto attuale del piano non corrisponde all’idea originale, che subì delle modifiche nel XVIII secolo e fu anche vittima di un bombardamento durante la Seconda guerra mondiale, ma garantisce comunque un’idea della visuale che avevano gli armigeri.
Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.
Bibliografia
Stefano Saviotti, La Torre di Oriolo – Storia di una rocca e del suo territorio, Tipografia Valgimigli
SCUOLA DI ATENE PT III
A cura di Andrea Bardi
I personaggi
Un’altra delle novità apportate da Raffaello nella Scuola – elemento prontamente rilevato da Most – è la straordinaria ricchezza del parterre di personaggi, che da un manipolo (Pinturicchio, Perugino) arrivano a sfiorare l’incredibile numero di sessanta unità. Alcuni di questi personaggi, nota ancora Most, sono stati individuati senza particolari difficoltà già dal Vasari: il gruppo centrale, con Platone e Aristotele (con le fattezze di Leonardo e di Bastiano da Sangallo, fig. 1), ma anche le figure di Diogene (fig. 2), Donato Bramante, nei panni di Euclide (fig. 3) e di Raffaello (nei panni di Apelle, fig. 4). L’aretino, tuttavia, commise alcuni grossolani errori di valutazione, identificando addirittura dei “Vangelisti” e un “San Matteo”[i]. A queste figure Bellori aggiunse Socrate, “calvo”[ii], Pitagora (Fig. 5), Empedocle, Epicarmo e Archita, ipotizzando anche la presenza di Francesco Maria della Rovere, nipote del pontefice, nel “nobil giovinetto ammantato fino al collo in candido manto fregiato d’oro con la mano al petto” (fig. 6). Particolare rilievo ha assunto anche Eraclito (fig. 7), personaggio non presente nel cartone preparatorio dell’Ambrosiana (fig. 8) e comunemente associato a Michelangelo Buonarroti.
Oltre a queste suggestioni, si è altresì già fatto accenno a come, nell’Ottocento e in piena temperie positivistica, le ricerche sulla Scuola – nello specifico, quelle relative all’identificazione precisa dei personaggi – avessero raggiunto un livello quasi “isterico” e maniacale. Tale “isteria identificativa” fa capo a Johann David Passavant (Raffaello d’Urbino e il padre suo, Giovanni Santi, 1839), il quale volle leggere, sulla scorta delle Vite dei Filosofi di Diogene Laerzio, l’intera scena come il dispiegamento cronologico della filosofia antica, dai primordi (i presocratici, in alto a sinistra) al suo massimo sviluppo (Platone e Aristotele, al centro) fino all’inevitabile declino (in basso a destra, le scuole filosofiche del periodo imperiale). Fu solo nel 1883 che Anton Heinrich Springer (La “Scuola di Atene” di Raffaello) “riuscì a dimostrare […] la futilità di questo sforzo interpretativo semplicemente stilando sotto le figure una lista delle varie identità proposte dai diversi studiosi”[iii]. Ribadita, in sede successiva, anche da Heinrich Wolfflin (L’arte classica. Introduzione al Rinascimento Italiano, 1924), questa tesi è accolta anche da Most, che non ritiene necessario identificare ogni personaggio al fine di arrivare ad una comprensione esaustiva dell’affresco.
Nel corso del Novecento, tuttavia, alcuni dati precedentemente accettati sono stati messi in questione. Prima Konrad Oberhuber (Raffaello. Il Cartone per la Scuola di Atene, 1972) e poi Giovanni Reale (La Scuola di Atene di Raffaello, 2005) hanno rivolto la loro indagine sul presunto ritratto di Francesco Maria della Rovere. Entrambi gli studiosi, ribaltando il pensare comune, hanno avanzato l’ipotesi che la figura efebica, vestita di bianco, potesse raffigurare l’ideale greco della kalokagathia, formula con la quale si riassume la concezione ellenica di “Bello/Bene”.
Negli anni Novanta, poi, Daniel Orth Bell (New Identifications in Raphael’s School of Athens, 1995) ha messo in discussione anche l’identificazione di uno dei personaggi di sinistra con Socrate. Lo storico, partendo dall’identificazione della figura vicina, in abiti militari – comunemente associata ad Alcibiade – con Pericle, ha sostituito il filosofo “calvo” e dal “naso camuso” (fig. 9) con Anassagora, che di Pericle fu maestro. Anassagora – sostiene Bell – sosteneva che l’universo si ordinasse in distinti livelli di materia organica. Proprio a quei livelli, dunque, sembrerebbe accennare Anassagora, ritratto dal pittore nell’atto di contare con la mano[iv].
Una simile considerazione complica di fatto la situazione, costringendo lo studioso a dover trovare un nuovo e credibile candidato per il ruolo di Socrate. Anche questa volta, tuttavia, Bell effettua un’operazione di sostituzione, individuando in Socrate il personaggio disteso sulle scale, fino a quel momento universalmente accettato come Diogene. La ciotola, che il filosofo cinico, in un episodio ben noto della sua vita, aveva lanciato ad un bambino che beveva con le mani, si trasforma nel contenitore della cicuta, il veleno che diede la morte, dopo un ingiusto processo, proprio a Socrate. La tesi di Bell verrebbe giustificata, inoltre, dalla presenza di due giovani nelle vicinanze (Crito e Apollodoro, che di Socrate erano discepoli), i quali non troverebbero giustificazione alcuna se associati a Diogene[v]. Quella di Bell è una suggestione affascinante, dal momento che rimetterebbe al centro della composizione “i tre filosofi greci più importanti”(trad.mia)[vi], riservando un posto marginale a Diogene, il quale andrebbe – a sua volta – a sostituire il presunto Plotino (fig. 10), un anziano uomo vestito con una semplice tunica rossa, un indumento che il padre della filosofia cinica aveva indossato fino al momento della sua morte. Il recupero di una centralità di Socrate – continua lo storico – ben si presterebbe, poi, ad un raffronto con la scena opposta, la Disputa del Sacramento. In una simile prospettiva, infatti, l’ingiusto sacrificio di Socrate verrebbe letto come un’anticipazione del sacrificio di Cristo[vii].
Bibliografia
Daniel Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, in “The Art Bulletin”, vol. 77, no. 4, New York, College Art Association, 1995, pp. 638-646.
Glenn W. Most, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo (1999), trad. it. di Daniela La Rosa, Torino, Einaudi, 2001.
Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, Roma, Stamperia di Giovanni Giacomo Komarek, 1695.
Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze, Giunti, 1568.
Note
[i] G. Vasari, Le Vite, p. 69.
[ii] G. P. Bellori, Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle da Urbino, p. 35.
[iii] G. W. Most, Leggere Raffaello: la “Scuola di Atene” e il suo pre-testo, p. 11.
[iv] D. Orth Bell, New identifications in Raphael’s School of Athens, p. 641.
[v] Ivi, p. 642.
[vi] Ivi, p. 643.
[vii] Ivi, p. 644.