LA BADIA DI SAN LORENZO A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione

A nord di Trento, tra edifici e strutture di recente costruzione si erge l’antica Badia di San Lorenzo, uno dei pochi edifici a testimonianza di quello che era l’antica “Tridentum”, ovvero la città che venne eretta dai romani all’inizio dell’era cristiana. Una chiesa, quella di San Lorenzo, che ha mantenuto nel tempo la sua struttura originaria medievale, nonostante negli anni abbia subito notevoli danni causati dalle guerre e dalle inondazioni del fiume Adige.

Fig. 1 - La badia di San Lorenzo a Trento.

La chiesa

La badia di San Lorenzo è in stile romanico lombardo, è orientata da ovest verso est ed ha una pianta di tipo basilicale a croce latina con il transetto che non oltrepassa la larghezza delle navate. La Badia è piuttosto grande e si estende, in lunghezza, per 38 metri e in larghezza per 14 metri, presentando un’aula divisa in tre navate con campate collegate tra loro da archi in pietra a tutto sesto che sostengono le volte a crociera. Le vele delle volte sono dipinte con il motivo della stella domenicana e profilate con bande a decorazioni geometriche.

Nell’area presbiteriale lo stile romanico è stato abbandonato per accostarsi a forme più slanciate tipiche dello stile gotico; infatti nell’area sacra dell’edificio sono stati utilizzati quattro archi a sesto acuto, sostenuti da quattro robusti pilastri, al di sopra dei quali si innalza una grande cupola ottagonale. Questa struttura architettonica è la parte più interessante dell’edificio, in quanto il quadrato delimitato dai quattro pilastri si raccorda all’ottagono della cupola mediante quattro pennacchi di ascendenza orientale. La cupola del tiburio è infine decorata con il motivo della stella domenicana e al centro con l’Agnello di Dio, simbolo cristologico.

Fig. 4 - La badia di San Lorenzo a Trento, interno, la cupola del presbiterio con i quattro pennacchi di raccordo (Brunet 2012).

All’esterno colpisce la varietà cromatica dell’edificio, realizzato in pietra bianca e rossa di Trento e, nella parte sommitale dell’aula, del campanile e nel tiburio, in laterizio. La facciata è a salienti, cioè con le falde del tetto che seguono l’altezza delle navate e il campanile (XVII secolo) è caratterizzato da quattro bifore, da una torretta con finestre ovali e piccole piramidi angolari in cima.

Fig. 5 - La badia di San Lorenzo a Trento, la facciata (Brunet 2012).

L’aspetto più interessante della struttura esterna è sicuramente la decorazione dell’abside maggiore, marcata da leggere semicolonne con otto capitelli, decorati con motivi ad intreccio, aquile e teste angolari; i capitelli sono poi legati tra loro da una corona di archetti ciechi.

Fig. 6 - La badia di San Lorenzo a Trento, la decorazione esterna dell’abside.

La storia

Le origini della badia di San Lorenzo sono oscure ed incerte. Si suppone che la dedicazione a San Lorenzo, data alla chiesa e all’omonimo ponte sul fiume Adige, avesse origine dalla presenza in questo luogo di un sacello sacro di età romana dedicato alla divinità pagana “Larenzia”. Sopra queste rovine pare sia stato eretta una prima struttura cristiana, a carattere assai informale, che venne poi ricostruita tra il 1166 e il 1183 dai monaci benedettini, provenienti dal monastero di Vallalta (Bergamo).

Tra il 1166 e il 1183 i benedettini costruirono l’attuale Badia di San Lorenzo con annesso un grande convento, oggi demolito, e, secondo lo spirito del fondatore, alternarono a Trento lo studio monastico con il lavoro di un vasto appezzamento di terreno, situato sulla destra del fiume Adige, che, in quel tempo percorreva un alveo ben diverso dall’attuale.

Nel 1856 il percorso del fiume Adige all’interno della città di Trento è stato rettificato nell’attuale percorso.

Fig. 7 - L’antico alveo del fiume Adige che lambiva la chiesa di San Lorenzo (Ed. Manfrini 1978).

Non sappiamo il nome del magister che progettò l’edificio, ma è necessario sottolineare la presenza a Trento di un magister Lanfranco, costruttore e fratello di Israele, abate presso il monastero bergamasco di Vallalta, il quale dovette avere un ruolo principale nella costruzione del nuovo tempio religioso dedicato a San Lorenzo.

Nonostante le liti fra gli abati e i monaci benedettini il monastero riuscì a godere di un lungo periodo di prosperità determinato dalla concessione ai Benedettini di molte terre nei dintorni di Trento. Questa situazione non durò però a lungo: in seguito a funesti incendi e inondazioni il patrimonio territoriale dei monaci benedettini subì un drastico esaurimento, tanto che la chiesa e il monastero di San Lorenzo vennero ceduti ai Padri Predicatori di San Domenico. La decisione di cedere ai Domenicani il Convento con la chiesa annessa fu del vescovo di Trento, Aldrighetto di Castelcampo (1232-1247), quando nell’agosto del 1235 il numero dei monaci si era ormai ridotto notevolmente. Il complesso di San Lorenzo rimase ai Padri Predicatori fino al 1778, anni in cui i Domenicani restaurarono la chiesa nelle parti fatiscenti: furono realizzate le sopraelevazioni in cotto, la navata centrale fu alzata e furono costruite le volte a crociera e le arcate a sesto acuto.

Dopo il 1778 il complesso abbaziale rimase in uso a vari distaccamenti militari e subì in questo periodo una drastica trasformazione, ossia la demolizione del convento tra il 1933 e il 1934 e il danneggiamento della chiesa durante i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale.

Nel 1955, per interessamento del padre cappuccino Eusebio Jori, la chiesa venne restaurata e riaperta al culto con la qualifica di “Tempio civico” e da allora è rimasta ad uso dei frati cappuccini della Provincia di Trento. Sottoposta al degrado dell’alluvione che colpì Trento nel 1966, quando l’acqua raggiunse i sei metri di altezza, la chiesa mostrava, verso la fine degli anni ottanta, notevoli segnali di dissesto strutturale, specie nel campanile e nel tiburio.

Fig. 10 - La Badia di San Lorenzo a Trento durante l’alluvione del 1966 (Brunet 2012).

La stabilità della chiesa era talmente compromessa da intraprendere una importante campagna di studi dell’intero edificio, affidata all’architetto Andrea Bonazza, che si concluse con un radicale risanamento strutturale. L’opera di restauro della Badia di San Lorenzo ha interessato il sito per quasi un decennio, dal 1989 al 1998; un periodo così prolungato che ha permesso di elaborare un importante processo conoscitivo dell’edificio, arricchitosi di scoperte archeologiche, storiche ed architettoniche. Tra i reperti archeologici di notevole importanza, rinvenuti nei dintorni della badia, vi è un bronzetto raffigurante Mercurio del I-II secolo, una moneta risalente al 330-350 d. C. e le tracce della prima chiesa, già esistente nel 1146, con annesso campo cimiteriale.

 

Bibliografia

AA. VV., La badia di S. Lorenzo a Trento, Trento, Manfrini, 1978

Brunet Chiara Stella, La Badia di S. Lorenzo a Trento, Trento, Nuove Arti Grafiche, 2012

Grosselli Andrea, La Badia di S. Lorenzo a Trento, Rovereto, Stella, 2005

Wenter Marini G., La chiesa di S. Lorenzo a Trento – scavi e restauri, in “Studi Trentini”, 1, 1920, pp. 97-108


LA “DANZA MACABRA” DI SAN VIGILIO DI PINZOLO

A cura di Alessia Zeni

La chiesa di San Vigilio

Dopo aver trattato la chiesa di Santo Stefano nel comune di Carisolo, in Val Rendena, si tratterà ora una chiesa cimiteriale vicina a quest’ultima e altrettanto importante, ovvero San Vigilio di Pinzolo. L’edificio è un esempio di arte e architettura cinquecentesca trentina che attrae turisti e amanti dell’arte per la sua bellezza, ma soprattutto per la sua celebre “Danza macabra”. Un affresco imponente, ben visibile dalla strada che da Pinzolo conduce a Madonna di Campiglio per ricordare al viaggiatore che la morte colpisce chiunque e in qualsiasi momento.

Fig.1 - La chiesa di San Vigilio a Pinzolo (Ciaghi 2004).

La chiesa si trova nella campagna di Sorano alle porte di Pinzolo e sembra sia nata come piccola cappella ad uso dei coloni del territorio tra Pinzolo, Carisolo e il rione di Baldino. La storia ci segnala che la chiesa è stata eretta prima dell’anno Mille, e tale datazione è confermata dai reperti architettonici trovati nella chiesa come l’antico arco santo, le prime fondamenta e alcune caratteristiche architettoniche della torre campanaria e della sagrestia risalenti al X secolo. Nel 1515 la chiesa è stata smantellata per un aumento della popolazione locale e sul vecchio impianto romanico costituito dalla muratura meridionale e dal campanile è stato rifabbricato un edificio a tre navate divise da possenti colonne in granito e abside poligonale.

Tra il 1530 e il 1540 la chiesa è stata decorata con la celeberrima “Danza macabra”: ad oggi l’affresco è molto meglio conservato di quello della vicina chiesa di Carisolo. Non è l’unico affresco dipinto tra il 1530 e il 1540, anche le immagini che ornano le pareti interne dell’abside risalgono all’ultimo intervento della chiesa e raccontano la storia del santo patrono di Trento, Vigilio.

Fig. 2 - Chiesa di San Vigilio di Pinzolo, interno, abside con il ciclo di affreschi che racconta la storia di San Vigilio (Ciaghi 2004).

 

La “Danza macabra” di Pinzolo

La “Danza macabra” dipinta sulla parete esterna della chiesa cimiteriale di Pinzolo è stata affrescata da Simone II Baschenis da Averara (Lombardia) nel 1539, sulla parete esterna meridionale della chiesa di San Vigilio, nel registro di sotto gronda. L’affresco è molto grande e corre lungo tutta la parete meridionale per una lunghezza di 21 metri. Come nella vicina chiesa di Carisolo, il ballo della morte è stato dipinto per ricordare all’uomo che siamo tutti uguali al suo cospetto, infatti l’opera è stata commissionata dalla Confraternita dei Battuti[1] che nella chiesa di San Vigilio si riuniva per i riti di penitenza.

La “Danza macabra” di Pinzolo raffigura il ballo della morte di 18 coppie formate da scheletri e personaggi della società cinquecentesca. Ogni coppia, nella fascia sottostante è accompagnata da didascalie in volgare che indicano i crudeli e a volte spietati avvertimenti della morte al genere umano. Il testo riporta le parole che ogni scheletro rivolge al suo compagno di ballo e sono nella parlata locale, un volgare maccheronico di tono popolare, a cui si aggiungono colte citazioni in lingua latina e volgare, sui cartigli portati dagli scheletri.

Il dipinto si legge da sinistra verso destra e può essere diviso in tre parti. La prima parte è costituita da un gruppo di tre scheletri che rappresentano il regno della morte e suonano tre strumenti: uno è incoronato ed è seduto su un trono mentre suona una cornamusa, mentre gli altri sono in piedi e suonano delle trombe. Questa prima parte è seguita da Cristo crocifisso, qui dipinto per ricordare al fedele che neanche lui è stato risparmiato dalla morte e raffigurato a introdurre il ballo vero e proprio.

Fig. 4 - San Vigilio di Pinzolo, esterno, fianco meridionale, la “Danza macabra”, particolare con i tre scheletri musicisti e Cristo Crocifisso (Ciaghi 2004).

A Cristo seguono 18 personaggi abbigliati secondo la moda dell’epoca e sistemati secondo il rango sociale. Il Papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote e un frate francescano sono raffigurati nei loro abiti clericali in pose pompose e raffinate, ma anche in pose umili e dimesse come nel caso del frate francescano.

 

 

 

Segue l’imperatore con lo scettro e la mantella del suo rango, un re con corona, collana e ricca veste, una regina coronata con abito arabescato, un duca con abito da cortigiano, un medico con toga e ampolla, un guerriero armato con alabarda e spada, un ricco avaro che offre un bacile pieno d’oro, un giovane elegante con cappello piumato, un mendicante con le gambe di legno, una monaca con le mani giunte a chiedere pietà, una gentildonna, un’anziana e un bambino senza abiti accompagnato da uno scheletro che tiene un sonaglio nell’asta. Ogni personaggio è trafitto dalla freccia della morte ed è sistemato in pose rigide e timorose, spaventato dallo scheletro che lo accompagna e lo invita al ballo con smorfie e ghigni malefici.

Conclude il ballo lo scheletro della morte raffigurato in sella ad un cavallo alato che galoppa sopra corpi ammassati a terra e con l’arco scaglia le frecce sui partecipanti alla danza. La morte è seguita dall’arcangelo Michele e dal diavolo con il compito di giudicare le anime nel giudizio finale. L’arcangelo Michele è dipinto con spada e bilancia e intercede a difesa delle anime, sopra di lui un angelo sostiene un velo dal quale emerge un’anima; sotto sta la scritta: “Morte non può distruggere chi sempre vive”. Il diavolo, ultima figura della lunga danza, è dipinto in sembianze demoniache con ali di pipistrello, enormi orecchie, corna e barba da caprone e tiene in mano un libro con l’indicazione dei Sette Peccati Capitali. Questi ultimi sono illustrati nella fascia sottostante e sono simboleggiati da animali, ma purtroppo sono di difficile lettura perché degradati negli anni dagli agenti atmosferici.

Questa è la breve descrizione della “Danza macabra” raffigurata nella chiesa di San Vigilio di Pinzolo, alle porte del paese, sulla strada che conduce a Madonna di Campiglio. Il soggetto qui trattato è uno degli affreschi più emblematici del Trentino Alto-Adige, ma anche della storia dell’arte italiana. È un affresco raro, ma un tempo molto diffuso in tutto il mondo d’oltralpe, dalla Spagna, alla Francia, fino alla Germania come messaggio per i fedeli a condurre una vita nei precetti cristiani.

 

Note

[1] La Confraternita dei Battuti era molto diffusa in Val Rendena nel medioevo e in particolare a Pinzolo era presente una delle prime Compagnie dei Battuti del Trentino. I Battuti venivano anche definiti “Disciplini” o “Flagellanti”, termini che ricordano una forma di religiosità da loro praticata molto severa, fatta di lunghe orazioni e rigide penitenze inflitte sul corpo con flagelli e ciclici. La Compagnia era anche dedita alle azioni caritative e alla commissione di opere artistiche per le chiese come è il caso della “Danza macabra” di San Vigilio di Pinzolo.

 

Bibliografia

Facchinelli Walter, Nicoletti Giorgio, Val Rendena. Guida turistica, Trento, Editrice Uni Service, 2006 Chiaghi Giuseppe, Nell'antica chiesa di San Vigilio a Pinzolo, Pinzolo, Famiglia cooperativa di Pinzolo, 2004


LA CHIESA DI SANTO STEFANO DI CARISOLO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la “Danza macabra” e la “Leggenda di Carlo Magno”

Una delle chiese più importanti che si trovano in Val Rendena[1], nel Tentino occidentale, è sicuramente Santo Stefano nel comune di Carisolo, vicino Pinzolo. Una chiesa conosciuta per il celebre affresco della “Danza macabra” e il racconto della epica spedizione di Carlo Magno attraverso la Val Rendena.

La chiesa di Santo Stefano di Carisolo

Una leggenda racconta che la chiesa di Santo Stefano di Carisolo fu ampliata e sistemata alle porte della Val di Genova[2] per impedire a diavoli e streghe di evadere quando nel 1545, anno di caccia alle streghe nella regione, si diffuse la credenza che i padri della chiesa di Trento avessero relegato questi spiriti maligni nella selvaggia val di Genova, dov'erano rimasti immobilizzati e pietrificati nei grandi massi della valle. Infatti, chi si accinge ad imboccare la strada che da Carisolo conduce alla chiesa di Santo Stefano resterà estasiato dalla località: un colle a strapiombo sul fiume Sarca, all’imbocco della Val Genova, nel Parco Naturale Adamello Brenta, in un luogo privilegiato che permette all’uomo di entrare in contatto diretto con Dio. Un posto affascinante e molto suggestivo che è stato enfatizzato con la sistemazione di tre grandi croci in legno a ricordo del Golgota, quelle di Gesù Cristo e dei due ladroni nel giorno della loro crocifissione. Le croci sono state sistemate all’esterno dell’edificio religioso, sulla vetta dello sperone di roccia in cima a una stretta e ripida scalinata in pietra, nel punto più affascinante e panoramico del sito di Santo Stefano.

Si tratta del tipico edificio religioso dell’architettura alpestre trentina: semplice e robusta, conserva elementi dell’architettura romanica con richiami allo stile gotico. La chiesa è posizionata a oriente con abside rettangolare e campanile di impronta romanica, in pietra a vista, con quattro bifore. All'interno si accede tramite una lunga scalinata e, una volta entrati, ci si trova in un ambiente piccolo e spoglio, ma molto affascinante per i molti affreschi che decorano la chiesa.

Fig. 4 - Santo Stefano di Carisolo, prospetto fianco meridionale e spaccato interno (Chiappani, Trenti 2015).

La “Danza macabra”

Tra i molti affreschi che decorano l’interno e l’esterno della chiesa di Santo Stefano di Carisolo ci si soffermerà sul più importante e conosciuto, ovvero la “Danza macabra” dipinta sul fianco meridionale esterno di Santo Stefano. È opera di Simone II Baschenis, della famiglia di pittori della Val Averara in Lombardia, attivi in Trentino nei secoli XV e XVI. Simone Baschenis avrebbe dipinto la “Danza macabra” e gli affreschi della chiesa intorno al 1519, come indicato da un’iscrizione dipinta nell’intradosso della finestra meridionale.

La “Danza macabra” di Carisolo e quella della vicina chiesa di San Vigilio di Pinzolo sono celebri nel mondo della storia dell’arte per la rarità e la particolarità del soggetto, molto diffuso in Europa e in particolare nell'ambiente dell’oltralpe tardo medievale, ma purtroppo poco conosciuto perché molti esempi sono andati persi nel corso dei secoli. La “Danza macabra” si trovava dipinta soprattutto nelle chiese come monito al fedele, perché conducesse rettamente una vita cristiana ai fini della salvezza dell’anima: infatti questo affresco raffigura una danza fra uomini e scheletri, per ricordare al fedele che la morte colpisce chiunque, ricchi e poveri, vecchi e giovani. La “Danza macabra” di Carisolo è un affresco molto danneggiato, articolato per 12 metri e suddiviso in 20 riquadri. La scena raffigurata è suggestiva e terrificante per lo scheletro della morte che invita 17 personaggi all’ultimo traguardo, mentre gli scheletri musicisti con zampogna e trombe aprono le danze cantando una minacciosa preghiera “Io sonte la morte che porto corona, sonte signora de ogni persona”.

Dopo l’immagine di Cristo risorto, abbigliati secondo il costume dell’epoca e il rango sociale, si presentano in sequenza: il papa, il cardinale, il vescovo, il sacerdote, il monaco, l’imperatore, il re, il gentiluomo (duca), il guerriero, l’avaro, lo zerbinotto (giovane galante), il medico, il fanciullo, la monaca, la gentildonna e la vecchia a fine corteo mentre recita il rosario. Nell’ultimo riquadro l’epilogo della danza macabra: la Morte in sella ad un cavallo bianco alato scocca le frecce su chi è ancora in vita. La chiosa del grande affresco farebbe pensare che la morte ha vinto sulla vita, in realtà è il contrario perché il primo personaggio chiamato dalla Morte è colui che l’ha vinta, ovvero Gesù Cristo Risorto con il messaggio: “O tu che guardi, pensa di costei la me ha morto mi, che son signor di lei”.

La “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”

L’affresco che ha reso celebre la chiesa di Santo Stefano di Carisolo è l’immagine del leggendario passaggio di Carlo Magno attraverso la Val Rendena. Una rappresentazione unica nel suo genere sia per le grandi dimensioni che per il tema trattato, tanto che ad oggi può essere considerato un unicum nel panorama artistico di tutta Europa. La leggenda del viaggio di Carlo Magno in valle Camonica e in Trentino è narrata in nove manoscritti latini, datati fra il XV e XIX sec. e in una settecentesca traduzione italiana. I testi sono quasi tutti uguali e l’unica differenza sostanziale è nei documenti conservati in provincia di Trento, dove vengono raccontate le tappe trentine del viaggio[3].

Fig. 8 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”.

La storia vuole che Carlo Magno durante la spedizione in Italia nel 774 d.C., chiamato da papa Adriano (772-795 d.C.) contro i longobardi avrebbe attraversato la val Camonica, in Lombardia, e, valicato il Passo del Tonale, sarebbe sceso lungo l’alta Valle di Sole, in Trentino, e risalito verso il passo oggi chiamato Campo Carlo Magno. Giunto in Val Rendena avrebbe convertito al cattolicesimo i signorotti della valle e una volta giunto a Carisolo, alla chiesa di Santo Stefano, avrebbero battezzato la popolazione locale.

 

Questa storia al limite della mitologia è stata diffusa grazie al contributo del pittore Simone II Baschenis con l’affresco dipinto nella chiesa di Santo Stefano di Carisolo, sulla parete interna di nord-ovest. L’opera sarebbe stata eseguita tra il 1534 e il 1555 per ricordare il passaggio di Carlo Magno e le numerose indulgenze concesse dal Papa e dai sette vescovi al seguito del sovrano. In una cornice architettonica dipinta, l’Imperatore del Sacro Romano Impero con la sua corte assiste al battesimo di un catecumeno. Il sacramento è amministrato da papa Urbano accompagnato da sette vescovi, sistemati al centro del dipinto nel presbiterio di una cappella. Carlo Magno è dipinto sulla sinistra in primo piano, abbigliato alla moda rinascimentale, alla testa della corte; sulla destra invece è raffigurato un gruppo di persone che attende di ricevere il battesimo. Nell’angolo destro, seduto in primo piano, davanti alla folla, un giovane in tunica bianca che si sfila i pantaloni per prepararsi alla cerimonia; una figura emblematica che è stata identificata nell’autoritratto del pittore, Simone II Baschenis. Infine particolare attenzione meritano il paesaggio e le molte piante dipinte sul terreno in primo piano, ai piedi dei personaggi: lo sfondo alpino delle valli attraversate da Carlo Magno, con varie specie di fiori di montagna dell’ambiente rendenese (il cardo, il ranuncolo giallo, i denti di leone, il garofano selvatico e anche un ciclamino).

Fig. 9 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno”.

Ma l’aspetto più significativo dell’affresco sta nella lunga scritta in volgare antico dipinta sotto la “Leggenda di Carlo Magno”, che narra le vicende del condottiero franco alla testa del suo esercito partito da Bergamo verso il Trentino. Il testo è conosciuto come il “Privilegio della Chiesa di Santo Stefano di Rendena”, e ricorda le numerose indulgenze concesse alle varie chiese e il frequente riferimento agli eretici, chiamati pagani e giudei, da combattere con ogni mezzo. Quest’ultimo aspetto segnala che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” sono stati dipinti per la lotta contro le eresie e per legittimare la concessione delle indulgenze, messa in discussione dalla riforma protestante di Martin Lutero. Dunque, l’intento di chi aveva commissionato l’opera sarebbe stato quello di riaffermare l’autorità della chiesa ed elevare Carlo Magno a paladino della fede cattolica.

Fig. 10 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, il “Privilegio di Santo Stefano”.

Per concludere, bisogna segnalare che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” di Carisolo presentano delle incongruenze: al tempo della spedizione di Carlo Magno in Italia (774 d.C.) non è documentata una chiesa all’imbocco della Val di Genova e il papa al soglio pontificio era Adriano (772-795) e non Urbano, per cui stabilire la veridicità di questa leggenda è ad oggi molto difficile.

Una cosa però rimane certa: la “Leggenda di Carlo Magno” e la “Danza macabra” della chiesa di Santo Stefano di Carisolo rimangono degli affreschi unici nel loro genere e quindi importanti nelle vicende della storia e dell’arte italiana, ma anche europea.

 

Note

[1] La Val Rendena si trova nel Trentino occidentale ed è conosciuta per gli impianti sciistici di Pinzolo e Madonna di Campiglio.

[2] La val di Genova è una valle ai piedi dell’Adamello e la si raggiunge dal paese di Carisolo, in Val Rendena. È un’area naturalistica protetta dal Parco Naturale Adamello Brenta ed è conosciuta per la rinomata cascata di Nardis.

[3] Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013, p. 14.

 

BIBLIOGRAFIA:

Chiappani Fulvia, Trenti Graziella, Santo Stefano in Carisolo. Storia arte fede, Tione di Trento, Antolini Tipografia, 2015

La Chiesa di S. Stefano a Carisolo, lezione dell’architetto Antonello Adamoli (curatore dei restauri)

Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013


IL DUOMO DI TRENTO: VIAGGIO FRA I SUOI SEGRETI

A cura di Alessia Zeni

La struttura architettonica esterna

In queste tappe dedicate al Duomo di Trento si terrà un viaggio attraverso i segreti della struttura interna ed esterna della cattedrale. Perché segreti? Perché il Duomo di Trento, come altri monumenti dell’età medievale, nasconde un linguaggio, o meglio una simbologia, che trae origine dai bestiari medievali e dai testi biblici. Non solo, la sua struttura architettonica nasconde incisioni e targhe, memorie della sua storia arrivate fino a noi. In questo appuntamento si farà un tour virtuale attraverso la struttura architettonica esterna del Duomo di Trento, partendo dalla Piazza principale della città, prospicente il fianco nord della cattedrale, e proseguendo fino al fianco orientale della chiesa.

Dalla piazza principale (Piazza Duomo) emerge allo sguardo del visitatore la grande struttura architettonica duecentesca con l’abside nascosta dal castelletto merlato, sede del Vescovo, e la lunga galleria di colonne binate che ne alleggeriscono il prospetto settentrionale.

Fig. 1 - Piazza e Duomo di Trento, fianco nord (www.wikipedia.org).

La cosa che più colpisce il visitatore che si sofferma a guardare il Duomo dal centro della piazza è il grande ottagono del tiburio che copre la cupola interna della chiesa. Il tiburio è opera di fine Ottocento, ideata e realizzata dall’architetto triestino Enrico Nordio (1852-1923), che fu oggetto di molte critiche per la differenza di stile nel colore e nella forma delle pietre, tanto da ritenere Nordio “responsabile del disastroso ed arbitrario restauro purista del Duomo di Trento”, secondo le parole dello storico trentino Nicolò Rasmo.

Fig. 2 - Duomo di Trento, fianco nord, veduta aerea con il tiburio di Enrico Nordio (www.cattedralesanvigilio.it).

Non è l’unico elemento significativo che emerge in questo punto della cattedrale; infatti chi entra in Piazza Duomo ben presto noterà il capolavoro della Ruota della Fortuna, sistemata sul braccio nord del transetto. Un elemento architettonico inserito per ricordare al fedele che la vita è legata al ciclo inesorabile del tempo ed è un continuo oscillare di momenti funesti e momenti di trionfo. La fortuna è al centro del rosone, personificata da una donna coronata che con le braccia muove la ruota della vita. La ruota è suddivisa in dodici lobi che simboleggiano i mesi dell’anno, o le ore del giorno, cioè il tempo attraverso il quale l’uomo costruisce la sua fortuna o sfortuna. Sulla ghiera esterna del rosone sono rappresentati gli uomini sfortunati in posizione capovolta; stanno invece in piedi coloro che cercano di salire verso la sommità della ruota. In cima al rosone, una figura brinda con due boccali e li mostra con le mani alzate a rappresentare il colmo della felicità.

 

 

Sempre sul fianco nord dell’edifico è bene segnalare la grande Porta del Vescovo, perché da qui entravano i cortei vescovili che provenivano dalla residenza di Castel Buonconsiglio. La porta è sormontata da un sontuoso protiro rinascimentale sorretto da due grandi leoni stilofori, qui sistemati a guardia della chiesa, secondo l’antica fama dell’animale di dormire ad occhi aperti. Sul frontone del protiro emerge la figura scolpita del patrono, San Vigilio, e nella lunetta del portale è esposta una delle più antiche sculture del Duomo, un Cristo Pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti.

Fig. 9 - Duomo di Trento, fianco nord, lunetta con il Cristo pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti (www.wikipedia.org).

Proseguendo questo tour virtuale, da Piazza Duomo si svolta verso via Verdi per trovarsi di fronte alla Facciata principale del Duomo di Trento, il lato ovest con l’accesso alla chiesa. La facciata è dominata da un possente campanile con copertura a cipolla e da un magnifico rosone strombato suddiviso in sedici lobi decorati con colonne tortili e archetti gotici. Il rosone è un fine lavoro di intaglio della pietra, adornato sulla ghiera esterna dai simboli dei quattro evangelisti che guardano verso il Cristo assiso in trono. Chiude la facciata il portale strombato con architrave decorato da un tralcio di vite; il tralcio di vite è uno dei simboli cristologici più frequenti nelle chiese cristiane e ricorda il testo biblico: “Io sono la vera vite e voi i tralci”, ovvero Cristo è la vigna e i tralci sono i suoi seguaci o tutti i membri della chiesa cristiana.

Proseguendo verso Piazza Adamo d’Arogno si ammira il fianco sud del Duomo di Trento, che rispetto alle altre facciate della chiesa risulta essere meno incisivo. Qui emerge il corpo quadrangolare della Cappella del “Crocefisso del Concilio” con lo stemma del vescovo Francesco Alberti Poja, committente della cappella, e una modanatura dentellata con archetti pensili sostenuti da mensole con teste e animali stilizzati, opera di scultori campionesi.

Fig. 12 - Duomo di Trento, fianco sud, Cappella Alberti, stemma Alberti Poja (www.cattedralesanvigilio.it).

Chiude il tour il lato orientale, il luogo dove si trovano le absidi dell’edificio religioso, essendo questo orientato sull’asse est-ovest (come tutte le chiese dell’epoca medievale). È il lato più bello e più ricco, ma anche il luogo più antico del Duomo di Trento, poiché da qui presero avvio i lavori di ricostruzione della cattedrale, agli inizi del Duecento, per opera di Adamo d’Arogno. Accanto all’abside maggiore è collocata una piccola abside, molto sobria nella decorazione, ma elegante e lineare nella struttura. Questa fu realizzata prima di quella maggiore, come prova di come sarebbe stato costruito l’edificio.

Fig. 13 - Duomo di Trento, fianco est (www.wikipedia.org).

Accanto all’absidiola è sistemata una porta secondaria con un protiro sorretto da leoni stilofori e tre telamoni che, si pensa, raffigurino i tre figli di Adamo d’Arogno. I tre telamoni sorreggono le cosiddette colonne ofitiche (“òphis” dal greco serpente), ovvero una doppia colonna unita da un “nodo” in pietra che allude al Tempio di Salomone, al quale si richiamava idealmente la chiesa cristiana. Secondo la leggenda è il nodo che si formò fra i capelli del giovane Salomone, figlio di Davide, e re d'Israele, come monito ad essere più buono nei confronti delle persone che lo circondavano. Abbracciando le persone che vedeva, il nodo di Salomone si scioglieva.

Infine si arriva al corpo centrale dell’abside maggiore, la parte architettonica più interessante del Duomo di Trento per il suo ricco apparato decorativo e la grande monofora che illumina la zona dell’altare con la prima luce del mattino. Questa monofora è arricchita da un paio di doppie colonne “ofitiche”, sostenute da due grifoni alati (testa e ali d’aquila e corpo di leone) che agguantano una preda, il drago, a rappresentare la vittoria del bene sul male.

 

Si conclude qui questo viaggio virtuale attraverso i simboli e le decorazioni della struttura architettonica esterna del Duomo di Trento. Un viaggio alternativo per conoscere alcune delle sculture e dei simboli che decorano le pietre del Duomo, sculture e simboli che servono da monito al fedele a condurre una vita nella dottrina cristiana e lontana dalle tentazioni terrene.

 

Bibliografia

Malacarne Ambrogio, Una chiave di lettura della Cattedrale di Trento, Trento, Vita Trentina, 2006

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

 

Sitografia

www.cattedralesanvigilio.it


L'ARCHITETTURA DEL DUOMO DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

La struttura architettonica interna del duomo di Trento

In quest’ultimo appuntamento dedicato al duomo di Trento si tratterà dell'interno della chiesa per conoscere il suo impianto architettonico e alcune delle più importanti sculture in essa conservate.

In primis è bene segnalare le dimensioni del duomo di Trento: dimensioni che raggiungono una lunghezza di 72 metri e una larghezza di 31 metri (24 metri senza il transetto) per un’altezza di 26 metri, in corrispondenza della navata maggiore, e di 19 metri in corrispondenza di quelle minori. La chiesa ha quindi un’altezza imponente, memore dello stile gotico, e un impianto con murature poderose e robuste di gusto tardo romanico. Come segnalato dagli storici del duomo, il vanto maggiore della cattedrale è la radicata e sapiente fusione dello stile tardo romanico con il gotico d’oltralpe; stile quest’ultimo che il Tentino ha spesso subito, essendo la regione una terra di confine con il mondo germanico.

 

La chiesa come già ricordato è orientata ovest-est ed ha una pianta a croce latina con tre navate, tre absidi e campate coperte da volte a crociere innestate su archi a tutto sesto; le crociere sono sostenute da robusti pilastri e murature molto spesse che non permettono di dare spazio alle finestre che sono per lo più piccole e strombate.

Fig. 3 - Duomo di Trento, interno, navata minore con le crociere (Castelnuovo 1992).

Tra le peculiarità architettoniche che caratterizzano l’interno del duomo di Trento vi sono due rampe di scale ricavate nello spessore delle murature portanti; le scale corrono in direzione opposta all'andamento della navata, provocando l’effetto di alleggerire il muro e arricchire lo spazio della chiesa. Questo elemento architettonico è alquanto raro ed è stato qui pensato per accedere alla loggia sopra il portale d’entrata; una loggetta che non ha funzione di cantoria, né di tribuna d’organo, ma di pontile portante la struttura architettonica.

 

 

Interessanti sono gli imponenti pilastri a fascio che dividono le navate e sostengono le crociere del duomo di Trento; in linea di massima questi pilastri si innalzano su un massiccio basamento ottagonale, decorato con foglie dalle forme diversificate, teste leonine e zoomorfe tipiche dell’architettura di tradizione romanica. Su questo basamento si innalzano pilastri polistili, tipici invece dell’architettura gotica, decorati da capitelli con raffigurazioni vegetali e testine lavorate.

 

L’elemento architettonico più caratteristico del duomo di Trento è sicuramente il presbiterio che conserva l’altare in pietra con l’urna di San Vigilio, il santo patrono della chiesa e della città. Il fulcro dell’altare è sottolineato dal maestoso baldacchino barocco, un’opera unica in regione che riprende l’idea del baldacchino berniniano della Basilica Vaticana in Roma.

Fig. 9 - Duomo di Trento, interno, navata maggiore, presbiterio con il baldacchino barocco (Castelnuovo 1992).

Altare e baldacchino sono dei fratelli Domenico e Antonio Sartori da Castione, presso Rovereto, mentre gli angeli, i putti e gli emblemi che ornano la parte superiore del baldacchino sono in gran parte dello scultore Francesco Oradini. Il baldacchino è composto da quattro raffinate colonne tortili in marmo africano, decorate da capitelli corinzi in rame dorato. I plinti delle colonne sono guarnite da quattro aquile dorate, simbolo di Trento, e iscrizioni che ricordano il popolo tridentino, i vescovi tridentini Vigilio e Adelpreto e la città salvata dai francesi nell'anno 1703. Sopra le colonne del baldacchino corre una poderosa trabeazione di gusto barocco con nappe marmoree, che sostiene la cornice centrale a volute.

Fig. 10 - Duomo di Trento, interno, baldacchino barocco (Castelnuovo 1992).

Dietro il presbiterio emerge la curva dell’abside maggiore con il “Coro dei Santi Angeli”; quest’ultimo è stato rinnovato nel 1740 in seguito all'abbattimento dell’antica cripta del duomo di Trento. La particolarità del coro è data dalla doppia serie di sedili in legno di noce, le cui testate sono decorate da 24 pannelli intagliati che raffigurano le apparizioni di angeli dell’Antico e del Nuovo Testamento. La seduta vescovile è ornata con un rilievo raffigurante “L’occhio di Dio” con quattro lettere ebraiche, formanti la parola di Dio, il tutto in una cornice di angeli e putti che pregano.

 

Proseguendo il viaggio all'interno del duomo di Trento, particolare attenzione la  meritano le due piccole absidi, sistemate in testa alle navate laterali, in corrispondenza dei bracci del transetto. Nel transetto meridionale s’incontra l’abside di Santo Stefano, così chiamata per il bassorilievo che racconta il martirio del santo. Santo Stefano è raffigurato nei pannelli scolpiti e murati ai lati della finestra dell’abside e risalenti al XIII secolo, ovvero all'epoca dei primi lavori nel duomo di Trento per opera di Adamo d’Arogno. Il pannello di sinistra raffigura tre lapidatori con cappelli a cono e grembiuli colmi di sassi, intenti nel lanciare le pietre sul martire. Santo Stefano è scolpito nel pannello di destra, in ginocchio, in posizione di sofferenza con le braccia alzate, mentre viene colpito dai sassi; a fianco c’è un altro esecutore con i sassi nel vestito e, dietro, il funzionario che comanda l’esecuzione puntando il dito indice nella direzione del martire. Nell'abside di Santo Stefano sono conservate le reliquie dei tre martiri trentini, Sisinio, Martirio e Alessandro: i tre missionari della Cappadocia uccisi in Val di Non il 29 maggio 387, mentre predicavano la parola di Dio, e per i quali fu costruita l’antica basilica sotterranea nel duomo di Trento.

 

Invece, in corrispondenza della navata settentrionale, troviamo l’abside di San Giovanni evangelista, così chiamata per il bassorilievo raffigurante il martirio del santo. La raffigurazione appare su due bassorilievi contigui, sul lato destro dell’abside. Nella prima lastra a destra la figura centrale con corona e scettro, dall’alto del suo trono, comanda l’esecuzione di San Giovanni con la mano destra alzata; alle sue spalle c’è un assistente che impugna una spada enorme, simbolo di giustizia e potere del re. A sinistra è scolpita una figura in un movimento di fuga, forse davanti alla tragedia del martirio di San Giovanni. San Giovanni è scolpito nella lastra di sinistra, al centro, immerso in un grande pentolone, mentre brucia nell'olio bollente: qui Giovanni viene trattenuto dal suo carnefice che lo comprime con una grande forca. Sull'altro lato del calderone un servo è chinato e con il soffietto alimenta la fiamma. Chiude il bassorilievo la mano benedicente di Dio che scende nell'angolo in alto a sinistra, circondata da un nimbo, per accogliere l’anima di San Giovanni.

 

Infine si ricordano alcune peculiarità conservate nel transetto settentrionale del duomo di Trento, ovvero il fonte battesimale di Francesco Oradini (1699-1754) e la famigerata Madonna degli Annegati, scultura in pietra del XIII secolo, opera di Adamo d’Arogno, così chiamata per la consuetudine di deporre davanti a lei i cadaveri degli annegati del fiume Adige o delle rogge che un tempo attraversavano la città. La statua si trovava all'esterno del duomo di Trento, nei pressi della Porta del Vescovo, mentre oggi è stata sostituita all'esterno da una sua copia fedele.

 

 

 

 

Bibliografia e Sitografia

Primerano Domenica, Scarrocchia Sandro (a cura di), Il Duomo di Trento tra tutela e restauro. 1858-2008, Catalogo della mostra, Temi Editrice-Museo Diocesano, Trento 2008

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Anderle Michele, Primerano Domenica, Rogger Iginio, La cattedrale di San Vigilio. Le fasi costruttive della cattedrale e i suoi protagonisti, Cd-rom

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

www.cattedralesanvigilio.it

www.chieseitaliane.chiesacattolica.it Elenco delle chiese delle Diocesi Italiane curato dal CEI – Conferenza  Episcopale Italiana - Ufficio Nazionale per i Beni culturali Ecclesiastici e l'edilizia di culto - Diocesi di Trento - Inventario dei beni culturali immobili


IL CROCIFISSO DEL CONCILIO A TRENTO

A cura di Alessia Zeni

Il visitatore che si reca nel Duomo di Trento, tra le opere d’arte da vedere, dovrebbe annoverare il Crocifisso del Concilio, così chiamato perché sotto di esso furono firmati i decreti conclusivi del Concilio di Trento (1545-1563). Il Crocifisso è conservato nella Cappella Alberti costruita nel 1682-1687, sulla parete sud della cattedrale, per volere del principe vescovo di Trento, Francesco Alberti Poja (1677-1689), come luogo della sua sepoltura e conservazione della reliquia. E’ un'opera esemplare nel panorama artistico trentino, esempio di arte regionale molto spesso influenzata dalla scuola tedesca d'Oltralpe.

Fig. 1 - La Cappella Alberti e l’altare con il Crocifisso del Concilio (Malacarne, 2010).

Il vescovo Alberti Poja fece costruire una cappella a pianta quadrata con tamburo ottagonale, cupola con lanterna e una decorazione pittorica e architettonica che doveva esaltare il Crocifisso del Concilio di Trento. La cappella venne realizzata nello stile barocco dell’epoca che tendeva al meraviglioso e allo sbalorditivo con pitture di Giuseppe Alberti (1640-1716), statue ed elementi plastici dello scultore trentino Paul Strudel (1648-1708) e stucchi di Girolamo Aliprandi della Valle d’Intelvi. Purtroppo molte di queste decorazioni sono state rimosse nel restauro del 1843-1845 per smorzare l’aspetto vistosamente barocco della cappella, probabilmente poco apprezzato dalla curia vescovile dell’epoca. Per fortuna gli stucchi che ornavano la cappella non sono andati tutti persi, alcuni di questi oggi decorano l’altare che contiene il Complesso scultoreo del Crocifisso.

La decorazione pittorica di Giuseppe Alberti prevedeva otto Episodi Biblici affrescati nella cupola, scelti per le loro connessioni con il tema della Crocifissione e della salvezza; a questi fanno seguito, più in basso, sulle pareti del tamburo, cinque Scene della Passione e, nei pennacchi, la raffigurazione allegorica di Quattro Virtù, le virtù esercitate da Cristo nel suo sacrificio. A questo tema si legano le rappresentazione delle tele laterali della cappella che raffigurano l’Adorazione dei pastori e la Resurrezione, opere di pittura barocca del bavarese Carlo Loth. Entro l’altare, infine, il rilievo di Adamo ed Eva davanti all’Albero del bene e del male che allude al Peccato originale (la causa del sacrificio di Cristo), le statue della Maddalena e della Veronica (oggi sistemate davanti all'ingresso della cappella) nonché le rappresentazioni dell’Arma Christi che evocano in termini diretti la Passione.

Fig. 2 - La cupola con gli affreschi di Giuseppe Alberti (www.cattedralesanvigilio.it).

Questo complesso programma iconografico è stato pensato per esaltare la Crocifissione del Concilio di Trento, un’opera imponente con i suoi 218 cm di altezza, e dalla forte drammaticità, tanto da poterla ritenere tra le più tragiche rappresentazioni della morte di Cristo in croce. La scultura è di un artista tedesco, Sixtus Frei da Norimberga, che realizzò la scultura dopo il 1511, quando arrivò nel capoluogo trentino, in legno dipinto di stile tardogotico, dove ogni dettaglio è stato studiato per trasmettere il dolore di Cristo in croce e la tristezza dei due dolenti, Maria Addolorata e San Giovanni apostolo. Il Cristo con i capelli che cadono in disordine, le sopracciglia che si inarcano sulla fronte corrugata, gli occhi che fuoriescono dalle occhiaie incavate e la bocca semi aperta accentuano la sofferenza del figlio di Dio. Una sofferenza che viene amplificata dall'ossatura della cassa toracica, dove si intravedono le costole, da una ferita che mostra il sangue abbondante e dai chiodi che fissano il corpo alla croce. I due dolenti, Maria e Giovanni, sono raffigurati in ricchi panneggi ed entrambi evitano di guardare il Crocefisso, come a voler rifuggire dal guardare lo spettacolo drammatico del Cristo morente.

Il Crocifisso del Concilio è inserito in una delle opere più belle del Duomo di Trento, un altare realizzato in pietra e marmo con sculture e decorazioni dalla forte carica simbolica (figura 1). In primis i due Angeli di Paul Strudel sistemati sul timpano spezzato dell’altare e scolpiti in ginocchio, in morbidi panneggi, che tengono la lancia con cui venne trafitto il costato di Cristo, e la spugna, con cui i soldati gli diedero da bere aceto. Gli Angioletti esultanti che chiudono in alto l’altare, sorreggono uno striscione marmoreo che riporta la scritta: “Unde mors oriebatur inde vita resurgit” ovvero “Dalla morte è venuta la vita” (figura 1).

Inserita tra le colonne dell’altare vi è una delle sculture più belle della cappella, l’Arma Christi di Giuseppe Aliprandi, ovvero l’insieme dei simboli che si riferiscono alla Passione di Gesù. Tra le colonne di sinistra troviamo gli elementi che ricordano la notte in cui Cristo è stato tradito dal discepolo Giuda: il gallo, la sacca dei denari, una fiaccola, una coppa, un elmo, il guanto di un soldato, un pugnale, una lanterna, una veste e una spada. Tra le colonne di destra gli oggetti che ricordano la condanna, le torture e la crocifissione: alcuni flagelli, una brocca, uno scudo, dei fastelli di verghe, l’iscrizione INRI, un’ascia, un martello e la veste coi dadi. Infine inquadra l’edicola della Crocifissione uno straordinario fregio in pietra scolpito da Paul Strudel con l’intenzione di alludere all'albero da cui fu ricavato il legno della croce; l’artista scolpisce un tronco ricoperto di foglie e in alto lo conclude con una corona di spine (figura 3).

Chiude il tutto, nel timpano spezzato dell’altare, la scultura di Adamo ed Eva davanti all’albero del Bene e del Male che rappresenta l’albero del Paradiso terrestre e il peccato dei progenitori vinto da Gesù che morì sulla croce.

Fig. 10 - Altare del Crocefisso del Concilio, Adamo ed Eva davanti all’albero del Bene e del Male (Malacarne, 2010).

LA STORIA DEL DUOMO DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

Uno dei monumenti simbolo della città di Trento è il Duomo dedicato al vescovo tridentino Vigilio. La chiesa domina il centro della città con il Palazzo Pretorio, oggi sede del Museo Diocesano Tridentino, e la Torre Civica. Come altri edifici simili, il Duomo di Trento ha una storia molto lunga e complessa che va dall'epoca di diffusione del Cristianesimo in regione, ai restauri condotti nell'ultimo secolo.

Fig. 1 - Piazza e Duomo di Trento - (www.cattedralesanvigilio.it).

La primitiva costruzione del Duomo di Trento la si deve al terzo vescovo tridentino, Vigilio (Roma, 355 – Val Rendena, 400-405), il quale volle venisse costruita una basilica cimiteriale all'esterno della città romana di Tridentum per conservare le spoglie dei tre martiri missionari della Val di Non, Sisinio, Martirio e Alessandro. I tre martiri vennero trucidati dai pagani il 29 maggio 397 e sepolti nell'antica basilica di Trento per volere di Vigilio; alla sua morte, tra il 400 e il 405 d.C., anche Vigilio venne sepolto nell'antica basilica. Questa primitiva basilica venne costruita fuori della porta urbana dell’antica città di Trento, "presso la porta Veronensis", lungo il tratto di strada che un tempo usciva verso Verona. Venne scoperta tra il 1964 e il 1977 e oggi la si può visitare sotto il pavimento del Duomo, alla profondità di circa tre metri. La storia di questa antica basilica è capitolo a parte nelle vicende del Duomo di Trento, perché l’attuale struttura del Duomo risale al XIII secolo, a quando il principe vescovo Federico Vanga (1207-1218) avviò la completa ricostruzione dell’antica basilica.

La posa della prima pietra del Duomo di Trento è ricordata nell'epigrafe commemorativa inserita nel contrafforte meridionale dell'abside maggiore, che ricorda la data 29 febbraio 1212 e l’incarico della progettazione conferito al costruttore Adamo d’Arogno, capostipite di una lunga serie di maestri comacini. La costruzione prese avvio dalla zona orientale per poi progredire fino alla costruzione dell’impianto architettonico, sostanzialmente romanico.

All'inizio del Trecento, il maestro Egidio da Como o da Campione assunse la guida del cantiere del Duomo, completando la facciata fino al rosone e il prospetto meridionale. Questi interventi sono stati compiuti grazie al contributo finanziario del nobile condottiero Guglielmo da Castelbarco che è ricordato in un'epigrafe apposta sull'angolo sud ovest della facciata del Duomo insieme alla data 1309.

Gli interventi successivi compiuti tra il XV e il XVI secolo diedero alla struttura interna della navata principale un aspetto vicino allo stile gotico, attestato dal verticalismo delle proporzioni e dall’espansione dello spazio interno. A quest’epoca risale il completamento delle coperture e della facciata, del tiburio sopra il transetto e della cella ottagona del campanile.

Fig. 4 - Duomo di Trento, facciata - (www.wikipedia.org).

In età barocca vi fu la costruzione di una delle cappelle più importanti del Duomo di Trento, la Cappella del Crocifisso o Cappella Alberti. Questa venne aperta sul fianco sud della cattedrale, per volere del principe vescovo Francesco Alberti Poja (1678-1689). I lavori iniziarono il 6 aprile 1682 e terminarono nel 1687, come indicato dalla data impressa sullo scudo bronzeo al centro del pavimento. Oggi la cappella è utilizzata come luogo di conservazione dell'Eucaristia, ma in origine fu concepita come cappella funeraria del vescovo Poja e per conservare il gruppo ligneo cinquecentesco del Cristo "del Concilio".

All’inizio del Settecento vi fu la realizzazione della copertura a cipolla del campanile del Duomo, una copertura così caratteristica che venne copiata da molte chiese del Trentino, e negli anni quaranta dello stesso secolo venne completamente modificata la zona del presbiterio del Duomo. La completa ristrutturazione dell’area del presbiterio fu voluta dai cittadini di Trento, in seguito al voto del 1703 per la liberazione della città dall’assedio dei francesi. Questi lavori portarono alla demolizione dell’antica cripta medievale e di conseguenza all’abbassamento del presbiterio di circa quattro metri. Nella nuova area venne realizzato il coro ligneo "dei Santi Angeli" e il magnifico baldacchino in pietra che domina l’area del presbiterio e protegge l’altare in pietra del Duomo di Trento. Un baldacchino del tutto particolare poiché riprende l’idea del più famoso baldacchino di San Pietro in Vaticano opera del Bernini e del Borromini. L’altare e il baldacchino del Duomo di Trento furono realizzati dai fratelli Domenico e Antonio Sartori da Castione, presso Rovereto, mentre gli angeli, i putti e gli emblemi che ornano la parte superiore del baldacchino furono in gran parte realizzati dallo scultore Francesco Oradini.

Fig. 5 - Duomo di Trento, presbiterio e baldacchino - (www.cattedralesanvigilio.it).

La storia recente del Duomo di Trento riguarda principalmente interventi di rifacimento e restauro all’intero bene, alcuni di questi patrocinati dal governo austriaco. Negli anni ottanta dell’Ottocento iniziarono gli interventi dell’architetto Enrico Nordio, interventi che furono molto discussi perché modificarono drasticamente alcune strutture dell’edificio. Questi lavori comportarono la completa ricostruzione delle volte della navata maggiore (dipinte due anni dopo da Giuseppe Lona), l'innalzamento delle murature, la ricostruzione del tetto a due spioventi, il totale rifacimento della cupola realizzata in forme neoromaniche e la riconfigurazione esterna del tiburio.

Durante la Seconda Guerra mondiale, il 2 aprile 1945, la copertura della navata centrale venne distrutta da una bomba che squarciò la volta sottostante e danneggiò il campanile sia nella copertura che nella cella. I danni causati dalla guerra furono riparati nell’immediato, ma fu solo negli anni Cinquanta grazie al Soprintendente Mario Guiotto che venne restaurato l’intero Duomo. Gli ultimi interventi di ristrutturazione sono stati promossi negli anni 1963-1977, dall’Arcivescovo Alessandro Maria Gottardi per festeggiare l'anniversario della chiusura del Concilio di Trento. Gli interventi comportarono il ritorno dei due bracci del transetto al livello originario, il nuovo assetto liturgico del presbiterio e la scoperta degli antichi ambienti sotterranei. Fu infatti nel 1964 che iniziò la ricerca archeologica dell’antica basilica di San Vigilio, nel sottosuolo del presbiterio del Duomo di Trento. Infine, ma non meno importante è bene ricordare tutta la campagna di restauro condotta nel nostro secolo all’esterno e all’interno del Duomo di Trento, realizzata secondo le ultime normative in materia di restauro.

Fig 6 - Piazza e Duomo di Trento, fianco nord - (www.wikipedia.org).

 

Bibliografia e Sitografia

Primerano Domenica, Scarrocchia Sandro (a cura di), Il Duomo di Trento tra tutela e restauro. 1858-2008, Catalogo della mostra, Temi Editrice-Museo Diocesano, Trento 2008

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Anderle Michele, Primerano Domenica, Rogger Iginio, La cattedrale di San Vigilio. Le fasi costruttive della cattedrale e i suoi protagonisti, Cd-rom

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

www.cattedralesanvigilio.it

www.chieseitaliane.chiesacattolica.it Elenco delle chiese delle Diocesi Italiane curato dal CEI – Conferenza  Episcopale Italiana - Ufficio Nazionale per i Beni culturali Ecclesiastici e l'edilizia di culto - Diocesi di Trento - Inventario dei beni culturali immobili


I BORGHI DI RANGO E BALBIDO

Il Trentino occidentale: Rango e Balbido

Nel Trentino occidentale, in una delle zone meno battute dal turismo di massa, si trova il comune del Bleggio Superiore, territorio della Val Giudicarie. E’ un comune sparso di recente fondazione composto da almeno dodici frazioni che hanno la sede comunale nell'antica frazione di Santa Croce. Santa Croce si trova all'imbocco della valle e deve il suo nome alla monumentale Croce che si innalza sul dosso che chiude il comune. Il monumento ricorda la Croce miracolosa conservata nella vicina chiesa pievana dedicata ai Santi Dioniso, Rustico e Eleuterio. Qui si trovano i borghi di Rango e Balbido.

Balbido è una piccola frazione a 760 metri s.l.m., situata all'imbocco della Val Marcia, ritenuta dalla tradizione luogo di rifugio delle streghe responsabili delle calamità naturali che spesso si abbattevano sulla zona. La piccola frazione ha l’aspetto tipicamente rurale dei paesini di montagna, ma negli anni ottanta del secolo scorso è stata vivacizzata dalla realizzazione di numerosi murales sulle pareti esterne delle case. Sono dipinti realizzati da vari artisti regionali e raffigurano scene di vita quotidiana che ricordano la storia e le tradizioni di questi paesi del Trentino occidentale. Le scene spaziano dagli antichi mestieri, agli affreschi che raccontano la leggenda delle streghe della Val Marcia e della festa di Santa Giustina, patrona di Balbido. Tra le scene più significative vi è quella del “moleta”, ovvero l’arrotino che si spostava di paese in paese per offrire il servizio di limatura, dei “carbonai”, raffigurati mentre preparano la catasta di legna per trasformarla in carbone. Il Maniscalco, il calzolaio e “il frate della questua” che passava in paese, di casa in casa, in nome di San Francesco e il “caregheta”, colui che si fermava sotto i portici del paese e provvedeva ad aggiustare le sedie in paglia. Gli “ombrellai” che assieme a quello del “moleta” erano mestieri caratteristici delle valli Giudicarie e Rendena. Infine tra le scene simbolo del paese vi sono quelle del palio di Santa Giustina con la corsa dei cavalli, attività organizzata dal Gruppo giovanile di Balbido, negli anni ottanta e novanta del secolo scorso.

La seconda frazione del territorio del Bleggio superiore, nel Trentino occidentale, è quella di Rango. Rango è un borgo a 799 metri s.l.m., è il più alto e antico centro abitato della località del Bleggio ed è una frazione molto rinomata per l’allestimento dei mercatini di Natale nei suoi caratteristici portici. Il patrimonio storico-artistico di Rango risiede nella sua compatta struttura urbanistica di tipo rustico, caratterizzata da androni, corti interne, portici e ponti. Le origini del borgo le troviamo nel suo toponimo che deriva probabilmente dal celtico “Randa”, ossia località posta al limite. Infatti il paese si trova al margine del territorio del Bleggio, sulla strada per il Passo Duron che un tempo era la principale via di collegamento tra il Trentino occidentale e il porto di Riva del Garda, base di partenza e di arrivo del commercio con la Pianura Padana e la Repubblica di Venezia.

I segni distintivi del piccolo borgo di Rango sono nei suoi caratteristici portici e nelle case addossate le une alle altre che danno quasi l’aspetto di un abitato fortificato. I portici di Rango venivano un tempo usati come luogo di sosta dei pastori con le loro greggi e dei viaggiatori che percorrevano l’antica strada di collegamento con Riva del Garda.  Un altro aspetto distintivo del borgo è nelle sue facciate, in pietra di granito e rastrelliere di legno per l'essiccazione del granoturco.

Le case di Rango sono tipiche case di montagna costruite con blocchi di granito e legno. Al piano terra vi erano la cucina, la cantina (“il vòlt”) e la stalla, tutti ambienti costruiti con un sistema di volte a botte. Al piano superiore vi erano le camere che erano collegate con il piano inferiore tramite una scala esterna, oppure una scaletta che dalla cucina dava accesso alla camera tramite una botola (“la rebalza”). Nel sottotetto si trovava l’aia per la conservazione del fieno e dei prodotti della campagna, alla quale si poteva accedere con carri e carretti tramite un ponte esterno, costruito ad arco in pietra o in terrapieno.

Le case di Rango sono state costruite attorno ad una piazza principale con fontana, che ancora oggi presenta le caratteristiche di fontana lavatoio, utilizzata dalle donne del paese per la pulizia dei panni. La piazza era anche centro di raccolta delle capre, quando al mattino il capraio, un giovane del luogo, al suono del corno, radunava le capre che i proprietari gli consegnavano per condurle al pascolo.

Altri edifici caratteristici di Rango sono la sua chiesa e l’edificio che raccoglie gli oggetti dell’antica scuola, entrambi sistemati nella piazza antistante il borgo storico.

La chiesa è dedicata alla Maria Annunziata e a Santa Lucia, risale al 1537, ma è stata ampliata nel 1752. All'interno vi è un pregevole altare in stile barocco, in marmo mischio di Francia e cornici in marmo bianco e verde, opera del celebre scultore Teodoro Benedetti di Castione. Nella nicchia porta una rappresentazione dell’Annunciazione, opera di Nicolò Grisiani, dipinta poco dopo il 1633.

Gli alunni delle scuole elementari di Rango e del Bleggio Superiore sono stati ospitati per molti anni nello stabile della parrocchia di Rango e, dopo anni di abbandono, l’edificio è tornato a vivere grazie alla sistemazione del Museo della Scuola. Nel piccolo Museo è stato ricostruito l’ambiente della scuola di ieri, con i vecchi banchi e il calamaio, foto di classe, la lavagna con i gessetti, il grande compasso di legno, i libri di lettura, tabelloni didattici e sussidiari. Una sezione del Museo è dedicata agli “Experimenta didactica”, curata da Tomaso Iori, che affronta con le classi e i visitatori un tema di carattere scientifico, utilizzando materiali poveri ed originali. Il Museo conserva anche una piccola collezione di oggetti recuperati nei dintorni di Rango, ovvero cocci colorati di formelle di stufe ad olle, scodelle, ciotole e vasellame di vario genere con decorazioni di motivi floreali e geometrici, profili femminili, putti e animali. Una tipologia di vasellame tipica dell’Italia rinascimentale che potrebbe essere opera di una fornace di cottura posta proprio a Rango. Questa era un’attività importante per l’economia del paese, grazie alla sua particolare posizione, ovvero quella di essere sistemato sulla via principale del Trentino occidentale con Riva del Garda.

In breve, queste sono le peculiarità dei borghi situati nel Trentino occidentale, esempio di quello che era l’architettura, l’arte e la storia del mondo rurale trentino. Peculiarità che sono state riconosciute anche dall’Associazione “I borghi più belli d’Italia” inserendo Rango nel 2006 come primo paese del Trentino.

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

Brunelli Silvano, Caliari Renzo,Rango … e lo scorrere del tempo … , Santa Croce di Bleggio (TN), Comune di Bleggio Superiore, 2007

Bonn Cesare, Balbido era … Balbido è … Balbido, Bleggio superiore (TN), Gruppo culturale La Ceppaia, 2006

Sito web ufficiale: rango.info[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


IL SANTUARIO DI SAN ROMEDIO DELLA VAL DI NON

Un santuario verticale

Nel piccolo paese di Sanzeno è situato il santuario dedicato a San Romedio. Il santuario si innalza su uno sperone di roccia alla confluenza di due torrenti, all'interno di una suggestiva gola tra i meleti della bassa Valle di Non. Il santuario è un’imponente struttura architettonica caratterizzata da cinque chiese che si inerpicano sulla sommità della roccia. L’eccezionalità del santuario è legata alla leggenda dell’orso; leggenda che ha favorito la sistemazione di un’area recintata, come luogo di ricovero dei plantigradi destinati altrimenti alla soppressione.

Il Santuario di San Romedio è oggi meta di pellegrini provenienti non soltanto dal Trentino, ma da tutto il vicino Tirolo. È infatti a Thaur, nella valle dell’Inn, in Tirolo, che Romedio, esponente della nobiltà bavarese, avrebbe ricevuto i natali, per poi compiere, intorno all’anno Mille, un pellegrinaggio a Roma con i compagni Abramo e Davide. Un pellegrinaggio che avrebbe radicalmente modificato la sua vita, spingendolo a donare tutte le sue proprietà alla chiesa di Trento per ritirarsi in preghiera e meditazione su un’altissima rupe vicino a Sanzeno.

Tra l’XI secolo e il XII secolo, sul culmine della rupe di Sanzeno, Romedio realizzò lo spazio più antico del Santuario come abitazione oppure luogo di adorazione. Alla morte del Santo, i discepoli trasformarono questo spazio in una Chiesa dedicata, prima, a San Nicolò e, poi, a San Vigilio e la decorarono con un ciclo di affreschi che racconta la storia di Romedio. A fianco della Chiesa, i discepoli eressero un sacello di piccole dimensioni, la cosiddetta Cappella delle Reliquie per contenere i resti del santo eremita. La Cappella è suddivisa in tre navate con colonne e capitelli di scultura preromanica e affreschi duecenteschi che presentano legami stilistici con le opere della pittura altoatesina. L’ingresso ai due ambienti è dato da un pregevole portale duecentesco che fu fatto fare da una certa “Aricarda Munica”, nel 1200, secondo l’iscrizione apposta sul portale. La donna doveva essere vicina alla famiglia trentina dei Cles, probabilmente una vedova di lignaggio che decise di consacrare la sua vita a Dio e di vivere nell’eremo. A lato del portale, una serie di affreschi del XII-XIII secolo possono essere considerati tra i più antichi esempi di pitture murali del Trentino. Secondo alcune ipotesi questi affreschi sarebbero precedenti alla realizzazione del portale e originariamente avrebbero avuto la funzione di accogliere i pellegrini che affrontavano la salita verso l’eremo e sostavano nei pressi della tomba del santo eremita.

Nel 1487 fu la famiglia dei Cles a sistemare e ampliare l’antico eremo con la realizzazione della Cappella dedicata a San Giorgio (Cappella Clesiana), posta all’inizio del percorso di visita al santuario. Si tratta di una struttura caratterizzata da una volta a crociera e decorata con affreschi del XV-XVI secolo. Sono affreschi di autore ignoto che, sulle pareti, raffigurano le vicende della vita di San Giorgio, e sulla volta, i quattro simboli degli Evangelisti e le figure dei Dottori della chiesa.

Nel 1513 furono i conti Thun ad ottenere il giuspatronato sul santuario, facendo costruire la terza chiesa del santuario, la Chiesa di San Michele Arcangelo. La chiesa è una tipica cappella nobiliare, in stile gotico clesiano con volta a botte e una grande decorazione ad affresco che raffigura la scena dell’Orto degli ulivi e i conti Thun, committenti dell’opera.

Su incarico dei conti Cristoforo e Bernardino Thun, nel 1536 venne avviata la quarta chiesa del santuario con le pietre portate dai pellegrini, ovvero la Chiesa Maggiore dedicata a San Romedio, a fianco dell’antico Sacello delle Reliquie e della Chiesa di San Vigilio. È un ambiente ad aula unica con campanile e planimetria irregolare che ha sotto il pavimento un luogo di antichissima devozione, la “grotta” di San Romedio. La “grotta” poteva trattarsi della sua antica tomba o di un luogo dove si ritirava in preghiera.

Fu però a partire dal Settecento che il santuario acquisì un aspetto unitario dal punto di vista architettonico e artistico con il completamento dell’accesso che ha visto la costruzione del Loggiato rinascimentale (1729) e della lunga scalinata (1864) che porta al percorso di visita. La lunga e ripida scalinata è delimitata da una grande serliana (1770) con quattro colonne in pietra rossa che sostengono l’arco portante e l’immagine di San Romedio con i compagni Abramo e Davide. Una scritta fa da monito ai pellegrini “Il silenzio è di dovere varcando questa soglia”.

Il visitatore che sale la scalinata troverà il percorso scandito da alcune suggestive edicole votive che raffigurano gli episodi della Passione di Cristo. Sono opera dello scultore Vigilio Prati di Cles che realizzò sette complessi scultorei (1707), in legno scolpito e dipinto, che raccontano il calvario di Gesù Cristo, attraverso vere e proprie raffigurazioni a tutto tondo. Sono state qui sistemate per interpretare attraverso il racconto della Passione di Cristo, la fatica del devoto che sale la ripida scalinata del Santuario, qui emblema della “scala della vita”.

In ultimo, ma non meno importante, alla base della lunga scalinata di accesso al santuario è stata sistemata la quinta e ultima chiesa, la Cappella dell’Addolorata, eretta come ex-voto dei reduci della prima guerra mondiale.

IIl Santuario di San Romedio è ogni anno visitato da centinaia di turisti e pellegrini provenienti dal Tirolo e da tutta Italia; richiamati anche dal bellissimo sentiero che porta al santuario, ovvero una lunga galleria scavata nella roccia della gola di Sanzeno. Come spesso accade per i monumenti religiosi, i visitatori invocano l’aiuto del santo lasciando foto od oggetti di ex voto; oggi parte di questi si possono ammirare lungo le pareti della scalinata maggiore.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

Degasperi Fiorenzo, San Romedio. Una via sacra attraverso il Tirolo storico, Trento, Curcu&Genovese, 2015

Massari Giovanna, San Romedio. Uno sguardo inedito. Storia devozione arte architettura. Guida alla lettura dell'ipertesto, Edizioni scientifiche e artistiche, 2012

Faustini Gianni, Rogger Iginio, Il più bel santuario delle Alpi. Guida a San Romedio,

Trento, Valentina Trentini, 2009

Svaldi Pierluigi, San Romedio. Un santuario sulla rupe, Genova, 2008

Micheli Pietro, S. Romedio nobile di Taur, Trento, 1981.

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]


IL CASTELLO DI ARCO

A cura di Alessia Zeni

Il castello dalle 120 stanze

Nella zona dell’Alto Garda esiste una delle rocche più belle e complesse della regione, il Castello di Arco. Per chi arriva da nord, dalla piana del fiume Sarca o, da sud, dal Lago di Garda, si porge agli occhi un’imponente e suggestiva rupe rocciosa dominata dal Castello di Arco. Uno dei castelli più articolati del Trentino per la sua estensione di circa 23000 mq e le numerose strutture fortificate. I restauri condotti nel 1986 e nel 2003 hanno permesso di ridare antica dignità all'intero maniero con il consolidamento degli edifici superstiti, la sistemazione di un percorso di visita e, cosa più importante, la scoperta di un ciclo di affreschi trecenteschi raffiguranti scene di gioco con dame e cavalieri.

Fig. 1

Prima di parlare delle strutture e del ciclo di affreschi è bene ricordare la storia che da sempre avvolge il castello di Arco. Una storia legata al paese omonimo, adagiato alle pendici della rupe, e alla famiglia nobile degli Arco che per molti secoli ha abitato il castello. Intorno all'anno Mille il castello già esisteva, ma la rupe che sovrasta il borgo di Arco è stata luogo di insediamento già in epoca romana. Ad ogni modo, l’origine del Castello di Arco sembra avvalorata dall'ipotesi che esso sia stato costruito dagli “uomini liberi” della comunità di Arco con finalità soprattutto difensive. In seguito il castrum Archi diede il nome alla comunità che attorno alla rupe si sviluppò e alla famiglia nobile che lo abitò. I conti d’Arco vissero nel castello fino alla fine del Quattrocento quando si trasferirono in più comodi e lussuosi palazzi e al castello tornarono solo per assumerne la giurisdizione o per difenderlo. Nel corso dei secoli diversi nemici tentarono di espugnare il maniero, dalla famiglia trentina dei Lodron, gli Sforza di Milano, agli Scaligeri di Verona. I tentativi furono però vani, segno di un sistema difensivo impeccabile che venne espugnato solo dai tirolesi, nel 1579, e dal generale Vendome nel 1703. Dopo l’attacco francese il castello cadde nell'oblio e divenne meta di povera gente alla ricerca di materiale di recupero. Nel frattempo i conti d’Arco si erano frazionati in tre casate, quella di Arco, Mantova e della Baviera, dividendosi in parti uguali anche il Castello di Arco. Nel 1982 il Comune di Arco acquistò il castello e nel 1986, condusse i primi restauri che hanno portato alla luce i magnifici affreschi, oltre a nuovi locali e percorsi interni. Infine la campagna di restauri, ultimata nel 2003, ha reso accessibile la torre sommitale, la più antica, con un percorso di vista all'interno di un caratteristico paesaggio gardesano.

Tornando alla struttura del castello, molte sono le immagini e i dipinti che testimoniano l’antica grandezza del castello. Mattias Burgklechner ci ha consegnato una stupenda raffigurazione di Arco con il castello e la testimonianza scritta di “castello dalle centoventi stanze”. Ma l’immagine più significativa è quella dell’artista Albrecht Dürer, realizzata durante un viaggio in Italia intorno al 1494. Un acquerello di inestimabile valore per la qualità e la cura dell’esecuzione che riproduce il Castello di Arco su un grande costone roccioso davanti ad un paesaggio maestoso, contraddistinto da uliveti e campi coltivati a vite, mentre il borgo, ai piedi della rocca, sembra mimetizzarsi con la natura circostante.

Il castello, come già anticipato è uno dei manieri più articolati della regione per la sua estensione e le numerose strutture che lo compongono. Il primo spazio visitabile, salendo lungo la rupe del castello, è il prato della Lizza, un tempo fertile campagna, oggi magnifico punto d’osservazione verso la vallata e il castello. Proseguendo, troviamo la Prigione del Sasso, ricavata in un anfratto roccioso che porta sulle pareti i segni attribuiti alla conta dei giorni di qualche recluso del castello. Si arriva poi alla Slosseraria, il laboratorio del fabbro, testimonianza di una delle tante attività artigianali che erano praticate dentro il castello. Lungo l’acciottolato che conduce alla Torre Grande vi sono i resti di due cisterne e la canaletta ricavata nella roccia per raccogliere l’acqua piovana e convogliarla nelle cisterne, unica fonte idrica non essendoci sorgenti sulla rupe.

Fig. 4

La struttura più importante è la Torre Grande, risalente al XIII secolo, una torre imponente con merlatura a coda di rondine e pareti in pietra squadrata. Attorno vi sono i ruderi di altre costruzioni, case di abitazione, laboratori e magazzini a formare una sorta di piccolo borgo fortificato.

Nei pressi della torre vi è il locale della “stuetta” con la magnifica Sala degli Affreschi che venne scoperta nel 1986, quando era ingombra di macerie. Il ciclo di affreschi è di anonimo pittore, riconosciuto oggi come il Maestro di Arco, e racconta numerosi episodi di vita curtense che testimoniano la grande abilità professionale dell’artista. Sono immagini uniche nel loro genere in quanto raffigurano la vita di dame e cavalieri del Trecento e scene di gioco della stessa epoca. Nelle scene di gioco troviamo uomini e donne che si sfidano al gioco degli scacchi e dei dadi, incrociando i loro sguardi e le loro mani in diversi atteggiamenti curati con grande attenzione dal pittore. Curiosa è poi una scena di svago, dove due giovani fanciulle sono accompagnate da un cavaliere che tiene delle rose appena colte in un roseto, nel grembo del suo mantello. Le immagini a seguire presentano momenti di vita cavalleresca con un cavaliere che porta in groppa al suo cavallo una dama e un giovane cavaliere in congedo dalla sua dama che con le mani sulla sua testa gli trasmette coraggio e protezione. Non mancano immagini che lasciano intravedere lo scontro di cavalieri in una giostra e altri riquadri, ma purtroppo lacunosi.

Se la parte affrescata del maniero è la parte più visitata e importante del castello di Arco, i monumenti da visitare del maniero non finiscono qui. Infatti, proseguendo lungo il percorso panoramico che porta alla sommità della rupe, si arriva alla torre più antica del castello di Arco, la Torre Renghera. La torre è il mastio del castello che fu costruita sulle fondamenta di un edificio preesistente, a diversi metri dal suolo, per rendere la torre inaccessibile. Essa era chiamata Renghera perché vi era collocata una campana, detta “la Renga”, che aveva il ruolo di chiamare a raccolta i cittadini della comunità sottostante. Infine, scendendo dalla rupe, si giunge all'ultima struttura, la Torre di Guardia, sorta in posizione strategica per controllare le tre direttrici viarie. Dalla torre si spalanca un paesaggio unico, aperto verso la piana del fiume Sarca, che veniva controllato dalle sentinelle attraverso tre piccole finestrelle della torre.

Fig. 10

Questa in breve è la storia del Castello di Arco, una storia che non vuole essere esauriente, ma vuole dare una panoramica di quello che compone uno dei castelli più articolati e imponenti del Trentino. Un castello meta di vista dei molti turisti che frequentano la zona dell’Alto Garda, ma anche oggetto di studio dei ricercatori che si occupano di pittura e architettura castellana del Basso Medioevo. Insomma un castello che almeno una volta nella vita meriterebbe di essere visitato, anche solo per l’immenso panorama che lo caratterizza.

Fig. 11

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Pontalti Flavio, Il castello di Arco: note preliminari sull'esito dei lavori di restauro e sulla scoperta di un ciclo di affreschi cavallereschi nel castello, in “Il sommolago”, 4, 2, 1987, pp. 5-36
Turrini Romano, Arco, il castello e la città, Rovereto, ViaDellaTerra, 2006
Il castello di Arco, a cura di Umberto Raffaelli e Romano Turrini, Provincia autonoma di Trento, Trento, Temi, 2006
Il castello dalle centoventi stanze, a cura di Giancarla Tognoni e Romano Turrini, Arco, Il Sommolago, 2006
APSAT 4: castra, castelli e domus murate, schede 1, a cura di Elisa Possenti, Mantova, Società archeologica padana, 2013, pp. 390-398
AD 2019: Albrecht Dürer e il castello di Arco, Arco, Comune di Arco, 2019