LA CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA A SERMONETA

A cura di Andrea Bardi

Introduzione: cenni storici sulla chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta

L’origine della chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta, innalzata sui resti di un antico tempio dedicato alla dea Cibele, ci viene riportata dalla principale fonte storica locale, ovvero le Notizie storiche della terra di Sermoneta di Pietro Pantanelli (1766).  Le Notizie narrano che la chiesa venne distrutta, nel corso dei conflitti che videro impegnati gli Annibaldi, signori di Sermoneta, e Lando da Ceccano, proprio da quest’ultimo. Circa la datazione proposta dal Pantanelli (1030) le ricerche storiche condotte nel secolo scorso hanno corretto il tiro spostando tali avvenimenti in avanti di circa un secolo. In seguito alla distruzione, la chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta divenne oggetto di donazioni a partire dalla seconda metà del XII secolo. La prima donazione al Capitolo per volontà dei signori di Bassano, risale al 1169. Il 1235 è invece l’anno in cui i canonici domandano di riprendere possesso della struttura, evidentemente già ricostruita nelle sue parti essenziali. Nel 1266 il canonico Giovanni Sapiente finanzia un ulteriore intervento “pro restauratione ecclesia”. L’ultimo rimaneggiamento duecentesco, stavolta “pro ornamentis, et edificiis, et luminaribus” avviene per volontà di Riccardo Annibaldi.

Il fervore artistico di fine Duecento si arresta per tutto il secolo successivo, trovando nuova linfa agli inizi del Quattrocento, quando nel 1422 il pittore privernese Pietro Coleberti decora la lunetta del portale d’ingresso con una Madonna con Bambino tra i SS. Pietro e Agostino [fig. 1]. L’avvento del Rinascimento, tuttavia, non si risolve in una trama figurativa dal tono squisitamente locale grazie all’arrivo a Sermoneta di Benozzo Gozzoli nella seconda metà degli anni Cinquanta. La sua Madonna degli angeli, prova pittorica di estrema grazia seppur ancora totalmente nel solco del Beato Angelico, viene realizzata in seguito alla peste del 1456. Nel Quattrocento si assiste all’apertura delle cappelle laterali e alla decorazione della controfacciata con un Giudizio Universale di Desiderio da Subiaco [fig. 2].

Nel primissimo Seicento (1600-1606) la riqualificazione del coro, finanziata dai fratelli Flaminio e Alessandro Americi, conduce al completamento degli affreschi con Storie della Vergine, grande prova pittorica ultimata dalla squadra di Bernardino Cesari (1571-1622), fratello minore del Cavalier d’Arpino. Pochi anni dopo, il duca Pietro Caetani fa realizzare gli stalli lignei del coro, sui quali è ancora possibile identificare lo stemma della sua casata (le onde). Nel 1683 il Capitolo regala alla chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta l’altare del monumentale baldacchino ligneo di Giuseppe Baccari, mentre l’antistante crocifisso ligneo (1689) è stato realizzato da Francesco Cavallini. Nella prima metà del secolo sono poi portati a termine anche dei pesantissimi interventi di restauro, al termine dei quali la superficie nuda dei conci lapidei duecenteschi viene totalmente ricoperta di intonaco. Solo nel 1963, a termine di un successivo intervento di restauro, i pilastri medievali tornano finalmente alla luce.

Esterno

Il campanile

Fig. 3 – credits to: https://aimagelab.ing.unimore.it.

Il campanile della chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta [fig. 3], antecedente ai rimaneggiamenti cistercensi ma originariamente staccato rispetto al primo corpo di fabbrica, segue la tipologia dei campanili eretti in zona romana tra il XI e il XIII secolo. A base quadrata, si eleva in altezza per ventiquattro metri, scandendo la sua superficie laterale in sei piani tramite cornici marcapiano. Ogni piano consta di una piccola finestra bifora a colonnine binate[1], a tutto sesto, le cui due aperture sono separate da una colonnina in marmo culminante in un capitello a stampella. Sul lato nord la serie ininterrotta di bifore parte dal secondo piano, mentre sul primo è presente un’edicola a due archi sovrapposti; al primo, a tutto sesto, se ne sovrappone un secondo a sesto acuto. Una simile conformazione dell’edicola trae le sue origini nella mescolanza, nell’area del Lazio meridionale, di modelli più squisitamente romani con influssi tipicamente campani[2]. Originariamente il campanile era dotato di una copertura piramidale, andata distrutta nel XVI secolo dopo essere stata colpita da un campanile[3].

Il portico

Fig. 4 – credits to: https://aimagelab.ing.unimore.it.

Antistante rispetto al portale d’ingresso, e ascrivibile alla fase cistercense dell’edificio, il portico di S. Maria Assunta [fig. 4] ha pianta quadrata e sviluppa una larghezza coincidente con quella della navata principale. Aperto su due lati, e murato sul lato adiacente rispetto alla navata di destra, le sue aperture ogivali () poggiano sulle semicolonne addossate in facciata e su di un grande pilastro angolare recante un’incisione (1561 LO TRONE DETTE AL CAPANILE) [fig. 5] che ricorda la distruzione del coronamento a guglia del campanile, colpito da un fulmine in quell’anno. Gli archi acuti, a ghiera rientrata, introducono un unico ambiente, corrispondente allo spazio di una campata e voltato a crociera.

Fig. 5

Interno

L’assetto planimetrico della prima fondazione romanica prevedeva un edificio a tre navate, che sommava in lunghezza a nove campate una terminazione absidale, paragonabile a quella della chiesa di San Pietro a Ninfa. Le pareti laterali, poi, erano aperte da diciotto monofore oggi murate e sostituite da una singola apertura quadrata per campata. Un'altra fondamentale differenza con l’attuale struttura risiedeva nella natura e nelle dimensioni dell’alzato. Le imposte degli archi a tutto sesto, tuttora visibili nelle prime due campate della chiesa, evidenziano infatti un’altezza inferiore della fabbrica romanica rispetto alla sua ricostruzione gotica. In secondo luogo, l’attuale soffitto voltato a crociera, sulle cui vele affrescate in blu campeggiano motivi geometrici ad andamento curvilineo, andò a sostituire la primitiva copertura in legno. La statica della chiesa, in seguito alla costruzione delle nuove crociere, introdotte da un’infilata di archi ogivali a conci di pietra regolari [fig. 6], fu rafforzata tramite l’addossamento ai pilastri romanici di semipilastri in pietra[4]. Anche le navate laterali furono dotate di una copertura a volta, tuttavia la regolarità della scansione architettonica venne mantenuta solo nella navata di destra. Sul lato sinistro, infatti, le arcate longitudinali a tutto sesto raggiungono altezze diverse tra di loro.

Fig. 6 – credits to: https://aimagelab.ing.unimore.it.

Le pitture: la cappella degli Angeli

Tra le cappelle delle navi laterali, un posto di particolare rilievo è assunto dalla cappella degli Angeli. In principio (anni Cinquanta del Novecento) sotto il patronato della famiglia Iannarello, venne ceduta nel 1595 a Tullia de Marchis. La famiglia de Marchis assegnò l’onere di decorare i lati brevi della cappella ad un pittore, Angelo Guerra di Anagni, attivo a Sermoneta anche nella cappella Mazzancollo in San Giuseppe. La cappella degli Angeli, tuttavia, deve il suo nome alla grande pala d’altare [fig. 7] che Benozzo Gozzoli (1420-1497) eseguì nel 1456, in seguito alla peste che colpì la popolazione di Sermoneta. Si tratta di una pala cuspidata, originariamente su tavola e successivamente trasposta su tela, raffigurante la Vergine in Trono con in mano il modellino della città di Sermoneta [fig. 8][5].

Vista in posizione frontale, con il volto leggermente reclinato verso destra, Maria è attorniata da due gruppi speculari di angeli, che si dipanano dall’alto verso il basso secondo gerarchia e i cui nimbi recano le rispettive denominazioni (SERAPHINI, CHERVBINI, TRONI, DOMINATIONI, VIRTVTES, POTESTATES, PRINCIPATI, ARCANGELI, ANGELI). Anche l’aureola di Maria reca un’iscrizione (MARIA. MATER GRATIE MATER MISERIC [ORDIAE]) che segue il profilo curvilineo dell’aureola. Su entrambi i lati, anche le Dominazioni e gli Angeli recano cartigli[6]. Delimitato da due fasce decorate a girali a motivi vegetali e compresenze animali, il pannello principale è affiancato nella sezione cuspidata da due presenze umane intente a srotolare e rivelare cartigli. Il primo, “DILIGIT DILIGE[N]TES SE”, riprende un passo di Bernardo (“[Maria] ama coloro che la amano”); il secondo reca la scritta “VIGILA[N]S INVENIET EAM”. A Sermoneta Benozzo, pur essendo ancora profondamente legato al linguaggio del Beato Angelico (1395 - 1455), riesce ad unire a un’estrema delicatezza nel trattamento della materia pittorica un’elevata maestria compositiva in un gioco continuo di euritmie geometriche. Le eccentricità dei cartigli si sposano alla perfezione con la regolarità della folla di nimbi; l’ordito circolare delle teste angeliche, replicandosi ai lati nei motivi decorativi, attenua, in combinazione con le placide curve del profilo di Maria, una spinta verticale molto importante conferendo all’insieme un senso di profondo equilibrio.

Le pitture: la cappella del Santissimo Rosario

La cappella prende il nome dall’immagine della Madonna del Rosario che, spostata, venne sostituita sul lato di fondo da un ritratto di San Francesco, stilisticamente attribuito a Desiderio da Subiaco. Sulle pareti lunghe alcune Scene del Vecchio Testamento (Mosè dinanzi al roveto ardente, Salomone e la regina di Saba) del pittore settecentesco Giovanni Domenico Fiorentini sono inserite in cornici clipeate sorrette da angeli. Le Storie veterotestamentarie continuano anche nelle vele della volta. La cappella venne restaurata nel 1960 per volontà di Antonio Rosa, potestà di Sermoneta ed avvocato.

Le pitture: gli affreschi del coro

Commissionati dai fratelli Flaminio e Alessandro Americi agli inizi del XVII secolo, in ricordo del padre Pietro, gli affreschi con Storie della Vergine vennero completati dall’équipe del pittore arpinate Bernardino Cesari. Le tre scene (Natività della Vergine [fig. 9], Apostoli attorno al sepolcro vuoto[7], Dormitio Virginis) fungono da introduzione all’episodio centrale, dipinto sulla volta, dell’intera vicenda mariana e della chiesa stessa, l’Assunzione di Maria. La restante figurazione, risolta sulle lunette della volta, comprende altri episodi (Presentazione della Vergine al Tempio, Sposalizio con Giuseppe, Annunciazione, Visitazione). Sulle vele, figure di Santi e Sibille. Infine, sui pennacchi finti velluti dipinti incorniciano lo stemma della famiglia Americi.

Fig. 9 – credits to: https://www.compagniadeilepini.it.

 

Note

[1] Casi simili si riscontrano nel campanile della cattedrale di Rieti, in quello del duomo di Palestrina e nella chiesa di S. Paolo a Genazzano.

[2] È il caso del campanile della cattedrale di Gaeta, o anche di quello che fiancheggia il Duomo di Terracina.

[3] L’originaria conformazione della struttura è intuibile dal modellino della città di Sermoneta tenuto tra le mani dalla Vergine nella pala di Benozzo Gozzoli.

[4]  Ai primi due semipilastri vennero aggiunte anche delle semicolonne.

[5] Il modellino del Gozzoli costituisce la più antica rappresentazione pittorica della città di Sermoneta.

[6] Le iscrizioni sui cartigli sono: NOLITE NOCERE TERRE ET MARI NEC ARBORIBUS (Dominazione sul lato sinistro); SVP QVANDO VIDERITIS THAV NO OCCIDATIS (Dominazione sul lato destro); DIC ANGELO PERCVTIENTI CESS [...] MAN [...] TVA” (Angeli).

[7] Soggetto trattato anche dal Cavalier d’Arpino nel transetto destro della chiesa di S. Atanasio a Roma.

 

Bibliografia

Bertini Calosso, Le origini della pittura del Quattrocento attorno a Roma, in “Bollettino d’Arte”, XIV, 5, pp. 97-110; 8, pp. 185-232, 1920.

Tamanti, La chiesa di S. Maria Assunta in Sermoneta, in “Bollettino dell’Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale”, VIII, 2, pp. 75-92, 1975.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/benozzo-di-lese_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/bernardino-cesari_(Dizionario-Biografico)/

http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-coleberti_(Dizionario-Biografico)/

https://www.compagniadeilepini.it/musei/da-pietro-coleberti-a-niccolo-circignani-il-rinascimento-nei-lepini/

http://www.prolocosermoneta.it/la-cattedrale-di-s.html

http://www.comunedisermoneta.it/?page_id=410

https://aimagelab.ing.unimore.it/leviedelgotico/scheda.asp?IDScheda=73


LA CHIESA DI SAN GIUSEPPE A SERMONETA

A cura di Andrea Bardi

Introduzione

A pochi metri rispetto all’ingresso odierno del borgo, in via Garibaldi presso la Porta del Pozzo, si trova la chiesa di San Giuseppe a Sermoneta, intitolata al patrono cittadino. La costruzione della chiesa venne intrapresa a partire dal 1525 grazie alla volontà della famiglia dei Caetani[1]. L’attuale assetto dell’edificio è, nella planimetria, pressoché corrispondente a quello originario, ad eccezione della facciata e della gradinata d’accesso, completate entrambe nel 1733.

Esterno: la facciata della chiesa di San Giuseppe a Sermoneta

Preceduta da una scalinata ad essa coeva, e posteriore rispetto alla fabbrica originaria, la facciata della chiesa di San Giuseppe a Sermoneta si rivela sin da subito nella sua essenzialità [fig. 1]. Priva di decorazioni pittoriche, essa ha nell’ordine gigante binato di paraste (pilastri sporgenti da una parete) doriche l’elemento che dà, ad un modulo regolare e quasi quadrato, un accenno di slancio verticale. La doppia trabeazione, rotta al centro da un’apertura rettangolare, introduce verso l’alto un ulteriore ordine minore, anch’esso di paraste doriche la cui trabeazione è lunettata agli angoli e assente nella parte centrale.

Fig. 1 – Credits to http://www.sermoneta.net.

Interno: le cappelle laterali della chiesa di San Giuseppe a Sermoneta

Altrettanto essenziale è la conformazione degli spazi interni della chiesa [fig. 2]. A navata unica e coperto da due crociere decorate a fresco e a stucchi, l’edificio presenta tre cappelle su ogni lato in forma di nicchie ad arco ricavate dallo spessore della muratura.

Fig. 2

Della decorazione originaria, tra i pochi – e ormai illeggibili – lacerti ornamentali soltanto i brani pittorici di due cappelle sono rimasti pressoché integri: si tratta degli affreschi della Cappella Mazzancollo (la prima sulla sinistra) e quelli della cappella Caetani, che denunciano, anche ad un primo impatto visivo, un netto scarto qualitativo rispetto alla prima.

La cappella Caetani in San Giuseppe a Sermoneta (1550)

Precedenti di circa mezzo secolo rispetto alla cappella Mazzancollo, gli affreschi Caetani [fig. 3] furono voluti da Bonifacio I Caetani nel 1550[2]. In quell’anno Bonifacio Caetani volle richiamare in terra natia una tra le massime personalità dell’ambiente manierista nazionale, Girolamo Siciolante da Sermoneta (1521-1580). Il primo a parlare della cappella, e ad identificare con certezza la mano del Siciolante, fu Pietro Pantanelli, storico locale, nelle Notizie storiche della terra di Sermoneta (1766). Il pittore, chiamato già un anno prima dal Caetani, dovette – prima di tornare in patria – completare dei lavori per l’oratorio del castello della Bastie d’Urfé, a Saint-Etienne-le-Molard. La struttura dell’absidiola ha nella cappella Ponzetti [fig. 4] in S. Maria della Pace[3] – opera di Baldassarre Peruzzi – il suo chiaro punto di riferimento. Da quest’ultima riprende infatti la divisione dell’invaso spaziale in più registri e la struttura della griglia geometrica nella calotta emisferica [fig. 5].

Le tre fasce concentriche orizzontali, incrociandosi con due spicchi verticali, creano così una griglia di nove compartimenti, sette dei quali sono destinati a brani di natura figurativa. Nella parte alta della calotta, la porzione centrale ospita una Vergine Assunta. Nella fascia mezzana, tre episodi della Genesi: a sinistra, una Creazione di Adamo precede la Creazione di Eva e il Peccato Originale. In basso, tre scene della Passione: da sinistra a destra, Flagellazione, Cristo davanti a Pilato e Salita al Calvario. Le scene, già cromaticamente molto accese, vengono vivificate dalla presenza di partizioni decorative a monocromo verdi e rosse, che separano tra loro le varie scene. Sull’estradosso dell’arco (), una Sibilla a sinistra e un Profeta a destra. Sopra l’arco, invece, due angeli reggono lo stemma dei Caetani, con le aquile e le onde simbolo di Gaeta, città da cui la casata trae origine [fig. 6].

Fig. 6

Al di sotto del catino absidale, quattro finte paraste composite scanalate introducono tre riquadri. Ad una assai danneggiata Sacra Famiglia (ad ora rimangono visibili solo Maria e il Bambino) [fig. 7] si accompagnano un San Girolamo [fig. 8] sulla sinistra, con il teschio – simbolo di penitenza – e il leone a cui tolse una spina dalla zampa, e un San Bonaventura [fig. 9] sulla destra, con la mitra (copricapo vescovile) e il piviale (paramento sacerdotale).

Fig. 7

Due paraste composite a fresco, decorate lungo la verticale con grottesche[4], delimitano lo spazio esterno della cappella. Il riquadro con la Sacra Famiglia è, a sua volta, inserito in un’edicola sorretta da due erme (sculture con un basamento sovrastato da un busto o da un volto) femminili [fig. 10]. I due santi, invece, sono valorizzati da una terminazione arcuata culminante nella presenza di coppie di nudi a monocromo– anch’essi dal chiaro respiro sistino – ai lati di un bucranio [fig. 11], a loro volta sovrastati dai due riquadri della Crocifissione (sinistra) e della Resurrezione (destra).  Nel registro in basso sono raffigurati, ancora a monocromo, il Sacrificio di Isacco e Mosè davanti al roveto ardente.

Una recente interpretazione degli affreschi, avanzata da Sonia Testa, ha voluto porre al centro del progetto di Bonifacio l’esaltazione della fertilità. Nel 1550, infatti, Caterina Pio di Savoia, moglie di Bonifacio, diede alla luce il figlio Enrico. Per una simile interpretazione la studiosa ha osservato attentamente dei dettagli sui quali, all’interno dei cicli decorativi cinquecenteschi, si tende spesso a glissare, ovvero le grottesche. Tra le numerosissime figurine a fresco la studiosa ha voluto perciò attribuire all’altrimenti anonimo volto femminile le fattezze di Caterina. Un indizio che, in associazione con un’immagine tradizionalmente associata alla fertilità, ovvero Diana Efesina – presente subito al di sotto del volto – conferirebbe anche all’insieme di grottesche una certa unitarietà programmatica [fig. 12].

Fig. 12

Nella cappella Caetani della chiesa di San Giuseppe a Sermoneta il linguaggio di Girolamo è teso ad un recupero di forme michelangiolesche rielaborate in totale libertà (si pensi alla Creazione di Adamo), ma soprattutto alla competizione con prove pittoriche a lui contemporanee: innanzitutto con il maestro Perin del Vaga, con cui si confronta nella scena della Creazione di Eva a partire dall’omologo soggetto di Perino in S. Marcello al Corso [fig. 13] [fig. 14]: poi con Francesco Salviati nella Resurrezione della Cappella dei Margravi di Brandeburgo in S. Maria della Vita [fig. 15] [fig. 16] (altro cantiere in cui il Siciolante fu operativo).

La Cappella Mazzancollo

La cappella Mazzancollo nella chiesa di San Giuseppe a Sermoneta, la prima di sinistra [fig. 16], fu commissionata dalla famiglia Mazzancollo tra il 1605 ed il 1606. Il nome del pittore dietro l’impianto, notevolmente inferiore per qualità pittorica rispetto all’alto livello del Siciolante, è ancora sconosciuto.

Fig. 17

Per i volti dei due santi laterali è stata invece individuata la mano del pittore Angelo Guerra d’Anagni, che per Sermoneta decorò anche le ventotto lunette del chiostro dell’eremo di San Francesco. I santi in questione [fig. 18] [fig. 19], un San Francesco e una Santa Lucia, sono stati scelti per omonimia con il committente e con la moglie. Di non eccelsa qualità pittorica, sono entrambi contenuti in una nicchia ad arco il cui incavo emisferico superiore assume l’assai diffuso motivo a conchiglia. Ai lati le nicchie sono chiuse da due paraste composite scanalate.

Al centro della scena, una Madonna con Bambino [fig. 20] è inserita in una finta ambientazione architettonica a pilastri, compositi e scanalati, coperta da un soffitto a lacunari (incavi geometrici a trama geometrica regolare ricavati dal soffitto).  Nel catino absidale un Dio Padre, con il globo nella mano, è circondato ovunque da angeli in volo ed emergenti da uno strato di nubi particolarmente delicato, dalla consistenza soffice e spumosa [fig. 21].

 

Note

[1] La famiglia Caetani (o Gaetani) nasce dalla stirpe degli ipati, antichi consoli di Gaeta, dal IX secolo. Benedetto Caetani, del ramo anagnino, divenne (1294) uno dei papi più noti e controversi della storia del cattolicesimo, Bonifacio VIII. Al ramo di Sermoneta, invece, dopo essere stato fortemente avversato da Alessandro VI, vennero restituiti i feudi, di proprietà di Lucrezia Borgia, agli inizi del Cinquecento grazie all’azione di Giulio II.

 [3] La cappella Ponzetti si trova in posizione frontale rispetto alla cappella Cesi, alla cui decorazione attese proprio il Siciolante.

[4] Il termine grottesca si riferisce a quella tipologia di decorazione murale fatta di animali fantastici, mostri immaginari, inseriti in una trama ornamentale a motivi geometrici o desunti dal mondo vegetale. Tale impianto decorativo deve il suo nome al ritrovamento presso i resti sotterranei della Domus Aurea neroniana, presso le grotte dell’Esquilino.

 

Bibliografia

Testa, La cappella Caetani nella chiesa di San Giuseppe a Sermoneta. Verso una nuova lettura degli affreschi, Il mio libro, 2015.

Zeri, Intorno a Gerolamo Siciolante, in “Bollettino d’arte”, XXXVI, 1951, pp. 139-149.

 

Sitografia

http://www.prolocosermoneta.it/la-chiesa-di-san-giuseppe.html

http://www.comunedisermoneta.it/?page_id=413

http://conoscerepertutelare.altervista.org/una-nuova-lettura-degli-affreschi-della-cappella-caetani-di-sermoneta/

http://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-siciolante_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/caetani_%28Enciclopedia-Italiana%29/


SAN CESAREO, IL DUOMO DI TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

La concattedrale di San Cesareo: storia

Nell’area che dal I secolo a.C. ospitava il Foro Emiliano (dal nome di Aulo Emilio, il magistrato romano che lo fece completare[1]), e precisamente al di sopra del podio del Tempio Maggiore cittadino, il Capitolium[2], si trova la cattedrale di Terracina, intitolata ad uno dei suoi patroni, San Cesareo, martire di origine cartaginese sotto Traiano [fig. 1].

Fig. 1

Le prime notizie della Basilica Sancti Cesarii, nonostante fosse documentata una folta comunità di fedeli già sotto Gregorio Magno (590-604)[3], risalgono al periodo carolingio, e precisamente al pontificato di Leone IV (847-855). Secondo il Liber Pontificalis, infatti, fu questo pontefice a donare alla Basilica una veste liturgica recante il proprio nome. Al momento della donazione della veste, tuttavia, l’areale del Foro era già stato interessato da una fase di ristrutturazione (probabilmente in occasione della visita dell’imperatore Costante II nel 662) voluto dal consul et dux di Terracina, il dominus Giorgio. L’intervento di riqualificazione del Foro da parte di Giorgio è ben testimoniato da un’iscrizione graffita su una colonna, evidentemente di spoglio, del portico della cattedrale (MVNDIFICATVS EST FORVS ISTE TEMPORE DOMINI GEORGII CONSVL ET DVX). Bisogna aspettare l’ultimo quarto del XI secolo, tuttavia, per la consacrazione della cattedrale. Nel 1073 papa Alessandro II (1061-1073) donò personalmente la diocesi[4] (e di conseguenza anche la cattedrale) a Desiderio, abate di Montecassino (futuro papa Vittore III). L’anno successivo un altro monaco cassinese, Ambrogio, fece consacrare l’edificio al martire Cesareo[5]. Il duomo terracinese divenne il centro della comunità cattolica nel 1088, anno in cui a Vittore III seguì al soglio pontificio Urbano II (1088-1099), eletto al termine di un conclave tenutosi proprio all’interno della cattedrale. L’elezione di Urbano costituì l’acme di un profondo percorso di rinnovamento dell’edificio che, in pieno accordo con i dettami della Riforma Gregoriana[6], doveva coinvolgere anche l’episcopio, che fu perciò dotato di una struttura claustrale[7]. Pochi decenni dopo, e precisamente sotto la guida di Eugenio III, venne completata la decorazione musiva del grande fregio sul portico. Al XIII secolo, invece, risalgono il cero pasquale di Crudele (1245)[8] e il grande campanile laterale. Dopo circa quattrocento anni, un ulteriore momento chiave interessò la morfologia della chiesa di San Cesareo: l’intervento settecentesco (1729) coinvolse la copertura a capriate lignee (sostituita da una volta a botte), la terminazione a tre absidi dell’edificio (rimpiazzata da un coro quadrangolare) e il ciborio medievale, che lasciò spazio ad un grande baldacchino tardobarocco. Fu solo negli anni Venti del Novecento, tuttavia, che il duomo subì l’ultimo intervento sulle sue strutture. Per interessamento del ministro dell’Educazione Nazionale Fedele, si volle effettuare un intervento in stile che riportasse la facciata alla sua conformazione medievale, sostituendo le crociere del portico con un soffitto a capriate lignee e demolendo il nartece (atrio tra la facciata e la navata della chiesa, originariamente adibito ai catecumeni, fedeli non ancora ammessi al battesimo)[9].

 Esterno di San Cesareo

L’attuale duomo di Terracina si innesta sul podio dell’antico Capitolium romano, reimpiegandone la cella scandita all’esterno da una serie di semicolonne scanalate. Al di sopra della gradinata del podio romano si innesta un portico a sei colonne interrotto al centro da un’arcata a tutto sesto[10]. Le colonne, di altezza diseguale tra di loro, sono completate da basamenti di altezza variabile, che recano ognuno coppie di animali [fig. 2], purtroppo scarsamente leggibili ma ancora identificabili (scimmie con strumenti musicali, leoni, pantere, caproni).

Fig. 2

Il portico, coinvolto nel corso del restauro in stile nel 1926 (intervento finalizzato a ripristinarne la struttura originaria) venne completato nel XII secolo, poco dopo la chiusura del cantiere della chiesa ad opera del cardinale Benedetto, titolare di San Pietro in Vincoli morto nel 1128. La committenza benedettina è identificabile grazie ad una iscrizione sulla cornice del portale centrale (“BENEDICTVS S[AN]C[TA]E ROMANAE AECCLESIAE DEI GRAZIA CARDINALEM”). Sul lato destro della trabeazione soprastante corre invece un interessantissimo fregio musivo a schema libero. Il tema del portico, la Redenzione, è qui concretizzato dalla presenza di una serie di animali fantastici con forte valenza simbolica. L’inserimento di una croce patente, di un’imbarcazione e di due iscrizioni è una dichiarazione programmatica della pertinenza alla seconda crociata proclamata da papa Eugenio III nel 1147. Le iscrizioni, infatti, recano i nomi di due cavalieri crociati locali, Goffredo d’Egidio [fig. 3] (GVTIFRED EGIDII MILES) e Pietro del Prete (PETRVS PBRI MILES) [fig. 4].

La prima crociata, indetta proprio da Urbano II, eletto proprio a San Cesareo, era ormai troppo datata per essere oggetto di committenza[11]. Il portico presenta un’ulteriore iscrizione (PALATIVM T[ER]RAC IMP[ERATO]R VALE [NTINIANU]S SILVINIAN[US] CINA LEONTIVS S[ANCTUS] CES[ARIUS] LEONI) relativa ai nomi dei personaggi che erano ritratti nella parte sinistra del fregio. Valentiniano III, imperatore che dedicò un sacello a Cesareo dopo che quest’ultimo aveva guarito miracolosamente la madre, Galla Placidia; Silviano, vescovo cittadino per pochi mesi nel 444; Leonzio, console di Fondi convertito da Cesareo; Cesareo, santo martire titolare del duomo. Alle gesta passate dei santi patroni della città (Cesareo e Silviano) venivano associati i protagonisti dell’allora presente di Terracina (Goffredo e Pietro). Alle estremità del portico l’edificio è chiuso a sinistra dal campanile[12] e a destra da Palazzo Venditti, sede del Comune[13]. Il campanile in laterizio [fig. 5] presenta quattro ordini aperti da bifore (l’ultimo da una trifora) affiancate da arcate acute cieche. Esso si imposta su una volta a crociera su base quadrata, segno evidente della penetrazione in area terracinese delle modalità costruttive cistercensi.

Fig. 5 - credits to: http://www.medioevo.org.

Interno della concattedrale

La chiesa deve il suo attuale impianto planimetrico al periodo romanico (fine XI secolo), tra la donazione di papa Alessandro II a Desiderio e l’elezione di Urbano II. L’intervento sulle preesistenze antiche consistette nella riduzione dell’ampiezza della cella per la creazione di nuove pareti laterali, più vicine alla nave centrale. Tra queste ultime e la muratura originaria si creò così uno spazio di risulta, privo di copertura e costantemente esposto alle intemperie, che portò ad una lenta e prevedibile usura della pavimentazione romana originaria. La parete di fondo del Capitolium venne poi dotata di tre absidi, ricavate a partire dai volumi di alcuni piedistalli basamentali sui quali poggiavano statue di divinità. La chiesa, a tre navate e a terminazione triabsidata, segue da molto vicino la nuova abbazia di Montecassino voluta dall’abate Desiderio. I confronti più diretti, tuttavia, rimangono in ogni caso quello con Sant’Angelo in Formis ma soprattutto con Sant’Agata dei Goti[14]. In alzato, l’edificio somma a un unico ordine di arcate a tutto sesto (sostenute da dodici colonne marmoree di spoglio), la grande botte settecentesca in sostituzione all’originario sistema a capriate. Il gioco decorativo della pavimentazione romana, realizzato mediante una sapiente combinazione di marmi e paste vitree, si snoda in un pattern policromo, dalla grande maestria decorativa, fatto di rotae (cerchi), losanghe e quadrati [fig. 6].

Fig. 6 - credits to: http://www.medioevo.org.

Il pulpito, anch’esso caratterizzato dalla compresenza di marmi policromi e paste vitree lavorati a intarsi geometrici, è a cassa rettangolare [fig. 6]. Sorretto da quattro colonne su leoni stilofori, ognuna delle quali dotata di un capitello diverso dall’altro (curioso è il capitello con tre telamoni) [fig. 8], esso viene sostenuto al centro da un corpo a base ottagonale. Affianco al pulpito, il cero tortile pasquale, datato 1245 e realizzato da un certo Crudele.

Lungo le navate laterali, poi, si aprono gli spazi di sei cappelle (tre per lato). Al culmine delle navate laterali troviamo due cibori medievali (XIII secolo), con gli altari contenenti le reliquie dei Ss. Silviano, Silvia e Rufina (navata sinistra) e di S. Eleuterio (navata destra). Il Ciborio di S. Silviano [fig. 9] [fig. 10] eleva le sue quattro colonne di marmo di reimpiego a partire da una base quadrata. Sui suoi capitelli, corinzi, poggia un architrave di spoglio che introduce il baldacchino a tronco di piramide dalla base ottagonale. Sulla lastra marmorea dell’altare un S. Silviano benedicente è affiancato dalle Ss. Silvia e Rufina, rispettivamente a sinistra e a destra. Il Ciborio di S. Eleuterio [fig. 11] [fig. 12] mantiene elementi analoghi in pianta e in alzato, mentre la lastra sul fronte dell’altare ospita il santo nell’atto di benedire la città.

Il baldacchino centrale, tardobarocco, risale al 1729. La copertura lignea poggia su colonne scanalate culminanti su capitelli compositi [fig. 13]. L’altare centrale, posto al centro del baldacchino, custodisce le reliquie dei Ss. Cesareo, Giuliano, Felice ed Eusebio, ritratti sulla lastra frontale e collocati ai piedi di una scalinata. Il baldacchino settecentesco anticipa gli spazi del coro, culminanti con una statua lignea di S. Pietro in Trono (XIX secolo) [fig. 14].

Introdotto da una grande arcata a tutto sesto, le sue pareti sono decorate da pontefici e santi vescovi a monocromo inscritti in nicchie ad arco. Sebbene non siano state fatte ancora attribuzioni certe, l’ipotesi più accreditata vede nella squadra del pittore gaetano Sebastiano Conca (1680-1764) l’equipe addetta al completamento di questi brani. L’arco trionfale del coro lascia spazio all’episodio dell’Ordinamento di Epafrodito a vescovo di Terracina, che, insieme ai tre episodi della volta del coro (Elezione di Urbano II; Gloria di S. Urbano; Pietro l’Eremita chiede al papa di liberare Gerusalemme dagli infedeli) sono invece opere accertate di Virginio Monti (1852-1942). Le testimonianze pittoriche delle cappelle laterali di San Cesareo sono assai poche. La prima cappella sulla destra è senza dubbio la più interessante. Essa presenta, sul lato di fondo, due figure di santi a fresco dall’identità chiarissima. Sono S. Pietro, sulla sinistra, e S. Paolo sulla destra. Al di sotto dello strato di intonaco, in corrispondenza della figura di Paolo, è stata recentemente rinvenuta una figura di santo apostolo i cui attributi iconografici (bastone da pellegrino, borsa a tracolla, libro) rimandano inequivocabilmente alla figura di S. Giacomo Maggiore [fig. 15], mentre l’insieme dei tratti stilistici portano con un certo grado di certezza a un pittore aggiornato al linguaggio napoletano di Pietro Cavallini (1240-1330 ca.)[15]. Il sottarco della cappella, tra grottesche, girali vegetali e cornici in stucco, introduce tre riquadri con un’Orazione nell’Orto, una Flagellazione di Cristo e, al centro, un Padre Eterno.

Fig. 15

Le altre cappelle non presentano alcuna decorazione pittorica, essendo molti dipinti stati trafugati alla fine del secolo scorso (tra il 1989 e il 1991 sono scomparsi una copia dal Battesimo di Cristo di Carlo Maratta in S. Maria degli Angeli, una Sacra Famiglia e una Santa Brigida). Ai lati dell’absidiola minore, in corrispondenza del Ciborio del vescovo Eleuterio, si trovano i brani pittorici più interessanti e risalenti alla fine del X secolo. Una testa imberbe [fig. 16], facente parte di un originario ciclo pittorico di cui essa è l’unica porzione superstite, è connotata dal forte linearismo e dalla carica espressiva che caratterizzano il coevo stile beneventano. Successiva rispetto alla testa, una fascia in finto marmo [fig. 17] tra l’absidiola e la zona presbiteriale, altro elemento che permette una collocazione abbastanza precisa nel quadrante culturale della pittura campana del tempo (Cripta di Giosuè in S. Vincenzo al Volturno). In corrispondenza dei gradini del presbiterio, poi, un velarium [fig. 18] (pressoché coevo alla lastra in finto marmo) segnato nella sua parte alta da due linee nere ondulate e, in verticale, da bande rosse.

Fig. 16
Fig. 19

 

 

Note

[1]Al centro del lastricato del Foro si trova l’iscrizione “A(ulus) AEMILIUS A(uli) F(ilius) STRAVI [T]”.

[2] Fino allo scorso secolo era visibile, dal retro del Duomo in corso Anita Garibaldi, l’iscrizione recante il nome dell’architetto, un certo C. Postumio Pollione.

[3] Terracina era, alla metà del V secolo, importante kastron militare bizantino contro la pressione dei Goti da sud, in occasione della cosiddetta “guerra greco-gotica”.

[4][4] La donazione riguardò la “civitatem terracinensem cum pertinentiis suis”.

[5] L’influenza di Montecassino su Terracina era, all’epoca della donazione, già avviata, a partire dall’episcopato del monaco Teodaldus attorno alla metà del XI secolo.

[6]Dal nome di Gregorio VII (1073-1085).

[7] Durante i lavori di ristrutturazione dell’episcopio (1994) sono state rinvenute colonne romane di riuso, collegate tra loro mediante arcate a tutto sesto, evidentemente afferenti al chiostro del vescovado.

[8] La datazione (31 ottobre 1245) è incisa sul lato verso l’altare: A.D. MCCXLV MEN. OCT. DIE ULTIMA. Sul lato rivolto alla navata centrale, invece, l’iscrizione “CRUDELES OPE” è testimonianza esaustiva dell’identità dell’artefice.

[9] Durante la visita pastorale del 1580 le colonne erano sedici. In seguito alla demolizione novecentesca, il numero scese a dodici. Due colonne erano collocate all’apertura del nartece verso la navata, le altre due ai lati della confessio, ovvero la cella in cui vengono conservate le reliquie del santo.

[10] Prima del recupero delle forme originarie a seguito dell’intervento novecentesco, il portico era voltato a crociera e le arcate a sesto acuto sono state sostituite da una serie di archi ciechi a sesto ribassato, secondo il modello rintracciabile anche in S. Giorgio al Velabro.

[11] Le analisi paleografiche dell’iscrizione hanno inoltre confermato la pertinenza al XII secolo.

[12] Costruito successivamente rispetto al portico: lo spazio per i pilastri del campanile venne ricavato a partire da un taglio della modanatura di base.

[13] Recenti ipotesi vorrebbero il palazzo la residenza della famiglia dei Pironti, che avrebbero commissionato anche il campanile. Un membro della famiglia dei Pironti, seguendo tale lettura, potrebbe essere il personaggio che si nasconde dietro il ritratto scolpito sul pilastro del campanile.

[14] Sant’Agata è il parallelo più convincente proprio per la realizzazione delle absidi entro preesistenze murarie, nonché per la presenza del presbiterio rialzato.

[15] Pietro Cavallini giunse a Napoli nel 1308, lavorando alla Cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore e in Santa Maria Donnaregina.

 

Bibliografia

di Gioia, La cattedrale di Terracina, Roma, Rari nantes, 1982.

Nuzzo, La decorazione pittorica della cattedrale di Terracina dal X al XIV secolo alla luce delle recenti scoperte. Dall’influenza beneventana alla pittura della Riforma, ai percorsi delle botteghe cavalliniane nel Lazio meridionale, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 217 – 236.

T. Gigliozzi, Nuovi elementi per la fase architettonica altomedievale della cattedrale di Terracina e inedite testimonianze del periodo ‘desideriano’, in Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina (a cura di M. Righetti), Roma, Campisano, 2014, pp. 201-216.

T. Gigliozzi, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. La chiesa, il chiostro, il portico, la cattedra, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 27-34.

Nuzzo, I segni della Riforma nella cattedrale di Terracina. Temi e simboli nel fregio musivo del portico, in “Arte Medievale”, IV serie, Milano, Silvana, 2016, pp. 35-44.

Scavizzi, Conca, Sebastiano, in Dizionario Biografico degli italiani, 27, 1982, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

Tedeschi, Le epigrafi del portale e del portico della cattedrale di Terracina, in “Arte Medievale”, IV serie, 2016, Milano, Silvana, 2016, pp 45-50.

Ticconi, Monti, Virgilio, in Dizionario Biografico degli italiani, 76, 2012, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

 

Sitografia

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http://www.beweb.chiesacattolica.it/benistorici/bene/1973637/Bott.+laziale+sec.+XIX%2C+Statua+di+S.+Pietro+apostolo#locale=it&ambito=CEIOA&action=CERCAOA&diocesi_facc=LATINA-TERRACINA-SEZZE-PRIVERNO&ordine=rilevanza&domini=1&regione_ecc_facc=LAZIO&da=1&frase=statua+san%2Bpietro

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http://www.treccani.it/enciclopedia/virginio-monti_(Dizionario-Biografico)/


IL SANTUARIO DI MONTE S. ANGELO A TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

Storia del Santuario di Monte S. Angelo

La presenza di strutture architettoniche sulla sommità del Monte S. Angelo (Mons Neptunius per i romani) [fig.1] precede il periodo romano (l’Urbe sottomise l’insediamento volsco di Anxur – Tarracina nel 406 a.C, per poi farne una colonia nel 329 a.C.). Tra gli esempi più compiuti di santuario terrazzato tardorepubblicano [fig. 2], il complesso architettonico venne infatti ristrutturato a partire da preesistenze più antiche (IV secolo a.C).[1] L’attuale area, che ospita i resti dell’intervento romano sul monte, venne completata in tre tempi. Le fondazioni più antiche (II secolo a. C.) comprendono la cinta muraria poligonale in opus incertum [fig. 3] (tecnica edilizia romana consistente nell'assemblamento di blocchi di pietra irregolari), l’area del cosiddetto “Piccolo Tempio” e un sacello roccioso, l’auguraculum. Al periodo sillano (secondo quarto del I sec. a.C) vengono fatti risalire il “Campo Trincerato”, adibito ai magazzini e agli ambienti di stanziamento delle truppe e l’area del “Grande Tempio” con il portico retrostante. L’area originaria del “Piccolo Tempio” ospitò poi, in età altomedievale (IX – X secolo), il Monastero di S. Angeletto, dedicato all’arcangelo guerriero da cui il monte prende il nome. Chiuso verso la fine del ‘500 da papa Sisto V (1585-90), divenne un convento di suore clarisse. L’area – nonostante i rilievi proseguirono ininterrotti per i secoli a venire (conosciamo alcuni disegni di Antonio da Sangallo il Giovane e Baldassarre Peruzzi[2]) – venne sostanzialmente abbandonata a se stessa, e tale stato di incuria si protrasse, di fatto, fino alla fine dell’800. Strappata ai domini ecclesiastici in seguito all’unificazione nazionale, la sua gestione venne affidata dallo Stato all’amministrazione comunale per usufrutto. Sottoposta a vincolo archeologico, fu grazie alle sistematiche campagne di scavi condotte prima dallo studioso locale Pio Capponi (al quale venne intitolato il Museo Civico cittadino) e poi da archeologi quali Luigi Borsari e Giacomo Boni, che l’area sacra di Monte S. Angelo tornò ad essere materia di interesse per gli studiosi.

Fig. 3

Il “Piccolo Tempio” 

Le varie costruzioni nell’area del “Piccolo Tempio” sul Monte S. Angelo sono le più antiche dell’intero complesso (gli studiosi notano una maggiore approssimazione nella realizzazione dell’opus). Il tempietto è una platea rettangolare, orientata a sud – ovest, sostenuta in origine da nove arcuazioni (cinque quelle superstiti) [fig. 4] all’interno delle quali gli ambienti sormontati da volte comunicavano tra di loro tramite piccole aperture ad arco.

Fig. 4

Le ghiere degli archi in facciata erano decorate semplicemente da cornici modanate. Le poche pitture interne superstiti, invece, rivelano il sistema a finti stucchi e incrostazioni marmoree tipiche del cosiddetto “primo stile pompeiano” [fig. 5]. [fig. 6]

Nel corso del restauro del 1988 sono state scoperte pavimentazioni medievali con decorazioni a crocette nere, evidentemente afferenti al complesso monastico di S. Angeletto. Quest’ultimo, ricavato nel corridoio interno, era decorato da affreschi purtroppo perduti o, nel migliore dei casi, gravemente danneggiati. Sulla volta un Cristo clipeato[3] era circondato dai Quattro Evangelisti; sulle pareti laterali, un’Ascensione e una Trasfigurazione. La fascia superiore della parete est, infine, accoglieva una Madonna con Bambino tra i Ss. Gabriele e Michele[4].

Il “Campo trincerato” sul Monte S. Angelo

Il “Campo trincerato” manifesta chiaramente, già dal nome, la sua funzione difensiva. Questa struttura militare assumeva la forma di un portico a tre braccia che lasciava scoperto il lato sud alla vista della costa pontina. All’interno del portico gli ambienti di stanziamento delle truppe e i magazzini davano le spalle all’avancorpo nord, protetto ai lati da due imponenti torrioni, che accoglieva un sistema di dodici cisterne voltate. Ancora sul versante sud uno sperone di roccia, l’auguraculum,[5][fig. 7] affiancava un piccolo tempietto in antis[6]. Al XIII secolo, infine, risale l’aggiunta di un’ulteriore torre a base quadrata al centro dell’area, purtroppo andata perduta.

Fig. 7

Il “Grande Tempio”

L’area mediana delle evidenze architettoniche sul Monte S. Angelo, ultima per cronologia, venne realizzata a partire dalla realizzazione di imponenti sostruzioni in opus incertum. Molto diffuse nell’edilizia romana, le sostruzioni consentivano di creare una base di appoggio piana per strutture che, trovandosi in prossimità di dislivelli, non avrebbero potuto essere altrimenti completate. La terrazza era raggiungibile mediante una scala, posta nelle vicinanze del tempietto in antis, che conduceva ad un portico a doppio spiovente, chiuso su tre lati e sorretto da un colonnato corinzio [fig. 8].

Fig. 8

Davanti al portico, il Tempio vero e proprio. Circondato da una recinzione (temenos) atta a delimitare lo spazio sacro, esso fu costruito su di un podio lungo 32 metri, largo 19 e alto circa 7.  Chiuso sulle pareti laterali, su di esse era addossata una teoria di semicolonne (tempio pseudoperiptero). Il pronao, a sei colonne (tempio esastilo) era accessibile da una gradinata ricavata dal podio [fig. 9] [fig. 10]. Una volta all’interno, la cella (naos) conteneva, sulla parete di fondo, la statua della divinità, con una pavimentazione a mosaico bianco delimitata da una fascia di colore nero. Sulla destra del tempio una piccola edicola proteggeva un altro auguraculum, connesso – tramite un foro nella roccia – con una grotta naturale nel criptoportico. Proprio nei pressi dell’edicola Pio Capponi rinvenne, nel famoso scavo del 1894, in un ripostiglio sacro (favissa) numerosi ex voto (oggetti offerti in dono alla divinità in seguito all’adempimento di una promessa).

La sostruzione inferiore: criptoportico e galleria d’archi

Da una scalinata sul lato ovest della piana di mezzo, si accede a un corridoio che, accompagnando il dislivello del terreno, conduce alla terza terrazza, la più bassa, con le sue dodici arcate a tutto sesto che rappresentano, ad oggi, la parte meglio conservata dell’intero complesso. Al criptoportico (corridoio coperto), lungo 60 metri e largo circa 3, voltato a botte e aperto sul lato lungo da un’alternanza di porte e finestre [fig. 11] si addossa un ambiente voltato e aperto in facciata da dodici arcate a tutto sesto [fig. 12]. Ad ogni arcata corrisponde uno spazio delimitato da pareti divisorie aperte da una galleria prospettica di porte ad arco, una delle maggiori attrattive dell’intero complesso [fig. 13].

 

Lo scavo del 1894 e la questione attributiva

Il 1894 fu un anno cruciale per le sorti del tempio. Dopo essere stato sottoposto, agli inizi del decennio, a vincolo archeologico, il sito, erroneamente definito “Palazzo di Teodorico” fu oggetto di una campagna sistematica di scavi che sciolsero alcuni interrogativi cruciali.  Innanzitutto, l’area venne identificata nella sua doppia natura - cultuale e militare – grazie all’azione di Borsari, Boni e Capponi. Agli studiosi si deve anche il ritrovamento di un basamento templare, della sede oracolare e di altri edifici. Dalla tecnica costruttiva utilizzata, inoltre, fu possibile risalire alla datazione delle strutture. Anche l’attribuzione della titolarità del tempio a Iuppiter Anxur (Giove imberbe), dio di tradizione volsca menzionato da varie fonti latine (Virgilio, Tito Livio, medaglioni appartenenti alla Gens Vibia) fu messa seriamente in discussione grazie al ritrovamento, per opera di Pio Capponi, di alcuni crepundia, oggetti votivi in piombo offerti alla divinità durante i riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Fu proprio attorno ai crepundia e alle iscrizioni incise su basi votive trovate da Borsari che la tradizionale attribuzione del tempio a Giove Anxur iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Alcune basi marmoree da statuette votive ritrovate nello scavo da Borsari recavano infatti l’iscrizione “VENUS OBSEQUENS”; altre, più semplicemente, “VENUS”[7]. Indizi del genere non potevano certo passare inosservati, e, alla lunga, grazie anche a riflessioni di carattere filologico su fonti letterarie (Plinio, Orazio, oltre a Virgilio e Tito Livio) portarono ad un deciso cambio di rotta nell’individuazione delle divinità titolari del complesso e, nello specifico, in quella del “Grande Tempio”. Mentre il “Piccolo Tempio” doveva coincidere con l’aedes Feroniae (“tempio di Feronia”) citato da Plinio in un passo della Naturalis Historia[8],la costruzione principale, sulla terrazza mediana, doveva inevitabilmente riferirsi a “Venere obbediente”, per una serie di ragioni. In primis, la committenza: si presume che a volere il tempio fu un influente nobile di fazione sillana, C. Memmio, in seguito alla vittoria di Silla su Caio Mario[9]. Venere era la divinità protettrice del dittatore, il cui attributo era Epaphroditos (“favorito a Venere”), e la costruzione del tempio poteva costituirne il degno atto di ringraziamento. In secondo luogo, l’orientamento del tempio: rispetto all’aedes Feroniae (“Tempio di Feronia”), rivolto alla città e alle campagne circostanti, il tempio di Venere si rivolgeva al porto, centro di gravità dei commerci e in particolare dell’esportazione del pregiato vino Caecubum. Il rapporto tra Venere e vino si era intensificato dal 295 a.C., quando la dea venne associata ai Vinalia Rustica; il vino era inoltre strumento dell’alterazione sensoriale necessaria alle adepte di Venere per la pratica di riti orgiastici connessi al culto della dea[10]. In ultima analisi, la struttura architettonica del santuario terracinese riflette chiaramente il modello del Tempio di Venus Ericina (Erice, Sicilia). Il ruolo di Iuppiter Anxur diviene, alla luce di tali considerazioni, certamente più marginale; tuttavia, la sua presenza è plausibile in virtù della consuetudine di abbinare ad una divinità principale un paredro, ovvero un dio giovane. Proprio la coppia Feronia – Giove Anxur era, al tempo, molto diffusa[11] (Servio, nel suo commento a Virgilio, identifica Feronia con Iuno Virgo). A Terracina, dunque, la presenza di Giove imberbe andrebbe riferita e limitata al piccolo tempietto in antis nel campo militare. Quanto a Feronia, infine, dea molto importante a Terracina[12], la sua natura “transizionale” (era la dea del passaggio dallo stato selvatico a quello civilizzato) andrebbe anch’essa risolta nell’orientamento del piccolo tempio, esattamente a metà tra la città e la campagna circostante.

 

Note

[1] Tuttavia, la campagna di scavi condotta da un team italo-tedesco guidato da Paul Scheding e Francesca Diosono nel 2019 ha portato al rinvenimento di oggetti in ceramica risalenti al IX secolo a.C.  (https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane).

[2] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 13.

[3] Nell’arte romana un’imago clipeata consisteva in un ritratto inscritto in una cornice tonda.

[4] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 55.

[5] Formazione rocciosa dalla quale i sacerdoti, gli àuguri, interpretavano il volere degli dèi a partire dall’osservazione del volo degli uccelli.

[6] costruzione in cui le pareti laterali si prolungano andando a formare delle antae delimitando la parte esterna del pronao.

[7] L. Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, pp. 199-200.

[8] F. Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, p. 30.

[9] Memmio sposò anche la figlia di Silla (L. Boccali, p. 194).

[10] F. Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, p. 433; F. Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, pp. 131-132.

[11] M. Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, pp. 385-386.

[12] Oltre all’aedes Feroniae citato da Plinio, Orazio cita il Fanum Feroniae, a 3 miglia da Terracina, nei pressi del Monte Leano (M. di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, p. 126).

 

Bibliografia

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Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, in “Cahiers du Centre Gustave Glotz”, Vol. 8, Parigi, Boccard, 1997, pp. 181-222.

AA.VV., Il Santuario di Monte S. Angelo a Terracina, Terracina, BookCart Editore, 2005.

C.F. Giuliani, L’edilizia nell’antichità, Roma, Carocci, 2006, pp.148-151.

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Di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, in “Mélanges de l’École Française de Rome, 129/1, 2017, pp. 121-137.

Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, in “Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei”, Serie IX, Volume XXVIII, 2018, pp. 425-444.

Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, in L’architettura del sacro in età romana. Paesaggi, modelli, forme di comunicazione, a cura di M. Valenti, Roma, Gangemi, 2016, pp. 26 - 33.

 

Sitografia

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Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/iuppiter-anxurus_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/terracina_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web di Latina Oggi al link:

https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane (ultima consultazione 21/07/2020)