SAN BARTOLOMEO DI ROMENO

A cura di Alessia Zeni

 

San Bartolomeo di Romeno: una chiesa sconosciuta

In pochi conoscono l’importanza storica e artistica della piccola chiesa dei Santi Bartolomeo e Tommaso (meglio conosciuta come chiesa di San Bartolomeo) situata nel paese di Romeno, nell’omonimo Maso della Valle di Non, nel Trentino occidentale. Nonostante ciò, gli storici e le guide regionali già segnalavano nell’Ottocento l’importanza di questo edificio religioso, sia per la sua posizione che per il suo patrimonio artistico e archeologico.

 

San Bartolomeo è una chiesa molto piccola a pianta quadrata (10x10 metri ca.) con tre  absidi sul lato est, di cui quella centrale estradossata e spezzata da tre piccole monofore che illuminano l’interno della chiesa. L’interno è sobrio e semplice con pareti affrescate da un ciclo di affreschi, recentemente restaurato, datato al XIII secolo e vicino allo stile altoatesino.

 

La storia di questa chiesa va molto indietro nel tempo ed è legata all’antica viabilità della Valle di Non che proprio a Romeno si collegava con il percorso che attraverso il Passo della Mendola portava alla via Claudia Augusta (Bolzano), in età romana, e poi, all’asse dell’Adige, in epoca medievale. In età romana, Romeno era un importante centro della Valle di Non come dimostrato dalle numerose epigrafi, monete e sarcofagi ritrovati in paese e nel sito della chiesa. Solo tra l’VIII e il X secolo, l’area della chiesa sarebbe stata trasformata in luogo di culto cristiano con la costruzione di un primo sacello dedicato ai Santi Bartolomeo e Tommaso.

A partire dal XIII secolo, il sito di San Bartolomeo divenne luogo di sosta e ricovero  dei viaggiatori e pellegrini che percorrevano i principali assi di collegamento della Valle di Non per la costruzione di un ospizio, tra il 1200 e il 1210, nei pressi della chiesa. L’ospizio doveva essere gestito da un monastero di frati dell’ordine di Sant’Antonio di Vienne, una congregazione di origine francese, anche detti Antoniani[1]. Il monastero-ospizio rimase attivo almeno fino al XIV secolo; pare infatti che il monastero di Romeno sia stato abbandonato tra il 1490 e il 1510 dopo un lungo periodo di declino. Successivamente la chiesa e il monastero-ospizio caddero in rovina e tutti i possedimenti passarono al Seminario di Trento che investì la famiglia Calliari del Maso di San Bartolomeo e della sua chiesa. Tuttora i discendenti della famiglia sono proprietari del maso, ma la chiesetta dagli anni Ottanta è patrimonio della parrocchia di Romeno e quindi bene culturale vincolato e protetto dalla Provincia Autonoma di Trento.

 

Un ciclo di affreschi unico in Trentino

La particolarità di questa piccola e anonima chiesa della Valle di Non è nel  ciclo pittorico che decora le pareti interne dell’edificio, scoperto e restaurato negli anni ’20 del secolo scorso. Un ciclo che oggi appare frammentario e a volte di difficile interpretazione, ma nel XIII secolo doveva decorare tutta la struttura interna con colori brillanti e vivaci e un programma iconografico davvero interessante e singolare per l’ambiente culturale dell’allora principato vescovile di Trento. Gli affreschi sono datati alla prima metà del XIII secolo e ad oggi rappresentano il più completo esempio di pittura monumentale duecentesca conservato sull’attuale territorio della provincia di Trento. Inoltre sono testimonianza di una corrente pittorica che collegava due mondi culturali molto lontani fra loro: l’area veneta e la cultura pittorica delle regioni austro-tedesche.

E ora veniamo al programma iconografico del ciclo di San Bartolomeo di Romeno, soprattutto alle scene più visibili e interessanti. Iniziando dalla parete settentrionale, appaiono alcuni riquadri dipinti al di sopra di uno zoccolo piuttosto frammentario, dove si possono leggere figure zoomorfe e mostruose che colpiscono per la vivacità cromatica che va attenuandosi con il salire lungo la parete come a sottolineare il passaggio da un mondo terreno a un mondo divino. Al di sopra dello zoccolo pare siano raffigurati i martiri di San Giovanni evangelista e San Giovanni Battista.

 

A sinistra è visibile “il Martirio di San Giovanni evangelista”: il santo è inserito in una calderone sorretto da una grossa catena, emergendo con la testa e le mani giunte in atto di preghiera, mentre un secchio  sembra rovesciare dell’acqua sulla sua testa. L’aguzzino che attizza il fuoco è dipinto a fianco con volto scuro e atteggiamento alquanto contorto. Una scena parecchio mobile, se pensiamo alla fissità e rigidità figurativa di molta pittura dell’epoca, che trae probabilmente ispirazione dalla pittura nordica della Val Venosta in Alto Adige.

 

A destra, invece, il re Erode, affiancato da due figure femminili, probabilmente la moglie e la figlia, ordina “il Martirio di San Giovanni Battista”:  Erode e le donne sono inseriti in una architettura piuttosto elaborata che appoggia su rocce con piccoli arbusti, un ambiente naturale che trova riferimenti sempre nella pittura altoatesina; Erode ha la mano alzata ad indicare il martiro del santo e davanti è dipinta una tavola imbandita da una coppa. Infine sulla parete nord, sotto il martirio di San Giovanni Battista, cinque figure di “Sante” sono dipinte al di sotto di arcate sorrette da colonne: le sante hanno volti frontali e ripetitivi incorniciati da un velo, la cui pittura richiama il mondo pittorico dell’area veneta proveniente da Trento e Verona.

 

Passando all’apparato pittorico delle absidi orientali, qui quello che colpisce il visitatore è il grande “Cristo in mandorla” dell’abside centrale e i “Cherubini” che decorano le due absidi minori. Quest’ultimi emergono per la loro incorporeità, sottolineata dal colore chiarissimo dell’incarnato, dalla leggerezza dei corpi stilizzati, da un soffice piumaggio multicolore e da mani e piedi appena accennati. Un’altra curiosa immagine è quella dell’”Offerta di Caino e Abele”, dipinta sull’arco trionfale dell’abside centrale: un’immagine alquanto sporadica in Trentino, ma tipica delle regioni austro-tedesche.

 

Infine, il percorso pittorico della parete orientale è chiuso dalle scene più importanti, ovverosia la “Natività”, il “Dono dei re Magi” e il “Dono del mantello di San Martino” dipinti al di sopra dell’abside minore di destra. La scena della “Natività” è un’immagine dinamica, ma allo stesso tempo stilizzata e con una tridimensionalità alquanto piatta, ma leggermente accennata. La Madonna, in primo piano, è distesa su un manto bianco ed è avvolta in una coperta con la testa sorretta da un cuscino, le braccia sono aperte nell’atto di accogliere il Gesù Bambino che è sistemato al suo fianco, in una culla, coperta da un baldacchino, e il padre, Giuseppe, che lo assiste e lo guarda in un atteggiamento pensoso, seduto su di un cuscino con bastone e mantello che lo avvolge.

 

Nella fascia sottostante tre uomini riccamente abbigliati si dirigono verso una città fortificata. I tre uomini sono i Magi che si dirigono verso Gerusalemme con vesti e mantelli sontuosi e doni per il bambinello. Camminano guardandosi, in un dialogo fatto di sguardi e atteggiamenti che danno alla scena una certa mobilità. A fianco il “Dono del mantello di San Martino” che seppur lacunosa, è visibile il paesaggio fatto di alberelli e piccoli fiori e il santo cavaliere, Martino, che  taglia con la sua spada parte del suo mantello che dona al poverello, inginocchiato davanti a lui con pelle scura e volto dai forti lineamenti. La raffigurazione di San Martino in questa chiesa è probabilmente legata alla funzione della chiesa e dell’ospizio di San Bartolomeo di Romeno,  ovvero quello di offrire assistenza e ricovero ai bisognosi.

 

Chiudo questo viaggio con le scene della parete meridionale che ad oggi sono gli affreschi qualitativamente più elevati di tutta la decorazione pittorica dell’edificio sacro: un frammento della “Flagellazione” o della “Crocifissione” (i piedi sono l’unico particolare superstite insieme al basamento di una colonna), la “Deposizione” e le “Pie Donne al sepolcro”.

Quest’ultime due scene hanno una resa espressiva talmente forte e importante da essere quasi un unicum nella pittura dell’epoca in regione e non solo. Nella “Deposizione” emerge Maria che regge la mano del Cristo tra le sue, mentre un soldato stacca il chiodo dalla mano di Cristo sanguinante, il cui corpo esanime è segnato da una profonda costolatura. A fianco, un apostolo dolente, forse Giovanni, è stato dipinto con una tal forza espressiva da far trasparire la sofferenza dell’uomo che ha volto reclinato in una mano e gli occhi segnati dal dolore. Domina la scena una luna con fattezze umane che potrebbe rappresentare il Dio Padre, mentre veglia sul figlio nel momento del trapasso. Infine, a destra, le “Pie Donne al Sepolcro” con corpi e atteggiamenti simili a quelli delle “Sante” sotto le arcate, ma con vesti più marcate e corpi di profilo che danno alla scena vivacità e tridimensionalità. La scena è parecchio lacunosa, ma si intravede anche il sepolcro che è qui scoperchiato e appoggiato su delle rocce.

 

 

Le fotografie dalla 3 alla 14a sono state scattate dalla redattrice.

 

 

Note

[1] Gli Antoniani erano un ordine assistenziale di frati laici sorto attorno al 1095, a Saint-Antoine nel dipartimento dell’Isère (Francia) con lo scopo di assistere i malati che giungevano in pellegrinaggio al sepolcro nel quale si riteneva fossero conservati i resti di Sant’Antonio abate. Gli Antoniani seguirono inizialmente la regola benedettina e, solo nel 1247, abbracciarono quella agostiniana (Ruffini 2007, pp. 99-100).

 

 

 

Bibliografia

Ruffini Bruno, San Bartolomeo a Romeno, Lavis (TN), Alcione, 2007

Ruffini Bruno, L’ospizio-monastero di San Bartolomeo presso Romeno, in Ruffini Bruno, San Bartolomeo a Romeno, Lavis (TN), Alcione, 2007, pp. 69-116

Avanzini Roberto, La decorazione pittorica della chiesa di San Bartolomeo, in Ruffini Bruno, San Bartolomeo a Romeno, Lavis (TN), Alcione, 2007, pp. 117-174

 

Sitografia

http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/index.jsp - Scheda: Chiesa dei Santi Tommaso e Bartolomeo <Romeno>

https://beweb.chiesacattolica.it/ - Scheda: Chiesa dei Santi Tommaso e Bartolomeo


IL "PALAZZO DEL DIAVOLO" A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

A Trento, alle porte del centro storico si erge Palazzo Fugger Galasso o meglio conosciuto come "Palazzo del Diavolo" per il leggendario racconto che fosse stato costruito in una sola notte dal diavolo in persona. L’edificio si trova alla fine di via Roma e all’inizio di via Giannantonio Manci e fu costruito ai primi del Seicento su disegno dell’architetto bresciano Pietro Maria Bagnadore (1550-1627) per conto del nobile tedesco Georg Fugger (1560-1634), rampollo della nobile famiglia di banchieri d’Augusta, come sua nuova residenza nel centro cittadino. È uno dei pochi palazzi cittadini che emerge per la sua struttura architettonica imponente e compatta di transizione fra il tardo-rinascimento, il manierismo e l’epoca barocca.

 

Il palazzo

Palazzo Fugger Galasso è nato come residenza privata della nobile famiglia tedesca dei Fugger d’Augusta, i quali vollero erigere una grande residenza nobiliare nel centro di Trento, sulle rive del fiume Adige, che rispecchiasse il loro alto rango. Su un vecchio caseggiato, tra quelle che oggi sono via Alfieri, via Manci e vicolo Galasso eressero un palazzo simile alle ville e ai fondachi veneti con pianta quadrangolare, cortile interno ed elementi dell’architettura palladiana.

La facciata principale domina la scena esterna del palazzo che guarda sulla centrale via Manci. Qui su un alto basamento a bugnato liscio e rustico si elevano il piano nobile e il secondo piano del palazzo, che sono scanditi da lesene con capitelli corinzi in pietra bianca. Tra le lesene, nei nove corsi verticali, si aprono 26 finestre che illuminano i tre piani del palazzo, tre per ogni corso verticale. Le finestre del secondo piano hanno cornici con frontoni curvilinei fortemente aggettanti, mentre quelle del piano nobile hanno i frontoni spezzati dal giglio araldico dei Fugger. A piano terra un bel portale d’ingresso, sormontato da un balcone in pietra sorretto da colonne corinzie, e otto finestre quadrangolari con cornici mistilinee spezzano il grande basamento a bugnato. Infine l’imponente facciata è racchiusa, ai due alti, da due corpi angolari lievemente aggettanti, ornati dalle lesene e, in alto, da un grande cornicione dentellato che richiama l’architettura barocca e manierista.

 

La facciata laterale, che guarda su via Alfieri e che da accesso alla cappella del palazzo appare grezza ed incompiuta: è stata alterata dalle vicende storiche del palazzo e da un restauro che ne ha messo in evidenza i frammenti murari dei caseggiati e della torre medievale acquistati da Georg Fugger per costruire il suo palazzo. La torre è stata inglobata nell’angolo sinistro della facciata principale di Palazzo Fugger e la sua muratura è visibile sulla facciata laterale, all’angolo fra via Alfieri e Via Manci (Fig. 3).

Il palazzo è infine visitabile solo nell’atrio e nel cortile interno, che offrono al visitatore un suggestivo quadro di architettura manierista e palladiana. L’atrio è interamente voltato a crociera con pilastri a bugnato grezzo e liscio che ricordano l’architettura manierista, nicchie sono ricavate nello spessore delle pareti e portali arcuati e architravati con timpani curvilinei spezzati danno accesso ai locali del pianterreno. Lo scorcio più suggestivo dell’atrio è quello dato dal prospetto sul cortile con la sua infilata di archi e una grande serliana centrale che richiama l’architettura palladiana. Ricorre frequente su porte, finestre e timpani interni ed esterni l’emblema della famiglia Fugger, il giglio, e la dama, simbolo di un ramo della famiglia Fugger e della contea di Kirchberg, di cui Georg Fugger era infeudato.

 

Cenni storici

Georg Fugger (1560-1634) si è stabilito nella città di Trento intorno al 1580 attratto dal centro commerciale di Trento per la sua strategica posizione posta lungo l’asse dell’Adige, luogo di passaggio obbligato per chi andava e veniva dal nord Europa diretto verso i grandi mercati d’Italia. Quindi Trento era il luogo ideale per la famiglia Fugger dove sbrigare le proprie attività economiche e commerciali, assicurate dai principi vescovi e rafforzate da matrimoni con importanti famiglie trentine come gli Spaur, i Lodron  e i Madruzzo. E proprio in questo contesto il giovane Georg Fugger, conte di Kirchenberg e Weissenhorn, figlio di Markus Fugger von Nordendorf (1529-1597) sposò nel 1583 Elena Madruzzo (1564-1627), figlia di Fortunato, barone di Madruzzo, e nipote di Ludovico, cardinale e principe vescovo di Trento.

 

La coppia si stabilì da Augusta a Trento solo dal 1596, a seguito dell’investitura della villa suburbana di Margone. Fin da subito, la villa si dimostrò troppo lontana dalla città per poter gestire gli affari di famiglia, fu così che Gerog decise di costruirsi una nuova residenza nel centro di Trento.

Nel 1600 Georg acquistò una serie di case e la torre medievale “del Passera”[1] lungo l'antica via Lunga (le odierne via Roma e via Manci), nei pressi di uno dei fondachi sull’Adige e affidò il progetto del nuovo palazzo al pittore bresciano Pietro Maria Bagnadore (1550-16275). Al quale propose una serie di modelli architettonici per costruire un palazzo sfarzoso, degno del suo rango e del suo mecenatismo, che potesse diventare anche una piccola "corte" per artisti, studiosi e letterati. Il 9 maggio del 1602 fu stipulato il contratto tra Georg Fugger ed il costruttore-lapicida trentino Paolo Carner, il quale doveva eseguire i lavori della facciata principale secondo il disegno dell'artista bresciano. L'opera doveva concludersi entro il termine di un anno e il palazzo fu infatti portato a termine entro la scadenza fissata, tanto che la celerità con la quale venne costruito dette origine alla leggenda e alla sua designazione di "Palazzo del diavolo"[2].

Gli affari di Georg Fugger non andarono però come previsto e nel 1614 fu arrestato e successivamente incarcerato per operazioni finanziarie sconsiderate che portarono la famiglia al tracollo economico. Nikolaus Fugger (1596-1676), unico figlio maschio di Georg ed Elena, per far fronte ai debiti familiari fu costretto a mettere in vendita il palazzo che venne acquistato, nel 1642, dal generale e maresciallo imperiale Mattia Galasso (1584-1647), famoso condottiero, il cui nome è rimasto legato al palazzo.

 

Il generale fece fare alcune modifiche al palazzo, in particolare fece progettare un nuovo portale d’ingresso, l’attuale, che fu sovrastato da un balcone lapideo sostenuto da quattro colonne binate. Al primo piano sostituì la finestra con una porta di accesso al balcone. Il palazzo non rimase a lungo nella mani della famiglia Galasso, perché già nel 1668 fu venduto al cardinale e arcivescovo Guidobald Thun (1616-1668) che non fece fare modifiche al palazzo, vivendo prevalentemente a Salisburgo.

Nei secoli successivi Palazzo Fugger subì danni, spogliazioni e fu spesso abbandonato dalla famiglia Thun, tanto che all'inizio dell'Ottocento i Thun lo misero in vendita per lo stato deplorevole in cui versava. Nel 1818 il “Palazzo del diavolo” di Trento fu venduto al cavalier Giacomo Zambelli che, con ingenti sforzi economici riuscì a ridargli l'antico splendore e decoro.

 

La Cappella dei Santi Martiri d’Anaunia

Un’ultima dissertazione la merita la piccola cappella del palazzo, vero gioiello artistico di Palazzo Fugger Galasso, dedicata ai Santi Martiri d’Anaunia, Sisinio, Martirio e Alessandro, i missionari della Cappadocia mandati da Sant’Ambrogio di Milano nel territorio dell’odierna Valle di Non a predicare e diffondere il cristianesimo.

La cappella è stata costruita sul luogo di una precedente, dall’architetto Pietro Maria Bagnadore (1550-1627) e fu portata a termine, qualche anno dopo la conclusione del palazzo, solo nel 1607. All’interno fu decorata da una pregevole decorazione a stucco, opera dell’intelvese Davide Reti, e da un sontuoso apparato pittorico, opera del Bagnadore: le tele nella volta raffiguranti scene della storia e del martirio dei Santi Alessandro, Martirio e Sisinio, e la pala d’altare con il “Martirio di Sisinio”.

Il 3 maggio 1834 la cappella è stata riconsacrata con una nuova dedicazione: all’onore e alla gloria del Santissimo Salvatore e in tale occasione fu concessa un’indulgenza di 40 giorni a quanti la visitavano ogni terza domenica di ottobre, anniversario del martirio di tre martiri anauniesi. La nuova consacrazione avvenne dopo la collocazione di una nuova pala d’altare: il “Cristo nell’orto del Getsemani” di Domenico da Udine sistemata in sostituzione di quella preesistente dedicata al “Martirio di San Sisinio”, asportata dalle truppe napoleoniche.

 

La cappella presenta all’esterno un aspetto sobrio che contrasta con la ricchezza decorativa degli interni per la pregevole decorazione a stucco dipinta e dorata. La volta della cappella è delimitata da un fregio finemente decorato da putti e fogliami, tra i quali emergono i simboli araldici e i monogrammi della nobile famiglia Fugger e del cavalier Giacomo Zambelli. La volta a botte è decorata da sei tele raffiguranti la vita dei tre Santi martiri anauniesi realizzate da Pietro Maria Bagnadore e dagli stucchi metaforici di Davide Reti. Quest’ultimi rappresentano episodi religiosi e allegorici dell’affermazione della Chiesa sulla Riforma cinquecentesca.

 

 

Note

[1] La torre medievale di via Lunga a Trento fu acquistata da Georg Fugger da un tal Iseppo Passera (Bocchi, p. 175).

[2] Il nome di “Palazzo del diavolo” nasce da una leggenda, riportata anche dallo scrittore Goethe nel 1786, che ricorda sia stato costruito in una notte dal diavolo dopo aver stretto un patto con Georg Fugger che in cambio voleva un palazzo signorile degno della famiglia della futura sposa. Una volta terminato il palazzo il diavolo avrebbe dovuto raccogliere tutti i chicchi di riso sparsi al suo interno, ma uno rimase nascosto sotto un crocefisso. Il diavolo adirato sprofondò nell’inferno e una grande fiamma si alzò annerendo un muro interno del palazzo Galasso. In realtà, la velocità di costruzione è da individuarsi nel rivestimento esterno delle preesistenti murature, realizzate con grandi lastre di pietra ancorate con grappe metalliche.

 

 

Bibliografia

Bocchi Renato, Trento. Interpretazione della città, Trento, Saturnia, 1989

Dal Prà Laura, Giorgio Fugger e il suo palazzo nella Trento dei Madruzzo, Rosenheimer, 1989

Adamoli Antonello, Maurina Rossi Adriana, Gretter Adamoli, Un palazzo sulla Via Imperiale. Palazzo Fugger, Trento, Alcione, 2001

Adamoli Antonello, La cappella dei Santi Martiri anauniesi. Palazzo Fugger Trento, Lavis, Arca Edizioni, 2008

 

Sitografia

https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Edifici-storici/Palazzo-Fugger-Galasso


LA FONTANA DEL NETTUNO E ALTRE FONTI DELLA CITTÀ DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

La scelta di porre l’attenzione sulla Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento è stata favorita dal recente restauro che ha riportato alla luce l’antico splendore del monumento. Ma non è l’unica fontana che rinfresca i cittadini di Trento, nelle afose giornate d’estate, altre fonti sono sparse per la città, le più singolari le vedremo in questo contributo.

 

Fontana del Nettuno

 

 

Magnificum hunc fontem

cum acquarum perpetuo cursu,

desperantibus omnibus,

Franciscus An[tonius] Iongo tri[dentin]us fecit.

 

Questa è la frase che è stata scolpita sul fusto della fontana ad indicare l’autore dell’opera, Francesco Antonio Giongo, ma anche la data «MDCCLXVIII» (1768) e «SPQT» (Senatus Popolusque Tridenti). Una frase di augurio affinché da questa grande fonte possa sgorgare acqua in eterno: acqua segno di vita all’interno della città. L’idea di sistemare una fontana nel centro partì proprio dal bisogno di rifornire i cittadini di acqua corrente, sana e di sorgente, dato che fino ad allora l’approvvigionamento avveniva tramite pozzi.

 

La scelta di costruire una fontana nella piazza principale della città fu ordinata dal Magistrato Consolare di Trento nel 1767, all’interno di un ampio progetto di riqualificazione urbana che mirava a dare nuovo splendore al centro cittadino. La progettazione e la realizzazione fu affidata allo scultore e architetto trentino Francesco Antonio Giongo di Lavarone (1723-1776)[1] che realizzò il progetto e scolpì vasche e fusto, mentre Stefano Salterio da Como (1730-1806) scolpì la statua del Nettuno e gli altri gruppi scultorei. La fontana è stata ultimata nell’arco di un anno, nell’ottobre del 1768, e l’acqua è stata portata alla fonte solo nell’anno successivo, l’8 luglio del 1769, dopo una complessa opera di canalizzazione delle acque di sorgente e del torrente Fersina[2]. La fontana è stata costruita tra Piazza Duomo e l’imbocco di Via Belenzani, la principale via di collegamento con il centro, per dare unità spaziale alla piazza e spezzare il conoide di via Belenzani[3].

Il Nettuno è rappresentato in piedi in tutta la sua imponenza e fierezza è accompagnato dal tridente che può essere considerato il simbolo della città. Il tridente che porta nella mano sinistra rappresenterebbe l’antico nome della città, Tridentum, ovvero il nome dato dai romani quando si insediarono tra i tre denti della piana dell’Adige, cioè i tre colli del Verruca (oggi Doss Trento), di Sant’Agata e di San Rocco.

 

La fontana è divisa su tre piani sistemati lungo un fusto che ricorda la forma di un albero e sulla cui vetta il Dio Nettuno è coronato con il tridente. Il Dio cavalca tre delfini, le cui code sono avvolte nelle gambe del Dio Nettuno e dalle loro bocche si riversano zampilli di acqua in una vasca rotonda sagomata, ricavata in un calcare di rosso ammonitico proveniente da cave trentine, di tre metri di diametro. Questa vasca appoggia sulla sommità del fusto che si innalza al centro di una grande vasca formata da otto catini, quattro dei quali a forma di tinozza e gli altri a forma di conchiglia. Da ogni catino altre quattro divinità mitologiche gettano acqua nella grande vasca: due tritoni su cavalli marini e due tritoni con in mano un pesce e un vaso. Nel piano intermedio del fusto, appoggiati su quattro mensole, altri due tritoni e due delfini mitologici cavalcati da putti lanciano dalle loro bocche zampilli d’acqua nella grande vasca.

 

Tutta la costruzione, alta oltre 12 metri, appoggia su una scalinata poligonale che una trentina di anni fa era cinta da un festone di catene sostenuto da pilastrini di pietra bianca. Oggi la fontana è accessibile al pubblico ed è il principale luogo di ritrovo nel centro della città di Trento.

Nel 1871 sono stati sostituti tutti i gruppi scultorei della fontana per opera dello scultore trentino Andrea Malfatti (1832-1917) e del pittore Ferdinando Bassi (1819-1883) che studiò le forme e i disegni originali della fontana. Invece la statua in pietra del Nettuno è stata sostituita da una in bronzo, nel 1945, per il cattivo stato di conservazione della statua. L’originale si trova oggi nel cortile del comune di Trento in Palazzo Thun.

 

 

Fontana dell’aquila

 

 

Sempre all’interno di Piazza Duomo, sull’angolo di Casa Rella, un’altra fonte rinfresca i cittadini di Trento durante le giornate estive e primaverili della città: è la Fontana dell’aquila che reca sulla cima del pilastro da cui sgorga l’acqua, l’aquila simbolo di Trento, ovvero l’aquila di San Venceslao.

La fontana fu progettata dall'ingegnere Pietro Leonardi, ma fu portata a termine nel 1850 dallo scalpellino di Trento Stefano Varner (1811-1887). La Fontana dell’aquila ha una vasca di forma ovale e una colonna ha base fogliata al di sopra della quale è sistemata l’aquila intenta a spiumacciarsi. L’ugello da cui sgorga l’acqua è circondato da una corolla di foglie e dalla bocca di una testa leonina fuoriesce l’acqua.

Una curiosa leggenda legata all’aquila della fontana racconta che un uomo di Sardagna (frazione di Trento) venne condannato ingiustamente a morte e condotto alle prigioni della Torre Civica in Piazza Duomo per essere portato al patibolo. Qui vide un’aquila che voleva sulla Torre e disse alla sua vista che se era innocente l’aquila sarebbe diventata di pietra. L’aquila si tramutò in pietra e l’uomo venne liberato; da allora l’aquila è nel luogo dove si posò, ovvero sulla fontanella di Piazza Duomo.

 

Fontana dei “do’ castradi”

 

Fig. 10 – Piazza delle Erbe a Trento, Fontana dei “do’ castradi”. Credits: Di Chryspa - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62937776.

 

In Piazza delle Erbe, nel centro di Trento è collocata la fontana chiamata volgarmente dei “do’ castradi” poiché l’acqua esce dalle teste di due arieti in bronzo. La fontana è stata disegnata dall'ingegnere Saverio Tamanini ed è stata realizzata nel 1867 dallo scultore Stefano Varner (1811-1887).

Il basamento in pietra ha una pianta mistilinea e sulla sommità due conchiglie in bronzo accolgono l’acqua dei “do’ castradi”. Le teste dei due arieti sono sistemate su una colonna in pietra a base quadrata, decorata sugli altri due lati da due teste femminee. Sulla sommità della colonna è sistemata una statua in bronzo copia di un’opera di Andrea Malfatti (1832-1917) che raffigura una donna inginocchiata accanto ad un serpente.

 

Fontana di Bacco

 

La fontana di Piazza Pasi, sempre nel centro cittadino è decorata da una pregevole opera scultorea che raffigura il Dio Bacco dello scultore Andrea Malfatti (1832-1917). È stata realizzata nel XIX secolo ed è stata sistemata in un angolo della piazza; è un’opera di pregevole bellezza che emerge tra le case che circondano la piazzetta.

Il Bacco è stato scolpito nella pietra bianca e la vasca della fontana ha la forma di una coppa circolare, baccellata, che è stata sistemata su un piedistallo ottagonale appoggiato su una basa rialzata a due gradini. Al centro della coppa è collocata la statua del giovane Bacco scolpito su di una roccia, vestito con pelle leonina che gli cinge la vita, sostenuta da una cinghia, porta in testa un festone di vite e in mano un otre dal quale sgorga l’acqua nella coppa. Tutti elementi che richiamano in maniera sintetica e artistica la sua classica iconografia.

 

Fontana dei delfini

 

 

La fontana dei delfini situata verso la periferia di Trento, di fronte alla chiesa sconsacrata di S. Croce, in Corso 3 Novembre. È una fonte che passa inosservata alla gente di passaggio, ma meriterebbe la giusta considerazione per la particolarità delle sue forme artistiche: una vasca ellissoidale baccellata e la  colonna da cui esce l’acqua è a pianta quadrilobata sormontata da un cesto di frutti. Gli ugelli escono dalle teste di tre delfini, scolpiti sui tre lati della colonna, che sono stati eseguiti con grande maestria e attenzione del dettaglio. La fontana risale al XIX secolo.

 

Fontana in Piazza Diego Lainez

 

 

La fontana in Piazza Diego Lainez, nei pressi del centro cittadino è qui ricordata perché ritorna il simbolo della città, ovvero il tridente. Eseguita nel XIX secolo, è stata sistemata sul muro che fronteggia l’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento. È in marmo bianco, dalle forme semplici, ma eleganti e ben eseguite. È qui segnalata per il tridente scolpito sulla sommità dello specchio della fontana, all’interno di una conchiglia, elemento che riprende il simbolo della città, il tridente del Dio Nettuno.

 

Fontana di Piazza Venezia

Fig. 14 – Piazza Venezia a Trento, Fontana dei cavalli. Fonte: https://spazicomuni.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Altri-siti-di-interesse-turistico/Fontana-dei-Cavalli.

 

In ultimo voglio ricordare una fontana dell’era moderna, ovvero la fontana di Piazza Venezia celebre agli automobilisti che dal centro si recano sulle colline o si spostano verso il sud della città.

L’opera è meglio conosciuta come “lavamàn del sindaco” per la sua grande forma a catino e la grande statua dei cavalli.

La fontana è una grande vasca in pietra con 150 getti sistemati lungo il perimetro che spruzzano l’acqua verso il centro con la statua in bronzo di due cavalli stilizzati. I cavalli sono opera dello scultore trentino Eraldo Fozzer (1908-1995) che sistemò la statua nel 1983, in sostituzione di un’altra sua opera raffigurante i corpi nudi di due Naiadi, le ninfe dell'acqua portatrici di fecondità. Le loro nudità furono oggetto di molte proteste che per cui vennero sostituite dall’attuale statua dei cavalli. La fontana è stata realizzata nel 1954 e nel 1956 è stata sistemata la prima scultura di Eraldo Fozzer, poi sostituita dall’attuale.

 

In questo contributo sono state descritte le fontane artisticamente particolari, ma molte altre sono disseminate tra le vie e le piazze della città che nella loro semplicità costituiscono un pezzo della storia e dell’arte di Trento.

 

 

Note

[1] Francesco Antonio Giongo nacque a Lavarone nel 1723 e morì a Trento nel 1776, studiò disegno e pittura a Trento e realizzò diverse opere scultoree nelle chiese trentine, ma la sua opera più famosa rimane la Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento.

[2] Oggi la fontana è alimentata dall'acquedotto cittadino attraverso un sistema a ricircolo  che filtra e decalcifica l’acqua; un sistema che è stato introdotto nei restauri del 1989-1990.

[3] È importante il significato urbanistico di questa fontana, sistemata sugli assi prospettici di via Belenzani, via Cavour, via Verdi di Trento che si incrociano nello spazio di Piazza Duomo. La fontana si interpone fra il protiro della facciata settentrionale del Duomo di Trento e l’ingresso di via Belenzani, abolendo del tutto il rapporto diretto fra la strada e la Cattedrale di San Vigilio. Inoltre la statua del Nettuno, rivolta verso via Belenzani, guarda verso la mano tesa della statua di San Francesco Saverio, posta in fondo alla via, sulla chiesa omonima, creando così lungo via Belenzani una fuga prospettica bidirezionale fra i due poli visivi. (Bocchi Oradini 1989)

 

 

Bibliografia

Bocchi Renato, Oradini Carlo, Trento, Roma, Bari, Laterza, 1989

Bocchi Renato, Trento. Interpretazione della città, Trento, Saturnia, 1989

Mayr Anna, Le fontane di Trento, Trento, Publiprint, 1989

Pancheri Roberto, La fontana del Nettuno. Salute e decoro della città, Trento, Temi, 2004

 

Sitografia

https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Conoscere


CASTEL THUN IN VAL DI NON - II PARTE

A cura di Alessia Zeni

 

Introduzione: Castel Thun in Val di Non

In questo secondo appuntamento dedicato a Castel Thun, in Val di Non, nel Trentino occidentale, mi soffermerò sugli interni del castello e in particolare sul percorso espositivo, suddiviso su quattro piani. Il castello dal 2010 è sede museale della Provincia Autonoma di Trento che conserva il patrimonio artistico della famiglia Thun, acquisito in cinquecento anni di storia. Qui di seguito farò un viaggio attraverso i quattro piani del Castello: il piano terra e il primo piano destinati alle funzioni di servizio; i locali del secondo piano dedicati alle attività giornaliere della famiglia Thun e le sale del terzo piano riservate agli appartamenti privati.

 

Pianoterra

A pianoterra, si accede al castello attraverso le mura dell’antica torre di Belvesino, all’interno della quale l’atrio d’ingresso è costituito da un corpo quadrato coperto da volta a botte. Dall’atrio si entra nel cuore del maniero, ovvero il cortile dall’impianto quadrangolare irregolare, sul quale si affaccia l’elegante loggia del secondo piano, la scaletta a chiocciola che un tempo collegava i vari piani del castello e alcuni locali di servizio. Questi locali costituiscono la Sala delle Armi, così chiamata perché espone una coppia di falconetti cinquecenteschi che in origine facevano parte di una serie di dodici voluti da Sigismondo Thun nel 1554, e la grande Sala delle Guardie, che conserva due grandi contenitori monolitici e dà accesso alla pistorìa, locale che un tempo veniva utilizzato dalla servitù per la produzione del pane e delle ostie.

Fig. 1 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, loggia rinascimentale con vista sul cortile interno. Credits: By Caba2011 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94073856.

Dall’atrio d’ingresso un lungo corridoio conduce alla cappella del castello, la Cappella di San Giorgio, che è stata consacrata nel 1504 e voluta dalla famiglia Thun dopo gli ampliamenti al maniero tra quattro e cinquecento. La cappella è un’opera d’arte che meriterebbe trattazione a parte. Qui ricordo solo che è stata interamente affrescata tra il XV e l’inizio del XVI secolo con immagini sacre che appartengono alla cultura tardo-gotica, probabilmente di un’artista tedesco, il cui stile è stato avvicinato a quello del bavarese Konrad Waider.

Fig. 2 - Vigo di Ton, Castel Thun, pianoterra, Cappella di San Giorgio, interno con gli affreschi tardo-gotici. Credits: Archivio fotografico Castello del Buonconsiglio Monumenti e collezioni provinciali – tutti i diritti riservati.

 

Castel Thun: primo piano

Al primo piano di Castel Thun la fanno da padrone le antiche cucine, ossia la cucina vecchia e la cucina nuova, due grandi locali perfettamente conservati con gli arredi e le attrezzature dell’epoca.

La cucina vecchia è un raro esempio di cucina castellana che risale probabilmente agli ampliamenti voluti dalla famiglia Thun tra XV e XVI secolo. È stata costruita all’interno delle mura della torre di Belvesino; ha finestre che illuminano il locale della cucina e della vicina sala da pranzo, un lavatoio in pietra e verso l’entrata conserva un grande focolare coperto da un’ampia cappa, tipica delle cucine medievali, con tanto di panca rialzata per facilitare lo svolgimento delle varie attività. Il locale è arredato con tavole e sedie in legno e suppellettili dell’epoca: recipienti, bilance, piatti e paioli in peltro, bronzo e rame. Una particolarità dell’antica cucina è il lampadario a candela, un unicum in regione, decorato da una sirena in legno che tiene in mano una pergamena arrotolata in ricordo dell’ascesa alla casa d’Austria della famiglia Thun nel 1506.

Fig. 3 - Vigo di Ton, Castel Thun, primo piano, cucina vecchia. Credits: R. Michelotti, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

La cucina nuova è della prima metà del Novecento fu utilizzata dal ramo boemo del conte Zdenko Thun Hohenstein, che abitò il castello fino al 1982, e prima ancora da Franz de Paula Thun Hohenstein (1868-1934) e la moglie Maria Teresa Thun di Castelfondo (1880-1975). L’arredo è molto più moderno rispetto alla cucina medievale, ma allo stesso modo significativo della funzionalità di questo locale. Risente del gusto tipico dei primi anni del Novecento, con credenze e tavoli in legno laccati di bianco e una grande stufa a legna in ghisa.

Fig. 4 - Vigo di Ton, Castel Thun, primo piano, cucina nuova. Credits: Gardaphoto, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

 

Secondo piano

Attraverso un grande e luminoso scalone giungiamo al secondo piano del castello, suddiviso in dieci locali, sistemati attorno al vano centrale del cortile. Ogni locale del secondo e del terzo piano è riscaldato con stufe in maiolica di gusto viennese e di manifattura trentina che venivano alimentate dalla servitù attraverso i ballatoi esterni.

Lo scalone entra nella Loggia rinascimentale e conduce alla sontuosa Sala da Pranzo, un locale molto illuminato e arredato con mobili e credenze ottocentesche. Domina la stanza un tavolo circolare di manifattura austriaca o boema, composto da una base ottagonale e da quattro mostri marini in forma di delfini. La stanza alle pareti è riempita dalla serie di nature morte tardo barocche, opera del fiammingo Jacob van de Kerckoven detto Giacomo da Castello (1637-1712), del veneto Paolo Paoletti (1671-1735) e di un artista sconosciuto. In ultimo è interessante segnalare un’acquasantiera sistemata all’entrata della stanza e utilizzata dai Thun come lavamani: è un’opera di grandi dimensioni decorata con elementi filariformi di tralci vegetali e con bacile di rame dal bordo mistilineo.

Fig. 5 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Sala da Pranzo con le nature morte alle pareti. Credits: G. Zotta, 2010 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Passiamo quindi al Boudoir contraddistinto da un grande tappeto persiano della fine dell’Ottocento, appeso alla parete, e alla Sala della Spinetta così chiamata per la collocazione di un raro cembalo a martelli del 1800 circa, uno strumento musicale unico, caratterizzato dal suono pizzicato delle corde azionate da tastiera.

Fig. 6 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Sala della Spinetta con il cembalo a martelli (a sinistra nella fotografia). Credits: R. Michelotti, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Si prosegue nella Stanza delle Incisioni così chiamata per la presenza alle pareti di incisioni e matrici di rame del XVII e XVIII secolo e alla Stanza dello Scrittoio dove un’imponente scrivania intagliata, in stile neo-cinquecentesco, ma risalente alla seconda metà dell’Ottocento colpisce il turista che attraversa questo locale: un imponente stilo di legno scuro ebanizzato di manifattura boema del tardo Seicento, caratterizzato da numerosi cassetti. Questa stanza celebra la passione per la caccia della famiglia Thun attraverso i ritratti di tre fratelli cacciatori: Tommaso Giovanni (1737-1796), Filippo Giuseppe Michele Maria (1739-1811), Giacomo Antonio Maria (1734-1770) e la moglie Maria Barbara Firmian (1736-?), tutte opere del 1760 di Giovanni Francesco Lattanzio Firmian (1712-1786), che li raffigurano a caccia con i loro cani.

Il Salotto Luigi XVI così chiamato per il mobilio della fine del Settecento che arreda il locale. Il Salotto è dominato da molte tele, ma la particolarità della stanza è la presenza di un pregevole ventaglio del 1790-1800, dipinto con temi riferiti all’amore e alla famiglia per celebrare l’amore coniugale. Si arriva così alla stanza più importante del secondo piano, ovvero la Sala degli Antenati, la più ampia del castello, che si apre in corrispondenza della torre occidentale. È ornata con i ritratti degli esponenti più illustri della famiglia Thun, soprattutto della linea genealogica che va dal Cinquecento al Settecento. Tra i tanti ritratti esposti, qui ricordo gli esponenti ecclesiastici della famiglia Thun: Tommaso Giovanni Thun (1737-1796), vescovo di Passau, Sigismondo Alfonso (1621-1677), Domenico Antonio (1686-1758) e Pietro Vigilio (1724-1800), quest’ultimo ritratto dal famoso pittore trentino Giovanni Battista Lampi nel 1776.

Si prosegue verso la Stanza del Camino per concludere il percorso del secondo piano. La stanza è così chiamata per un grande camino rinascimentale d’inizio cinquecento, proveniente dal Palazzo a Prato di Trento che è andato distrutto nel XIX secolo. Qui è conservato un nucleo di opere dei pittori Bassano e della loro cerchia: San Giovanni Battista nel deserto di Jacopo Bassano del 1560, dipinto a olio su pietra di paragone; l’Adorazione dei pastori del figlio Gerolamo Bassano e il Compianto di Cristo deposto dalla croce di Scuola bassanesca.

Infine chiudiamo con lo Studio della Contessa e lo Studio del Conte. Lo Studio della Contessa conserva alle pareti i tesori pittorici più importanti del castello, ma anche del patrimonio artistico regionale: la serie di sei dipinti realizzati da alcuni dei più importanti pittori bolognesi attivi fra Seicento e Settecento e che raffigurano le vicende del mito di Ercole. La collezione fu acquistata nel corso del XIX secolo da Matteo Thun II (1812-1892) e furono realizzati in seguito ad un concorso bandito a Bologna intorno al 1690 dal conte Francesco Ghisleri per una sua collezione privata. La più importante opera della collezione fu seguita dal vincitore del concorso, ovvero il pittore bolognese Giuseppe Maria Crespi, che dipinse Ercole e Anteo.

Fig. 9 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Studio della contessa: Ercole e Anteo di Giuseppe Maria Crespi, 1690. Credits: Mich 1998.

Infine la Stanza del Conte che conserva nelle vetrine alcuni libri di pregio appartenenti alla biblioteca di Castel Thun e alle pareti alcune delle più belle vedute dell’antico aspetto del castello: la Veduta di Castel Thun del 1867 del pittore trentino Basilio Armani.

 

Il terzo piano di Castel Thun

Concludiamo questo lungo viaggio all’interno delle sale di Castel Thun con la visita del terzo piano: il piano è suddiviso in quattordici locali sistemati alla fine del Settecento e riservati al riposo notturno, ai passatempi e all’amministrazione dei beni di famiglia.

Attraverso la Sala della Mappe, dedicata all’illustrazione dei possedimenti Thun in Trentino giungiamo nella Stanza del Vescovo così chiamata dal principe vescovo Sigismondo Alfonso Thun (1621-1677) che sistemò il locale intorno al 1670-1672. È la sala più bella del castello grazie alle pareti rivestite in legno d’abete e di cirmolo, il soffitto a lacunari decorato con rose in legno e uno splendido stemma Thun datato 1670, sistemato al centro del soffitto. Tale ambiente è stato arredato da Sigismondo con grande gusto artistico: un grande letto a baldacchino ornato da un drappo in damasco rosso dell’epoca, uno studiolo ricavato nel locale della torretta orientale e una stufa in maiolica bianca e blu del 1671 decorata con piastrelle che raffigurano l’aquila tirolese, lo stemma Thun e l’agnello pasquale con vessillo crociato immagine del principato vescovile di Bressanone. La stanza è stata sistemata su una precedente struttura cinquecentesca, della quale il vescovo ha voluto mantenere sulla parete occidentale la “Porta di Ercole” del 1574, così chiamata per un rilievo raffigurante “Ercole e Diomede”. È questa una porta in legno che riproduce una porta urbana classica, ornata da rilievi raffiguranti temi religiosi e profani e intarsi con vedute di città.

Proseguiamo il nostro percorso nella Camera di Violante e Bianca Thun decorata dagli acquarelli delle due giovani pittrici che riproducono i castelli e i possedimenti Thun. Attraverso la Sala dei Paesaggi giungiamo nella Camera del Conte Francesco e nell’adiacente Camera dei Fiori. Queste ultime due sono le stanze più piccole che si distinguono per delle tempere murali raffiguranti paesaggi e composizioni floreali e per la presenza, nella Camera dei fiori, di tre ritratti Thun in miniatura incorniciati da cornici di coralli e conchiglie, realizzate dal trentino Stefano Tenaglia.

Si passa alla Sala dei mobili di Praga arredata dal ramo boemo della famiglia. Alle pareti si segnala infatti il ritratto di colui che acquisì il castello nel 1926, Franz de Paula Guidobald Thun Hohenstein (1868-1934), e della moglie, Maria Teresa Thun di Castelfondo (1880-1975), ad opera dell’artista inglese Arthur Hacker (1858-1934).

Giungiamo a metà percorso, ovvero alla Camera azzurra per la carta da parati turchina. La sala custodisce il dipinto più importante del castello: un’opera del veneto Francesco Guardi, il Santo in adorazione dell’eucarestia, commissionata dal principe vescovo Domenico Antonio Thun (1686-1758) che ebbe un grande interesse per l’ambiente culturale veneziano e l’arte in generale.

Fig. 12 - Vigo di Ton, Castel Thun, terzo piano, Camera azzurra, il Santo in adorazione dell’eucarestia di Francesco Guardi. Credits: By Francesco Guardi - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=152424.

La Camera Biedermeier ha pareti dipinte in giallo oro e decorate con tempere, è la stanza che conserva al suo interno arredi in stile biedermeier e un gran numero di dipinti databili tra Otto e Novecento: il più bello è la Veduta di Castel Thun del 1844 di Roberto Garavaglia (1829-1855) commissionata da Matteo II Thun (1812-1892).

Fig. 13 - Vigo di Ton, Castel Thun, terzo piano, Camera biedermeier con il quadro di Roberto Garavaglia “Veduta di Castel Thun” del 1844. Credits: G. Zotta, 2010 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Proseguiamo il percorso attraverso la stanza delle donne e dei bambini di casa Thun. La Camera delle Dormeuses costellata di ritratti femminili: Maria Antonia Spaur, moglie nel 1724 del conte Francesco Agostino Gaudenzio Thun; Maria Antonia Thun attribuita a Giovanni Nepomuceno della Croce (1736-1819) e Giovanna Maria Thun effigiata nell’atto di filare con un abito a cappuccio.

La Stanza dei Bambini una vera e propria galleria dei bambini di famiglia opera di artisti attivi fra  Sette e Ottocento: La Bambina di casa Firmian del 1759 di Antonio Lorenzoni (1721-1782); Basilio Thun figlio di Matteo I e della contessa Marianne Zinzendorf, opera di Domenico Zeni del 1782; Bambina in veste di Cupido di Johann Pock (1780-1842) del 1820; Bambino con rosa di Francesco Antonio Vanzo (1754-1836 ca.) del 1820, da identificare con Matteo Thun II (1812-1892), figlio di Leopoldo e Violante Martinengo Cesaresco.

Concludiamo il precorso del terzo piano con la Sala degli Alabastri per un gruppo di statuette realizzate in alabastro attribuite allo scultore trentino Giovanni Battista Insom (175-1848), che riproducono soggetti classici tratti da originali antichi.

Fig. 14 – Vigo di Ton. Castel Thun, terzo piano, Sala degli alabastri. Credits: Gardaphoto, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Infine, la Camera di Matteo (1812-1892), intitolata al principale esponente del ramo di Castel Thun, collezionista e mecenate che si prodigò nel restauro del castello negli anni Quaranta dell’Ottocento e al rilancio economico della famiglia con la sistemazione di una filanda di seta nel recinto del castello. Nonostante ciò, la famiglia dovette affrontare diverse ristrettezze economiche e Matteo II dovette cedere il castello, tra il 1878 e il 1879, al ramo boemo. Chiudiamo il nostro viaggio con il Vestibolo, una vera e propria galleria dei dipinti acquistati dalla famiglia Thun nel corso degli anni.

 

 

Si ringrazia il Castello del Buonconsiglio di Trento per l’autorizzazione alla pubblicazione delle foto.

 

 

Bibliografia

De Gramatica Francesca, Chini Ezio, Camerlengo Lia, Adami Ilaria, Castel Thun, Milano, Skira, 2010

Chini Ezio, De Gramatica Francesca, Camerlengo Lia, Omaggio ai Thun. Arte e immagini di un illustre casato trentino, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 2009

Botteri Ottaviani Marina, Dal Prà Laura, Mich Elvio, Arte e potere dinastico. Le raccolte di Castel Thun dal XVI al XIX secolo, Trento, Provincia autonoma di Trento, 2007

Mich Elvio, Giuseppe Maria Crespi e altri maestri bolognesi nelle collezioni di Castel Thun. Il ciclo di Ercole dalla quadreria di Francesco Ghisilieri. Trento, Castello del Buonconsiglio, 5 giugno-8 novembre 1998, Beni artistici e storici del Trentino, Quaderno 6, Trento, Alcione, 1998

Dépliant di Castel Thun a cura del Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali.


CASTEL THUN IN VAL DI NON - I PARTE

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

Tra i vari castelli che si possono visitare in Trentino, uno dei più conosciuti e meglio conservati è Castel Thun, in Valle di Non, nel Trentino occidentale: un castello conservato in tutta la sua grandezza che, prima di passare alla Provincia Autonoma di Trento, è sempre stato di proprietà della famiglia Thun.

Fig. 1 - Vigo di Ton (Valle di Non), Castel Thun. Credits: By © Matteo Ianeselli / Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14908395.

Alcune notizie sulla famiglia Thun

La famiglia Thun è una delle più antiche e conosciute casate nobiliari del Trentino, tuttora presente con alcuni esponenti. La prima testimonianza risale al 1050 quando presero il nome “de Tono” o “Thono” dal luogo di origine, ovvero il paese di Ton, nella bassa Valle di Non, per poi assumere la forma tedesca “Thun” o “Thunn”. I Thun ebbero i loro primi possedimenti nel comune di Ton per poi acquisire Belvesino, ossia l’attuale Castel Thun intorno alla metà del Duecento[1]. Alla fine del Medioevo la famiglia riuscì a espandere il proprio potere in tutta la Valle di Non, fino a giungere ai confini con il Sudtirolo e il mondo d’oltralpe, costruendo castelli nelle Valli di Non e Sole e acquisendo edifici nella città di Trento.

Già alla fine del Trecento i Thun erano divisi in numerose linee dinastiche, ma le principali furono quelle di Castel Thun, Braghér, Castelfondo, Caldés, Trento e la linea boema, che acquisì Castel Thun nel Novecento. La linea Thun di Castel Thun ebbe la sua origine con Luca Thun (1485-1559), dando alla città di Trento tre principi vescovi: Sigismondo Alfonso (1668-1677), Domenico Antonio (1730-1758) e Pietro Vigilio (1776-1800). Rimase proprietaria del castello fino al 1926, quando passò al ramo boemo, nella persona di Franz de Paula Guidobald Thun Hohenstein e della moglie Maria Teresa Thun di Castelfondo.

 

Castel Thun: architettura e planimetria

Il castello si trova in una posizione panoramica, aperta verso la bassa Valle di Non, su un rilievo al limite dei monti Anauni, che dividono la Valle dell’Adige dalla stessa Valle di Non. Il castello fu costruito nei pressi di quello che era l’antico tracciato di collegamento tra l’Italia e il mondo d’Oltralpe, per poi divenire il cuore dell’antica famiglia Thun.

La dimora è stata costruita sulla sommità di un rilievo e dotato di un sistema difensivo davvero impeccabile: un fossato scavato nella roccia e due ordini di cinte murarie con torri e bastioni. Il recinto più esterno è stato costruito per proteggere i giardini, sistemati a settentrione e a meridione del castello, e ha una planimetria ellittica con tre bastioni, due torri quadrate e un portale stemmato, decorato con conci bugnati risalenti al XVI secolo.

Fig. 4 - Vigo di Ton (Valle di Non), Castel Thun, il Giardino all’Italiana sistemato sul lato meridionale del castello. Credits: By VitVit - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41897129.

Il secondo recinto, più piccolo, è stato invece costruito per difendere il castello, e ha un profilo esagonale con quattro torri poligonali sistemate agli angoli: le due Torri delle Polveri, la Torre di Basilio e la Torre della Biblioteca. La particolarità di questa recinzione è nel portale d’ingresso, la cosiddetta Porta Spagnola: un bellissimo portale di gusto manierista, che richiama l’architettura rustica teorizzata da Sebastiano Serlio nei suoi trattati. Tale portale è stato realizzato con grandi conci bugnati alternati in lunghezza e sormontato da un pregevole stemma Thun che porta la data 1566.

Una volta superate le due recinzioni, per accedere all’atrio del castello si deve superare il grande fossato scavato nella roccia e attraverso un pontile in muratura per giungere al Loggiato dei Cannoni, così chiamato per l’antica collocazione dei falconetti di famiglia. Il Loggiato è un grande setto murario difensivo, sistemato alle porte di Castel Thun, dotato di torri merlate, dette delle Prigioni, e di una grande porta d’accesso, la Porta Blasonata. La Porta Blasonata è datata al 1541 e ha una fronte a doppia ghiera di bugne levigate.

Attraverso questo lungo percorso difensivo, si giunge finalmente al Castello. Una dimora signorile a pianta quadrangolare, sviluppata attorno a un cortile interno e difesa da uno zoccolo scarpato, nella parte inferiore, e da quattro torrette aggettanti, sulle facciate del castello. È stato costruito su quattro piani raccordati da un ampio scalone interno e con locali interrati: i locali al piano terra e al primo piano erano destinati alle funzioni di servizio, invece i locali del secondo e del terzo erano riservati alle attività signorili della famiglia (il secondo piano alle attività giornaliere e il terzo agli appartamenti privati).

Fig. 10 - Vigo di Ton (Valle di Non), Castel Thun, la dimora castellana con lo zoccolo scarpato e la torretta aggettante. Credits: By VitVit - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41897124.

Castel Thun: la storia

Le vicende storiche di questo antico maniero iniziano prima della metà del XIII secolo, quando sulla sommità di un’altura, in prossimità dei monti Anauni, venne costruita una torre d’avvistamento per chi attraversava l’antica via di collegamento con il mondo d’Oltralpe. Questa primitiva struttura è oggi identificabile nell’atrio d’ingresso di Castel Thun, della quale si individua il suo impianto quadrangolare, il suo maggiore spessore murario e il diverso orientamento degli ambienti. Questa torre era dotata di una cisterna ipogea per la raccolta dell’acqua piovana e di una porta d’accesso sopraelevata per proteggere la torre da eventuali attacchi esterni. La torre, in un secondo momento, venne dotata di una cinta muraria e intorno alla metà del Duecento venne abitata dalla famiglia Thun. La famiglia si trasferì in questa torre recintata, detta anticamente di Belvesino, per farne la loro principale dimora e il luogo dove gestire una rete di residenze, fortezze e possedimenti terrieri che acquisirono nel corso del tempo.

Tra il Trecento e il Quattrocento la torre recintata subì un’importante trasformazione architettonica e funzionale per adibirla a residenza nobile della famiglia Thun. Inizialmente, alla torre furono aggiunti due edifici residenziali e un casale di servizio. In un secondo tempo, venne aggiunta anche la cappella di famiglia, sistemata a piano terra di Castel Thun, di fronte all’atrio d’ingresso e consacrata nel 1504 a San Giorgio.

Il nuovo assetto prese però forma negli anni in cui si svolse il Concilio di Trento, grazie alla figura di Sigismondo Thun (1487-1569). Durante il suo dominio il castello acquisì le attuali forme con la costruzione delle due cinte murarie, l’edificazione del Loggiato dei Cannoni e la revisione dell’intero palazzo a partire dal 1531. I lavori furono opera di maestranze comacine e compresero l’omogeneizzazione dei vari corpi di fabbrica, la costruzione della loggia al secondo piano, la decorazione dell’atrio al piano terra e la realizzazione di una sontuosa camera matrimoniale, oggi conservata nella Stanza del Vescovo al terzo piano.

Alla seconda metà del Seicento risalgono numerosi altri lavori che vedono coinvolto l’architetto lombardo Apollonio Somalvico, ma è solo alla fine del Settecento che il castello assunse il suo aspetto definitivo. A questa fase risale la realizzazione dello scalone principale (1746) commissionato dal principe vescovo Domenico Antonio Thun (1686-1758) e un’opera di regolarizzazione generale per mano dell’architetto Pietro Bianchi[2].

Alla fine degli anni Quaranta dell’Ottocento seguirono gli interventi promossi da Matteo II Thun (1812-1892), celebre mecenate, collezionista e personaggio pubblico. Matteo II Thun provvide a restaurare i danneggiati locali dei piani inferiori, a rinnovare alcune sale dei piani superiori e soprattutto si occupò della sistemazione dei giardini esterni, fiore all’occhiello di Castel Thun. Nel tentativo di risollevare la famiglia dalla crisi economica, negli anni Cinquanta dell’Ottocento fece realizzare una filanda all’interno del recinto murario settentrionale per rilanciare il ruolo dell’industria della seta nella vallata e portare una rendita economica alla famiglia.

L’ultima fase di lavori risale all’epoca del passaggio della residenza al ramo boemo della famiglia, avvenuto nel 1926. Franz de Paula Thun Hohenstein (1868-1934) e la moglie Maria Teresa Thun di Castelfondo (1880-1975) si trasferirono a Castel Thun e qui si impegnarono a far rinascere la dimora con importanti restauri e soprattutto con l’apporto di numerosi arredi provenienti dal mondo d’oltralpe e che oggi si possono ammirare nel museo di Castel Thun.

Castel Thun è stato abitato dal ramo boemo fino al 1982, ma solo nel 1992 è stato acquistato dalla Provincia Autonoma di Trento, che solo allora diede avvio a una lunga campagna di restauro. Il castello è stato aperto al pubblico il 17 aprile del 2010 con un percorso interno espositivo suddiviso su cinque piani che vedremo nella prossima uscita dedicata al Trentino.

Fig. 11 - Vigo di Ton (Valle di Non), Castel Thun, il castello visto dai giardini di meridione. Credits: By Koverlat at Italian Wikipedia, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12040946.

Ringraziamenti

Si ringrazia il Castello del Buonconsiglio di Trento per l'autorizzazione alla pubblicazione delle foto.

 

Note

[1] La famiglia Thun nel 1267 venne investita della torre di Belvesino.

[2] L’uniformazione del tetto, l’eliminazione degli erker, l’armonizzazione dei balconi e delle finestre, l’intonacatura dei prospetti, la copertura delle torri della cinta muraria minore, la revisione degli interni con la suddivisione delle stanze troppo grandi, l’eliminazione dei dislivelli dei pavimenti, la sistemazione di fornelli in quasi tutte le camere, la collocazione di tappezzerie, carte d’apparati e l’esecuzione di una serie di dipinti murali.

 

Bibliografia

APSAT 4. Castra, castelli e domus murate. Corpus dei siti fortificati trentini tra tardo antico e basso medioevo, a cura di Possenti Elisa et. al., Mantova, Società archeologica padana, 2013, Scheda 77. Castel Thun

De Gramatica Francesca, Chini Ezio, Camerlengo Lia, Adami Ilaria, Castel Thun, Milano, Skira, 2010

Chini Ezio, De Gramatica Francesca, Camerlengo Lia, Omaggio ai Thun. Arte e immagini di un illustre casato trentino, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 2009

Dépliant di Castel Thun a cura del Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali.


IL MUSE DI RENZO PIANO A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

Introduzione

Sulle rive del fiume Adige, a sud-ovest di Trento, si innalza il più importante e grande progetto di riqualificazione di un’area dismessa della Provincia di Trento. L’area in questione è l’ex fabbrica Michelin sulla quale è stato costruito il moderno quartiere residenziale de “Le Albere” e uno dei più importanti musei dell’arco alpino, il “MUSE”, ovvero il Museo delle Scienze di Trento, ad opera dell’architetto di fama mondiale Renzo Piano.

Il progetto per il MUSE di Renzo Piano e l’area dell’ex Michelin

Fig. 1 – Trento, il quartiere residenziale de “Le Albere” in una fotografia panoramica. A sinistra, verso nord, l’edificio del MUSE e il Palazzo delle Albere. Credits: Ph. Enrico Cano - ©RPBW.

Il quartiere residenziale de “Le Albere” e il MUSE sono stati progettati dalla Renzo Piano Building Workshop, lo studio di architettura fondato da Renzo Piano nel 1981 con uffici in Italia, Francia e America. Il sito in questione è un’area di 116.331 m2 che si trova alla periferia sud di Trento, parallela al fiume Adige, in una zona che fino alla fine degli anni Novanta era dedicata all’industria, in particolare alla produzione di pneumatici Michelin. La fabbrica francese Michelin fu attiva a Trento dal 1926 al 1998 e diede lavoro a migliaia di operai trentini, tale attività venne meno alla fine degli anni Novanta lasciando l’intera area con i suoi capannoni dismessa e abbandonata. Già alla fine del secolo scorso prese piede l’idea di riqualificare l’intero lotto e di affidare la progettazione ad una competenza di alto profilo professionale: il progetto fu quindi affidato all’architetto di fama mondiale Renzo Piano e al suo studio di architettura. La progettazione durò oltre dieci anni, dal 2002 al 2014, con la costruzione degli edifici a partire dal 2008 e l’inaugurazione nell’estate del 2013. Il progetto fu avveniristico perché per la prima volta veniva portata la grande architettura contemporanea ed ecosostenibile nella città alpina di Trento.

Come sottolineato da Renzo Piano, il primo passo fu quello di studiare l’area e il contesto sul quale sarebbe stato costruito il nuovo quartiere residenziale: l’ambiente, il fiume, i monti e la storia di Trento. Infatti il paesaggio circostante, costituito da ripide montagne coperte da una fitta vegetazione, contribuì a definire forme e materiali da utilizzare nel progetto. Il nuovo quartiere, inoltre, prese il nome dal vicino “Palazzo delle Albere”[1]: una villa-fortezza costruita nel XVI secolo dai principi-vescovi della famiglia Madruzzo che ospitava una delle sedi del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, il MART.

Il progetto diede vita a un quartiere residenziale di 11 ettari con 300 appartamenti, 30.000 metri quadrati di uffici, oltre a negozi, spazi ricreativi e culturali, percorsi pedonali e ciclabili e una rete di canali. Il tutto organizzato attorno ad un grande parco di oltre 600 metri di lunghezza che si estende fino alle rive del fiume e che funge da polmone verde del quartiere. “Fin dal primo momento nel progettare il quartiere Le Albere la nostra preoccupazione è stata di inserire sufficienti luoghi pubblici e di aggregazione. Se non metti un motore importante di interesse pubblico, non può funzionare, non c’è vita, non c’è profondità.”; con queste parole l’architetto Renzo Piano ricorda la scelta di inserire nel quartiere due grandi “motori” di interesse pubblico: un museo, un tempo Museo Tridentino di Scienze Naturali, e una biblioteca universitaria ricca di spazi luminosi, accessibili e funzionali alla consultazione di oltre 480.000 volumi.

Tra i principi fondatori del progetto vi furono i temi della sostenibilità e del risparmio energetico, i quali contribuirono alla progettazione e costruzione di un quartiere residenziale interamente green. Questo consentì al progetto e al quartiere de “Le Albere” di ottenere la certificazione ambientale LEED, livello Gold, per l’uso di energie totalmente rinnovabili[2].

 

Il MUSE

Il MUSE - Museo delle Scienze di Trento - è il nome che ha preso il più antico Museo Tridentino di Scienze Naturali, dopo il suo trasferimento al quartiere residenziale de “Le Albere”. Quest’ultimo, costruito a nord del quartiere, copre una superficie di quasi 12.000 m2 e ha una pianta che si sviluppa da est verso ovest, lunga 130 metri per 35 metri, e di un’altezza di 23 metri che si snoda su cinque piani ed altri due interrati.

Il disegno, pensato dallo studio di architettura Renzo Piano Building Workshop, è una grande struttura fatta di acuminati volumi che svettano e si assottigliano verso l’alto, che ricordano le frastagliate vette alpine, così come il gioco di luci e colori delle grandi vetrate che rimanda alla lucentezza e il bagliore di tali ghiacciai. Per chi proviene da lontano l’impressione è quella di un grande veliero pronto a salpare le acque del fiume Adige, e ad imbarcare lo spettacolo della scienza e della natura.

I materiali utilizzati per la costruzione del MUSE sono i medesimi impiegati anche nel resto del quartiere: ovvero legno, vetro, pietra, zinco, alluminio e acciaio; materiali appartenenti alla tradizione edile trentina.

Fig. 4 – Trento, quartiere “Le Albere”. Le facciate sono protette da una struttura esterna in legno lamellare entro la quale si inseriscono le finestre e le logge d’ingresso. Credits: ©RPBW.

La struttura del MUSE è un insieme di volumi in vetro e acciaio posti in successione. Procedendo da est verso ovest, il primo volume è dedicato agli uffici amministrativi e di ricerca non accessibili al pubblico. Si apre poi la grande piazza coperta, l’ingresso al Museo, attorno alla quale troviamo una sala conferenze, la caffetteria, il bookshop e al primo piano, ad est, la biblioteca del Museo.

Fig. 5 – Trento, Il MUSE – Museo delle Scienze. Il primo volume verso est con gli uffici e la  biblioteca. Credits: Foto Archivio MUSE - Museo delle Scienze.

Proseguendo verso ovest vi è il corpo principale del Museo, al centro del quale svetta il “Big Void”. Quest’ultimo è un grande vuoto dove sono esposti gli animali alpini in tassidermia[3], sospesi con corde d’acciaio e senza sovrastrutture, attorno al quale si sviluppa il percorso del Museo con i suoi cinque piani: di cui i vari solai sono sistemati ad altezze diverse per una maggiore flessibilità e mobilità degli allestimenti e del Museo stesso.

Nella porzione più ad ovest, in direzione del fiume Adige, il Museo prosegue fino a collegarsi con la serra tropicale di circa 700 m2 riproducente l’ambiente di una foresta pluviale, con un ampio specchio d’acqua che cinge l’edificio nella porzione occidentale.

Entrando poi nell’edificio del MUSE, il percorso di visita si configura come un viaggio all’interno della Terra, dentro al mondo alpino della montagna, cominciando dai ghiacciai fino alla storia della vita sul pianeta. Tutto è collegato senza confini come in natura, manca il tradizionale percorso espositivo frontale con teche sigillate, infatti il visitatore è costantemente coinvolto e stimolato dagli oggetti appesi o sistemati su tavoli trasparenti che sembrano galleggiare nello spazio. Una volta entrati i visitatori sono invitati ad iniziare il percorso dalla terrazza panoramica, dalla cima dell’edificio, iniziando il viaggio all’aria aperta a partire dall’osservazione del paesaggio montano circostante che ha dato origine al MUSE stesso. Si prosegue poi al quarto piano con il mondo dei ghiacciai e dell’ambiente periglaciale, dove si può ammirare e toccare la ricostruzione di un ghiacciaio con tanto di morene e rocce. Successivamente si prosegue al terzo piano con la flora e la fauna alpina, il cuore del Museo e della montagna: un vero e proprio excursus della biodiversità alpina, dalle piante agli animali, con tanto di volpi ed orsi esposti e la possibilità per i più piccoli di esplorare una ricostruzione boschiva.

Fig. 10 – Trento, il MUSE – Museo delle Scienze. Il terzo piano con la flora e la fauna alpina, particolare dell’orso esposto. Credits: Foto Archivio MUSE - Museo delle Scienze.

Al secondo piano si raggiunge il mondo delle Dolomiti, patrimonio mondiale UNESCO, di cui ne è illustrata la genesi, l’erosione e l’instabilità. Infine si arriva alla sezione della vita sulla Terra, con la storia delle popolazioni preistoriche abitanti il territorio alpino, e prima ancora, al piano interrato, è esposta la vita dei dinosauri sulla Terra.

Fig. 11 – Trento, il MUSE – Museo delle Scienze. Il piano interrato con l’esposizione dei dinosauri e animali preistorici. Credits: Foto Archivio MUSE - Museo delle Scienze.

Non può mancare, in un museo interattivo e moderno come il MUSE di Trento, una zona dedicata alla scienza interattiva e alle esperienze sensoriali ed emozionali, dove bambini e adulti possono confrontarsi con le leggi matematiche e fisiche, attraverso macchinari e strumenti appositamente studiati dagli scienziati del MUSE.

Fig. 12 – Trento, il MUSE – Museo delle Scienze. Il corpo vetrato della serra tropicale in un’immagine notturna. Credits: Foto Archivio MUSE - Museo delle Scienze.

 

Tutti i diritti delle immagini sono riservati al MUSE – Museo delle Scienze di Trento – e allo Studio di Architettura RPBW.

 

Note

[1] “Le Albere” in dialetto trentino significa pioppi (popolus alba). Il termine ricorda i filari che intorno al XVI secolo cingevano l’ingresso del “Palazzo delle Albere”, dai quali poi il Palazzo prese il nome (L’architettura del Museo spiegata ai visitatori, p. 12).

[2] L’uso di materiali naturali, la realizzazione di un impianto centralizzato di cogenerazione, il ricorso intensivo ai pannelli solari e fotovoltaici, l’importante presenza del verde e dell’acqua nei canali del quartiere e nel parco per interventi immediati in caso di incendio. La trigenerazione ovvero il sistema integrato che produce caldo, freddo ed elettricità con un risparmio del 50%. L’uso dell’energia geotermica alimentata da acque molto profonde pescate nel sottosuolo e, infine, le acque meteoriche che vengono utilizzate per l’irrigazione della serra, per alimentari gli acquari, lo specchio d’acqua e per i servizi igienici (Giornale di bordo, 2016, p. 282).

[3] La cosiddetta impagliatura o meglio conosciuta imbalsamatura degli animali. Una tecnica di preparazione e conservazione degli animali per la loro esposizione nei musei di scienze naturali.

 

Bibliografia

Renzo Piano Building Workshop, Renzo Piano. Giornale di bordo. Autobiografia per progetti 1966-2016, Genova, Fondazione Renzo Piano - Passigli Editori, 2016, pp. 280-285.

Dinacci Maria Liana e Negra Osvaldo, Il Muse tra scienza e architettura. Guida al percorso espositivo e al progetto del Renzo Piano building workshop, Trento, Idesia, 2014.

Renzo Piano Building Workshop, Muse. Museo delle scienze. L'architettura del Museo spiegata ai visitatori da Renzo Piano Building Workshop, Trento, List, 2013.

Dinacci Maria Liana e Marcantoni Mauro, Dalla natura alpina al futuro globale. Il Museo delle scienze di Trento e il progetto del Renzo Piano building workshop, Trento, Idesia, 2013.


CARLO SARTORI: “PITTORE DELLA NOSTRA TERRA”

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

“Se mi si chiede: “Perché dipingi?” confesso che lì per lì mi sentirei imbarazzato. É più semplice se ci penso un po’… direi che quando posso dipingere sono felice, anche se soffro con me stesso. Potrei spiegarmi meglio ricordando il travaglio e la gioia della madre”[1]. Con queste semplici parole il pittore trentino Carlo Sartori descrisse il suo amore verso la pittura e l’arte in generale. Erroneamente etichettato come artista naïf, oggi la critica lo considera una personalità unica e originale nel panorama artistico del Novecento trentino.

Fig. 1 – Autoritratto (“Mi pittor e contadin”), 1993, olio su tela, 50x40 (Fondazione Casa Museo pittore Carlo Sartori).

La vita di Carlo Sartori

Nato in una famiglia di umili origini a Ranzo di Vezzano, nella trentina Valle dei Laghi, il 27 maggio 1921, fin da piccolo mostrò una particolare predisposizione per il disegno che il poeta e scrittore trentino Renzo Francescotti così commentò: “Carlo è uno che si porta dietro da sempre la passione della pittura, come una malattia inguaribile[2].

A causa dei problemi economici in cui versava la sua famiglia, in giovane età, si trasferì nelle Valli Giudicarie, nel Trentino occidentale, a S. Lorenzo in Banale e poi nella frazione di Godenzo-Poia, dove visse nelle tipiche case in legno e paglia dell’epoca. Nel 1934 la sua casa subì un furioso incendio e il piccolo Carlo, che allora aveva solo tredici anni, riuscì a salvare i suoi tre fratelli con i quali era rimasto solo. Il gesto fu talmente eroico e coraggioso che gli permise di ottenere la medaglia d’argento al valor civile, consegnata l’anno seguente a Roma dal Capo del Governo, Benito Mussolini, e la pubblicazione del suo nome sulla rivista “Il Balilla” nella sezione giovinezza eroica.

Fig. 2 – Autoritratto con medaglia d’argento al valor civile, 1961, olio su faesite, 57x49.5 (Fondazione Casa Museo pittore Carlo Sartori).

Questo singolare episodio incise sul carattere del giovane Sartori che si convinse di essere destinato ad un luminoso destino e ad inseguire il sogno di diventare un celebre pittore. Convinto di poter vivere della sua arte, riuscì in vita a vendere i suoi quadri a prezzi significativi, continuando inizialmente la sua attività di contadino, e poi di imbianchino. Le origini contadine, il carattere schivo, la passione per la natura e la libertà furono i temi che emersero nell’arte di Sartori, incentrata su soggetti bucolici e temi pastorali. Inoltre, nonostante la timidezza, egli ebbe anche una spiccata ironia che emerse nei suoi quadri, nei titoli ironici e nelle raffigurazioni di piccoli animali ammiccanti.

Nella formazione artistica di Carlo Sartori fu importante l’incontro con il pittore e decoratore girovago, nativo della Valle di Primiero, nel Trentino orientale, Grazioso Origher, dal quale apprese i materiali e le tecniche pittoriche, nonché i soggetti e lo stile. Un altro incontro cruciale fu con il pittore Matteo Tevini (Trento 1869-Torino 1946) che lo incoraggiò a studiare arte, rivelandogli i segreti “del saper vedere”, estraendo dal contesto masse, volumi e prospettive. In un secondo momento Sartori iniziò un percorso didattico per corrispondenza presso la scuola ABC di Torino e poi, sempre per corrispondenza, presso l’Istituto Volontà di Roma; da queste esperienze apprese il disegno e la decorazione pittorica. Sartori fu sicuramente un pittore autodidatta, ma la sua passione per l’arte lo portò a studiare parecchi manuali di pittura, testi di critica e di storia dell’arte, in particolare i grandi artisti del Trecento toscano. La sua poliedrica formazione è testimoniata dalle note, gli studi, gli schizzi e i cartoni preparatori che egli eseguì per ogni dipinto, conservati e catalogati oggi nella “Casa Museo” di Godenzo.

Infine sono da ricordare le mostre, personali e collettive, che contribuirono a diffondere la fama del pittore. La prima fu la collettiva del 1959 presso il Circolo della Stampa di Bolzano, seguita dalla personale allestita all’Hotel Miralago di Molveno nel 1960. Qui, raggiunto l’albergo con la corriera e le opere sotto braccio, appoggiando i dipinti su tavoli e sedie, riuscì a vendere tutte le sue opere, anche a prezzi elevati. Altre mostre personali e collettive seguirono negli anni, a Trento, Torbole sul Garda, Verona, Riva del Garda, Pavia, Bologna, Milano ed altre città. Fra queste esposizioni fu importante l’invito che ottenne nel 1977 alla “Rassegna di pittura e scultura” presso il Museo Nazionale della Arti Naives “Cesare Zavattini” di Luzzara a Reggio Emilia. Tale invito gli permise di ottenere, erroneamente, il titolo di pittore naïf e la partecipazione alle successive quattordici mostre collettive dedicate ai pittori riconducibili a tale stile. Le molte mostre a cui partecipò, sia a livello nazionale che internazionale, gli diedero una tale fama che spesso la domenica a Godenzo appassionati e curiosi venivano da tutta Italia per conoscere l’artista e comprare le sue opere.

In questo contesto è bene ricordare la prima personale allestita nel 2012 nelle sale del Palazzo Assessorile di Cles, in Valle di Non, dopo la morte di Carlo Sartori, avvenuta il 5 maggio 2010 alla soglia dei novant’anni. La mostra ”Carlo Sartori, il pittore della nostra terra” è stata la prima uscita pubblica della Fondazione “Casa Museo Pittore Carlo Sartori” di Godenzo, costituita nel 2011 al fine di custodire, diffondere e valorizzare il patrimonio artistico e le testimonianze lasciate dall’artista nella sua vita interamente dedicata alla pittura.

Il percorso formativo di un artista autodidatta “colto”

Carlo Sartori fu un artista poliedrico che sperimentò molte tecniche artistiche, dal disegno alla scultura, fino all’affresco e alla pittura su cavalletto. Quest’ultima fu protagonista nella produzione artistica di Sartori, incentrata sulla vita contadina e religiosa del mondo agreste trentino in cui visse, ma anche sugli autoritratti, i temi religiosi, come le crocifissioni, le nature morte e i ritratti familiari.

Prima di raggiungere la maturità artistica, il percorso formativo di Sartori potrebbe essere suddiviso in quattro periodi artistici. Il primo arco di tempo è quello che va dal 1952 al 1958 ed è caratterizzato da disegni e acquerelli che omaggiano i genitori, e da lavori ad olio su tela, masonite e faesite che rivelano un artista dilettante alla ricerca del suo mondo e del suo stile. Compaiono in questo periodo i primi autoritratti che saranno sempre presenti nel percorso artistico di Sartori, una sorta di lettura introspettiva che fa di se stesso.

Il secondo periodo che va dal 1959 al 1962, rappresenta la fase “cubista” del pittore. Un cubismo singolare e tardivo che dava poco interesse alla resa della solidità, alla scomposizione dei piani e alla tridimensionalità, capisaldi del cubismo internazionale. Questa risulta però una fase importante poiché incominciò ad affacciarsi alle sue tematiche, quella religiosa e quella contadina.

Fig. 5 – Crocifissione di Cristo, 1960, olio su masonite, 45x40 (Fondazione Casa Museo pittore Carlo Sartori).

Il periodo seguente si rivela un periodo di studio che lo porterà a sperimentare il caratteristico “rosso sartoriano”, cifra stilistica della sua maturità artistica e che esploderà per la prima volta nel 1963 nella Crocifissione “Cristo che abbraccia l’umanità”. É un periodo di forte alternanza stilistica in cui Sartori si ispira al Van Gogh populista, della prima maniera, ad un tardo impressionismo, ai Macchiaioli (Fattori e Carrà) e ai Fauves.

L’ultima fase, che ha inizio nel 1970, è quella in cui raggiunge la piena maturità e il suo stile inconfondibile, da qui in poi comincerà a raccontare il suo mondo, la “grande saga contadina”. Nella piena maturità artistica Carlo Sartori realizzerà le sue opere più famose e caratteristiche, dove l’etichetta di artista naïf è ormai rifiutata dalla critica per parlare piuttosto di un artista che racconta il mondo contadino attraverso un “arcaico primitivismo”, studiato e pensato dall’artista nel suo percorso formativo da autodidatta “colto”[3].

Fig. 9 – L’indifferenza per chi soffre, 1971, olio su tela, 100x70.

La maturità artistica di Carlo Sartori: la “grande saga contadina”

Osservando i quadri della piena maturità artistica di Sartori colpiscono i soggetti, le composizioni, la prospettiva schiacciata verso il centro, ma soprattutto l’incredibile timbro dei suoi quadri, il famoso “rosso sartoriano”, che pur rispettando i colori della tavolozza, avvolge il dipinto e suscita calore ed emozione. L’origine del “rosso sartoriano” è alquanto incerta. Il poeta e scrittore trentino Renzo Francescotti lo lega al drammatico episodio che visse da giovane, quando salvò i sui fratelli dal furioso incendio della casa di famiglia: “Vide negli occhi la morte di sé e dei fratellini in un rosso-giallo che tutto travolgeva[4]. Potrebbe però essere spiegato anche con le parole dell’artista: “In quel periodo (fine del 1961) guardando ancora la pittura dei classici, ed in special modo il colore dei quattrocentisti, ho capito che il bianco non faceva quasi mai parte nell’impasto dei loro colori e così i quadri dei migliori autori avevano un tonalismo dorato color miele che legava tutto con meraviglia. Da allora ho dipinto escludendo quasi totalmente il bianco tranne nei punti dove dovevo far apparire oggetti che dovevano sembrare bianchi, componendo l’impasto della parte di luce colorata con colori caldi o freddi con pochissimo bianco e, per la necessità di schiarire certi colori, al posto del bianco usavo ocra chiara[5].

Le sue opere raccontano di un mondo agreste abitato da contadini intenti nel loro quotidiano lavoro di pastori, boscaioli, carrettieri, vendemmiatori, seminatori, mietitori, falciatori, raccoglitori di patate, uccisori di maiali, muratori, maniscalchi, falegnami, calzolai, mugnai e molto altro ancora. Raccontano di lavoratori dediti alla siesta, alla vita religiosa, di contadini innamorati e anche di donne che partecipano alla vita contadina dei loro mariti, raccogliendo, guidando i buoi, spigolando o intente nel lavoro di lavandaie alla fontana. Nel raccontare la vita dei contadini, quest’ultimi vengono dipinti in corpi quasi deformi, bassi e tozzi, con teste scimmiesche e con mani e piedi grandi e callosi, quasi a voler sottolineare la fatica quotidiana che deforma il fisico.  Immancabili nei quadri di Sartori sono gli animali – buoi, vacche, cavalli, capre, pecore, galline, cani e gatti – da lavoro e domestici, ma anche quelli selvatici quali uccelli, topi e lucertole. Uomini e animali vivono insieme e partecipano alla fatica del lavoro e all’intimità domestica, e spesso la loro presenza è ammiccante e ironica. Infine nei suoi quadri non mancano gli attrezzi del lavoro contadino, le case rustiche, i frutti prodotti dalla terra – patate, frumento e frutta – e le piante e i boschi. Il paesaggio che lui raffigura nei suoi quadri non rappresenta la terra natia, ma molto spesso raffigura alberi stilizzati ed irreali, nonché piante rade e scheletriche per le quali prese ispirazione dalla lezione di Giotto e dei pittori trecenteschi toscani.

Il tutto è raccontato in composizioni particolari con figure che sembrano schiacciate a terra e che si accalcano verso il centro; i soggetti sono rappresentati in una visione dall’alto con un effetto di schiacciamento verso il basso di tutti gli oggetti e di tutte le figure. Una visione quasi simbolica di un’umanità schiacciata a terra dalle fatiche del lavoro, ma che guarda verso l’alto, il cielo. Infatti non mancano nei suoi quadri frequenti gesti di preghiera, una costante nella vita contadina del tempo che chiedeva aiuto per sopravvivere. La componente religiosa è un elemento molto forte nei quadri di Carlo Sartori: una religiosità popolare che il pittore coglie mettendo i soggetti - piante e animali compresi - nella stessa posizione, in un mondo agreste paradisiaco.

 

Note

[1] Carlo Sartori, “Autopresentazione” in Catalogo della mostra collettiva “10+10. Pittori e incisori trentini del XX secolo”, Roma e Trento, 1971.

[2] Francescotti Renzo, “La saga contadina del pittore Carlo Sartori”, in Carlo Sartori. La saga contadina del pittore, p. 13.

[3] La pittura naïf è un genere di arte caratterizzata da semplici elementi, praticata da pittori non professionisti, autodidatti, attivi in America e in Europa, a partire dalla fine del sec. XIX. Inizialmente lo stesso Sartori accetterà questo tipo di definizione, ma in seguito questo tipo di etichetta non verrà più accolto dalla critica e dall’artista. Un artista naïf è estraneo allo studio della pittura, alla preparazione dei quadri con disegni e studi, ignora la prospettiva e ha un’abilità e un’ideologia che è del tutto estranea alla grande formazione artistica di Carlo Sartori.

[4] Francescotti, 2002, p. 18.

[5] Sartori Carlo, Protagonista della mia avventura, p.236.

 

Bibliografia

Rocca Gianluigi, Togni Alessandro, Carlo Sartori. La vita, la natura e il volto. Retrospettiva, Trento,

Consiglio della Provincia autonoma di Trento, 2017.

Sartori Carlo, La mia vita, 2014.

Fedrizzi Camillo, Tamanini Nicoletta, Carlo Sartori. Il pittore della nostra terra. 1921-2010, Cles, Nitida Immagine, 2012.

Francescotti Renzo, Carlo Sartori. Le crocifissioni, Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas (S.A.S.S.) 23 Ottobre-1 Dicembre 2002, Trento, Nuove Arti Grafiche Artigianelli, 2002.

Sartori Carlo, La saga contadina del pittore Carlo Sartori, Trento , Artigianelli 1993.

 

Sitografia

www.carlosartori.info


VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI MERANO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

Merano è bella oltre ogni immaginazione; può essere superata forse solo da Merano stessa in primavera, nel pieno della fioritura” così scriveva della città lo scrittore austriaco Stefan Zweig nel 1910. Una citazione che lascia intendere la bellezza di una città situata ai piedi delle Alpi, in provincia di Bolzano, immersa in un contesto naturalistico unico e costellata da monumenti che custodiscono la sua storia. Una località così particolare che è sempre stata riconosciuta come “città di cura”, per le proprietà terapeutiche delle sue acque, la particolare condizione climatica e i prodotti coltivati nel suo circondario, come l’uva e il latte che venivano consumati dai nobili della famiglia reale asburgica che qui veniva a cercare benessere psicofisico[1]. Questi non sono gli unici elementi che caratterizzano la cittadina, infatti Merano è costellata di monumenti storici che meritano una particolare attenzione. Qui si porrà l’attenzione al centro storico per ripercorrere gli anni cruciali della città, dalla Belle Époque alla Seconda guerra mondiale, e le peculiarità artistiche degli edifici in stile Art Nouveau.

Viaggio nel centro storico di Merano

Il viaggio nel centro storico di Merano parte dalle Terme che, situate lungo il fiume Passirio che lambisce il centro, costituiscono il simbolo della città e sono considerate tra le più belle delle Alpi. Il nuovo edificio è stato inaugurato nel 2005, ma le proprietà curative delle sue acque sono note da molti secoli, tanto che nel 1966 sono state riconosciute dal Ministero della Salute. Le acque termali nascono nel vicino Monte di San Vigilio dove, per infiltrazione, l’acqua raccoglie il fluoro, lo iodio e il gas Radon.

Fig. 3 – Merano, il Centro Termale (destra) e il viale di accesso. Credits: commons.wikimedia.org.

Dal centro termale attraverso la suggestiva “Passeggiata Lungopassirio” si arriva al primo “Kurhaus” (“Casa dell’ospite di cura”) di Merano. Un edificio suggestivo in stile Jugendstil del 1874, come indicato dalla data apportata a caratteri dorati sulla facciata principale. Quest’ultima è di gusto classico, dal colore bianco candido con una grande terrazza circolare che richiama l’imponente rotonda interna e il grande salone con il tetto a botte, progettato dall’architetto viennese Friedrich Ohmann. Domina la facciata una suggestiva e raffinata scultura di tre giovani donne abbracciate e legate da un festone che ballano in una danza circolare. Oggi l’edificio è utilizzato per i grandi eventi, come le convention europee e le rassegne musicali, infatti da molti anni ospita le “Settimane Musicali Meranesi” per la particolare acustica delle sua sale.

Proseguendo il percorso verso il cuore della città, si arriva al “Ponte della Posta” (“Postbrücke”) che congiunge il quartiere di Maia Alta con il centro della città: un meraviglioso ponte del 1909 ad ampie arcate decorate da tessere in mosaico color oro e un parapetto decorato con elementi floreali tipici dello stile Liberty.

Dal ponte iniziano le passeggiate meranesi, ovvero la “Passeggiata d’Inverno” e la “Passeggiata d’Estate” che seguono il tracciato del fiume e che in passato hanno contribuito a determinare la fama della città. La “Passeggiata d’Inverno”, che prosegue la “Passeggiata Lungopassirio”, fu realizzata nel 1855 per i nobili del casato asburgico che soggiornavano a Merano. Lungo questo sentiero i nobili cercavano benessere psicofisico grazie alla particolare posizione del percorso, protetta dal vento ed esposta al sole; inoltre nel padiglione (Wandelhalle), al termine della Passeggiata, i nobili bevevano siero di latte e mangiavano l’uva curativa. La “Passeggiata d’Estate” fu realizzata nel 1870, sulla sponda opposta del Passirio, all’interno di un parco ombreggiato da piante e arbusti unici, come i pini dell’Himalaya, i cedri del Libano e i cedri della catena montuosa dell’Atlante. All’ingresso della “Passeggiata” una statua in marmo riproduce l’imperatrice Elisabetta d’Austria: la statua fu realizzata nel 1903 dallo scultore Hermann Klotz per ricordare la sovrana che spesso e volentieri soggiornava nella città meranese, dando fama e notorietà alla città di cura.

Per raggiungere il centro storico della città, una volta terminata la “Passeggiata Lungopassirio”, si raggiunge “Piazza della Rena” e si arriva alla porta della città. Le porte della città sono testimonianza della cinta muraria e delle opere di fortificazione realizzate nel Trecento a Merano. Tre sono le porte sopravvissute: Porta Venosta, Porta Bolzano e Porta Passiria. La porta per raggiungere il centro storico è “Porta Bolzano” e come le altre è in pietra a vista con feritoie e sulla facciata porta lo stemma dell’Austria del Tirolo e di Merano.

Una volta varcata “Porta Bolzano” si raggiunge il cuore della città, ovvero “Piazza Duomo” con la sua Parrocchiale dedicata a San Nicolò. Il Duomo fu costruito a partire dal 1302 e i lavori proseguirono a lungo nel tempo, terminarono nel 1465 con la consacrazione della chiesa, mentre il campanile venne terminato più tardi solo nel XVII secolo. Per la chiesa fu costruita un Hallenkirche a tre navate in stile gotico d’oltralpe e fu consacrata a San Nicola di Mira, protettore di commercianti e naviganti, per proteggere la città dalle inondazioni causate dal fiume Passirio - all’epoca il santo veniva invocato contro le inondazioni – ed infatti la statua gotica del XIV secolo, sistemata sulla facciata meridionale verso il fiume, lo raffigura mentre con la mano benedice il Passirio. Il Duomo di Merano ha raffigurato sul portale laterale meridionale un gigantesco San Cristoforo, protettore di viandanti e pellegrini, e sulla volta del vano di passaggio, al di sotto del campanile, un paesaggio notturno con la croce dei Trinitari, attribuito al maestro boemo Venceslao, lo stesso che realizzò gli affreschi di Torre Aquila a Trento.

Da “Piazza Duomo” dipartono i portici della città, i più lunghi del Tirolo con i suoi oltre 200 negozi, caffè e ristoranti. I portici di Merano hanno inoltre la particolarità di essere cento passi più lunghi di quelli di Bolzano, così voluti nel Trecento per ricordare la superiorità del Tirolo, sul principato vescovile di Bolzano e Trento, loro eterni avversari.

Fig. 12 – Merano, i portici della città.

A metà di Via Portici (“Laubengasse”) si innalza il Municipio, un’architettura italiana novecentesca costruita durante il fascismo. Quest’ultima è dominata da una torretta con un grande orologio, al di sotto del quale, in una lapide, è ricordato il 1929, anno VII dell’era fascista meranese.

Fig. 13 – Merano, il Municipio con la torretta.

In questo punto, in una laterale di Via Portici, dietro al Municipio, si innalza un vero e proprio gioiello architettonico, ovvero il “Castello Principesco”. Esso venne fatto costruire intorno al 1470 dal duca d’Austria e Conte del Tirolo, Sigismondo (1439-1490) il Danaroso, per le sue periodiche visite alla città di Merano. Egli fece costruire una dimora cittadina, simile ad un castello di gusto tardogotico con porte riccamente intagliate e rivestimenti in legno alle pareti, mura merlate e feritoie con sola funzione ornamentale. Nel 1875 il castelletto rischiò di essere demolito per lasciare posto ad una scuola, solo all’ultimo momento, grazie all’iniziativa di alcuni cittadini, fu salvato e restaurato mantenendo la sua connotazione di Castello Principesco cinquecentesco. Oggi il Castello è aperto al pubblico e conserva armamenti, arredi dell’epoca e sontuose stanze con pavimenti e pareti rivestiti in legno, nonché la cappella di famiglia con affreschi del Cinquecento.

Proseguendo Via Portici si arriva a “Piazza del Grano” e poi a “Via delle Corse”, per poi raggiungere “Piazza del Teatro” con il suo storico “Teatro Puccini”. Un’architettura che ricorda in parte il Palazzo della Secessione viennese e tutto il mondo artistico legato a quell’ambiente e a quel periodo; venne inaugurato nel 1900 e fu il primo teatro in stile Jugendstil dell’Europa centrale. É un’architettura che colpisce per le decorazioni della sua facciata, un alternarsi di superfici levigate e superfici grezze, decorate con motivi floreali e festoni in stucco bianco e dorato, tipici dello stile Liberty. A colpire è anche l’interno per la cura dei dettagli e dei decori che richiamano il mondo artistico della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Il teatro venne costruito in soli 14 mesi su progetto dell’architetto di Monaco di Baviera, Martin Dülfer, e il primo dicembre del 1900 venne inaugurato. Oggi è il più importante edificio storico di Merano, ma anche dell’Alto Adige e ospita rappresentazioni teatrali sia in lingua italiana che in lingua tedesca.

L’anello del centro storico di Merano si conclude in “Corso Libertà”, una via parallela a Lungopassirio che conduce a “Porta Bolzano”. “Corso Libertà” merita una particolare considerazione perché il tracciato segue l’antico percorso delle mura cittadine che, proteggendo la città dalle esondazioni del fiume Passirio, collegavano Porta Bolzano a Porta Ultimo. Le mura della città e le porte di accesso furono costruite in epoca medievale quando Merano era un centro mercantile del Tirolo, quando questo ruolo venne meno nel corso dei secoli, le mura vennero manomesse e nell’Ottocento abbattute definitivamente. Alla fine della Prima guerra mondiale, in seguito all’annessione dell’Alto Adige al Regno d’Italia, questa strada venne sistemata e ottenne il titolo di Corso Principe Umberto, in omaggio al principe ereditario della casa di Savoia. Al termine della Seconda guerra mondiale fu invece ribattezzata in “Corso Libertà” per commemorare la liberazione dal fascismo e dal nazismo.

Si conclude qui il percorso attraverso il centro storico di Merano. Un tragitto breve, ma ricco di monumenti e di storia locale che ricordano il ruolo di città commerciale del Tirolo e di città curativa della famiglia reale asburgica. I monumenti di interesse storico-artistico di Merano non si fermano al centro storico, molti altri che arricchiscono la città nei quartieri e nella periferia meriterebbero ulteriori contributi.

 

Note

[1] Merano è situata a 325 metri sul livello del mare, una quota piuttosto bassa se pensiamo a dove sorge la città, ai piedi delle Alpi Venoste. Merano è situata in una conca protetta dalle montagne che le permette di aver un clima del tutto particolare: un clima che ritarda l’inverno e anticipa la primavera rispetto ad altre località poste alla stessa latitudine. (Rohrer 2011)

 

Bibliografia

Valente Paolo, Merano. Breve storia della città sul confine, Bolzano, Rætia, 2008.

Rohrer Josef, Merano in tasca. La città e i suoi dintorni, Vienna-Bolzano, Folio Editore, 2011.

Dal Lago Veneri Brunamaria, Alto Adige Südtirol. Una guida curiosa, Bolzano, Rætia, 2014.


LA CITTÀ FORTIFICATA DI GLORENZA IN ALTO ADIGE

A cura di Alessia Zeni

Introduzione. La città di Glorenza

Nell’alta Val Venosta, quasi al confine con la Svizzera, una cittadina alquanto singolare colpisce il viaggiatore e il turista che si reca nel versante occidentale della provincia di Bolzano. La cittadina in questione è Glorenza, una piccola città fortificata che ha ottenuto il titolo di città più piccola dell’Alto Adige con i suoi quasi 900 abitanti[1]. Molti sono gli aspetti storico-artistici che la caratterizzano, a partire dalle mura merlate del XVI secolo, fino alle antiche dimore con i caratteristici portici bassi e stretti. Peculiarità di una città nata al confine tra l’Alto Adige e la Svizzera che, in passato, per la sua strategica posizione è stata protagonista di importanti battaglie.

Glorenza: la storia

La città di Glorenza, in provincia di Bolzano, è nata come piccolo agglomerato di case e torri residenziali al confine tra la Svizzera e l’Alto Adige, tra il fiume Adige e l’antica Via Claudia Augusta. La città potrebbe essere nata anche come guado del fiume Adige che la lambisce nel lato meridionale, e che veniva utilizzato da tutti coloro che scendevano dalle vicine montagne. La fondazione si deve probabilmente ai romani che la inserirono nella provincia della Rezia, anche se l’origine del suo nome è preromana o retoromanza e la si può tradurre con “golena degli ontani o dei noccioli”.

In epoca Alto Medievale il paese ricadde sotto la diocesi svizzera di Coira finché il conte del Tirolo Mainardo II, vassallo dei vescovi svizzeri, riuscì ad accaparrarsi il territorio di Glorenza e a concedere alla cittadina il diritto di tenere mercato intorno al 1290. Da allora e per tutta l’età tardo medievale, Glorenza visse una grande fioritura economica come strategico centro di commerci al confine con la Svizzera. Questo per la città significava numerosi vantaggi economici ricavati dalla vendita di merci, dalla riscossione di dazi e per chi si trasferiva nella cittadina vi era l’esenzione dal pagare le tasse. Inoltre la cittadina ottenne il diritto di magazzinaggio, ciò significava che i mercanti di passaggio tra la Svizzera e l’Alto Adige erano obbligati a scaricare e vendere le loro merci nella città che, in questo modo, incassava le imposte di magazzinaggio e di transito. I mercanti vendevano vino, oggetti in metallo, spezie e frutta che veniva acquistata dalla popolazione locale con miele, cera, lana, carne affumicata, burro, strutto, lardo, cuoio non conciato, segale e animali da cortile. Ma solo quando Glorenza ottenne il monopolio statale nel commercio del sale, prodotto nella valle tirolese di Hall, ebbe inizio la vera fioritura della città[2]. Tutto il sale che proveniva dal Tirolo attraverso Passo Resia doveva essere pesato, misurato e messo in vendita a Glorenza perché la città aveva ottenuto il diritto di commercio, magazzinaggio e trasporto di quest’ultimo. Fu così che Glorenza visse una vera e propria fioritura economico-sociale, tanto che nel 1423 la Dieta Tirolese riunitasi a Merano inserì Glorenza al settimo posto nella graduatoria delle 18 città tirolesi.

Ma i problemi per la città di Glorenza iniziarono quando la famiglia asburgica acquisì la Contea del Tirolo nel 1363: la famiglia vedeva nella cittadina fortificata il luogo strategico ideale per limitare e combattere i diritti del vescovo svizzero di Coira nelle terre occidentali dell’Alto Adige. Le conquiste degli Asburgo sui territori dei vescovi svizzeri peggiorarono e culminarono nella guerra di Svevia, agli inizi del 1499, e tra le varie sommosse la battaglia più cruenta fu quella di Calva, combattuta dietro Glorenza il 22 maggio di quell’anno. Fu una catastrofe senza eguali che vide gli Asburgo ritirarsi, mentre i vittoriosi confederati svizzeri saccheggiarono e devastarono la vicina Glorenza: la città venne data alle fiamme, tutti i maschi sopra i 12 anni massacrati, le ragazze e le donne violentate e nello schieramento imperiale si contarono 6000 caduti. Quando l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo visitò il campo di battaglia, disseminato di corpi, promise la ricostruzione di Glorenza che in questo modo avrebbe acquistato l’attuale aspetto di città tardo medievale. La città venne ricostruita e circondata da alte mura di protezione, ma la costruzione della mura difensive fu talmente lenta che venne portata a compimento solo verso il 1580, quando ormai questo tipo di difesa era superato sotto il profilo tecnico militare. La città ben presto decadde, ormai indifendibile e non più importante dal punto di vista commerciale. Fortunatamente dopo la battaglia della Calva non ne seguirono altre, ma ormai il periodo di massima fioritura di Glorenza era finito e la città raggiunse nell’Ottocento un livello di povertà e miseria molto alto. Il risanamento della città vi fu solo nel 1972, la Giunta provinciale di Bolzano varò un’apposita legge per il risanamento della città con l’obiettivo di conservare lo stile architettonico medievale di Glorenza. La città oggi è considerata un gioiello architettonico unico in regione, ma anche nel resto d’Italia, difatti è inserita nel club dei “Borghi più belli d’Italia”.

La città con le sue antiche dimore e le mura tardo medievali

Glorenza ha una pianta trapezoidale tagliata da due assi viari: la Malser Gasse (Via Malles) e la Laubengasse (Via Portici) che taglia la città nel lato longitudinale. Altre vie minori attraversano Glorenza, ma la traversa principale è Florastraβe (Via Flora) che interseca Via Portici ed è così chiamata in ricordo dell’artista originario di Glorenza, Paul Flora, che su questa strada aveva la casa natale[3].

Fig. 3 - Pianta della città di Glorenza. Le tre vie principali e le porte di accesso alla città: 1. Porta Malles, 2. Porta Tubre, 3. Porta Sluderno. Credits: Kreidl 2010.

Due file di case sono sistemate lungo la principale di via Portici e, sul lato rivolto verso la strada, si aprono le volte asimmetriche dei portici che hanno la particolarità di essere irregolari, sbilenchi e molto bassi. Secondo gli storici la bassa altezza dei portici di Glorenza è da attribuire agli uomini dell’epoca più bassi di oggi, ma nella città sopravvive la credenza secondo cui la ridotta altezza sia da attribuire alle ripetute alluvioni che avrebbero fatto alzare il livello del terreno e così i portici si sarebbero gradualmente abbassati fino a raggiungere l’attuale altezza.

Le dimore di Glorenza che si affacciano su via Portici hanno un aspetto piuttosto regolare: non sono troppo alte, hanno tetti a spiovente e sono rivestite di intonaco bianco. Le case non avevano la cantina a causa dell’umidità del suolo, ma a pianterreno, verso la strada, si trovava la bottega del mastro artigiano che esponeva le proprie merci sotto i portici su dei banchi in legno. A pianterreno seguivano la stalla ed il fienile e, sul retro, oltre al magazzino, si trovava un piccolo giardino. Al piano intermedio la stube, la cucina e la camera da letto dei genitori, mentre nel sottotetto le camere dei bambini e della servitù.

 

 

Ma veniamo alla peculiarità di Glorenza, ovvero le sue mura tardo medievali, oggi ben conservate in tutta la loro grandezza. Quest’ultime sono state erette tra il 1499 e il 1580 per proteggere la città da ulteriori attacchi esterni, sono alte quasi 10 metri e hanno il tracciato del fossato di protezione e il ballatoio di ronda. Sono in parte costeggiate dal fiume Adige e aperte in tre punti per consentire l’accesso e l’uscita dalla città.

I tre accessi al borgo sono consentiti da tre porte turrite, quadrangolari e coperte da tetti a spiovente: Porta Malles che guarda a nord verso l’Austria, Porta Tubre rivolta verso la Svizzera e Porta Sludero che guarda verso la Val Venosta ad oriente.

Fig. 7 - Vista panoramica di Glorenza: 1. Porta Malles, 2. Porta Tubre, 3. Porta Sluderno. Credits: sudtirol.com.

Tutte le porte sono dotate di un portone interno e di uno esterno, mentre l’antica saracinesca di cui rimangono le guide di pietra è andata persa. Attraverso le porte si può accedere al cammino di ronda, oggi accessibile tramite delle scale esterne alle mura, attraverso le quali i visitatori possono accedere al ballatoio e ammirare il paesaggio verso le montagne svizzere e altoatesine. Sulla parete esterna di “Porta Sluderno” è affrescato lo stemma dell’Austria, del Tirolo e della città di Glorenza; mentre “Porta Tubre”, detta anche “Porta della Chiesa” perché attraverso di essa si accede alla Chiesa Parrocchiale di Glorenza dedicata a San Pancrazio, è sistemata fuori dalle mura. Probabilmente “Porta Tubre” è la torre più antica perché fu costruita come torre ad uso abitativo che assunse la funzione di porta solo in seguito alla costruzione delle mura cittadine. Tale porta è anche delimitata all’esterno dal fiume Adige e all’interno dal canale dei mulini per cui due ponti levatoi, uno dentro e uno fuori, consentivano o impedivano l’accesso alla città. Infine “Porta Malles” presenta una piccola apertura laterale che consentiva il passaggio di un solo uomo alla volta: veniva aperta di notte per i contadini della città che dovevano andare ad irrigare i campi, perché al calare della sera i portoni principali venivano chiusi.

 

Conclusione

Si chiude qui la storia architettonica della città fortificata di Glorenza nell’Alto Adige, la più piccola della provincia e anche la più singolare. Oggi è meta di molti visitatori soprattutto perché, in particolari giorni dell’anno, ospita importanti e caratteristici mercati in ricordo della sua antica origine mercantile. Ad esempio nel primo fine settimana di dicembre vi è il “Mercatino dell’Avvento” in cui, dal tardo pomeriggio alla sera, sotto i portici vengono allestite le antiche bancarelle in legno per vendere prodotti di artigianato, decorazioni natalizie e dolci tipici; il tutto accompagnato da cori locali e concerti degli ottoni. Altri eventi caratteristici sono i seguenti: la giornata della pera “Pala” venostana, il mercato del giorno dei morti ("Sealamorkt") ogni 2 novembre, il mercato di maggio o d’autunno, il mercatino delle pulci e lo storico mercato di San Bartolomeo introdotto dal conte Tirolo Mainardo II nel lontano 1291. In questo modo mercati e mercatini ogni anno riuniscono ambulanti, artigiani, acquirenti e turisti da ogni angolo dell’Alto Adige, dell’Austria e della Svizzera.

Fig. 11a - Glorenza, I mercatini dell’Avvento.
Fig. 12 - Glorenza, Il mercato dei morti ("Sealamorkt"). Credits: www.commons.wikimedia.org.

 

Note

[1] La cittadina fortificata è oggi abitata da poco meno di 900 abitanti, quasi tutti di madrelingua tedesca, circa metà dei quali vivono di turismo e commercio. Da tempo gli abitanti di Glorenza si sono stabiliti anche fuori dalle antiche mura, dato che la superficie del nucleo storico con i suoi otto ettari è troppo piccola per contenere l’accrescimento della popolazione (Kreidl, Niederholzer, Prieth, Glorenza da scoprire, Vienna-Bolzano, Folio Editore, 2010, p. 7).

[2] Nel XIII secolo le saline della valle tirolese di Hall ebbero un forte incremento di produzione, ma potevano vendere il loro prodotto solo in Tirolo, nelle regioni confinanti e in Italia solo con la Lombardia. Infatti la concorrenza del sale del salisburghese e della Baviera era molto forte, e in Italia le regioni del versante orientale erano sotto il dominio di Venezia che disponeva del suo sale marino.

[3] Paul Flora fu disegnatore, grafico e caricaturista. Nacque a Glorenza il 29 giugno 1922 e con la famiglia si trasferì nel Tirolo del nord dopo il 1927. Paul Flora raggiunse la notorietà soprattutto grazie alle sue inconfondibili caricature politiche che furono pubblicate sul settimanale amburghese “Die Zeit”. E’ stato uno dei sostenitori della ristrutturazione della città di Glorenza negli anni ’70. Ha sempre mostrato un forte attaccamento alla sua città natale, tanto che ha voluto essere seppellito nel cimitero di Glorenza, il 15 maggio 2009. Oggi presso Porta Tubre è possibile ammirare un’esposizione permanente di sue opere (Kreidl, Niederholzer, Prieth, Glorenza da scoprire, Vienna-Bolzano, Folio Editore, 2010, pp. 13-14)

 

Bibliografia

Sebastian Marseiler, Glorenza. La più piccola città dell’Alto Adige: storia e storie,

Lana, Tappeiner Casa Editrice, 1998

Kreidl Christine, Niederholzer Christine, Prieth Elmar, Glorenza da scoprire. Luoghi d'interesse, ospitalità, cultura, Vienna-Bolzano, Folio Editore, 2010


IL CASTELLO DI SAN GOTTARDO A MEZZOCORONA

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: Mezzocorona e il suo Monte

A circa 18 chilometri da Trento, nella Piana Rotaliana, si trova la borgata di Mezzocorona, centro nevralgico per la produzione di vini e legname; la borgata è sovrastata dall’omonimo Monte che domina il paese e l’intera vallata. La peculiarità del Monte di Mezzocorona è il diroccato complesso di Castel San Gottardo, costruito in posizione inaccessibile perché nascosto in una fenditura della parete rocciosa. Il castello è situato a nord-ovest del paese e, in linea d’aria, si innalza al di sopra dell’antico Palazzo della famiglia Firmian, originaria del Tirolo. Ad oggi il castello è di proprietà privata e purtroppo non è visitabile, in quanto la struttura non è in sicurezza per le visite al pubblico.

La posizione

Il Castello di San Gottardo è uno dei più suggestivi esempi di costruzione medievale dell’arco alpino per la sua particolare posizione, realizzato all’interno di una caverna guadagnata nel sotto roccia della montagna che in Trentino viene chiamata “corona”[1]. La “corona” è un particolare tipo di opera ricavata all’interno di grotte o caverne situate su rocce strapiombanti, come nel caso di San Gottardo che è stato creato in una caverna a quasi 200 metri al di sopra della piana alluvionale del fiume Noce, nella Piana Rotaliana. La “corona” del Monte diede il nome, oltre al castello, “Corona de Mezo”, anche alla borgata di Mezzocorona, “villa Metzi de Corona”.

In posizione predominante rispetto ai vicini castelli della Piana Rotaliana, dall’alto della parete rocciosa poteva controllare i traffici lungo l’antica strada romana che correva ai piedi della falesia e il guado sul fiume Noce tra Mezzocorona e Mezzolombardo. Per questo, nel Medioevo era un punto strategico per il controllo della viabilità e la sua posizione quasi inaccessibile lo rendeva luogo di rifugio per le popolazioni del fondovalle che venivano minacciate da calamità, saccheggi o eventi bellici.

I ruderi dell’antico castello

Ad oggi il Castello è allo stato di rudere, ma nonostante ciò sono ben visibili i vari corpi della struttura e l’accesso al Castello di San Gottardo. Il maniero è naturalmente protetto dalla roccia della caverna e da una lunga cinta muraria, alta più di cinque metri, che corre sul bordo del dirupo chiudendo interamente la caverna e proteggendo i vari corpi di fabbrica di residenza e di servizio del forte. Al castello si accede da oriente, nei pressi del Palazzo Inferiore, tramite una porta ad arco a tutto sesto ricavata nella cortina muraria; l’accesso è segnalato da un grande dipinto ad affresco raffigurante il doppio stemma della famiglia nobiliare dei “da Metz”, antica proprietaria del castello di San Gottardo. A est della struttura si trova il cosiddetto Palazzo Inferiore, e proseguendo la fonte dell’acqua, i ruderi della chiesetta di San Gottardo e il Palazzo Superiore o Casa dell’Eremita. Chiudono la struttura del castello i resti della Torricella, della Rimessa, dell’Armeria e del Corpo di Guardia principale.

Storia e leggenda del maniero

Come altre fortezze di epoca medievale, il Castello di San Gottardo ha subito nei secoli diversi passaggi di proprietà: in origine apparteneva al feudo dei conti di Appiano (BZ), ma un documento del 1183 segnala il passaggio ai signori di Livo (TN), della Valle di Non, che acquisirono la denominazione “da Mezo”, successivamente il castello passò ai signori di Wolkenstein e poi agli attuali nobili Firmian. Verso la fine del XV secolo, i Firmian abbandonarono il Castello di San Gottardo per una più consona residenza nel fondovalle, l’odierno Palazzo Firmian di Mezzocorona, mentre la cappella del Castello si trasformò in un santuario di grande devozione, dedicato a San Gottardo. Questi era un monaco benedettino che fu nominato vescovo di Hildesheim nel 1022; nato a Passavia nel 960 e morto a Hildesheim il 5 maggio 1038, il culto di questo santo fu importato nel Trentino, probabilmente nel secolo XIV, dai dinasti di matrice tedesca. Una volta santificato fu invocato contro la febbre, le malattie dei bambini, le doglie del parto e contro alcuni eventi naturali come fulmini e grandine. La sua festa ricorre il 4 o il 5 maggio, la prima data corrisponde alla traslazione del suo corpo e la seconda al giorno della sua morte.

La caverna di San Gottardo del Monte di Mezzocorona divenne una vera e propria cavità mistica dove i fedeli si radunavano in preghiera per chiedere intercessioni al Santo. Un eremita custodiva la cappella ed accoglieva i pellegrini che salivano in processione alla grotta il 5 di maggio di ogni anno, nella festa di San Gottardo. I graffiti, anche moderni, che decorano la roccia e le mura del castello e della cappella sono una testimonianza del forte fascino religioso che ebbe la cappella nei secoli passati. Quando la statua di San Gottardo che decorava la cappella del Castello venne trasferita nella chiesetta del sottostante Palazzo Firmian, durante le guerre napoleoniche, il via vai dei fedeli s’interruppe e i poteri intercessori del santo caddero nell’oblio[2]. La soppressione definitiva dell’eremo-santuario di San Gottardo fu decretata dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo, nel 1782. A memoria del santuario, nel 1988, è stato dedicato un capitello presso l’inizio della strada che porta al Castello per iniziativa di un comitato presieduto dal parroco. In quell’anno cadevano gli 850 anni della morte di San Gottardo e la comunità di Mezzocorona intese onorarne la memoria con un’edicola al santo. L’edicola fu affrescata dal pittore Mariano Fracalossi di Trento nel 1989 e con l’occasione fu rispristinata l’antica processione nel giorno dell’anniversario della festa di San Gottardo a Mezzocorona.

Tra la popolazione della Piana Rotaliana, il castello di San Gottardo è oggi conosciuto per la suggestiva leggenda del basilisco di Mezzocorona: il malefico drago attorno al quale la fantasia popolare ha creato fin dall’antichità strane credenze e superstizioni. Il basilisco di Mezzocorona è un mostro mezzo serpente e mezzo uccello, nato dall’uovo deposto nella caverna del Castello da un gallo di sette anni. Il mostro, racconta la leggenda, andava terrorizzando la popolazione della Piana Rotaliana per il suo orribile aspetto caratterizzato da occhi di bragia, da una bocca che sputava fuoco e da una coda che sfogava fumo. La leggenda racconta che fu solo un giovane cavaliere dei conti Firmian (un’altra versione della leggenda dice trattarsi dello stesso San Gottardo) a liberare il paese dal mostro malefico. Il cavaliere bardato di armatura salì alla grotta e depose accanto ad uno specchio un bacile di latte; il mostro si precipitò sul latte e, vistosi nello specchio, credette di aver trovato un compagno; il cavaliere allora uscì e con l’asta della sua armatura lo uccise. Il giovane guerriero portò la carcassa per le vie del paese, tra il tripudio della gente, ma una goccia del malefico sangue del basilisco penetrò tra le giunture della sua corazza e il giovane incenerì immediatamente. Fu sepolto con grande onore e gli fu dedicata una bellissima pietra sepolcrale col suo ritratto, oggi murata sulla parete esterna della chiesa parrocchiale di Mezzocorona, ricordata con il nome “l’om de fer” (“l’uomo di ferro”).

I fossili della “corona”

Per concludere l’affascinate storia del Castello di San Gottardo a Mezzocorona è interessante segnalare anche le ricerche condotte negli ultimi anni in merito a delle orme fossili di dinosauro rinvenute nel soffitto della grotta del Castello. Orme risalenti a 220 milioni di anni fa, estremamente importanti nel mondo dal momento che i dinosauri si affacciarono sulla scena del nostro pianeta “solo” 220 milioni di anni fa, alla fine del Triassico, e si diffusero in tutti i continenti nel Giurassico che iniziò circa 200 milioni di anni fa. Le orme fossilizzate a San Gottardo sono quindi tra le più antiche conosciute a livello globale.

Fig. 9 - Castello di San Gottardo, Mezzocorona, il fossile di una zampa di dinosauro nel sottarco della “corona” (Avanzini 2010).

 

Note

[1] “Crona” in dialetto locale indica una spaccatura nella roccia (Folgheraiter 2003).

[2] La cappella era provvista di una statua lignea raffigurante San Gottardo in abiti vescovili con in mano un libro; una scultura tardogotica del 1420 circa che il conte Firmian tolse dalla nicchia durante le guerre napoleoniche e trasferì nella cappella di Palazzo Firmian a Mezzocorona. La statua è oggi conservata al Museo Civico di Bolzano (Folgheraiter 2003).

 

Bibliografia

Avanzini Marco, Bernardi Massimo, Melchiori Leone, Petti Fabio Massimo, Le orme dei dinosauri del Castello di San Gottardo a Mezzocorona con cenni alla storia del castello, Comune di Mezzocorona, 2010

Degasperi Fiorenzo, Castelli del Trentino Alto Adige, Trento, Printer, 2011, pp. 113-120

Faganello Flavio, Festi Roberta, Castelli del Trentino, Ivrea (TO), Priuli & Verlucca, 1993, tav. 35

Fiamozzi Mario, Corona di Mezzo: il castello di San Gottardo, in Civis, 3, 1979, 8, p. 192-196

Folgheraiter Alberto, I Custodi del Silenzio. La storia degli eremiti del Trentino, Trento, Curcu&Genovese, 2003, pp. 78-81

Gorfer Aldo, I Castelli del Trentino, vol. 3: Trento e Valle dell'Adige, Piano Rotaliano, Trento, Saturnia, 1990, pp. 492-530

Melchiori Leone, Il castello e l'eremitaggio di S. Gottardo a Mezzocorona, Mezzocorona, Rotaltype, 1989