L’ABBAZIA DI SAN MERCURIALE

A cura di Francesca Strada

 

 

 

Introduzione

L’abbazia è da sempre nell’immaginario collettivo un luogo di culto e di sapere, dove la religione e lo studio caratterizzano le giornate di coloro che la popolano. Nella città di Forlì è possibile ammirare una badia dalle origini assai antiche, il cui aspetto l’ha resa uno dei simboli della località: l’Abbazia di San Mercuriale. Ferita ma sopravvissuta ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, è un piccolo gioiello nel cuore della Romagna, insignita del titolo di “Basilica minore” nel 1958.

 

Storia

 

L'abbazia sorge sui resti di un'antica pieve, presumibilmente dedicata al protomartire, distrutta nel XII secolo da un incendio scatenato da disordini politici interni alla città, per poi essere ricostruita in nuove forme e dedicata a San Mercuriale, colui che, secondo i racconti, avrebbe impedito a un drago di continuare a terrorizzare gli abitanti con le sue empietà. Nel basso Medioevo, l’abbazia forlivese acquistò prestigio e divenne un punto di riferimento.

 

Il campanile

 

Con un’altezza di 72 metri, il campanile dell’abbazia svetta sulla città di Forlì, mostrandosi in tutta la sua imponenza. La sua importanza non è circoscritta alla provincia romagnola, ma si estende ben oltre, infatti, fu il modello studiato per la ricostruzione del Campanile di San Marco a Venezia dopo il crollo del 1902.

 

La facciata

La facciata del tempio è di stampo romanico, decorata da un rosone volto ad alleggerire la massiccia arcata centrale, nella quale spicca il portale in pilastri marmorei, sovrastato dalla lunetta dell’Adorazione dei Magi del XIII secolo, probabilmente ad opera del Maestro dei Mesi di Ferrara, che comprende, non solo l’incontro con la Vergine, ma anche il Sogno dei Magi, riportando alla memoria la celebre immagine del Capitello di Autun. Le figure presentano un rilievo estremamente marcato, parendo, a un occhio distratto, statue a tutto tondo.

 

Il Monumento funebre a Barbara Manfredi

 

Entrando nella chiesa, una giovane donna accoglie il visitatore, giace dormiente con il capo adagiato su un morbido cuscino, è Barbara Manfredi, moglie di Pino III Ordelaffi, signore di Forlì. Morta all’età di ventidue anni, la figlia del signore di Faenza fu tumulata nella chiesa di San Biagio, distrutta durante i bombardamenti; il monumento funebre venne quindi trasportato nell’abbazia. La straordinaria opera è frutto del lavoro dell’artista fiesolano Francesco di Simone Ferrucci.

 

La cappella dei Ferri

Fig. 9 - Cappella dei Ferri. Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=72352344.

 

Un nome del tutto singolare è quello della Cappella dei Ferri, forse in riferimento alle inferiate presenti nella cancellata marmorea al suo ingresso. Nella cappella possiamo trovare l’Immacolata col Padre Eterno in gloria e i santi Anselmo, Agostino e Stefano, una pala d’altare presentante una tavola centrale e una lunetta superiore, ad opera del celebre artista forlivese Marco Palmezzano, che qui lasciò alcuni dei suoi capolavori, conservati nel Museo Civico, ma anche nella basilica. Nella tavola i santi Anselmo e Agostino sono rivolti alla Madonna, che assorta contempla l’Eterno, mentre, alla destra di lei, Santo Stefano regge il Vangelo. Sullo sfondo, incastonata in uno splendido paesaggio montuoso, si scorge la città di Forlì con il campanile dell’abbazia.

 

La cappella Mercuriali

 

La navata di destra termina con una suntuosa cappella: la Cappella Mercuriali, richiesta da Girolamo Mercuriali, padre della fisiatria, per seppellire degnamente il figlio Giovanni. La personalità illustre di Girolamo valse al figlio una cappella altrettanto maestosa; uomo colto e ben istruito, il Mercuriali scrisse il primo trattato al mondo sulle malattie della cute e fu teorico della medicina sportiva, venne insignito del titolo di conte palatino dall’imperatore Massimiliano II.

 

La decorazione ad affreschi della cappella è di incerta attribuzione, ma si riconosce la mano di Ludovico Cardi nella pala di San Mercuriale che doma il drago e quella di Domenico Cresti nella Madonna e i Santi Girolamo e Mercuriale. Con un successivo restauro, la cappella fu destinata a uso famigliare e, per suo volere, quivi fu sepolto anche l’illustre medico, ricordato con una lapide commemorativa.

 

Il Chiostro dei Vallombrosani

 

Il complesso presenta un elegante chiostro, noto come il Chiostro dei Vallombrosani, costruito intorno al XV secolo, presenta al centro ancora uno splendido pozzo seicentesco, sfuggito ai danni bellici. Sul finire degli anni ’30, venne proposto il suo abbattimento per consentire un più agevole passaggio alla piazza retrostante; tuttavia, l’ingegnere Gustavo Giovannoni si oppose, proponendone il restauro e l’abbattimento del muro esterno per creare una via d’accesso senza distruggere quest’opera secolare.

 

Bibliografia

Marco Viroli e Gabriele Zelli, Forlì. Guida alla città, Diogenebooks, 2012


LA CHIESA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA A RAVENNA

A cura di Francesca Strada

 

 

Uscendo dalla stazione di Ravenna e proseguendo per Viale Farini vi capiterà di vedere una chiesa che sembra trovare una dimensione tutta sua, fuori dal tempo, tra le case e i negozi moderni di una delle strade più trafficate della città. È un luogo la cui vista trasmette immediatamente un senso di pace ed equilibrio, ricordando quasi un locus ameno. Si tratta della chiesa di San Giovanni Evangelista, o dei santi Nicandro e Marciano; l’anno della sua costruzione, risalente al 425 d.C., rende l’edificio il luogo di culto cristiano più antico di Ravenna. Nonostante i secoli, le intemperie e la guerra, la chiesa è ancora lì per sorprenderci con il suo fascino e per narrare un passato ormai lontano, che non smette mai di incuriosirci e stupirci.

 

La chiesa venne costruita per volere dell’imperatrice Galla Placidia, in seguito a un voto fatto all’Evangelista, in cambio della sopravvivenza al viaggio da Costantinopoli a Ravenna; il santo, infatti, veniva venerato come protettore dei navigatori. Giunta a Ravenna, Galla Placidia mantenne fede al suo voto e fece erigere lo splendido monumento. L’attuale aspetto dell’edificio è frutto di un attento restauro in seguito ai bombardamenti alleati nel 1944, che danneggiarono gravemente la struttura e l’abside, lasciando però in piedi il campanile, la cui vetta raggiunge i 42 metri.

 

 

A seguito di questo evento andarono perse le decorazioni a mosaico presenti nell’abside; tuttavia, possiamo oggi ammirare sulle pareti laterali i resti di una pavimentazione a mosaico del XIII secolo, voluta dall’abate Guglielmo, raffigurante la storia d’amore tra una giovane e un crociato, accompagnata da piante e animali.  Tra essi spiccano il lupo e il cervo, che rappresentano rispettivamente il demonio e l’anima purgante; la sirena tentatrice, come monito a non seguire le tentazioni, che portano l’uomo alla rovina; il grifone, che nel suo essere tanto terrestre quanto celeste raffigura Cristo stesso; i pesci, chiaro riferimento all’acrostico “Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr” = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Inoltre, la IV crociata, bandita da papa Innocenzo III per contrapporsi alla politica espansionistica del sultano egiziano, è un tema ricorrente nelle opere dell’epoca.

 

 

La decorazione esterna

Un contributo per la decorazione esterna della chiesa deriva dalla nobiltà cittadina. Infatti, a Lamberto da Polenta, signore di Ravenna, sopraggiunse la morte nel 1316 e grazie al suo lascito testamentario ai benedettini di san Giovanni Evangelista, il cui convento era adiacente alla chiesa, venne costruito un quadriportico di cui oggi rimane solo il magnifico portale gotico. Il portale, costituito da un arco a sesto acuto, è decorato con pregevoli bassorilievi raffiguranti l’Apparizione di San Giovanni a Galla Placidia, accompagnati da gruppi di angeli. La decorazione del timpano, invece, rappresenta San Giovanni e l’imperatore Valentiniano III, facilmente individuabili dall’aureola e dalla corona; sui lati troviamo da una parte Galla Placidia, accompagnata dai soldati, e dall’altra San Barbaziano, mentre il Cristo redentore sovrasta tutte le figure.

 

La decorazione interna

Attraversato il portale si accede all’ingresso della chiesa, il cui interno è costituito da tre navate; quella centrale conduce all’abside, quella di sinistra termine con il diaconicon e quella di destra con la prothesis, che presenta al suo interno un altare del V-VI secolo e un affresco del XV secolo.

 

Le navate sono scandite da due filari di colonne con capitello corinzio di chiara origine romana, sui pulvini vediamo la croce rappresentata come albero della vita. La fisicità che caratterizza il culto cristiano nelle sue prime fasi porta i credenti a pensare, che l’albero della vita non sia una metafora, bensì un albero fisicamente presente nell’Eden, dal quale fu strappato un ramo da un angelo e poi deposto nella bocca di Adamo durante la sepoltura. Secondo la leggenda, l’albero crebbe e venne trovato da Salomone, che ne ordinò l’impiego durante la costruzione del tempio di Gerusalemme, ignaro della vera natura di quel legno. Fu la regina di Saba ad accorgersi del valore inestimabile dell’albero e così Salomone lo fece seppellire, ma prima della crocifissione di Cristo venne ritrovato e impiegato per la costruzione della Croce.

Sul lato sinistro della chiesa troviamo una cappella gotica del XIV secolo della scuola giottesca di Pietro da Rimini; sulla volta sono rappresentati gli evangelisti e i dottori della chiesa, mentre sulla parete frontale è presente un affresco alquanto deteriorato con Maria Maddalena che tende il braccio alla croce.

 

Un’opera di straordinario valore, conservata nella chiesa, è Il convito di Assuero di Carlo Bononi, un olio su tela del 1620 dalla lunghezza di 7 metri. il tema religioso si contrappone alla laicità del dipinto, caratterizzato da un forte dinamismo e dal lusso sfrenato dei banchetti dell’epoca. Bononi mostre le conoscenze apprese dalla scuola carraccesca tramite il concreto realismo delle figure; le pose assunte dai personaggi sono tutt’altro che innaturali.

Fig. 13 - Convito di Assuero di Carlo Bononi. Fonte: https://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/?cn-reloaded=1.

 

La chiesa oggi

La chiesa è visitabile sette giorni su sette dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18; la sua vicinanza alla stazione la rende estremamente facile da individuare e da visitare. Nonostante le innumerevoli bellezze della città, molto più note, questo gioiello non va dimenticato, perché ha ancora una storia molto lunga da raccontarci.

 

 

Sitografia

http://www.guide-ravenna.it/2018/04/19/il-convito-di-assuero-di-carlo-bononi/

http://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/

http://www.livingromagna.com/service/la-basilica-di-san-giovanni-evangelista-a-ravenna/


IL MASINI: UN PERFETTO ESEMPIO DI TEATRO ALL’ITALIANA

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione

Il teatro comunale Angelo Masini “è un perfetto esempio di teatro all'italiana ed insieme uno degli esempi più rappresentativi dell'architettura neoclassica in Italia” [1], sorge nel cuore del centro storico di Faenza, più precisamente in Piazza Nenni, alla quale si accede attraversando il Voltone della Molinella, affrescato da Marco Marchetti. Porta il nome del celebre cantante lirico forlivese, Angelo Masini, meglio noto come il “Tenore angelico”. Nascosto dalla mole del Palazzo del Municipio, il Masini disvela il fascino all’interno tramite statue, bassorilievi, affreschi e splendidi ornamenti.

Fig. 1 - facciata di Teatro Masini. Crediti: By Controllore Fiscale - Own work, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4845720.

 

Storia:

Fig. 2 - Interno del teatro. Crediti: By Lorenzo Gaudenzi - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=51250839.

 

Nel 1674, l’Accademia faentina de’ Remoti aveva ottenuto la sala dell’Arengo del Palazzo del Podestà come spazio per la messa in scena dei propri spettacoli; le forme del complesso, però, non consentivano di soddisfare la crescente richiesta del pubblico e venne quindi a prospettarsi la ricerca di uno spazio ben più ampio.

Fig. 3 - Palazzo del Podestà di Faenza. Crediti: By Gianni Careddu - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73627768.

 

Dapprima si pensò di rifabbricare il teatro sul palazzo medievale, ipotesi che si rivelò entro breve irrealizzabile e che quindi venne sostituita dall’idea di abbattere le case retrostanti il palazzo del Municipio, Tale operazione ebbe inizio nel 1784 con l’architetto Giuseppe Pistocchi, colui che si occupò anche del celebre Palazzo Milzetti, di cui si è parlato in un precedente articolo.

Fig. 4 - Palazzo del Municipio. Crediti: By Gianni Careddu - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73238677.

 

L’inaugurazione avvenne il 12 maggio 1788 con la messa in scena dell’opera Cajo Ostilio del maestro napoletano Giuseppe Giordani, detto il Giordanello, composta appositamente per l’evento. Nel 1796 venne recitato il Giulio Sabino di Giuseppe Sarti, il compositore faentino noto per il dramma Fra i due litiganti il terzo gode, particolarmente apprezzato da Mozart.

 

Descrizione

Il teatro è costituito da un loggione e quattro ordini di palchi, il secondo di essi è decorato da una fascia di bassorilievi dorati a opera di Antonio Trentanove, rappresentanti scene mitologiche come Andromeda e il mostro marino, Endimione inseguito dalle Ninfe, il Ratto di Europa o Apollo e Dafne.

Fig. 5 - Bassorilievo con Apollo e Dafne di Antonio Trentanove. Crediti: Andrea Scardova, IBC, 2017 - bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=26955.

 

Lo scultore riminese dà il meglio di sé, però, nella realizzazione delle statue decoranti il quarto ordine, modellando sinuose divinità dell’Olimpo.

 

Il soffitto era decorato da splendidi affreschi del bolognese Serafino Barozzi, distrutti durante i lavori del 1853; ciò che si può ammirare oggi è frutto di un restauro del 1869 ad opera dell’ingegnere Achille Baldini e dei pittori faentini Savino Lega e Adriano Baldini, i quali, traendo ispirazione da l’Aurora di Guido Reni, ridipinsero la volta con la rappresentazione del Carro di Apollo con le ore danzanti.

 

Sopra il boccascena spiccano le figure di due angeli con le trombe della fama dello scultore Giovanni Collina Graziani, alla cui opera sottostà un leone dorato, simbolo di Faenza, nell’atto di osservare due putti; a illuminare questo tripudio di ori e affreschi vi è un lampadario ad opera del Pandiani di Milano.

 

Ad accogliere il visitatore è lo splendido atrio d’ingresso, realizzato dall’ingegnere Giuseppe Tramontani, dove la pittura racconta le arti e imita gli stucchi; il maestro Antonio Berti, sepolto nel Cimitero di Faenza, affrescò qui i busti del Pistocchi e del Sarti, i quali, nel ruolo di creatori del teatro faentino, uno fisicamente e l’altro idealmente, paiono osservare l’entrata degli spettatori.

 

La Galleria dei Cento Pacifici

Seguendo la moda settecentesca di collegare i teatri al palazzo comunale, si decise di costruire uno spazio, che connettesse il Masini a Palazzo Manfredi: la Galleria dei Cento Pacifici. La Galleria, annessa al Ridotto, presenta decorazioni parietali egregiamente eseguite da Felice Giani, uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo, presente in svariati cantieri faentini; il progetto di Giuseppe Pistocchi, il principale fautore dell’aspetto neoclassico della città, venne impreziosito con l’aggiunta delle statue del Trentanove.

 

Le personalità del teatro

Il palcoscenico del teatro faentino, oggi uno dei più vivi della regione, fu in passato calcato da svariate personalità di spicco del mondo dell’arte e dello spettacolo; il tenore Angelo Masini, presente nei maggiori teatri italiani e russi, fu protagonista di ben quattro stagioni d’opera. Grandi nomi della lirica, come Mafalda Favero, Ebe Stignani, Magda Olivero e Antonio Melandri si esibirono nel ’39, mentre una talentuosa Carla Fracci danzò sulle note de Il fiore di pietra di Prokofiev nel 1974; nello stesso periodo, ad affascinare il pubblico, fu presente ripetutamente l’attore Carlo Dapporto. Nel 1956 il celebre Antonio de Curtis, nel film Totò, Peppino e i fuorilegge, fu protagonista di un’esilarante scena in cui l’Impero Romano diventò per errore “L’Impero Romagnolo”, andando a citare così una terra più volte visitata dall’attore, il quale incantò il pubblico del Teatro Masini con Se quell’evaso io fossi… nel 1934.

Fig. 16 - Totò. Crediti: By Unknown - Arquivo Nacional, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=72670733.

 

 

Bibliografia

Antonio Messeri – Achille Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, tipografia sociale faentina, 1909.

 

Sitografia

teatromasini.racine.ra.it

prolocofaenza.it/it/visita-faenza/luoghi/chiese-e-monumenti/ridotto-del-teatro-comunale-a-masini/


IL CIMITERO DELL’OSSERVANZA A FAENZA

A cura di Francesca Strada

 

Fig. 1 - Tomba Guidi.

Introduzione

A egregie cose il forte animo accendono

  L’urne de’ forti, o Pindemonte.”

(Dei Sepolcri, Ugo Foscolo, versi 151-152)

Con l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804 si sancì l’impossibilità di seppellire i defunti all’interno delle mura cittadine, portando le città a munirsi di luoghi d’inumazione esterni, che nel corso del secolo andarono arricchendosi di statue, affreschi e splendidi epitaffi. Uno degli esempi più antichi d’Italia, superato solo dal Vantiniano di Brescia e dai due cimiteri monumentali di Bologna e Ferrara, è il Cimitero dell’Osservanza di Faenza, che non è solo un placido luogo di eterno riposo, ma anche uno scrigno d’opere d’arte a pochi passi dal centro.

Fig. 2 - Tomba Tini.

Il Cimitero dell’Osservanza a Faenza: dove la morte è romantica

La costruzione di questi cimiteri si inserisce in un clima culturale assai particolare, il Romanticismo, che porta con sé un rinnovato amore per l’irrazionalità e ciò che essa accompagna: la morte, emblema dell’inconoscibilità stessa, è oggetto di estrema attenzione da parte di artisti e poeti. Il sepolcro viene ad assumere un significato nuovo, diventando con Foscolo quasi un oggetto di venerazione, come espresso dall’opera Dei Sepolcri, dove il ricordo del defunto ispira l’animo a grandi gesta attraverso la contemplazione dei monumenti funebri di coloro che furono grandi nella storia. In un’ottica materialistica, il cimitero non è più solo deputato all’eterno riposo, ma anche allo sfoggio della propria grandezza tramite opere monumentali.

Fig. 3 - Tomba Cattoli.

 

Il Cimitero dell'Osservanza a Faenza: Storia 

Dopo l’editto napoleonico, a Faenza venne scelto il convento dei Minori Osservanti come nuovo luogo di inumazione, ufficialmente aperto pochi anni dopo. Il cimitero prende il nome dalla chiesa attorno alla quale è stato costruito, ovvero la Chiesa dell’Osservanza, da cui proviene una splendida statua lignea di Donatello di cui si è parlato in un precedente articolo.

Fig. 4 - Tomba di Francesca Rossi.

Nel 1858 per volontà della commissione municipale intervenne l’architetto Costantino Galli, il quale progettò la facciata ad emiciclo per dare lustro e monumentalità al camposanto, ispirandosi a Piazza del Plebiscito a Napoli e a Piazza San Pietro. Inizialmente furono costruiti solo i chiostri sul lato sinistro; l’edificazione del lato destro fu causata dalla crescente richiesta di loculi e dalla scarsità di spazio.

Fig. 5 - Uno dei chiostri del cimitero.

 

Tomba Pasi

Una delle tombe più significative dell’intero complesso è quella dedicata al vescovo Giacomo Pasi. Nel guardarla, si nota subito il contrasto tra la bellezza dell’opera, nonché la sua monumentalità, con la sua inadeguatezza al luogo. Tomba Pasi, infatti, fu progettata nel XVI secolo per la Chiesa di Santa Maria dei Servi, in centro a Faenza, e non per il cimitero ottocentesco. La tomba ha trovato qui un alloggio sicuro e riparato, dopo essere stata rimossa dalla chiesa per i lavori di ricostruzione nel Settecento ed essere stata posta sul fianco di quest’ultima, esposta alle intemperie e alle ingiurie del tempo, fino all’arrivo del delegato apostolico della provincia di Ravenna nel 1851, il quale dispose la sua traslazione in un luogo protetto. Lo splendido complesso di fregi, statue e bassorilievi raggiunse il chiostro della Badia del cimitero solo nel 1878. L’artista, Pietro Barilotto, è chiaramente riconoscibile dalla firma nell’epitaffio, che recita: “PETRUS BARILOTUS FAVENTINUS FECIT”. Non è un caso che la realizzazione della tomba di un uomo così illustre sia stata affidata a Barilotto, egli è infatti noto per i numerosi monumenti funebri lasciati alla città manfreda e non solo. Considerato dalla prima critica novecentesca “scultore degno e posto tra i più lodevoli artefici del ‘500”.[1]

Fig. 6 - Tomba Pasi.

La tomba rappresenta il vescovo adagiato sul sarcofago, appoggiato alla mano destra, mentre la sinistra accarezza il ginocchio. Pasi sembra lasciarsi andare a un dolce riposo, mentre i santi Pietro e Paolo si protendono dalle nicchie laterali, quasi a vegliare sul vescovo dormiente. Nella lunetta in terracotta posta sopra al defunto si nota la Vergine con le braccia alzate tra due santi, mentre il Padre Eterno si sporge dalla formella superiore, benedicendo l’eterno riposo. Il tutto inserito in una splendida cornice di fregi e pilastri in pietra d’Istria, che sembra ricreare la facciata di una chiesa. La grandezza dell’opera è resa dal confronto con un minuscolo sepolcro presente nello stesso chiostro, il più famoso di Faenza, perché reca scritto solamente: “Tomba d’un infelice”.

 

Le opere di Domenico Rambelli

Numerose sono le opere di artisti celebri come Ercole Drei e Lucio Fontana, il quale realizza in gres la tomba della famiglia Melandri; tuttavia, è Domenico Rambelli a meravigliare di più lo spettatore per la bellezza e la plasticità delle sue figure. L’artista faentino, considerato tra i più grandi scultori del ‘900, concepisce due opere per il cimitero, entrambe poste nell’emiciclo: il medaglione per la tomba di Antonio Berti e la tomba di Rosa Laghi. Rambelli, allievo del Berti, realizza per lui un altorilievo capace di mostrare la sua grande capacità di ritrattista. L’opera è stata collocata nei pressi dell’ingresso della chiesa a dimostrare l’importanza del maestro nell’arte faentina di fine ‘800.

Fig. 7 - Tomba di Antonio Berti.

 

Tombe di straordinaria bellezza

Tra i chiostri dell’Osservanza è difficile non lasciarsi rapire dalla meraviglia dei sepolcri circostanti; le decorazioni floreali si rifanno allo stile liberty, particolarmente apprezzato dalle famiglie facoltose. Gli scultori sono chiaramente ispirati da Canova, come nel caso della tomba della famiglia Tabanelli, nella quale una giovane donna viene trasportata all’interno del sepolcro dall’angelo della morte, il quale spinge una porta, disvelando un buio che reca alla mente l’immagine del celeberrimo Monumento Funebre per Maria Cristina d’Austria.

Fig. 8 - Tomba della famiglia Tabanelli.

Ad attirare l’occhio del visitatore è la tomba di Brigida de’ Marchesi Stanga, elegantissima rappresentazione di un compianto interpretato da un gruppo statuario di matrice classica.

È leggiadra la donna dolente sulla tomba di Paolo Rampi ed è evidente il gusto neogotico della cappella gentilizia della famiglia Canuti, volto a ricordare con i suoi pinnacoli una chiesetta medievale.

Fig. 11 - Dettaglio della tomba di Paolo Rampi.

L’obiettivo che queste famiglie si erano prefissate con la realizzazione di questi monumenti è stato raggiunto: il tempo non cancellerà la memoria del loro passaggio sulla terra dal cuore della loro città.

Fig. 12 - Tomba della famiglia Canuti.

 

 

Tutte le foto presenti sono state scattate dalla redattrice.

 

Bibliografia

Antonio Messeri- Achille Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, Tipografia Sociale Faentina, 1909

 

Sitografia

https://www.pinacotecafaenza.it/mostre/rambelli/biografia/


BRISIGHELLA E LA ROMAGNA FAENTINA

A cura di Francesca Strada

Introduzione: la ferrovia faentina

C’è una linea ferroviaria, che, attraversando l’Appennino, collega Firenze a Faenza: la Ferrovia Faentina, oggi nota come “Il treno di Dante” perché, scendendo alla stazione della città manfreda, è possibile effettuare un cambio per Ravenna, completando così un tour delle terre attraversate dall’Alighieri sia fisicamente sia con la forza di alcuni dei versi più celebri della letteratura italiana. Percorrere questa linea non è solo una scelta di tipo pratico per studenti e lavoratori, ma anche un’opzione per coloro che vogliono compiere un viaggio ideale a ritroso nel tempo su una delle ferrovie più antiche d’Italia e, ammirando i borghi medievali fuori dal finestrino, immaginare la vista di cui avrebbe potuto godere il Sommo Poeta. Quando mancano pochi chilometri al capolinea, il treno si ferma a Brisighella, uno dei borghi più belli d’Italia, un luogo estremamente suggestivo che sembra uscito dal mondo delle fiabe.

Fig. 1 - Stazione di Ronta. Fonte: https://tuttatoscana.net/curiosita-2/nascita-e-sviluppo-della-ferrovia-faentina/.

Storia di Brisighella

Fig. 2 - Brisighella. Credits: By Paolo forconi - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=51319354.

Brisighella è un borgo medievale che sorge sull’appennino romagnolo nei pressi di Faenza; il suo nome potrebbe derivare dal termine brisla (o brisul), il cui significato in dialetto romagnolo è “briciola”, forse facendo riferimento al suo rapporto di dipendenza dalla città delle ceramiche o al suo scopo di piccolo appezzamento coltivato. Sebbene l’area fosse abitata dal Neolitico, le prime costruzioni risalgono alla fine del XIII secolo, quando venne fatta erigere una torre da Maghinardo Pagani da Susinana, il più noto condottiero di Romagna, signore di Faenza e Imola e conosciuto per i celebri versi che Dante gli dedica nel canto XXVII dell’Inferno alludendo ai suoi mutevoli interessi politici[1]. Dopo la sua morte, il territorio passò nelle mani della potente famiglia Manfredi, fino alla conquista nel XVI secolo da parte del Valentino.

 

Pieve del Tho

Fig. 3 - Pieve del Tho. Fonte : www.brisighella.org.

All’interno del comune di Brisighella si trova una delle pievi meglio conservate della regione, nonché la più antica della Valle di Lamone, Pieve del Tho, il cui nome deriverebbe dalla sua ubicazione in corrispondenza dell’ottavo miglio della Via Faventina. L’opera, per la quale è stato fatto largo uso di materiali di reimpiego, è di origine incerta ma le testimonianze su di essa si hanno a partire dal X secolo; tradizionalmente viene fatta risalire alla volontà di Galla Placidia. Dell’antico affresco absidale, oramai quasi interamente perduto, rimane visibile una Madonna in trono con il bambino, la cornice decorativa di una bifora e un angelo.

Via degli Asini

Fig. 4 - Via degli Asini esternamente. Crediti: www.brisighella.org.

Una via del tutto singolare è Via degli Asini: inizialmente costruita a difesa della cittadina, venne coperta con il tempo, entrando a far parte di alcuni edifici circostanti e consentendo un facile accesso alle stalle per gli asini, che quivi andavano costruendosi, le quali daranno alla via il suo singolare nome. Ad attirare maggiormente i visitatori sono i caratteristici colori di queste abitazioni, considerate idealmente il cuore del borgo.

Fig. 5 - Via degli Asini internamente. Fonte: www.brisighella.org.

 

I tre colli di Brisighella

Il paesaggio brisighellese è caratterizzato dalla presenza dei “Tre Colli”, ognuno ospitante un simbolo della cittadina romagnola: la Rocca, la Torre dell’Orologio, il Santuario della Beata Vergine del Monticino.

La Rocca

Fig. 6 - Rocca Manfrediana. Credits: By Umberto PaganiniPaganelli - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62276118.

La costruzione della Rocca Manfrediana inizia con il dominio dei Manfredi su Brisighella nel XIV secolo; è nota anche con il nome di Rocca dei Veneziani, data la sua successiva appartenenza alla Serenissima Repubblica di Venezia. Si tratta di una costruzione medievale perfettamente conservata, che oggi ospita un percorso museale che indaga il rapporto tra l’uomo e il gesso, minerale ricavato dalla Vena del Gesso Romagnola, che comprende anche il comune di Brisighella.

La Torre dell'orologio

Fig. 7 - Torre dell'Orologio. Credits: By Vanni Lazzari - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62073951.

La Torre dell’Orologio è il punto panoramico del borgo, la cui posizione consente un’ampia vista sulla cittadina sottostante e sullo splendido paesaggio collinare. L’opera odierna non rispecchia quella voluta da Pagani, poiché dopo numerosi restauri e rimaneggiamenti, la torre venne definitivamente ricostruita nel 1850, giungendo così fino a noi.

Fig. 8 - Torre dell'Orologio. Crediti: By Geobia - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19300124.

Il Santuario della Beata Vergine del Monticino

Fig. 9 - Santuario della Beata Vergine del Monticino. Credits: By Gianni Careddu - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50524204.

La costruzione del santuario di Brisighella, ospitante un’immagine sacra in terracotta, iniziò negli anni ’50 del ‘700 e terminò con il rifacimento della facciata nel 1926; l’interno è arricchito da splendidi affreschi del XIX secolo. Il catino absidale presenta l’immagine di una Madonna sulle nubi circondata da cherubini, mentre nella volta attigua si trova Dio Padre in gloria tra i quattro evangelisti con accanto i rispettivi simboli.

La chiesa dell'Osservanza

Fig. 13 - Chiesa dell'Osservanza. Credits: By Geobia - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19300511.

Tra gli edifici sacri del borgo ce n’è uno che attira immediatamente lo sguardo per via delle sue pareti di un colore sgargiante, la cui vera bellezza e fastosità è, però, celata tra le mura: si tratta della chiesa dell’Osservanza (o di Santa Maria degli Angeli), ubicata a pochi passi dalla stazione, in via Fratelli Cardinali Cicognani.

All’interno, infatti, è possibile ammirare cappelle dalla decorazione molto ricca, ornate con stucchi barocchi e quadri rinascimentali, il cui vero gioiello è una pala posta nell’abside: la Madonna con bambino in trono, fra tre angeli e quattro santi di Marco Palmezzano, un’opera estremamente ricca di dettagli, che rispecchia a pieno il gusto del rinascimento romagnolo; non si tratta dell’unico esemplare dell’artista forlivese presente a Brisighella, ma è sicuramente il più rilevante. I quattro santi sono disposti attorno alla Madonna; in primo piano sulla sinistra San Francesco è intento a leggere, mentre sulla destra San Girolamo si percuote il petto con un sasso, in secondo piano spiccano le figure di Sant’Antonio Abate e San Giorgio.

Fig. 14 - Madonna con bambino in trono, fra tre angeli e quattro santi. Fonte: brisighella.amacitta.it/index.php/it/collezione/poi/opere/madonna-in-trono-col-bambino-fra-tre-angeli-e-quattro-santi-detail.

 

Note

[1] “Le città di Lamone e di Santerno/conduce il lïoncel dal nido bianco/che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco,/così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,/tra tirannia si vive e stato franco.” https://ladante.it/dantealighieri/hochfeiler/inferno/testo/inf27.htm

 

Sitografia

www.brisighella.org


IL SAN GIROLAMO DI DONATELLO

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione alla Pinacoteca di Faenza

La città di Faenza ospita uno dei più antichi istituti museali della regione Emilia-Romagna, si tratta della Pinacoteca cittadina, un piccolo scrigno di tesori, che, nonostante le sue ridotte dimensioni, sa regalare al visitatore una panoramica completa dell’arte faentina e italiana, vantando opere di pregio e nomi di altissimo livello come Giovanni da Rimini, Agnolo Bronzino, Elisabetta Sirani, Biagio d’Antonio, Benedetto da Maiano, Dosso Dossi, Felice Giani, Morandi, Carrà, Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Balla, Rodin e ovviamente il Cenacolo Baccariniano con il suo massimo esponente Domenico Baccarini e i suoi compagni.

In un  contesto così ricco e vario come quello della Pinacoteca spicca un nome su tutti: Donato di Niccolò di Betto Bardi detto il Donatello. L’importanza del capolavoro donatelliano per Faenza è tale da averlo reso il simbolo della pinacoteca stessa.

 Il San Girolamo di Donatello: storia

“Nella città di Faenza lavorò di legname un S. Giovanni et un S. Girolamo, non punto meno stimati che l’altre cose sue”. [1]

Il San Girolamo citato dal Vasari nelle Vite è una pregevole opera in legno policromo situata nella Pinacoteca Comunale di Faenza, commissionata dal vescovo Federico Manfredi, o dal padre Astorgio II Manfredi, signore della città, per la chiesa dell’Osservanza dedicata a San Girolamo, sorta intorno al 1200 con il nome di Santa Perpetua, ma che venne intitolata al patrono dei traduttori con la concessione ai francescani. La signoria di Astorgio II è da considerarsi il momento di massimo splendore della città romagnola, dominata allora da una corte estremamente raffinata, i cui lussi e le cui attività culturali faranno di Faenza uno dei maggiori centri artistici della regione; Astorgio fu anche il promotore dello sviluppo edilizio cittadino e committente d’ottimo gusto, riuscendo a portare a sé alcuni dei maggiori esponenti del Quattrocento fiorentino, tra i quali, appunto, Donatello.

Nel 1845, probabilmente a causa di un’infestazione di tarli, la statua fu restaurata; tuttavia, nel tentativo di riportare l’opera a uno stato ottimale, la scultura venne forse leggermente rimaneggiata, creando quei difetti che hanno insinuato nella critica l’idea che non potesse appartenere alla mano esperta del Donatello, come l’arrotondamento dell’attacco dell’avambraccio al braccio destro di cui fa cenno lo storico Antonio Messeri [2]. L’ubicazione venne presto cambiata, passando alla Biblioteca Municipale per giungere infine alla Pinacoteca cittadina, è quindi possibile che gli spostamenti abbiano contribuito al suo danneggiamento. Si suppone che la sua realizzazione sia avvenuta intorno al 1454, grazie anche a una lettera di Piero di Cosimo de’ Medici che fa cenno ad alcune opere dello scultore fiorentino.

 

San Girolamo: descrizione

Fig. 5 - San Girolamo di Donatello. Fonte: pinacotecafaenza.it.

La scultura presenta numerose analogie con il San Giovanni Battista realizzato per il Duomo di Siena e con la Maddalena Penitente; l’opera della città manfreda è però di soli 141 cm a differenza dei più dei 185 cm dei due fratelli toscani. Il vivido realismo e il corpo consunto della Maddalena, anch’essa in legno, trovano una corrispondenza nel San Girolamo, che mostra i segni della vecchiaia e una magrezza data da una vita di mortificazione della carne. Evidente è anche il parallelismo con il capolavoro senese in bronzo nella posizione delle braccia e nella rappresentazione della fatica; in tutte e tre le opere l’artista da sfoggio della sua bravura, lasciando lo spettatore catturato dal dolore di queste figure.

Il santo, completamente nudo, si mostra in posizione eretta, inoltre, presenta una leggera torsione del busto, il volto girato e un avanzamento della gamba sinistra, che gli conferiscono un’idea di movimento, nonché un andamento sinuoso, il cui dinamismo verrà riproposto nell’arte solo dopo il ritrovamento del Gruppo del Laocoonte nel 1506 ad opera del Buonarroti e di artisti manieristi, i quali ne faranno largo uso, rendendo Donatello, ormai lontano dalla fierezza e dalla staticità del David marmoreo o del San Giorgio, un precursore di questa tendenza che dominerà la produzione artistica del XVI secolo.

Fig. 8 - Dettaglio del San Girolamo. Fonte: https://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=55234.

La maestria del Donatello si riconosce immediatamente nel dorso, rappresentato con estremo realismo, ma anche nel torace e nell’addome che finemente ricalcano le carni mature del vegliardo. I capelli gli ricadono sulle spalle e la folta barba canuta gli incornicia il volto; lo sguardo perso e le labbra socchiuse avvicinano ancora di più l’immagine del santo all’ideale di vita ascetica. Un particolare significativo è la resa delle vene, le quali sono particolarmente segnate, ancora una volta a dimostrare una forte attenzione al dettaglio.

 

 

Bibliografia

Messeri e Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, Edoardo dal Pozzo editore, 1909.

 

Sitografia

https://www.pinacotecafaenza.it/sala1/168-2/


IL MIC: LA CERAMICA DI FAENZA

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione al MIC

«Ancorché di siffatti vasi e pitture si lavori in tutta Italia, le migliori terre e più belle sono quelle di Castel Durante e di Faenza che per lo più le migliori sono bianchissime e con poche pitture e quelle nel mezzo o intorno, ma vaghe e gentili affatto.»  Così il Vasari descrive nelle Vite la produzione di maiolica di Faenza, la città delle ceramiche per antonomasia, dove nel 1908 venne fondato da Gaetano Ballardini il Museo Internazionale delle Ceramiche (MIC), che ospita la raccolta più grande al mondo: essa infatti racconta la storia della città e del Bel Paese dall’antichità al ‘900, arricchita anche da pregevoli collezioni orientali, europee, islamiche e precolombiane. In seguito ai bombardamenti del maggio 1944, il museo subì ingenti danni; tuttavia l’intervento di Ballardini permise la ricostruzione e l’ampliamento della raccolta. Il MIC è stato anche riconosciuto come “Monumento testimone di una cultura di pace” dall’UNESCO.

Faenza e il Medioevo

I primi reperti dell’arte ceramica faentina risalgono al Basso Medioevo: a dominare è il cosiddetto stile arcaico, caratterizzato da toni bruni e verdi e da motivi vegetali o faunistici, ma anche da una rilettura della classicità in chiave cortese, come testimoniato dal boccale con rappresentazioni di Filide e Aristotele, in cui la donna assume il ruolo di “signore” tipico della lirica trobadorica.

Fig. 3 - Boccale con rappresentazioni di Filide e Aristotele. Credits: Wikipedia Commons - Museo Internazionale delle ceramiche di Faenza.

Il Rinascimento a Faenza

L’istoriato

Il Rinascimento è un momento di assoluto splendore per la città romagnola; in questo periodo si nota la fioritura di nuovi stili decorativi derivanti dal mondo bizantino, arabo e orientale; tuttavia, a giocare un ruolo fondamentale è la fitta rete di legami con Firenze e la Toscana, che porta a Faenza alcuni dei più grandi nomi del mondo dell’arte e influenza notevolmente la produzione ceramica. I motivi tipici del Rinascimento si inseriscono in breve nelle botteghe, andando a sostituire lo stile arcaico e dando impulso a una nuova era dell’arte faentina, che la renderà famosa a livello internazionale. Nasce l’istoriato, uno stile decorativo caratterizzato da figure umane appartenenti al mondo della corte, ma anche allegoriche; qui si inseriscono le “belle donne”: volti femminili, spesso di profilo, di cui il più celebre è sicuramente la Iulia Bela.

MIC: i Bianchi di Faenza

Dopo la metà del ‘500 ai vivaci colori dell’istoriato si sostituisce il candore dei “Bianchi di Faenza”; lo stile muta e con esso le forme e le figure che popolano i manufatti; amorini e grottesche dai toni gialli, aranciati e blu decorano le brillanti superfici decantate dal Vasari. Il protagonista di questa nuova tendenza è Virgilio Calamelli, ceramista locale la cui fiorente bottega farà da scuola per gli altri.

Il ‘700 a Faenza

Il gusto esotico che caratterizza il ‘700 si riflette anche nella manifattura faentina. La famiglia Ferniani domina la scena, fondendo i temi del Neoclassicismo, come la foglia di vite, alle decorazioni orientali, seguendo le mode europee. Uno dei simboli del periodo è il garofano, di cui verrà fatto largo uso a Faenza come testimoniano svariate opere tra cui la Zuppiera con decorazione al garofano.

L’Italia al MIC

Il MIC non si limita a raccogliere opere di pregio locali, ma predilige regalare al visitatore una visione completa della produzione italiana, mostrando reperti dei maggiori centri artistici del Paese. Quivi si può trovare la sontuosa vasca Farnese della fornace della famiglia Pompei in Abruzzo, della quale il museo conserva anche parti del corredo degli Orsini Colonna, come una fiasca e due albarelli.

Numerosi sono i reperti marchigiani, costituiti da manufatti prevalentemente istoriati provenienti da Urbino, Casteldurante e Pesaro, come lo spasimo di Niccolò Pellipario o il piatto dipinto con il carro di Marte. Del XVII secolo è invece la famosa Anfora Barberini.

 

Anche l’Umbria offre un vasto repertorio, proveniente da Gubbio e Deruta, prevalentemente dedicato a corredi da farmacia e grandi piatti da pompa, come testimoniano piatto da pompa con raffigurazione del re Giuda Maccabeo a cavallo o piatto da pompa con figura di “Bella”.

Il museo presenta un’opera di assoluta rarità, si tratta di un piatto in porcellana medicea, dipinta di blu su fondo bianco; con questa tecnica sono stati prodotti solamente 50 esemplari, tra cui quello in possesso del MIC. Quivi sono conservate anche svariate opere toscane provenienti da Montelupo e Siena, come L’albarello decorato a occhio di penna di pavone, una fiasca decorata a raffaellesche e ceramiche robbiane.

Dal nord Italia provengono svariate opere veneziane, lombarde e piemontesi dal Rinascimento al XIX secolo; tuttavia, da rimarcare è principalmente il repertorio proposto dalla Liguria, caratterizzato dall’istoriato barocco e la fusione di scene mitologiche ai gusti orientali: a guidare questa tendenza saranno i centri di Albissola Marina e Savona, arricchendo il patrimonio museale.

Il ‘900

Il XX secolo regala al MIC un numero vastissimo di opere sia italiane che internazionali. Quivi sono esposti alcuni dei nomi più noti del panorama novecentesco, come Lucio Fontana, Tullio D'Albissola e Carlo Zauli; tuttavia, a colpire il visitatore sarà sicuramente la storia delle opere di Picasso, Chagall e Matisse. In seguito alla distruzione del museo nel 1944, infatti, Gaetano Ballardini, il fondatore del museo, non si diede per vinto e, terminato il conflitto, ricostruì l’edificio. Intrecciò un rapporto epistolare con il celeberrimo pittore e scultore Pablo Picasso, al quale chiese di donare almeno una sua opera per contribuire al rifacimento del museo. Picasso non solo acconsentì, ma invitò Chagall e Matisse a compiere il medesimo gesto per supportare la causa di Ballardini.

MIC: oltre l'Europa

Al MIC è possibile uscire dall’Europa per pochi istanti, immergendosi in mondi lontani tramite le opere provenienti dall’Iran, dalla Spagna islamica, dall’Anatolia, dalla Siria e dall’Egitto; quella di Faenza è la raccolta d’arte ceramica islamica più corposa dello Stato. Si può ammirare anche una raccolta proveniente dall’estremo Oriente e dal Sud America. Tutto questo è stato reso possibile dalla forte personalità di Ballardini, il quale desiderava un museo che potesse essere da esempio per il mondo e che rendesse Faenza non solo un centro artistico italiano ma anche un punto di ritrovo per l’arte mondiale.

 

 

Sitografia

www.micfaenza.org/it/


SILVESTRO LEGA IN ROMAGNA

A cura di Francesca Strada

Introduzione: Silvestro Lega                                                              

"Chi è quest'oscuro?” Domanderanno. “Egli è di quelli che vissero di pensiero, che al pensiero accoppiarono l'azione ed a questa congiunsero la coscienza intemerata e l'affetto costante; che vissero poveri e che morirono all'ospedale".

(Martelli, Corriere italiano, necrologio)

Fig. 1 - Autoritratto. Credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Silvestro_Lega_-_autoritratto_-_1861.jpg.

La vita

Silvestro Lega nasce il giorno dell’Annunciazione dell’anno 1826 a Modigliana, un piccolo borgo sull’appennino tosco-romagnolo nella provincia di Forlì-Cesena. La madre, di bassa estrazione sociale ma con una forte inclinazione culturale, lo iscrive al collegio degli Scolopi, dove la vena artistica di Lega emergerà con forza attraverso i suoi scarabocchi, i quali verranno notati dai docenti che lo indirizzeranno allo studio della storia dell’arte. Nel 1845 è registrata la sua iscrizione all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, città in cui conoscerà Telemaco Signorini e Giovanni Fattori; i tre pittori sono oggi riconosciuti come i maggiori esponenti del gruppo dei Macchiaioli. Dopo essere stato volontario nella guerra d’Indipendenza del 1848 e aver fatto ritorno a Firenze, Lega decide di ritirarsi per due anni a Modigliana, dove riceverà svariati incarichi per il Duomo. Al suo ritorno a Firenze, verrà ospitato da Spirito Batelli, facendo la conoscenza di sua figlia Virginia Batelli, della quale si innamorerà. Virginia e le sue sorelle saranno spesso modelle del pittore, ne è un esempio la celeberrima opera Il canto dello stornello. Con la morte dell’amata nel 1870 l’artista, già noto come un uomo dal carattere difficile, si incupirà ulteriormente e tornerà a Modigliana per ritirarsi; nonostante i costanti successi ottenuti in questo periodo, Lega non si riprenderà mai dal lutto e non intreccerà più relazioni con altre donne. Morirà in un ospedale di Firenze il 21 settembre del 1895.

 

Le opere conservate nella pinacoteca di Modigliana

Le opere di Silvestro Lega si possono trovare nei maggiori centri artistici della Penisola, come Firenze, Milano e Genova; tuttavia, una cospicua percentuale di quadri si trova nel suo paese natale ed è conservata nella Pinacoteca Comunale Silvestro Lega. Quivi possiamo trovare L’incredulità di San Tommaso, che fa parte del periodo giovanile a e rappresenta il Santo nell’atto di toccare il Salvatore, avvolto solo da un manto. È un’opera cardine per comprendere l’arte di Silvestro Lega, caratterizzata da una certa solidità formale.

Fig. 4 - L'incredulità di San Tommaso. Credits: www.deartibus.it.

Alla Pinacoteca appartiene anche Ritratto di Bartolomeo Campi, datata 1853: è un olio su tela del periodo giovanile e vede come soggetto il sacerdote modiglianese, seduto e a braccia conserte. Si nota una forte attenzione alla luce e alla resa dei dettagli, specialmente nella piuma d’oca alle spalle del curato.

Fig. 5 - Ritratto di Bartolomeo Campi. Credits: www.deartibus.it.

Ritratto di Giuseppe Garibaldi è forse il ritratto più celebre del generale e risale al 1861; l’eroe dei due mondi viene rappresentato con la camicia rossa e sullo sfondo si stagliano le colline dell’appennino toscano. L’opera è frutto del periodo a casa Batelli ed è di tre anni successiva all’incontro con Garibaldi a Modigliana.

Fig. 6 - Ritratto di Giuseppe Garibaldi. Credits: www.deartibus.it.

Paesaggio è un olio su tavola di piccole dimensioni, probabilmente un regalo per l’amico Don Giovanni Verità, sacerdote garibaldino che aiuterà Garibaldi nella sua fuga, probabilmente anche l’artefice del pensiero anticlericale di Silvestro Lega. Nel quadro si nota l’influsso della “macchia”, e secondo una tradizione orale il luogo dipinto esisterebbe realmente, collocato sulla strada che da Modigliana porta a Tredozio.

Fig. 7 - Paesaggio. Credits: www.deartibus.it.

Nella Pinacoteca è conservato lo Studio di testa per ’Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini” che servirà per la celebre opera Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini o Mazzini morente conservata al Museum of Art, Rhode Island School of Design negli Stati Uniti d’America. La bozza ritrae il repubblicano con una folta capigliatura e una posa austera, elementi che scompariranno nel quadro ultimato.

 

Un’altra opera conservata nella Pinacoteca di Modigliana è Ritratto di Don Giovanni Verità, un olio su tavola il cui soggetto, il sacerdote già precedentemente citato, figura di profilo. Egli fu il cappellano di Garibaldi e dell’esercito regio nel 1866; date le sue idee rivoluzionarie e anticlericali il Papa non gli concesse la sepoltura con rito religioso. Fu amico e ispiratore di Lega, che lo ritrae nel 1885, come ci dice la data che il quadro reca a destra.

Fig. 10 - Don Giovanni Verità. Credits: www.deartibus.it.

L’ultima opera conservata nella Pinacoteca è un acquerello ritraente il volto della contessina Elisabetta Savelli.

Fig. 11 - Elisabetta Savelli. Credits: www.deartibus.it.

Le lunette per il Duomo di Modigliana

Nel 1857 Silvestro Lega venne incaricato di riprodurre quattro lunette per il Santuario della Madonna del Cantone, e che oggi si trovano nella Cattedrale di Santo Stefano a Modigliana; esse rappresentano i quattro flagelli da cui la cittadina, secondo la credenza, venne risparmiata per volere della Madonna, ossia il Terremoto, la Carestia, la Guerra e la Peste. Le opere vennero terminate nel 1863.

La lunetta del terremoto rappresenta una famiglia che fugge dalle case pericolanti, rifugiandosi dietro a una roccia con i pochi averi superstiti.

Fig. 12 - Lunetta del Terremoto (dettaglio). Credits: www.deartibus.it.

Nella lunetta della carestia un uomo porge un tozzo di pane alla moglie, le cui occhiaie pronunciate e il pallore ne presagiscono la morte, incarnata nel bambino dormiente, che presto o tardi perirà per la fame. Accanto a loro una donna solleva le braccia al cielo invocando l’aiuto divino, mentre sullo sfondo si nota il corpo di un uomo prossimo alla morte.

Nella lunetta della guerra un giovane soldato giace morto sul selciato, mentre appoggiati a un edificio si trovano i corpi di altri caduti. La drammaticità della scena è resa dalla scelta di mostrare il giovane nitidamente, mentre gli altri personaggi non hanno un volto. L’occhio dello spettatore sembra attirato dal candore degli edifici su cui nota i corpi esanimi, per poi far confluire la vista sulla figura centrale e infine sul corpo del soldato.

Fig. 15 - Guerra. Credits: www.deartibus.it.

La lunetta della peste rappresenta la benedizione al corpo di una defunta prima della sepoltura. In un paesaggio così oscuro, probabilmente al crepuscolo, il candore dell’abito della defunta attira l’occhio dello spettatore. Ella pare quasi una Madonna scomposta; il ciondolo a crocifisso le ricade sul seno, mentre i due uomini di chiesa la benedicono. Non c’è speranza nei loro occhi, come non ce n’è in nessuno dei personaggi delle lunette, che affranti paiono accettare l’amaro destino.

Modigliana per Silvestro Lega

Nel mese di settembre, per celebrare il noto artista, Modigliana organizza la Festa dell’800 con i quadri viventi di Silvestro Lega, un’occasione che ogni anno porta centinaia di turisti nel piccolo paesino del forlivese.

 

Sitografia:

https://www.treccani.it/enciclopedia/silvestro-lega_%28Dizionario-Biografico%29/

https://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=7630

https://www.deartibus.it/drupal/content/il-terremoto


MARCO MARCHETTI: IL PREDILETTO DEL VASARI

A cura di Francesca Strada

Introduzione

“Ma è rarissimo in alcune cose, fra gl’altri di Romagna, Marco da Faenza (che così, e non altrimenti è chiamato) per ciò che è pratico oltre modo nelle cose a fresco, fiero, risoluto e terribile, e massimamente nella pratica e maniera di far grottesche, non avendo in ciò oggi pari né chi alla sua perfezzione aggiunga.” È così che Il Vasari nelle Vite descrive Marco Marchetti, meglio noto come Marco da Faenza; si tratta di un genio della grottesca, un genio totalmente incompreso da una critica ottocentesca avversa al Manierismo e non comprensiva nei confronti di un uomo vissuto in un clima di puro terrore. Diversi furono, infatti, i suoi detrattori, i quali lo definirono banale, dimenticandosi delle norme a cui il Marchetti era obbligato ad attenersi per non attirare su di sé l’ira dei prelati. Nel ‘900 il critico d’arte Antonio Corbara scriverà di lui: “il Marchetti riempirà tele e quadroni con un numero enorme di figure inutili e con ciarpame di accessori che snatura completamente l’essenza della scena.”[1] Più recentemente si è affermata una nuova corrente di pensiero condotta da Alessandra Bigi Iotti e Giulio Zavatta, fondatori della rivista Taccuini d’Arte, che relaziona l’operato del Marchetti all’arte nordica e al pittore coevo Perin del Vaga.

Giorgio Vasari. Credits: it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_Vasari.

Firenze

Marco Marchetti nasce a Faenza intorno al 1528, dove si forma prima di trascorrere un soggiorno a Roma per accrescere le sue competenze ed entrare in contatto con i più illustri pittori del tempo. Di lui poche informazioni ci sono giunte, ma si può affermare con certezza che si trovasse a Firenze nel 1555 per assistere il Vasari nelle decorazioni di Palazzo Vecchio; i registri di pagamento per il quartiere degli Elementi mostrano che Marchetti fosse stato il secondo pittore più pagato del cantiere dopo Cristoforo Gherardi, detto il Doceno, e ciò lascia intuire quanto rispetto e ammirazione provasse per lui il Vasari.

Faenza

Dopo anni di continui spostamenti tra Firenze e Roma, Marco Marchetti torna a Faenza intorno al 1566 per affrescare il sontuoso Voltone della Molinella, all’epoca stanza del Palazzo Comunale, che è oggi un passaggio tra Piazza del Popolo e Piazza Nenni.

Voltone della Molinella.

Durante la permanenza nella città natia, Marchetti sviluppa la professione di pittore di pale d’altare. Sono del periodo le opere: San Giovanni Battista, il pittore e un devoto; Adorazione dei Pastori. Le due opere sono ora collocate nella pinacoteca di Faenza. Il suo orientamento per l’arte sacra non è frutto di una scelta personale, bensì di una serie di avvenimenti che turbano il mondo dell’arte faentina. Il concilio di Trento condanna aspramente la decorazione a grottesche nei luoghi di culto, precludendo all’artista svariate possibilità; non è difficile credere che ciò abbia spinto il Marchetti verso l’arte sacra, tesi avvalorata dalla crescente richiesta di pale d’altare in Romagna da sostituire con opere precedenti ritenute blasfeme. Si aggiunge a ciò la triste notizia dell’incarcerazione di Giovan Battista Bertucci il giovane per eresia, venne condannato a morte per aver detto al vescovo che Dio non può essere comprato con il denaro dell’indulgenza. Bertucci ebbe salva la vita dopo aver abiurato in piazza e aver scontato 6 anni in prigione. In un clima di terrore in cui ogni artista temeva di perdere il lavoro o di essere incarcerato, la notizia sconvolge Marchetti, il quale si rifugia a Rimini. San Giovanni Battista, il pittore e un devoto

Rimini

Durante la sua permanenza a Rimini all’inizio degli anni ‘70, decora il soffitto di una delle sale di Palazzo Lettimi, al tempo Marcheselli, considerato uno degli edifici più belli del rinascimento riminese, distrutto durante il secondo conflitto mondiale dai bombardamenti. Alcuni dei frammenti di soffitto ci sono pervenuti e sono conservati al Museo Comunale della città, tra essi si trovano 7 delle 11 storie dipinte dal faentino, che narrano le imprese di Scipione l’africano.

 

A Rimini dipinge anche due pale d’altare: Conversione di San paolo; Andata al Calvario.

La prima viene commissionata per la chiesa di Santa Maria dei Servi ed è un simbolo dell’arte manierista; i colori sgargianti rivestono la moltitudine di figure che circonda Paolo, lasciando la naturalezza in secondo piano.

L’altra pala, Andata al Calvario, dipinta per la chiesa del Suffragio, ci presenta Cristo che sorregge la croce circondato da una nutrita schiera di figure concitate; ad attendere il Salvatore sulla cima del colle c’è lui stesso crocifisso, che già simboleggia ciò che gli accadrà. L’obiettivo dell’artista non è quello di ricreare in maniera realistica la scena, bensì rendere lo spettatore partecipe del pathos che accompagna la salita verso il Calvario.

Il ritorno a Faenza

Dopo il soggiorno a Rimini, Marco Marchetti sente il richiamo della città natia e torna a operare a Faenza, talvolta recandosi a Roma per dei lavori commissionati da Papa Gregorio XIII. Al periodo faentino risalgono le opere: Cristo in casa del fariseo; Annunciazione; Lavanda dei piedi; Martirio di Santa Caterina.

Le prime due opere sono costituite da elementi di stampo raffaellesco accompagnati da un ricercato gusto fiammingo; i colori dovevano essere molto più vividi, ma lo stato di conservazione attuale non ci permette di cogliere l’effetto originario. Cristo in casa del fariseo è un olio su tavola raffigurante la Maddalena nell’atto di lavare i piedi al Salvatore, oggi collocato nella Pinacoteca Comunale di Faenza. L’assenza di realismo che caratterizza l’opera del Marchetti è evidente nei volti di alcuni dei suoi personaggi, come la Madonna dell'Annunciazione; tuttavia, la firma dell’artista è la presenza di un numero spropositato di figure, le quali si contorcono in pose innaturali, rendendo la composizione volutamente disordinata a sottolineare l’estro del suo ideatore. Nell’ultimo periodo della sua vita si concentrerà sugli affreschi della chiesa di San Girolamo dell’Osservanza, andati perduti in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Martirio di Santa Caterina

Una delle opere più importanti di Marco Marchetti è il Martirio di Santa Caterina, quest’opera risale al 1580 ed è conservata nella chiesa di Sant’Antonio a Faenza. Lo stato dell’opera è pessimo e a peggiorare la situazione sono stati dei restauri mal svolti, i quali hanno compromesso i volti delle figure e la nitidezza del colore; tuttavia, è grazie ai disegni preparatori di questa tavola che si è scoperto il modus operandi del pittore. Marchetti lavorava per modelli, che regolarmente mostrava ai committenti per saperne il giudizio. Dell’opera colpiscono i soldati, essi infatti sembrano curarsi più dello spettatore che della Santa, mostrandosi al nostro sguardo in tutta la loro magnificenza.

Martirio di Santa Caterina.

 

Note

[1] A. Corbara, Aspetti del tardo manierismo faentino, in “Melozzo da Forlì”, 7, 1939

 

Bibliografia

Romagna arte e storia, Alessandra Bigi Iotti e Giulio Zavatta

 

Sitografia

www.museicomunalirimini.it/musei/museo_citta/patrimonio_museo_citta/catalogo_mappa_museo_citta/-medievale_moderno_piano1/pagina28.html

www.treccani.it/enciclopedia/marchetti-marco-detto-marco-da-faenza_(Dizionario-Biografico)/


PALAZZO MILZETTI A FAENZA

A cura di Francesca Strada

In via Tonducci n.15 a Faenza (RA) è ubicato Palazzo Milzetti, la cui facciata austera, ornata da un bugnato, nasconde la bellezza e lo sfarzo di una splendida residenza neoclassica, oggi Museo Nazionale dell’età neoclassica in Romagna. L’edificio fu progettato dall’architetto faentino Giuseppe Pistocchi sotto richiesta del conte Nicola Milzetti per riqualificare le case di sua proprietà gravemente danneggiate dal terremoto del 1781. La presenza di questi edifici antecedenti ha influenzato notevolmente il lavoro dell’architetto, il quale non ebbe completa libertà di progettazione, ma dovette attenersi alle forme del preesistente fabbricato.

Fig. 1 - Facciata di Palazzo Milzetti.

Pistocchi, già noto per l’ideazione di teatro Masini a Faenza e per vari progetti a Piazza Duomo a Milano, riuscì a completare il palazzo prima dell’ottobre del 1796, anno in cui venne arrestato e incarcerato nel forte di San Leo con la grave accusa di giacobinismo da parte dello Stato Pontificio. I lavori ripresero con l’arrivo dell’architetto Giovanni Antonio Antonini, ideatore del Foro Bonaparte a Milano, un progetto dai costi talmente elevati da dover essere scartato. L’impegno dell’Antonini fu fondamentale per la realizzazione della sala più spettacolare del complesso: il salone ottagonale.  Il salone ottagonale, o Tempio di Apollo, è ornato da otto colonne corinzie e vede come protagonista il dio Apollo, seduto sul carro del sole, che in veste di portatore di luce diventa la personificazione stessa del pensiero massonico, ridondante nella sala come in tutto il palazzo. Ad affrescare il salone e le altre stanze fu Felice Giani, la cui opera meglio riuscita, secondo la critica, è proprio l’interno della residenza faentina. Nel tempio sono presenti anche fregi dei fratelli Ballanti-Graziani e di Antonio Trentanove, raffiguranti il mito di Fetonte e delle lunette con simboli zodiacali e immagini legate alle stagioni.

Le stanze presenti all’interno della residenza sono innumerevoli; la facciata e lo scalone nella loro semplicità non prospettano al visitatore la meraviglia custodita fra le mura, creando così sorpresa e stupore al momento dell’ingresso nel piano terreno e della visione dell’appartamento da scapolo del conte Francesco Milzetti, figlio di Nicola Milzetti. Nel pian terreno sono presenti sale di passaggio, una sala da bagno, una biblioteca, una sala da pranzo e una cucina. Uno degli ambienti più interessanti è sicuramente la cucina, collocata nella parte sotterranea del palazzo, che conserva ancora un mobilio originale e databile all’epoca, come per esempio il girarrosto e una dispensa, e sono stati aggiunti utensili non appartenenti al palazzo ma del medesimo periodo.

Fig. 4 - Cucina.

All’ingresso dell’atrio dell’appartamento si collocano pochi scalini, che permettono l’accesso alla sala da pranzo, la cui decorazione semplice, seppur sublime, non si addice al fasto della nobiltà. La stanza decorata a grottesche a tempera su muro presenta il tema del Convito degli Dei, tra i quali spiccano Cerere e Bacco, e da foglie di vite e di fico, che sembrano far riferimento all’arte della ceramica faentina. Le decorazioni a tendaggi donano volumetria alla stanza e accanto a esse paiono esserci quattro porte: in realtà solo due di loro lo sono realmente, mentre altre due porte sono dipinte donando simmetria e entrando quindi a far parte della decorazione stessa.

Fig. 5 - Sala da pranzo.

La biblioteca è decorata a tempera su muro e viene a ricrearsi un motivo a finto legno con al centro immagini sul tema della sapienza; i mobili in legno sono stati spogliati dei loro preziosi manoscritti, oggi conservati nella biblioteca comunale.

Fig. 6 - Biblioteca.

Il bagno di color nero, posizionato in prossimità della biblioteca, presenta il tema dell’acqua; le magnifiche pitture si ispirano ai rinvenimenti di Ercolano con danze di fauni e baccanti, piccoli amori e naiadi accompagnate da animali marini. Sul soffitto la rappresentazione delle nozze di Nettuno e Anfitrite del Giani chiude la composizione. Gli specchi posti sulle pareti donano otticamente l’effetto di un bagno spazioso e luminoso, ma la vera protagonista della sala è la vasca da bagno in marmo voluta dal conte.

Accedendo al piano nobile, è il salone ottagonale a farla da padrone per via della sua imponenza, ma la sala delle feste, o Galleria di Achille, è la vera rappresentazione dello sfarzo neoclassico. La maestria dei pittori nell’affrescare la stanza induce il visitatore a credere che ciò che vede non sia dipinto, bensì scolpito nel marmo. Oltre alle decorazioni pittoriche a finto marmo, troviamo scene affrescate sulle pareti che vedono come protagonisti vari episodi tratti dall’Iliade, dando maggior risalto alle figure di Achille, Crise e Briseide, mentre sontuosi lampadari pendono dal soffitto.

Fig. 9 - Galleria di Achille.

Sullo stesso piano troviamo altri locali, tra i quali spiccano la stanza con alcova, la stanza nuziale e il gabinetto d’amore. La stanza con alcova è una piccola camera da letto con toeletta, affrescata con scene tratte dall’Eneide; qui si trova anche una decorazione a finto tendaggio che maschera due porte, una è un guardaroba e l’altra un accesso segreto per i giardini da usare come via di fuga per il conte, ma anche per far uscire inosservate le sue amanti. La stanza nuziale dei conti Francesco Milzetti e Giacinta Marchetti ci presenta invece un tema strettamente legato alla sua funzione: il ritorno di Ulisse. Nelle scene riguardanti il ritorno dell’eroe è l’incontro con la moglie Penelope il punto focale.

L’ultimo locale di notevole interesse è il gabinetto d’amore, o boudoir, così denominato per la presenza di tematiche amorose nella decorazione, come ad esempio Amore che trionfa sugli Dei e Plutone e Proserpina. È nel boudoir che Giani sigla il termine dei lavori nel 1805. Passeranno 174 anni prima che nel 1979 il palazzo venga aperto al pubblico, così che chiunque possa godere della sua bellezza.

Fig. 10 - Gabinetto d'amore.

 

Bseri e Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, tipografia sociale faentina di Edoardo dal Pozzo

 

Sitografia

https://palazzomilzetti.jimdofree.com/il-palazzo-the-palace-der-palast-le-palais-el-palacio/

https://www.miurf.it/faenza/palazzo-milzetti/

https://www.polomusealeemiliaromagna.beniculturali.it/musei/museo-dell-eta-neoclassica-in-romagna-palazzo-milzetti