L'AREA ARCHEOLOGICA DI THARROS

a cura di Denise Lilliu

 

                                                        

Storia dell'area archeologica di Tharros 

L’area archeologica di Tharros, vero e proprio “museo a cielo aperto” e indiscutibilmente una delle più suggestive e interessanti eredità archeologiche del Mediterraneo, si trova nella Costa del Sinis, e più precisamente fa parte del comune di Cabras in provincia di Oristano, e, come Nora, anche l’antica area di Tharros sorge letteralmente a due passi dal mare. 

Si tratta di un insediamento fondato dai Fenici, e che per un periodo di tempo è stata una città fiorente e ricca.  Riscoperta solo nell’Ottocento, la sua storia copre più di duemila anni. Di fondazione fenicia, l’insediamento primitivo risale al VIII secolo a.C.. Con il passare dei secoli, la città ha assunto diversi titoli: è stata insediamento nuragico, fortezza cartaginese, urbs romana – venne conquistata dai Romani nel 238 a.C., capoluogo bizantino e anche capitale arborense. Il suo tramonto (XI secolo) fu dovuto al suo abbandono e alla conseguente fondazione di un’altra città, Aristiane (l’odierna Oristano), ubicata in una zona più interna e meno rischiosa, visti i frequenti attacchi via mare da parte dei Saraceni.        

                                                                                                                                         

L’area archeologica 

Dell’epoca Fenicia restano, oggi, solo due necropoli e un Tofet. La maggior parte dei resti risale invece al periodo romano. La città sorge esattamente su una di tre colline della penisola del Sinis, chiamata la collina di “Murru mannu”, cioè “Il grande muso” in sardo. È qui che si trovano anche le fortificazioni, delle imponenti cinte murarie e una grande torre costruita interamente in arenaria. A ridosso delle fortificazioni è presente il Tofet fenicio, cioè una sorta di santuario, di area sacra. La città ancora oggi è ben visibile e non si esclude la presenza Nuragica ancor prima dei Fenici; infatti, sono stati ritrovati alcuni reperti di origine nuragica, oltre al fatto che sono presenti nell’area anche due nuraghi. 

Da non dimenticare, ai piedi della penisola del Sinis, la chiesa di San Giovanni: pur non facente parte dell’area archeologica, è molto vicina al sito e per questo motivo valevole di una visita. Di particolare rilievo è anche l’omonima torre, databile tra il XVI e il XVII secolo, che sovrasta direttamente l’aerea archeologica e la spiaggia. 

 

Nei pressi di Capo San Marco e sul lato della spiaggia di San Giovanni di Sinis, sono presenti due necropoli. Invece a valle sono ubicati alcuni importanti monumenti di età punica e romana, tra cui il “Tempio delle semicolonne doriche”, l’acquedotto, il castellum aquae, le strade lastricate in basalto, i templi e tre edifici termali. È altrettanto importante sottolineare che, in epoca paleocristiana, una delle terme venne trasformata in edificio di culto e venne impiantato anche un battistero.                                                                                   

Tutta l’area, comprendente gli scavi e la penisola, è visitabile in mezza giornata, e soprattutto in primavera è possibile ammirare la macchia mediterranea seguendo un percorso panoramico che si affaccia direttamente sul mare. 

Tharros cominciò a essere protagonista di importanti scavi a partire dal XVIII secolo, anche se, ancor prima, attirava pirati o cercatori di tesori interessati soprattutto alle ricchezze nei corredi funerari mettendo in atto veri e propri saccheggi; non molto diverso da quando, una grandissima collezione di reperti trovati dopo uno scavo in quest’area finì al British museum. 

Si può dire quindi, che i reperti riservati a questa zona oggi si trovano in parte al Museo Archeologico di Cabras, e qualcosa anche al British Museum.

Il Museo di Cabras propone ai visitatori un’esposizione dedicata ai reperti trovati nel Tofet, per esempio urne cinerarie di bambini e animali, o stele e cippi in arenaria. 

Al British Museum di Londra invece, possiamo trovare, nella sala 57, i reperti riguardanti questa città. Fanno parte della collezione permanente: gioielli, statuette e reperti vari, visibili anche in un catalogo pubblicato direttamente dal Museo. 

 

Tra i monumenti più iconici di Tharros c’è il Tempio Tetrastilo, riconoscibile a distanza. Questo è stato messo in luce e studiato dal prestigioso archeologo Gennaro Pesce, protagonista di importanti scavi anche nell’importante area archeologica di Nora.

Oggi il tempio conserva buona parte del suo basamento rettangolare. L’edificio si strutturava in un pronao tetrastilo (4 colonne), e in una cella di cui oggi non è rimasto nulla. 

 

Altra struttura molto importante è il Tempio delle Semicolonne Doriche. Si tratta del principale edificio di culto, ubicato rigorosamente al centro della città. La sua imponenza è data da una rampa di grandi scale scavate direttamente sulla roccia di arenaria. La scoperta di questa struttura è stata molto curiosa perché inizialmente era cosparsa di detriti e coperta da un pavimento in calce di età romana. 

Assai rilevante è anche l’acquedotto risalente all’età romana, in arenaria e laterizi, che estendendosi per circa cinquecento metri e grazie a un meccanismo di adduzione garantiva il funzionamento dei diversi edifici termali, portando anche la città nell’acqua e alimentando il Castellum Aquae. 

 

Come già evidenziato, erano presenti due necropoli in altrettante aree: molto simili tra loro, ma differenziatesi in seguito all’affermarsi nel tempo di diverse popolazioni, le due necropoli si trovano, rispettivamente, nei pressi di Capo San Marco e in corrispondenza del paese attuale. Anche in esse i saccheggi non tardarono ad arrivare.

Il battistero invece, di origine paleocristiana, è conservato solo per metà, ed è costruito in arenaria e basalto. Tre gradini portano direttamente a una vasca, con accanto una sedia in pietra. Accanto al battistero si trovano delle terme, di cui oggi è rimasto poco a causa del cattivo stato di conservazione. Queste erano dotate di uno spogliatoio, tre vasche riscaldate, due fornaci per riscaldare le vasche e di diversi altri ambienti. Le terme negli anni subirono diversi cambiamenti e riutilizzi. Queste però non sono le uniche terme presenti, perché si trovano anche le “Terme di convento vecchio” e una terza struttura di terme parzialmente scavate. 

Le terme di Convento vecchio, che comprendono anche un mosaico a motivi geometrici probabilmente databile al II secolo, sono strutturate su tre diversi livelli, e seguono un percorso a forma di anello. Le terme sono state riutilizzate in maniera diversa dai bizantini, forse come luogo di sepoltura, o, ancora, come monastero.

 

 

Bibliografia

R.Bertoni- Tharros tra Fenici e Romani nella penisola del Sinis, 2018.

 

Sitografia

Home | Città di Tharros  consultato il 28/04/2022.


IL SANTUARIO DI MONTE S. ANGELO A TERRACINA

A cura di Andrea Bardi

Storia del Santuario di Monte S. Angelo

La presenza di strutture architettoniche sulla sommità del Monte S. Angelo (Mons Neptunius per i romani) [fig.1] precede il periodo romano (l’Urbe sottomise l’insediamento volsco di Anxur – Tarracina nel 406 a.C, per poi farne una colonia nel 329 a.C.). Tra gli esempi più compiuti di santuario terrazzato tardorepubblicano [fig. 2], il complesso architettonico venne infatti ristrutturato a partire da preesistenze più antiche (IV secolo a.C).[1] L’attuale area, che ospita i resti dell’intervento romano sul monte, venne completata in tre tempi. Le fondazioni più antiche (II secolo a. C.) comprendono la cinta muraria poligonale in opus incertum [fig. 3] (tecnica edilizia romana consistente nell'assemblamento di blocchi di pietra irregolari), l’area del cosiddetto “Piccolo Tempio” e un sacello roccioso, l’auguraculum. Al periodo sillano (secondo quarto del I sec. a.C) vengono fatti risalire il “Campo Trincerato”, adibito ai magazzini e agli ambienti di stanziamento delle truppe e l’area del “Grande Tempio” con il portico retrostante. L’area originaria del “Piccolo Tempio” ospitò poi, in età altomedievale (IX – X secolo), il Monastero di S. Angeletto, dedicato all’arcangelo guerriero da cui il monte prende il nome. Chiuso verso la fine del ‘500 da papa Sisto V (1585-90), divenne un convento di suore clarisse. L’area – nonostante i rilievi proseguirono ininterrotti per i secoli a venire (conosciamo alcuni disegni di Antonio da Sangallo il Giovane e Baldassarre Peruzzi[2]) – venne sostanzialmente abbandonata a se stessa, e tale stato di incuria si protrasse, di fatto, fino alla fine dell’800. Strappata ai domini ecclesiastici in seguito all’unificazione nazionale, la sua gestione venne affidata dallo Stato all’amministrazione comunale per usufrutto. Sottoposta a vincolo archeologico, fu grazie alle sistematiche campagne di scavi condotte prima dallo studioso locale Pio Capponi (al quale venne intitolato il Museo Civico cittadino) e poi da archeologi quali Luigi Borsari e Giacomo Boni, che l’area sacra di Monte S. Angelo tornò ad essere materia di interesse per gli studiosi.

Fig. 3

Il “Piccolo Tempio” 

Le varie costruzioni nell’area del “Piccolo Tempio” sul Monte S. Angelo sono le più antiche dell’intero complesso (gli studiosi notano una maggiore approssimazione nella realizzazione dell’opus). Il tempietto è una platea rettangolare, orientata a sud – ovest, sostenuta in origine da nove arcuazioni (cinque quelle superstiti) [fig. 4] all’interno delle quali gli ambienti sormontati da volte comunicavano tra di loro tramite piccole aperture ad arco.

Fig. 4

Le ghiere degli archi in facciata erano decorate semplicemente da cornici modanate. Le poche pitture interne superstiti, invece, rivelano il sistema a finti stucchi e incrostazioni marmoree tipiche del cosiddetto “primo stile pompeiano” [fig. 5]. [fig. 6]

Nel corso del restauro del 1988 sono state scoperte pavimentazioni medievali con decorazioni a crocette nere, evidentemente afferenti al complesso monastico di S. Angeletto. Quest’ultimo, ricavato nel corridoio interno, era decorato da affreschi purtroppo perduti o, nel migliore dei casi, gravemente danneggiati. Sulla volta un Cristo clipeato[3] era circondato dai Quattro Evangelisti; sulle pareti laterali, un’Ascensione e una Trasfigurazione. La fascia superiore della parete est, infine, accoglieva una Madonna con Bambino tra i Ss. Gabriele e Michele[4].

Il “Campo trincerato” sul Monte S. Angelo

Il “Campo trincerato” manifesta chiaramente, già dal nome, la sua funzione difensiva. Questa struttura militare assumeva la forma di un portico a tre braccia che lasciava scoperto il lato sud alla vista della costa pontina. All’interno del portico gli ambienti di stanziamento delle truppe e i magazzini davano le spalle all’avancorpo nord, protetto ai lati da due imponenti torrioni, che accoglieva un sistema di dodici cisterne voltate. Ancora sul versante sud uno sperone di roccia, l’auguraculum,[5][fig. 7] affiancava un piccolo tempietto in antis[6]. Al XIII secolo, infine, risale l’aggiunta di un’ulteriore torre a base quadrata al centro dell’area, purtroppo andata perduta.

Fig. 7

Il “Grande Tempio”

L’area mediana delle evidenze architettoniche sul Monte S. Angelo, ultima per cronologia, venne realizzata a partire dalla realizzazione di imponenti sostruzioni in opus incertum. Molto diffuse nell’edilizia romana, le sostruzioni consentivano di creare una base di appoggio piana per strutture che, trovandosi in prossimità di dislivelli, non avrebbero potuto essere altrimenti completate. La terrazza era raggiungibile mediante una scala, posta nelle vicinanze del tempietto in antis, che conduceva ad un portico a doppio spiovente, chiuso su tre lati e sorretto da un colonnato corinzio [fig. 8].

Fig. 8

Davanti al portico, il Tempio vero e proprio. Circondato da una recinzione (temenos) atta a delimitare lo spazio sacro, esso fu costruito su di un podio lungo 32 metri, largo 19 e alto circa 7.  Chiuso sulle pareti laterali, su di esse era addossata una teoria di semicolonne (tempio pseudoperiptero). Il pronao, a sei colonne (tempio esastilo) era accessibile da una gradinata ricavata dal podio [fig. 9] [fig. 10]. Una volta all’interno, la cella (naos) conteneva, sulla parete di fondo, la statua della divinità, con una pavimentazione a mosaico bianco delimitata da una fascia di colore nero. Sulla destra del tempio una piccola edicola proteggeva un altro auguraculum, connesso – tramite un foro nella roccia – con una grotta naturale nel criptoportico. Proprio nei pressi dell’edicola Pio Capponi rinvenne, nel famoso scavo del 1894, in un ripostiglio sacro (favissa) numerosi ex voto (oggetti offerti in dono alla divinità in seguito all’adempimento di una promessa).

La sostruzione inferiore: criptoportico e galleria d’archi

Da una scalinata sul lato ovest della piana di mezzo, si accede a un corridoio che, accompagnando il dislivello del terreno, conduce alla terza terrazza, la più bassa, con le sue dodici arcate a tutto sesto che rappresentano, ad oggi, la parte meglio conservata dell’intero complesso. Al criptoportico (corridoio coperto), lungo 60 metri e largo circa 3, voltato a botte e aperto sul lato lungo da un’alternanza di porte e finestre [fig. 11] si addossa un ambiente voltato e aperto in facciata da dodici arcate a tutto sesto [fig. 12]. Ad ogni arcata corrisponde uno spazio delimitato da pareti divisorie aperte da una galleria prospettica di porte ad arco, una delle maggiori attrattive dell’intero complesso [fig. 13].

 

Lo scavo del 1894 e la questione attributiva

Il 1894 fu un anno cruciale per le sorti del tempio. Dopo essere stato sottoposto, agli inizi del decennio, a vincolo archeologico, il sito, erroneamente definito “Palazzo di Teodorico” fu oggetto di una campagna sistematica di scavi che sciolsero alcuni interrogativi cruciali.  Innanzitutto, l’area venne identificata nella sua doppia natura - cultuale e militare – grazie all’azione di Borsari, Boni e Capponi. Agli studiosi si deve anche il ritrovamento di un basamento templare, della sede oracolare e di altri edifici. Dalla tecnica costruttiva utilizzata, inoltre, fu possibile risalire alla datazione delle strutture. Anche l’attribuzione della titolarità del tempio a Iuppiter Anxur (Giove imberbe), dio di tradizione volsca menzionato da varie fonti latine (Virgilio, Tito Livio, medaglioni appartenenti alla Gens Vibia) fu messa seriamente in discussione grazie al ritrovamento, per opera di Pio Capponi, di alcuni crepundia, oggetti votivi in piombo offerti alla divinità durante i riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Fu proprio attorno ai crepundia e alle iscrizioni incise su basi votive trovate da Borsari che la tradizionale attribuzione del tempio a Giove Anxur iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Alcune basi marmoree da statuette votive ritrovate nello scavo da Borsari recavano infatti l’iscrizione “VENUS OBSEQUENS”; altre, più semplicemente, “VENUS”[7]. Indizi del genere non potevano certo passare inosservati, e, alla lunga, grazie anche a riflessioni di carattere filologico su fonti letterarie (Plinio, Orazio, oltre a Virgilio e Tito Livio) portarono ad un deciso cambio di rotta nell’individuazione delle divinità titolari del complesso e, nello specifico, in quella del “Grande Tempio”. Mentre il “Piccolo Tempio” doveva coincidere con l’aedes Feroniae (“tempio di Feronia”) citato da Plinio in un passo della Naturalis Historia[8],la costruzione principale, sulla terrazza mediana, doveva inevitabilmente riferirsi a “Venere obbediente”, per una serie di ragioni. In primis, la committenza: si presume che a volere il tempio fu un influente nobile di fazione sillana, C. Memmio, in seguito alla vittoria di Silla su Caio Mario[9]. Venere era la divinità protettrice del dittatore, il cui attributo era Epaphroditos (“favorito a Venere”), e la costruzione del tempio poteva costituirne il degno atto di ringraziamento. In secondo luogo, l’orientamento del tempio: rispetto all’aedes Feroniae (“Tempio di Feronia”), rivolto alla città e alle campagne circostanti, il tempio di Venere si rivolgeva al porto, centro di gravità dei commerci e in particolare dell’esportazione del pregiato vino Caecubum. Il rapporto tra Venere e vino si era intensificato dal 295 a.C., quando la dea venne associata ai Vinalia Rustica; il vino era inoltre strumento dell’alterazione sensoriale necessaria alle adepte di Venere per la pratica di riti orgiastici connessi al culto della dea[10]. In ultima analisi, la struttura architettonica del santuario terracinese riflette chiaramente il modello del Tempio di Venus Ericina (Erice, Sicilia). Il ruolo di Iuppiter Anxur diviene, alla luce di tali considerazioni, certamente più marginale; tuttavia, la sua presenza è plausibile in virtù della consuetudine di abbinare ad una divinità principale un paredro, ovvero un dio giovane. Proprio la coppia Feronia – Giove Anxur era, al tempo, molto diffusa[11] (Servio, nel suo commento a Virgilio, identifica Feronia con Iuno Virgo). A Terracina, dunque, la presenza di Giove imberbe andrebbe riferita e limitata al piccolo tempietto in antis nel campo militare. Quanto a Feronia, infine, dea molto importante a Terracina[12], la sua natura “transizionale” (era la dea del passaggio dallo stato selvatico a quello civilizzato) andrebbe anch’essa risolta nell’orientamento del piccolo tempio, esattamente a metà tra la città e la campagna circostante.

 

Note

[1] Tuttavia, la campagna di scavi condotta da un team italo-tedesco guidato da Paul Scheding e Francesca Diosono nel 2019 ha portato al rinvenimento di oggetti in ceramica risalenti al IX secolo a.C.  (https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane).

[2] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 13.

[3] Nell’arte romana un’imago clipeata consisteva in un ritratto inscritto in una cornice tonda.

[4] AA.VV, Il santuario romano di Monte S. Angelo a Terracina, p. 55.

[5] Formazione rocciosa dalla quale i sacerdoti, gli àuguri, interpretavano il volere degli dèi a partire dall’osservazione del volo degli uccelli.

[6] costruzione in cui le pareti laterali si prolungano andando a formare delle antae delimitando la parte esterna del pronao.

[7] L. Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, pp. 199-200.

[8] F. Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, p. 30.

[9] Memmio sposò anche la figlia di Silla (L. Boccali, p. 194).

[10] F. Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, p. 433; F. Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, pp. 131-132.

[11] M. Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, pp. 385-386.

[12] Oltre all’aedes Feroniae citato da Plinio, Orazio cita il Fanum Feroniae, a 3 miglia da Terracina, nei pressi del Monte Leano (M. di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, p. 126).

 

Bibliografia

Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987.

Longo, Studio guida dell’area sacra di Monte S. Angelo, in “Collana di studi sul Lazio meridionale del centro di cultura Palazzo Braschi, I, Subiaco, 1991.

Boccali, Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana: Terracina, in “Cahiers du Centre Gustave Glotz”, Vol. 8, Parigi, Boccard, 1997, pp. 181-222.

AA.VV., Il Santuario di Monte S. Angelo a Terracina, Terracina, BookCart Editore, 2005.

C.F. Giuliani, L’edilizia nell’antichità, Roma, Carocci, 2006, pp.148-151.

AA.VV., L’architettura del mondo antico, Bari-Roma, Laterza, 2006.

Di Fazio, I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni, in Il Fanum Voltumnae e i santuari comunitari dell’Italia antica. Atti del XIX convegno internazionale di studi sulla storia e l’archeologia dell’Etruria, Roma, Quasar, 2012.

Di Fazio, Angizia, Feronia, Marica. Divinità e culti italici nell’Eneide, in “Mélanges de l’École Française de Rome, 129/1, 2017, pp. 121-137.

Marcattili, I santuari di Venere e i “Vinalia”, in “Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei”, Serie IX, Volume XXVIII, 2018, pp. 425-444.

Coarelli, Il santuario di Monte S. Angelo a Terracina. Riflessioni vecchie e nuove, in L’architettura del sacro in età romana. Paesaggi, modelli, forme di comunicazione, a cura di M. Valenti, Roma, Gangemi, 2016, pp. 26 - 33.

 

Sitografia

Sito web del comune di Terracina al link:

https://comune.terracina.lt.it/contenuti/49704/tempio-giove-anxur (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/iuppiter-anxurus_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web dell’Enciclopedia Treccani al link:

http://www.treccani.it/enciclopedia/terracina_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ (ultima consultazione 20/07/2020)

Sito web di Latina Oggi al link:

https://www.latinaoggi.eu/news/cronaca/77885/sul-monte-del-tempio-di-giove-scoperte-ceramiche-preromane (ultima consultazione 21/07/2020)

 


IL SITO ARCHEOLOGICO DI ROCA VECCHIA

A cura di Matilde Lanciani

INTRODUZIONE: DALLA CIVILTÀ MESSAPICA ALL'IMPIANTO URBANISTICO MEDIEVALE

Il sito archeologico di Roca Vecchia (fig.1) in Puglia è uno dei più importanti dell’intero bacino del Mediterraneo. Esso comprende gli scavi concentrati nella cosiddetta “località Castello”, piccola penisola circondata dai resti della sua fortificazione tardo-medievale, caratterizzata dalla stratificazione di reperti risalenti all’occupazione umana durante 3500 anni, esattamente dal II millennio a.C. fino alla metà del XVI secolo d.C.

Fig. 1

È da sottolineare la presenza nel sito di Roca Vecchia delle grotte della poesia (fig.2); infatti una di queste, scoperta a seguito degli studi del prof. Cosimo Pagliara, iniziati nel 1983 e proseguiti grazie all’Università del Salento, è stata indicata come grotta-santuario sulle cui pareti è conservato il più ricco repertorio di incisioni di età pre-protostorica e testi votivi in lingua latina e messapica (IV-II secolo a.C.) volti a celebrare la divinità locale “Thaotor Andirahas”. Nella zona adiacente alle grotte si possono osservare i resti di un piccolo insediamento rupestre del X-IX sec. a.C. con percorsi stradali della fase messapica, pozzi, basamenti di edifici e numerose tombe che è stato possibile studiare ed indagare a fondo dal ‘900 grazie al Museo Provinciale e alla Soprintendenza.

Fig. 2

La monumentale porta (fig.3,4) che doveva dare accesso al sito, risalente all’età del Bronzo Medio, si ergeva in mezzo ad una serie di passaggi minori, detti postierle: semplici corridoi di non più di un metro e mezzo, le cui entrate erano caratterizzate da contrafforti e torri. Prima dell’incendio che la distrusse nel XIV sec. a.C., la porta era alta almeno 8 metri e larga 25. Per entrare si doveva attraversare il cosiddetto Corridoio degli Ortostati, costellato da grandi lastre di pietra conficcate verticalmente sulla base del muro accostato ad una possente torre semicircolare. Percorrendo il corridoio si arrivava ad un portone in legno di quercia attraverso il quale si accedeva ad un ulteriore corridoio di 2,5 metri di larghezza, ai lati del quale erano una serie di vani accessori e che conduceva all’interno di due maestose torri contrapposte, oltre le quali si raggiungeva l’abitato.

Oggetto di numerosi studi del sito di Roca Vecchia è stata la postierla B, uno dei corridoi meglio conservati, posizionata a Sud della Porta Monumentale e delimitata - come tutte le altre - da rettilinei murari paralleli tra loro, realizzati in pietra locale sovrapposta a secco e legata con tufina (calcarenite sbriciolata) ed argilla. Nelle pareti murarie si aprono una serie di buchi circolari disposti ad intervalli regolari di circa 1 metro dove sono stati rinvenuti i resti carbonizzati dei pali di sostegno. Queste travature verticali avevano duplice funzione strutturale: per le murature retrostanti e per le strutture di copertura. Al momento del rinvenimento, durante gli scavi, le postierle erano colmate dalle porzioni di murature superiori crollate in seguito al violento incendio che conseguì alla battaglia databile intorno alla fine del Bronzo Medio (XIV sec. a.C.). A terra, nei cunicoli, c’erano resti di pasti, contenitori ceramici e manufatti di bronzo. In particolare nella postierla C (fig.5), similmente a Pompei, sono stati ritrovati gli scheletri di 7 individui in connessione anatomica di diversa età (probabilmente una famiglia con dei bambini) morti per soffocamento a causa dell’incendio, uno di loro con le mani alla gola nella tipica condizione di asfissia e gli altri con gli arti protesi verso l’alto per proteggersi probabilmente dalla caduta delle strutture incendiate soprastanti. Ciò è testimoniato da un’illustrazione che costituisce un’accurata ricostruzione storica ad opera dell’artista Karol Schauer (fig.6).

Durante l’epoca del Bronzo Recente (XIII-XII sec. a.C.) furono fatte una serie di opere di ricostruzione delle fortificazioni protostoriche a seguito di questo tragico evento, come ad esempio le murature pseudo-isodome “a scarpa” o “a gradoni” disposte lungo filari regolari, impostate su terreni di riporto con accumuli di pietrame derivati dalle rovine della fase abitativa precedente. Queste murature, conservate solo per un’altezza di 3 metri e inclinate da Ovest verso Est, erano realizzate con blocchi di calcarenite scavati e squadrati coperti da uno spesso strato di tufina. Nella seconda fase di ricostruzione invece troviamo una muratura verticale con materiali simili. Queste tecniche sembrano essere derivate in particolare da modelli di origine egea come quelli della civiltà palaziale micenea (XIV-XIII a.C.) come dimostrano i reperti di ceramiche importate nel Tardo Elladico IIIB-IIIC Medio.

La successiva fase del Bronzo Finale (XII-XI secolo a.C.) vide il costituirsi di una solida palizzata lignea di contenimento, inserita in uno zoccolo basso di muratura a secco, all’interno delle mura. Fu eretta inoltre una serie di strutture a capanna nella rete urbanistica stradale, andata poi distrutta, anche questa volta, a causa di un incendio. La più importante di queste strutture, di cui è possibile osservare la ricostruzione virtuale (fig.7), è stata indicata essere quella nel settore Nord con una pianta quadrangolare allungata di 17 x 43 metri che fungeva da luogo di culto e di sacrificio animale. Lo spazio interno è suddiviso in navate longitudinali scandite da pali verticali ad intervalli di 2,5 o 3 metri. Al momento degli scavi tutta la struttura lignea era crollata e si trovava sotto uno spesso strato di macerie, ma fu ugualmente possibile notare una serie di oggetti di carattere sacro: “tavole per offerte”, idoletti antropomorfi e manufatti vari in bronzo e oro, insieme ad altri reperti di uso quotidiano come ad esempio vasellame in ceramica d’impasto e figulina dipinta. C’erano, inoltre, nel sito di Roca Vecchia, diverse aree di cottura con forni in argilla e piastre da focolare.

Fig. 7

Oltre alla civiltà messapica si trovano tracce della cittadella medievale di Roca, edificata secondo un modello militare databile intorno al XIV sec. d.C., voluta da Gualtieri VI di Brienne conte di Lecce ed erede del ruolo di fondatore di questo nucleo preesistente dal ‘200, creato dai suoi avi. Come disposizione urbanistica il conte attinse dagli schemi delle “bastides” francesi per nobilitare le origini della sua dinastia. La pianta presenta una maglia stradale ortogonale con isolati rettangolari di lato corto uguale a 22 metri, con le mura costruite direttamente su quelle protostoriche - di cui il lato ovest è andato distrutto completamente. Dentro le aree abitative sono una serie di ambienti e vani con diverse funzioni come la cucina, il cortile, la latrina ecc. (fig.8). Alla fine del XV secolo la città fu parzialmente ristrutturata, come testimoniato dal notevole ampliamento della chiesa e dalla costruzione del castello.

Fig. 8

Gli studi di questa fase hanno portato alla luce un secondo edificio di culto (oltre alla già citata “capanna sacra”), ossia la chiesa greca medievale che è posta 25 metri ad est dalla chiesa di rito latino. La pianta rettangolare ha l’asse maggiore orientato NO/SE e risulta essere divisa in due ambienti: quello maggiore con le sepolture (fig.9) e quello minore con lastricato pavimentale e due podi quadrangolari ai due estremi della parete meridionale, di cui quello ad est conserva un cippo basso tronco-piramidale ed una seduta litica poggiata alla parete. Lo spazio tra i due elementi costituisce l’accesso all’ambiente dell’altare in blocchi squadrati, mentre le sedute si ritrovano anche lungo le pareti laterali in forma continua e sorrette da elementi verticali. La chiesa aveva una decorazione interna ad affresco policromo ed il tetto in travi di legno con copertura a coppi. È interessante rilevare come l’edificio sia stato costruito sui resti di un insediamento rupestre e quindi abbia forse assunto la funzione di dare continuità storica al culto e al rito sacro. Fuori dalla chiesa erano poste le sepolture, spesso di neonati non battezzati, poiché l’acqua piovana scivolando sul tetto dell’edificio e bagnandone le tombe, simboleggiava il non ricevuto sacramento ed aiutava il defunto nel passaggio al Paradiso.

Fig. 9

Da questa conformazione risulta un sito ricchissimo di storia e di civiltà che si è riuscito a conservare e a dimostrare come talvolta la vita degli antichi non sia così distante dalle abitudini contemporanee e dai valori che legano la società. Alma Tadema, pittore neogreco-neopompeiano dell’800, ha espresso in maniera esemplare questo concetto:

“Tra gli antichi e i moderni c’è meno differenza di quanto siamo portati a credere. È questa la verità che ho sempre cercato di esprimere nei miei dipinti, cioè che gli antichi erano esseri umani in carne ed ossa come noi, animati dalle stesse passioni e dalle medesime emozioni”.

 

Bibliografia

Arthur, P. (2006). L’archeologia del villaggio medievale in Puglia. Vita e morte dei villaggi rurali tra Medioevo ed Età Moderna. Dallo scavo della, 97-121.

Barrow R.J., Lawrence Alma Tadema, Phaidon Press, Hong Kong, p.6.

Butalag, K., Demortier, G., Quarta, G., Muscogiuri, D., Maruccio, L., Calcagnile, L., ... & Mazzotta, C. (2005). Checking the homogeneity of gold artefacts of the final bronze age found in Roca Vecchia, Italy by proton induced X-ray emission. Nuclear Instruments and Methods in Physics Research Section B: Beam Interactions with Materials and Atoms240(1-2), 565-569.

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Maggiulli, G. (2009). I ripostigli di Roca Vecchia (Lecce): analisi dei materiali e problematiche archeologiche. E. Borgna e P. Cassola: Guida Dall'Egeo all'Adriatico: organizzazioni sociali, modi di scambio e interazione in età postpalaziale (XII-XI sec. aC). Atti del Seminario internazionale (Udine, 1-2 dicembre 2006), Quaderni di Protostoria Mediterranea, 205-218.

Pagliara, C., Guglielmino, R., Coluccia, L., Malorgio, I., & Merico, M. (2008). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006), 239-279.


L'ABBAZIA DI SANT’EUFEMIA VETERE

A cura di Felicia Villella

L’Abbazia di Sant'Eufemia Vetere, o abbazia benedettina di Santa Maria, fu fondata a Sant'Eufemia Vetere di Lamezia Terme nella seconda metà dell’anno 1000 da Roberto il Guiscardo, sui resti di un monastero bizantino intitolato a Hagìa Euphémia di Nèokastron, la prima testimonianza di una fondazione religiosa della dinastia degli Altavilla in terra calabrese.

La sua realizzazione rientrava nel programma di latinizzazione del territorio, una pratica che faceva riferimento in maniera esplicita al potere religioso della Santa Sede che, con il rito latino, voleva esercitare un forte controllo economico e politico sulla zona.

L’edificazione del monumentale edificio fu affidata all'abate Robert de Grandmesnil, così come tramanda il diploma di fondazione che Roberto il Guiscardo concesse, acquisendone anche il controllo ed estendendolo fino alla città di Nicastro, al castello e agli approdi fluviali e marittimi del litorale. Tale documento fa riferimento alla costruzione dell’abbazia su una zona precedentemente antropizzata, ossia la città magnogreca di Terina, ormai ivi abbandonata da secoli in seguito al passaggio e alla conseguente distruzione per mano di Attila.

Il suo ruolo di potenza egemone fu mantenuto anche sotto la dinastia degli Svevi, nonostante il significativo ridimensionamento dei possedimenti. A Federico II si deve il riscatto del Castello di Nicastro e parte della città in cambio della concessione dei casali di Nocera e Aprigliano. Nella seconda metà del 1200, invece, Carlo d’Agiò restituisce gran parte dei luoghi ecclesiastici, ma mantiene invariata la condizione del Castello e della città di Nicastro.

Alla fine dello stesso secolo il possedimento passa nelle mani dei noti Cavalieri di Malta, denominazione che acquisirono, però, solo a partire dalla metà del XIV secolo.

La fine della gloriosa dominazione sopraggiunge molto presto, e a causa di un violento terremoto nel 1638 la struttura subisce danni notevoli, come la maggior parte degli edifici dell’intera piana.

I ruderi attualmente visibili hanno comunque permesso di cogliere i dettagli architettonici che hanno segnato l’edificio. Si possono scorgere infatti, da un punto di vista costitutivo, i chiari riferimenti che l’abate fece ai canoni architettonici importati dal mondo francese sperimentati già a Cluny e a Bernay’.

La chiesa è una costruzione che rispecchia i tipici schemi architettonici normanni in voga nell’Italia Meridionale, maggiormente apprezzabili, ad esempio, nel Duomo di Cefalù; ad oggi sono ancora visibili il prospetto principale con i resti delle due torri campanarie, le tre navate, con la centrale di maggiori dimensioni separate da una serie di pilastri e quelle laterali illuminate da un susseguirsi di finestre ad arco. Inoltre è visibile la zona presbiteriale accessibile grazie ad una scalinata ad est, definita dai transetti e dalle tre absidi, quella centrale di maggiori dimensioni rispetto le altre due.

Il presbiterio è stato scavato successivamente, riportando alla luce blocchi marmorei policromi che portavano all’altare posto, come di norma, nell’abside maggiore, dove ai lati erano presenti delle colonne di ripiego appoggiate su elementi architettonici di età romana. In questa zona è stata portata alla luce una pavimentazione realizzata in tessere marmoree policrome, opus sectile, ricavate da marmi antichi, il cui utilizzo è tipico della tradizione normanna e ha lo scopo di sottolineare l’importanza del potere pari all’Impero Romano; mosaici simili, assimilabili alla scuola cassinese, si ritrovano nella chiesa di San Demetrio Corone.

L’edificio era a pianta basilicale, dunque, a tre navate, triabsidato con coro gradonato e transetto sporgente. Nel versante ovest la presenza di mura spesse 3.30 mt fa presumere l’esistenza di matronei accessibili attraverso scale o intercapedini: le supposizioni sono dovute al fatto che la maggior parte dei resti è riconducibile solo al livello superiore della chiesa, basti pensare che si accede alla navata centrale attraversando quello che doveva essere il rosone del prospetto principale; solo la zona dell’altare è stata portata all’originario piano di calpestio, mentre la facciata sud, infine, è scandita da una serie di contrafforti e monofore a tutto sesto. Tra le varie ricognizioni archeologiche è stata riportata alla luce, inoltre, la più antica porzione di affresco dell’intera piana, risalente al periodo di fondazione del monumento negli ambienti dell’area absidale laterale, unica nel suo genere in tutto il territorio calabrese.

Per quanto riguarda le torri, è possibile riscontrare i marcatori riconducibili all’architettura normanna, tra cui i cantonali in granito squadrati e le feritoie in pietra. Anche il monastero riprende il motivo delle finestre presenti nella chiesa, la cui muratura è composta da ciottoli di fiume di medie e grandi dimensioni legate da malta la cui composizione non rimanda di certo al periodo bizantino, bensì al periodo di costruzione avvenuto sotto la reggenza di Roberto il Guiscardo.

L’abbazia è un monumento di imponenza notevole che si trova totalmente a cielo aperto, immerso in un’atmosfera altamente suggestiva tra uliveti secolari e poco distante dal sito archeologico magnogreco di Terina, così come precedentemente accennato. È stato luogo di diverse rappresentazioni teatrali, ma attualmente versa in uno stato di abbandono gestionale non indifferente.

Fig. 4 – Panoramica dei resti dell’interno della chiesa; Abbazia benedettina di Sant’Eufemia Vetere.
Fig. 6 – Cappella; Abbazia benedettina di Sant’Eufemia Vetere.

Bibliografia

Pontieri, L’Abbazia benedettina di Santa Eufemia in Calabria e l’Abate Roberto De Grantimesnil - i Normanni nell’Italia Meridionale, Archivio storico per la Sicilia Orientale 1964.

De Sensi Sestito (a cura di), Guida ai monumenti. Lamezia Terme tra Arte e Storia. Centro Herakles per il turismo, Comue Lamezia Terme 2008, pp.8.

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Giuliani, Memorie storiche della città di Nicastro, A. Forni Editore 1893, pp. 24-39.

Spadea, Luoghi e materiali al Museo Archeologico Lametino. Guida al percorso, Edizione ET, Carpenendolo (BS), 2011, pp. 21-31.

Mancuso, G. De Sensi Sestito, I segni della storia - Lamezia terme, La Modernissima, Lamezia Terme 2008.


LA PITTURA POMPEIANA

A cura di Simone Lelli

ORIGINE DELLA PITTURA POMPEIANA

Fig. 1 - Carlo di Borbone.

Le prime attestazioni di pittura parietale “pompeiana” si trovano nel trattato di Marco Vitruvio Pollione “De Architecture” scritto intorno al 15 a.C: si tratta di un trattato sull’architettura composto da 10 libri giunto integro fino a noi. Il libro VII in particolare tratta degli edifici privati, della loro tipologia e delle loro decorazioni parietali, ed è proprio in questo settimo libro che Vitruvio per la prima volta descrive la particolarità dello stile pittorico “pompeiano”. Bisognerà però aspettare il sovrano Carlo di Borbone (fig.1), che nel 1738 autorizzerà Roque Joaquin de Alcubierre ad utilizzare quattro operai nelle ricerche sotterranee di Pompei, per poter avere numerosissimi reperti appartenuti alla città campana in epoca classica, tra cui numerose opere di pittura parietale. Naturalmente il sovrano non poteva immaginare l’importanza di quei ritrovamenti, che daranno inizio alla ricerca archeologica nell’intera area. Ed è proprio grazie al trattato di Vitruvio, alla ricerca archeologica iniziata da Carlo di Borbone e all’ottima conservazione delle pitture che nel 1882 l’archeologo tedesco August Mau delinea e suddivide per la prima volta queste opere in quattro stili, che verranno poi utilizzati per classificare tutta l’arte romana anteriore al 79 d.C.

LA PITTURA POMPEIANA: I STILE (150 a.C. – 80 a.C.)

Il primo stile (fig.2) della pittura pompeiana, anche detto stile strutturale o dell’incrostazione, comprende tutte quelle opere datate dal 150 a.C. fino all’ 80 a.C. Diffuso sia in edifici pubblici sia in quelli privati questo stile attraverso l’uso dello stucco a rilievo proponeva decorazioni in opus quadratum[1]. Il primo stile solitamente ha tre caratteristiche che si ripetono in uno schema fisso; la prima fascia posta al livello superiore è decorata con cornici di stucco sporgente, la fascia centrale viene decorata con colori che tendevano ad imitare il marmo, il granito o l’alabastro (troviamo l’uso predominante del rosso e del nero ma anche tonalità sul viola, verde e giallo), infine troviamo uno zoccolo[2] decorato con tonalità sul giallo. Anche piccoli elementi architettonici, come ad esempio dei pilastri utilizzati per la divisione verticale degli edifici, trovano spazio in questo stile. Il primo stile nasce da una radicata ispirazione alla cultura ellenica presente a Pompei, e queste caratteristiche le ritroviamo spesso in edifici del III o II secolo a.C. presenti delle polis greche e in alcune città sul Mar Nero, decorati con cornici in chiaroscuro, finto rilievo e piccole semicolonne[3] in stucco. Nell’area pompeiana eccellenti esempi del I stile li troviamo nel tempio di Giove, nella Casa del Fauno e nella Casa di Sallustio.

Fig. 2 - Esempio di I stile di pittura “pompeiana”.

II STILE (80 a.C. – fine I secolo a.C.)

Il secondo stile (fig.3), noto anche come stile architettonico, va dal 80 a.C. fino alla fine del I secolo a.C. La caratteristica principale di questo secondo stile è la realizzazione di cornici e fregi [4] con tralci vegetali attraverso la pittura e non più con l’utilizzo dello stucco. La novità di questo stile viene data da un’elegante prospettiva che dava allo spettatore l’illusione in primo piano di podi [5] e finti colonnati, edicole [6] e porte, dalle quali si aprivano vedute prospettiche. A dare maggior lustro al II stile fu lo sviluppo in questo periodo degli artisti “paesaggisti” che dipingevano dettagli dei giardini con grande cura. In questo periodo era solito dipingere nature morte con cacciagione, ortaggi e frutta, ciò viene spiegato dall’usanza di portare come dono agli amici regali composti prevalentemente da cibo. L’esempio più antico lo troviamo a Roma nella Casa dei Grifi sul Palatino databile tra il 120 e il 90 a.C., mentre a Pompei lo troviamo soprattutto nella Villa dei Misteri, ma anche nelle case di Obellio Firmo, del Labirinto, delle Nozze d’Argento, del Criptoportico.

Fig. 3 - Esempio di II stile di pittura "pompeiana".

III STILE (fine I secolo a.C. – metà I secolo d.C.)

Il terzo stile (fig.4), definito anche stile ornamentale, fu utilizzato tra la fine del I secolo a.C. fino alla metà del I secolo d.C. Profondamente diverso dallo stile precedente, il terzo stile presenta elementi piatti con aree che venivano riempite con un unico colore, molto spesso tonalità scure, che rappresentavano pannelli raffiguranti scene di varia natura. A sottili pareti vengono a sovrapporsi sofisticate strutture architettoniche dall’improbabile equilibrio, le pareti vengono dipinte a tinta unita con larghe campiture [7] sull’azzurro e sul verde che per la prima volta vengono aggiunti ai classici colori utilizzati precedentemente (giallo, rosso e nero). Su queste campiture compaiono spesso piccole vedute con figure sospese a mezz’aria, soggetti di tipo mitologico o paesaggi d’invenzione. Inoltre c’erano casi in cui si utilizzavano tonalità chiare per gli ornamenti, come ad esempio per la realizzazione di candelabri, figure alate e ramificazioni vegetali. Un sontuoso esempio del terzo stile a Pompei lo troviamo nel tablinum presso la Casa di Marco Lucrezio Frontone.

Fig. 4 - Esempio di III stile di pittura "pompeiana".

IV STILE (60 d.C. – 79 d.C.)

l quarto stile (fig.5), conosciuto anche come stile dell’illusionismo prospettico, si affermò nell’impero romano in età neroniana, mentre a Pompei si instaurò dopo il 60 d.C. e si concluse con la violenta eruzione del Vesuvio che distrusse completamente la città di Pompei nel 79 d.C. Di questa datazione siamo abbastanza certi poiché dopo il violento sisma del 62 d.C. che colpì l’intera Campania, gli edifici che furono restaurati furono decorati con pitture appartenenti al IV stile. Rispetto agli stili precedenti, il quarto stile introduce come caratteristica principale quella di rappresentare strutture sontuose e idilliache ma non reali, che suscitavano meraviglia in chi le ammirava. Quest’ultimo stile a differenza degli altri presenta architetture bidimensionali e fortemente decorative, ma allo stesso tempo conserva caratteristiche sia del II stile (come la tecnica di imitazione di rivestimenti marmorei, le imitazioni e l’illusione di architetture e oggetti proposti in uno spazio questa volta bidimensionale) sia caratteristiche del III stile (come raffigurazioni ornamentali di candelabri, figure alate e tralci vegetali). Gli esempi più importanti del IV stile a Pompei li troviamo nella Casa dei Vettii e nella Casa dei Dioscuri.

Fig. 5 - Empio di IV stile di pittura "pompeiana".

CONCLUSIONE

Con la fine della città di Pompei cessa di esistere anche la sua tradizionale arte pittorica ma non cessò invece lo sviluppo dell’arte romana, che continuò ad evolversi e a cambiare fino alla fine del suo impero. Basti pensare che alcune opere bizantine sono per stile e significato completamente diverse dai quattro stili ma conservano ancora qualche traccia di quelle che erano le caratteristiche dello stile “pompeiano”, ciò a conferma che l’arte romana, nonostante abbiamo perso nel 79 d.C. un centro artistico vitale, si sia poi evoluta verso altri stili e influenze, conservando però un profondo legame con le sue origini e andando a caratterizzare buona parte dell’arte medioevale, con continue riprese all’arte classica durante i secoli successivi.

Fig. 6 - Esempio di arte bizantina.

 

Note

[1] Opus quadratum: tecnica di costruzione dell’antica Roma che prevedeva la sovrapposizione di blocchi squadrati di forma parallelepipeda e di altezza uniforme, messi in filari omogenei con piani di appoggio continui.

[2] Zoccolo: Basamento di una struttura.

[3] Semicolonna: pilastro a forma di colonna con funzione decorativa.

[4] Fregio: parte intermedia tra architrave e cornice nella trabeazione degli ordini architettonici classici.

[5] Podio: basamento rialzato.

[6] Edicola: piccola costruzione costituita da due colonne con sovrapposto frontone, eretta per ornamenti o a protezione delle statue.

[7] Campitura: stesura uniforme del colore utilizzata come sfondo dell’opera.

 

Sitografia

capitolivm.it

loneyplanetitalia.it

napoli-turistica.com

notizie.virgilio.it

treccani.it

 

Bibliografia

CRICCO, F. P. DI TEODORO, itinerario nell’arte, vol.1 dalla preistoria all’arte romana, 2016.

I BRAGANTINI, V. SAMPAOLO , LA PITTURA POMPEIANA, Verona, 2018.


“TUTTE LE STRADE PORTANO A POMPEI”

A cura di Marco Roversi

Le Mura, le Strade e le acque di Pompei

A lungo si è pensato che la città vesuviana di Pompei fosse una colonia densamente popolata, abitata all’incirca da 20.000 persone, numero dedotto dalla capienza del suo monumentale anfiteatro. Tuttavia, in occasione degli scavi svolti durante il Secondo Conflitto Mondiale, si è scoperto che molti lotti di terreno dell’area più orientale del sito non erano stati ancora edificati, il che portò a ridimensionare le passate stime sulla popolazione pompeiana, riducendone il numero e stimando che essa non superasse i 10.000 abitanti. Quel che è certo è che Pompei era una città molto sviluppata e assai popolata per l’epoca, sulla cui origine molto si è dibattuto. Sulla nascita dell’insediamento sono stati gettati fiumi d’inchiostro, e, “urbanisticamente” parlando, la città stessa ci offre non molte informazioni sulla sua genesi. Ad ogni modo si tende tutt’oggi a ricercarne l’impianto originario nella forma mantenuta dell’area centrale, attorno all’area del Foro Civile: assi viari ortogonali si incrociano con esso, con relative vie parallele nei due sensi, ma senza rigida assialità e ancora senza quel rigore di perfetta organizzazione del piano regolatore propria e tipica dell’urbanistica romana. Nella città campana, invece, è individuabile con maggior certezza un più delineato disegno urbano solo in una fase più recente della vita dell’abitato, in Età Sannitica, quando la città rispecchierebbe il sistema “per strigas” dell’urbanistica greca (ossia un sistema basato su assi viari longitudinali, sui quali si attestano isolati di forma rettangolare piuttosto allungata), con il sito diviso in tre fasce (di ampiezza totale pari ai 2/3 isolati ciascuna) da due strade principali, o “platèiai”, e con tre trasversali a queste ultime perpendicolari, ma non parallele tra loro; il sistema interno a questa grande maglia viaria era diviso da più piccole strade secondarie, “stenopòi”, che delineavano i vari isolati, lunghi all’incirca tra i 30-35 m sul lato corto e tra gli 80, 90 e 140 m sul lato lungo a seconda dei settori. Questo impianto urbanistico di Età Sannitica sarà mantenuto anche in seguito, con l’arrivo della dominazione, e costituirà anche una particolarità propria Pompei, ossia quello di essere una città con due decumani, tagliati trasversalmente da tre cardi, diversamente da altre colonie di fondazione romana.

Fig. 1 - Pianta della città di Pompei con indicate le varie fasi di sviluppo dell’impianto urbano e i principali assi viari interni.

Dalla forma planimetrica pressoché irregolare e con un’estensione superficiale massima di 660 m2, Pompei venne fondata su di un rilievo di origine lavica, i cui pendii costituivano già da sé delle difese naturali al sito, specialmente nelle sue porzioni più occidentali e sud-occidentali, più precisamente nella porzione della città interessata dalla presenza del grande Foro Civile e, dunque, dal nucleo abitativo più antico del sito. Al di là di queste difese naturali tutta la città era circondata da una possente cinta muraria, la cui lunghezza perimetrale raggiungeva i 3.220 m totali, una cinta muraria edificata e modificata in più fasi costruttive, a partire dal tardo VI a.C. sino al I a.C. La fase più antica, datata attorno al VI a.C., vide l’impiego principalmente di blocchi di lava vesuviana, o pappante, destinati ad essere assemblati per innalzare un unico enorme muro, difesa che,  successivamente (V a.C.), probabilmente sotto influenza greca, venne riqualificato  in una più possente e più funzionale struttura muraria a doppia cortina, impiegando blocchi di calcare di Sarno, cortine rinforzate con un riempimento interno. Le mura ammirabili ancora oggi in sito per alcuni tratti, invece, furono costruite nel corso del IV a.C. impiegando la più nota tecnica edilizia ad aggere, vale a dire addossando un possente terrapieno al paramento interno del muro a doppia cortina, costituito da blocchi isodomi (ossia di stessa altezza, stesso spessore e ben lavorati su tutti i lati) di calcare di Sarno e di tufo di Nocera, il tutto per rendere la struttura ancora più resistente (specialmente nel caso di assedi e di attacchi esterni eseguibili anche con l’impiego di macchine belliche). La fase edilizia più recente risale ai primissimi anni del I a.C., quando l’intero circuito difensivo venne rinforzato con robusti torrioni di guardia di pianta rettangolare posti ad intervalli regolari.

Fig. 2 - Resti di parte della cinta muraria della città e di una delle torri di difesa.

7 erano le porte di accesso alla città: Porta Ercolano, sita a Nord-Ovest, un monumentale arco a tre fornici e conosciuta ancora oggi come una delle più note porte urbiche di tutta Pompei; Porta Vesuvio, a Nord, danneggiata e poi crollata in seguito al terremoto del 62 d.C.; Porta di Nola, ad Est; Porta Sarno, sempre nell’area orientale dell’insediamento, a oggi pressoché distrutta contrariamente a Porta Nocera a Sud-Est, a oggi molto ben conservata; Porta di Stabia,  sita a Sud-Ovest,  identificata come una delle porte più antiche di tutta Pompei, se non addirittura la più antica, e ancora Porta Marina, sita ad occidente, la quale conduceva, come del resto suggerisce la sua stessa denominazione, al vicino litorale e alla zona portuale, costituita da un’ imponente galleria in cui si immettono due passaggi, uno pedonale e l’altro carrabile. Infine, è ipotizzata, ma con scarse fonti di attendibilità, anche l’esistenza di un’ottava porta di accesso, detta Porta di Capua, sita forse a Nord-Est, se si tiene conto della la distanza simmetrica tra le singole alle porte presenti ad intervalli pressoché regolari lungo tutto il circuito murario difensivo. Tuttavia si propende a oggi per la sua inesistenza.

L’avvicinamento alla città era garantito dalla presenza sul territorio di una fitta rete viaria: per ogni porta urbica vi era una strada che vi conduceva e che immetteva direttamente in città. Superati gli accessi le strade esterne si congiungevano con l’intricata maglia viaria interna. Il traffico lungo queste strade non si interrompeva mai. Ai carri adibiti al trasporto delle merci era proibita la circolazione all’interno delle mura cittadine dal mattino sino al tramonto e in alcune vie il traffico su ruote era impedito persino dalla presenza di ostacoli di diverso genere. Fu solo con l’emanazione della Lex Iulia Municipalis del 45 a.C. che fu permesso il varco delle porte e il transito interno per tutto l’arco della giornata ai carri che portavano materiali da costruzione destinati ai principali edifici pubblici. I restanti potevano circolare solamente dopo il tramonto. Oltre al traffico, la medesima legge regolava anche l’inviolabilità delle aree pubbliche e la manutenzione di strade e marciapiedi, o crepidines, che potevano essere ampi tra i 40 cm e i 3 m massimo. La loro pavimentazione e la loro regolare manutenzione erano a carico dei proprietari delle case ad essi adiacenti, per tutta l’estensione dei singoli edifici. La pavimentazione era eseguita con lastre rigorosamente nuove, prive di qualsiasi imperfezione, e secondo le istruzioni impartite dagli edili, prestando particolare attenzione al corretto drenaggio delle acque piovane, per evitarne la stagnazione. All’erario pubblico della città spettava solamente il mantenimento delle strade adiacenti agli edifici pubblici. È per tal motivo che i marciapiedi di Pompei sono realizzati con materiali di volta in volta diversi, a seconda del personale gusto di chi ne provvedeva alla manutenzione. Nonostante la sorveglianza messa in atto dagli edili per assicurare un corretto funzionamento della rete viaria e le pesanti multe per i trasgressori, spesso i pedoni per continuare a camminare lungo i marciapiedi erano in molti casi costretti a scendere nella carreggiata. Ma scendere dal marciapiede non era quasi mai gradevole, poiché lungo le strade, portati dalla corrente delle acque delle fontane pubbliche, si accumulavano i rifiuti prodotti dagli abitanti e lo sterco degli animali che vi transitavano (cavalli, mule, buoi, vacche, cani…). E non erano nemmeno rari gli avvisi sulle facciate delle abitazioni in cui poteva trovar scritto: “Cacca. Sicuro che la pesti se passi di qui”. Il continuo fluire delle acque lungo le strade cittadine, che a volte si trasformavano in veri e propri torrenti a causa del pronunciato dislivello della città tra nord e sud, senza alcun dubbio influì sull’altezza dei marciapiedi e determinò la creazione di alcuni curiosi passaggi pedonali costituiti da grandi blocchi di pietra e separati tra loro di modo che le ruote dei carri in transito non li urtassero.

Originariamente realizzate direttamente nel banco tufaceo, fu solo sul finire del II a.C. che le strade di Pompei vennero lastricate in basalto lavico, seguendo una tecnica costruttiva che i Romani padroneggiavano con estrema perizia e abilità. Il piano stradale era la parte più appariscente di ciascuna strada, ma imponenti erano spesso le opere che garantivano l’assoluta stabilità alla pavimentazione. Si iniziava, anzitutto, definendo il percorso e la sua lunghezza, tracciando due solchi paralleli, a delimitazione dei bordi. Lungo questi si fondavano in allineamento i blocchi che ne avrebbero contenuto fondazioni e pavimentazione, e al loro interno si scava un fossato, in genere tra i 45-60 cm di profondità, ma in molti casi anche più, sino a raggiungere il terreno solido. La fossa era poi riempita a strati alterni di materiale consistente e ben battuto, quale grosso pietrame, o statumen, poi strati di breccia (roccia sedimentaria clastica) e cocci, o rudus, avvicendando strati di materiali più leggeri in modo che si agglutinasse bene, in genere sabbia o pozzolana, a volte mischiata a calcina per cementarla in modo uniforme. Al di sopra di tutto, sopra un letto di materiale più fine, nucleus, si costipava la breccia o si giustapponevano i vari blocchi del basolato, summum dorsum o pavimentum, alcuni dei quali appositamente modellati e scavati per creare delle vere e proprie rotaie in cui potessero scorrere, senza rischio di scivolare, le ruote dei carri.

Fig. 5 Schema costruttivo di una strada romana.

La più importante e la più nota di tutte le vie di Pompei è certamente Via dell’Abbondanza. Il suo nome è fatto derivare da un bassorilievo ricavato su di una fontana pubblica posta lungo il suo tracciato, in prossimità del Foro, rappresentante in realtà la Vittoria Augusta, ma in passato erroneamente interpretata come personificazione dell’Abbondanza. Via dell’abbondanza, il principale dei decumani della città, o Decumano Maximo, inizia il suo percorso a est, da Porta Sarno. Una volta attraversata la possente porta in pietra di tufo, la via prosegue diritta e rettilinea toccando i punti nevralgici della città e gli edifici pubblici più importanti, quali l’Anfiteatro, le Terme Stabiane, i teatri, il Tempio di Iside e, infine, il Foro. È lungo tutta la sua lunghezza che si affacciavano botteghe, laboratori, taverne e abitazioni, queste ultime di diverse grandezze ed epoche, alcune rinnovate secondo l’ultima moda e altre deteriorate dal passare del tempo o anche del tutto abbandonate. Le facciate che davano sulla strada erano abbastanza omogenee, molto sobrie, intonacate con gesso dipinto in bianco e con lo zoccolo in rosso, dotate di poche finestre e alcune anche di balconi al secondo piano. Le case e le taverne dotate di portici non erano molte, così che si usavano tende per avere ombra e proteggere le merci in vendita esposte sui marciapiedi durante i mesi più caldi. Dei grossi tendoni, infatti, venivano fatti partire dal fornice delle abitazioni ed arrivavano fino in terra, ove erano agganciati a dei fori ricavati nella pietra del bordo strada, fungendo così da riparo al “negozio”, in quanto si trattava nella maggior parte dei casi di case-bottega, ove al piano terreno si trovavano laboratori e punti vendita, mentre al primo piano (o anche superiori) si collocavano i veri e propri ambienti abitativi. Ma ad affacciarsi su Via dell’Abbondanza non erano solo case di modeste dimensioni: lungo di essa, infatti, si dispongo alcune delle più sontuose case di Pompei, alcune a due piani, appartenenti ai più ricchi esponenti della borghesia cittadina, quali la Casa dei Casti Amanti, la Casa di Giulio Polibio, la Casa di Loreius Tiburtinus, la Casa della Venere in Conchiglia o la Villa di Giulia Felice.

Lungo le vie di Pompei o in corrispondenza delle loro intersezioni erano poi collocate numerose fontane pubbliche, in tutto 40 per la Pompei del 79 d.C. Uniche dispensatrici di acqua per il fabbisogno domestico quotidiano e per le attività lavorative, tali fontane sono testimoni di un’egregia abilità da parte degli antichi Romani nel garantire alla città un approvvigionamento idrico costante, seppur di non facile fornitura. Nella fase più antica della vita della città il fabbisogno idrico necessario era garantito dalle acque piovane, le quali venivano raccolte nelle vasche  o impluvii di domus, ville e giardini, acque spesso raccolte in cisterne e pozzi utili a contenere e conservare nel tempo un surplus idrico fondamentale per affrontare i più difficili periodi di siccità: scavati nel banco di lava e tufo, questi pozzi raggiungevano la sottostante falda freatica sino ad una profondità anche di oltre 30 m. A oggi di tali cisterne pubbliche ne sono state rinvenute con certezza 5, ma sul preciso funzionamento è possibile solo fare supposizioni. Non è chiaro quale fosse il corretto funzionamento di canalizzazione, di raccolta e di conservazione delle acque al loro interno, ma è stato ipotizzato che il procedimento di raccolta di queste acque venisse azionato dal movimento di una ruota idraulica girata manualmente oppure con l’impiego di animali da tiro, quali asini o cavalli.

L’intero sistema di approvvigionamento idrico fu successivamente riqualificato grazie alla costruzione del grande acquedotto voluto da Augusto, o Acquedotto del Serino. Una tra le tante maestose e imponenti infrastrutture pubbliche che l’Età Augustea ci ha lasciato, tale acquedotto costituiva un’opera di ingegneria idraulica di grande sapienza progettuale e costruttiva. Esso portava acqua dalle sorgenti di Serino, in Irpinia, alle più importanti città della Campania, districandosi lungo tutta una complessa serie di gallerie e condotti sotterranei, ponti e canali. Dal sito di Palma Campania l’Acquedotto del Serino si diramava in due tronconi: uno si dirigeva verso le altre città della piana vesuviana, terminando a Cuma e Misenum; il secondo si dirigeva in Pompei, ed entrava in città presso Porta Vesuvio, ove era installato il Castellum Aquae, ossia una struttura in fabbrica quadrangolare che fungeva da diramatore e collettore delle acque, ripartite principalmente in tre direzioni per alimentare i vari punti della città. Attraverso condutture, realizzate soprattutto in piombo, l’acqua si diramava sino a raggiungere il più possibile tutti i quartieri dell’insediamento. L’acqua corrente nel mondo romano era cosa rara, un privilegio dei più ricchi, ed è così che la maggior parte della popolazione attingeva acqua alle fontane pubbliche. E alcune di queste si sono conservate fino ai giorni nostri, e sono ancora oggi visibili: esse appaiono come grandi vasche di forma quadrangolare, di dimensioni pressoché modeste, nelle quali si raccoglieva l’acqua sgorgante a ciclo continuo. Molto spesso erano decorate, con cippi statuari o cippi votivi riportanti dediche alle divinità dei crocicchi stradali o delle acque. Del resto non è da dimenticare quanto citato poc'anzi relativamente alla stessa Via dell’Abbondanza e alla sua pubblica fontana con la raffigurazione della Vittoria Augusta, che, seppur oggetto di errate e affrettate interpretazioni, ha ad ogni modo contribuito a coniare il nome di una delle vie dell’antichità a oggi più note e  ancora trafficate.

Bibliografia

“Introduzione alla Topografia Antica” di Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, il Mulino Itinerari, Bologna, 2004.

“Pompei” in Collana ARCHEOLOGIA National Geographic, testi a cura di Elena Castillo, traduzioni di Enrica Zaira Merlo, pubblicazione periodica quattordicinale, Editore RBA Italia s.r.l., Milano 7 marzo 2017.

 

Sitografia

www.Pompeiin.com

www.Santuariditalia.it

www.Pompeiitaly.org

www.Treccani.it

 


LA VILLA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA

A cura di Antonina Quartararo

La scoperta di Villa del Casale

Le prime notizie storiche sulla bellissima villa tardo-romana di contrada Casale a Piazza Armerina (in provincia di Enna) si devono all'archeologo Gino Vinicio Gentili, che negli anni ’50 del Novecento cominciò ad indagare la zona dopo aver ricevuto varie segnalazioni da parte degli abitanti del luogo. Fin dal primo momento ci furono degli accesi dibattiti sull'identificazione del proprietario di questa meravigliosa villa costruita nell'entroterra siciliano. La sua insolita posizione all'interno dell’isola e non lungo la fascia costiera si riconnette alla situazione sociale ed economica dell’epoca: infatti, dopo una grave crisi e il conseguente spopolamento delle campagne, la Sicilia a partire dal IV secolo iniziò a godere, sotto la dominazione romana, di un periodo di prosperità grazie a nuovi insediamenti commerciali e al suo ruolo di ponte di collegamento tra la capitale dell’Impero romano e l’Africa proconsolare. I domini stanziati sull’isola cominciarono ad investire nella costruzione di confortevoli e lussuose dimore extraurbane, ed è proprio in questo periodo che si colloca la costruzione di Villa del Casale.

Secondo gli studi, la villa fu costruita in piena età costantiniana su una precedente fattoria e si daterebbe tra il 320 e il 325 circa. Le proposte di identificazione del proprietario sono diverse, come ad esempio l’attribuzione al tetrarca Massimiano dopo la sua abdicazione, o al figlio Massenzio. Un’altra tesi sostiene che il proprietario sia stato L. Aradius Valerius Proculus Popolonius, governatore della Sicilia tra il 327 e il 331 d.C., oppure Ceionus Lampadius figlio di Ceionius Philosophus, prefetto sotto Costanzo II.

L’architettura

La villa del Casale di Piazza Armerina ha un’estensione di 4000 m2 ed è possibile individuare quattro nuclei principali (Fig.1): l’ingresso monumentale a tre arcate con cortile a ferro di cavallo pavimentato con un prezioso opus sectile e con porfido (1-2), il corpo centrale, organizzato intorno ad un cortile con giardino e vasca al centro (8-39), il grande triconco, la sala adibita ai banchetti (47-55) e altri vani, infine il sontuoso complesso termale (40-46). La villa è divisa in due parti, una adibita a destinazione pubblica e l’altra a destinazione privata. Si presume che i lavori di costruzione siano durati dieci anni.

La villa del Casale, oltre alla sua struttura monumentale, è nota per i suoi grandi e splendidi mosaici.

Fig. 1 - Pianta della Villa del Casale di Piazza Armerina.

La Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona pubblica

La zona pubblica, destinata all'udienza degli ospiti e dei visitatori, era la zona di rappresentanza per eccellenza. Dall'ingresso principale (1-2) si accedeva ad un grande giardino centrale decorato con un pavimento geometrico con scena di adventus su due registri. Nel registro superiore un uomo con una corona di foglie sul capo reca un candelabro sulla mano destra (Fig.2); l’uomo si trova in compagnia di due giovani con ramoscelli in mano e sembrano attendere l’arrivo di un ospite importante. Nel registro inferiore alcuni giovanetti recitano o cantano tenendo dei dittici aperti tra le mani. Non è chiaro se sia una scena religiosa o un solenne benvenuto per l’arrivo del proprietario.

Il peristilio di Villa del Casale (8), che circonda il grande giardino, è decorato con un mosaico raffigurante ghirlande d’alloro con al centro teste di felini, arieti, tori, capre, cavalli, cervi, uno struzzo e un elefante (Fig.3). Vicino alla vasca sta un piccolo vano con il Sacello dei Lari, ovvero gli dei protettori della casa (9). Opposto a questo vano vi è il corridoio della Grande Caccia (lungo 65,93 m e largo 5 m), famoso per il suo apparato musivo (Fig.4-5-6-7) che narra la cattura di bestie selvatiche che venivano sfruttate per i giochi all’interno dell’anfiteatro di Roma. Una prima scena raffigura i soldati che catturano una pantera in Mauretania con l’aiuto di una trappola. Seguono la caccia all’antilope in Bumidia e la cattura del cinghiale selvatico in Bizacena. Si noti che ogni scena è ambientata in una diversa provincia dell’Africa (fatta eccezione per la Tripolitania).

La seconda scena si svolge in un porto (è possibile si tratti di quello di Cartagine, all’epoca grande scalo occidentale) con un lussuoso edificio sullo sfondo, forse una villa marittima.

Un cavaliere sorveglia il trasporto di un pesante carico, probabilmente il servizio della posta imperiale. Altri uomini caricano sulle spalle animali legati o in enormi casse, un ufficiale frusta un prigioniero e altri trascinano su una nave antilopi e struzzi (Fig.8).

Fig. 8 - Mosaico della Grande Caccia e particolari.

La terza scena raffigura un lembo di terra fra due mari (forse l’Italia o il porto di Ostia); dei personaggi osservano lo sbarco degli animali da due navi provenienti da est e da ovest. Si ipotizza che siano i tetrarchi, oppure Massenzio con due ufficiali. La scena, molto sintetica, è tipica dell’arte tardoantica, e dai modelli utilizzati si deduce che i mosaicisti provenissero dall'Africa settentrionale.

Dalla quarta alla settima scena del corridoio i mosaici seguono modelli diversi, forse occidentali, e si connotano per una differente resa plastica e naturalistica. La quarta scena raffigura un imbarco di animali, ambientato probabilmente in Egitto per la presenza di un dromedario, un elefante e una tigre. Nella quinta scena è descritta la cattura di alcuni rinoceronti in una palude, forse in un paesaggio nilotico, con fiorellini rossi ed edifici a pagoda. La sesta scena rappresenta la lotta tra un leone e un uomo ferito, e un uomo dall'aspetto autorevole è affiancato da due soldati che attendono insieme l’arrivo di una cassa misteriosa, contenente forse un grifone. La settima scena raffigura la cattura della tigre in India con l’aiuto di una sfera di cristallo, dall'effetto riflettente, che viene lanciata verso l’animale per distrarlo e intrappolarlo facilmente. L’ultimo episodio mostra la cattura di un grifone con un’esca umana dentro una cassa di legno. Alla fine del lungo corridoio nelle due absidi, che si presentano molto lacunose, si trovano rappresentate a mosaico due figure femminili. A nord, una donna reca in mano una lancia con accanto un leone e un leopardo, forse personificazione della Mauretania o dell’Africa (Fig.9). A sud, invece, la presenza dell’elefante, della tigre e della fenice suggeriscono che la figura femminile sia la personificazione dell’India (Fig.10).

In conclusione, le raffigurazioni di scene di caccia o cattura di animali simboleggiano il valore e il prestigio di un sovrano, mettendo in evidenza la conoscenza dei territori dell’Impero e degli animali già noti ai quei tempi sia in Occidente che in Oriente. Questi mosaici alludono ad una sorta di carta geografica, ed infatti non era raro nell'antica Roma che i governatori ricevessero una cartina geografica, di buon auspicio per l’accrescimento del proprio potere.

Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona privata

La zona privata della villa si estende lungo il lato settentrionale del peristilio (8). Molti sono i vani riccamente decorati: ad esempio, nel vano 16 vi sono sei coppie di personaggi sfarzosamente abbigliati e ingioiellati che rappresentano forse il ratto delle Sabine o le danze campestri in onore della dea Cerere che avvenivano durante le festività primaverili. Il vano 18 è ornato da Eroti, tema molto a cuore al proprietario della villa; gli Eroti pescatori all’interno di barche mostrano il segno “V” sulla fronte, il cui significato non è stato ancora del tutto spiegato.

È chiaro che si tratti di mosaici nordafricani. In una villa marittima, un Erote rovescia un paniere pieno di pesci mentre un altro sta per colpire un pesce con un tridente (Fig.11).

Gli Eroti pescatori sono presenti anche nei vani 51 e 52, nelle raffigurazioni del thiasos marino nella sala absidata 35 e nel frigidarium delle terme 43, dove una composizione fatta da Nereidi, Tritoni e cavalli marini decora la vasca a forma ottagonale. Nel vano 55 due Eroti portano ceste piene di grappoli ai loro compagni intenti alla pigiatura dell’uva. Il pavimento dell’ambiente 54 è interamente ricoperto da girali di tralci, grappoli, figure di Eroti con al centro un medaglione con un busto maschile, forse la personificazione dell’Autunno.

Nella sala 19 si trova il mosaico con la Piccola Caccia (Fig.12), formato da dodici scene disposte su quattro registri con cacciatori e i loro cani che inseguono una lepre, due uomini portano sulle spalle un cinghiale legato e un sacrificio alla dea Diana, rito che veniva fatto per garantire il buon esito della caccia. Altri uomini guardano alcuni volatili su un albero nell'attesa di catturarli; seguono un banchetto del dominus attorniato dai suoi attendenti in mezzo ad un bosco, la cattura di tre cervi e l’abbattimento di un cinghiale che ha ferito un uomo. Due servi nascosti dietro una roccia provano a colpire la bestia con un sasso, un altro, impaurito, si tocca la fronte. A differenza della Grande Caccia questo mosaico raffigura la vita quotidiana del dominus.

Fig. 12 - Mosaico raffigurante Piccola caccia.

Gli appartamenti del dominus (A) e della domina (B)

L’appartamento a nord della grande aula absidata è dedicato alla domina e ai suoi bambini e ha delle dimensioni inferiori rispetto all’appartamento B del dominus. La stanza 28, che funge da anticamera, è decorata con l’episodio di Ulisse che sconfigge il gigante Polifemo porgendogli il kantharos contenente del vino (Fig.13). Comunicante a questa stanza vi è una sala absidata con un mosaico raffigurante Stagioni e ceste di frutta all’interno di tondi. Il pavimento del cubiculum 30 è ornato da tondi con elementi geometrici, stelle e Stagioni che circondano un medaglione con una coppia di amanti: per questo si è attribuita inizialmente l’ala alla sala del dominus, perché il soggetto erotico non era consono alla stanza di una donna (Fig.14).

L’appartamento del dominus (B) presenta pavimenti molto più elaborati, dove ritorna il tema degli Eroti pescatori con veduta di un porto. Segue il mito del poeta Arione che incanta le belve marine, Tritoni, Nereidi e cavalli marini con la sua arte poetica e musicale (Fig.15 -16). Nell’abside è raffigurata la testa del dio Oceano circondata da pesci diversi. Nella sala absidata 22 si trova Orfeo attorniato da diversi animali. Le scene di Arione e di Orfeo simboleggiano il dominio sulle forze brute attraverso le arti della poesia e del canto, invece le bestie alludono alle passioni umane e alla vittoria dell’uomo su queste ultime. Identico significato hanno i mosaici della Grande Caccia e della Piccola Caccia, che illustrano il trionfo dell’uomo sulle bestie grazie alla forza e all'astuzia. Nell'anticamera, ossia l’ambiente 36, si trova il mosaico di Pan dalle sembianze caprine che combatte Eros: a questa scena assistono fanciulli e giovani, forse i familiari del proprietario, e sul tavolo sono poggiate delle corone - premio per il vincitore (Fig.17). Dall'anticamera si passa al cubiculum 37, la cui pavimentazione a mosaico mostra bambini cacciatori, dei quali uno viene morso al polpaccio da un grosso topo e un altro fugge davanti a un gallo (Fig.18-19-20). Nell'anticamera 38, invece, vi è un circo di bambini che gareggiano con quattro bighe trainate da volatili ed un fanciullo attende di incoronare il vincitore con la palma che tiene in mano. Sembra essere un’allegoria delle Stagioni con un richiamo al trascorrere inesorabile del tempo (Fig.21). Il cubiculum 39 è decorato con un agone musicale in cui i fanciulli sono intenti alla recitazione e al canto e con delle fanciulle che intrecciano ghirlande di fiori e foglie (Fig.22).

Fig. 17 - Mosaico raffigurante Eros contro Pan – Appartamento B.

La Villa del Casale di Piazza Armerina: la sala dei banchetti

Nella Villa del Casale di Piazza Armerina vi è una sala la cui decorazione è di grande effetto: si tratta della sala adibita ai banchetti, ove vengono mostrate le Dodici Fatiche di Ercole, con l’eroe trionfante e gli avversari sconfitti, quasi morenti o privi di vita. Tra le scene sono presenti i cavalieri sulle cavalle antropofaghe di Diomede, il leone Nemeo, l’idra di Lerna, Gerione con tre corpi, Cerbero, la cerva di Cerinea, il toro di Maratona, il cinghiale di Erimanto, il serpente delle Esperidi, la palude degli uccelli stinfalidi. Nell’abside nord, Eracle vittorioso viene assunto fra gli dei immortali e incoronato di alloro da due figure maschili, delle quali uno dovrebbe essere Dionisio e l’altro Giove. Alla scena assistono un giovane Fauno e una divinità fluviale. La piccola soglia all’ingresso dell’abside nord presenta due famose metamorfosi: Dafne trasformata da Apollo in pianta di alloro (simbolo del valore) e Ciparisso mutato in cipresso (simbolo dell’immortalità). Nell’abside est viene mostrata la fine dei Giganti uccisi da Eracle e dalle sue frecce. Il mosaico della soglia è legato allo stesso tema: vi è sono Andromeda e Endimione, due mortali trasformati in stelle per il loro valore, mentre Eracle viene accolto tra gli dei sull’Olimpo. Nell’abside sud trova luogo la rappresentazione del mito di Licurgo, re trace ostile a Dioniso. Il re tenta di colpire la ninfa Ambrosia con l’ascia, ma le gambe di lei si trasformano in tralci che la immobilizzano. Una baccante affiancata da due seguaci di Dioniso colpisce alla spalla il re con la propria lancia. Un giovane aizza una tigre contro Licurgo mentre Dionisio vince sui suoi nemici, enfatizzato dal gesto della menade. Tutto il programma musivo allude alla punizione di coloro che osano opporsi e ribellarsi agli Dei.

Le terme

Nel primo vano delle terme di Villa del Casale di Piazza Armerina (40) è raffigurata la domina con i suoi due figli. La donna ha un’acconciatura ad elmo, indossa un ricco abito ed è affiancata da due giovinetti con lunghi capelli. All’estremità le ancelle recano una cassetta con abiti e un’altra con manici contenente forse oggetti per il bagno. L’ambiente 42 è la palestra con annesso frigidarium.: qui viene raffigurata una corsa di quadrighe nel circo di Roma. A destra i dodici carcere,s ossia dei giovani addetti alla partenza dei cavalli, il tribunal con l’organizzatore dei giochi nell’atto di dare il via alla gara agitando un drappo bianco. Le statue di dodici dei, fra cui Mercurio, Fortuna, Ercole a destra, Giove a sinistra, due aurighi che si preparano alla corsa e tre templi. A sinistra, un arco a tre fornici con ai lati tribune piene di spettatori, e un piccolo edificio davanti alle tribune identificato con quello di Venere Murcia. L’arena è separata in due parti e sulla spina si trova la “meta prima” costituita da tre colonne coniche, un edificio dal doppio portico e l’overia con le sette uova che servivano a contare i numeri di giri già effettuati, la statua della Magna Mater sul leone, sullo sfondo un obelisco egiziano (Fig.23).

Fig. 23 - Mosaico con scene di circo – Palestra delle terme.

La parte terminale della spina presenta una grossa lacuna, oltre la quale si scorgono le tre colonne della “meta seconda” e le statue di discoboli e vari animali. Nella parte ovest dell’arena un suonatore segna la fine della gara, accanto l’editor ludi consegna la palma della vittoria al vincitore.

Dalla palestra si passa alla sala ottagona 43, forse coperta da una cupola, individuata come frigidarium, ovvero la sala con la vasca di acqua fredda (Fig.24). Nel frigidarium si trova rappresentato il thiasos marino con Tritoni, Nereidi ed Eroti pescatori che si dispongono intorno alla vasca. Quattro sono gli spogliatoi ornati con scene di mutatio vestis, ossia di figure che si vestono o si spogliano dei loro abiti. Le due piscine servivano una a contenere l’acqua fredda e l’altra per nuotare. Il campo presenta barche disposte a cerchio con due Eroti intenti alla pesca. Il passaggio 45 è da interpretare come stanza per i massaggi annessa alla sala del bagno caldo (calidarium) e mostra una scena di palestra. La sala 46 aveva la funzione di tepidarium come attestano i tre praefurnia e l’assenza di vasche. Nel mosaico sono raffigurate scene di gare allo stadio, tra i quali è identificabile la lampadedromia, ovvero la corsa con scudo e fiaccola.

Fig. 24 - Frigidarium.

Il più sorprendente mosaico (e forse il più famoso) si trova nell'ambiente 24, dove sono raffigurate varie attività sportive con il famoso mosaico delle “fanciulle in bikini”, che raffigura dieci atlete che si cimentano nel lancio dei pesi e del disco, nel gioco della palla, nella corsa; in onore della dea del mare Teti, due di esse sono premiate con la palma e con una corona di fiori (Fig.25-26-27-28).

Fig. 25 - Mosaico con le fanciulle in bikini.

Si ringrazia Giuseppina Dolce per aver concesso alcune foto presenti in questo articolo.

Bibliografia

Cipriano (a cura di), Archeologia Cristiana, Palermo 2007, pp.299-339.


VIAGGIO NELL'ANTICA POMPEI

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il viaggio nell'antica Pompei comincia con una breve descrizione della sua posizione geografica, per poi continuare passando ad esaminare gli edifici presenti all'interno dell'area.

Storia e geografia dell'antica Pompei

La città sorge su un’altura nei pressi del fiume Sarno che sfocia verso il Mar Tirreno, costituendo un punto d’approdo per i navigatori greci e fenici. La strategica posizione geografica della città fa sì che già intorno al VIII secolo a.C. troviamo un primo insediamento nella zona, che si formò molto probabilmente da un piccolo nucleo di genti dedite all'agricoltura. Nel VI secolo a.C. invece si costituisce un primo nucleo fortificato di città appartenente alla popolazione degli Osci (fig.1) che primeggiavano nella Campania antica.

Fig. 1: sviluppo della città di Pompei

Successivamente la città di Pompei fu contesa dapprima tra i greci di Cuma e gli Etruschi per poi cadere sotto il potere sannita ed essere governata secondo le leggi, gli usi e costumi sanniti, assorbendone inoltre anche la lingua e la religione. Nel 310 a.C. i pompeiani dovettero difendersi dalle flotte romane che depredavano la foce del Sarno: col passare del tempo la città fu costretta a fronteggiare la crescente potenza di Roma, che sconfisse i Sanniti durante le “guerre sannitiche” in cui Pompei, pur essendo colonia sannita, riuscì comunque a conservare una certa indipendenza dall’Urbe. Tale stato di cose durò fino al termine delle “guerre sociali” (80 a.C.), dopodiché la città divenne a tutti gli effetti una colonia romana e fu riorganizzata sotto il profilo urbanistico, religioso e politico della cultura latina. Nel 62 d.C. l’intera Campania subì violente scosse di terremoto che danneggiarono violentemente Pompei e molte altre città della zona, così si avviarono fin da subito opere di ricostruzione degli edifici e dei templi, ma diciassette anni dopo, precisamente il 24 agosto del 79 d.C., il Vesuvio con una violentissima eruzione seppellì l’intera città e la sua popolazione ponendo fine all'esistenza della città. Dopo questa violenta eruzione, durante il periodo medioevale, grazie a dei documenti bizantini sono state ritrovate tracce di un piccolo insediamento più a nord e più sopraelevato dell’antica città . Da qui in poi la zona rimase disabitata, anche a causa del suolo divenuto paludoso e portatore di malattie fino agli inizi dell’Ottocento.

Viaggio nell'antica Pompei: Porta Marina

La Porta Marina (fig.2) era l’antica porta di accesso per la città di Pompei: una ripida rampa conduce a due fornici (grande apertura che si trova in antichi edifici o monumenti, dedicata al pubblico transito) della porta, quello a sinistra era riservato ai pedoni, mentre quello di destra era riservato agli animali e ai carichi leggeri che solitamente trasportavano dal mare il sale e il pesce. Vicino alla porta troviamo probabilmente quelli che sembrano resti di magazzini, mentre nella parte inferiore della porta troviamo antiche mura sannitiche risalenti al IV-II secolo a.C.

Fig. 2: porta Marina
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/00/Porta_Marina_1.JPG/1024px-Porta_Marina_1.JPG

Viaggio nell'antica Pompei: il tempio di Apollo

Fin dalle origini a Pompei veniva praticato il culto di Apollo, infatti abbiamo la presenza di un primo tempio (di cui poco ci è noto) costruito intorno al VI secolo a.C. che fu successivamente smantellato e sostituito da uno più grande intorno al II secolo a.C. (fig.3)

Il nuovo tempio era circondato da un portico a doppia altezza, con colonne di stile ionico nella parte inferiore e di stile corinzio nella parte superiore. Durante il sisma del 62 d.C. il secondo ordine di colonne crollò e fu rimosso dal recinto, mentre il primo ordine di colonne fu restaurato e stuccato, mentre i capitelli furono trasformati da ionici a corinzi e decorati con colori vivaci: rosso, giallo e azzurro. Il tempio fu dissotterrato solo nel 1817 svelando un'incredibile decorazione pittorica lungo i muri; diverse scene, sia tragiche sia comiche, erano dedicate alla guerra di Troia, inoltre in una stanza segreta del tempio fu ritrovata una decorazione raffigurante il giovane Bacco che riposa mentre Sileno suona la lira. Inizialmente questo tempio era stato erroneamente attribuito a Venere a causa di un’errata interpretazione in lingua osca scritta su una lamina in bronzo posta sull'architrave (elemento architettonico orizzontale che ha lo scopo di collegare pilastri o colonne sottostanti e a scaricare il peso sulle strutture verticali sottostanti dette piedritti) all'ingresso del tempio. Lo scavo del tempio portò alla luce anche numerosi materiali scultorei, infatti davanti ad ognuna delle colonne del portico sono state ritrovate statue di divinità tra cui Venere, Mercurio, Diana cacciatrice e dello stesso Apollo. Della statua di culto collocata nella cella (parte interna del tempio che ospitava la statua della divinità a cui era dedicato) all'interno del tempio non si ha traccia, ma si rinvenne il simbolo delfico di Apollo, un blocco di tufo vulcanico a forma ovale che rappresentava la pietra sacra che Zeus aveva posto per indicare il centro del mondo.

Il Foro

Il viaggio nell'antica Pompei continua parlando del foro. Quando infatti nel secondo decennio del XIX secolo fu portato alla luce il foro di Pompei (fig.4), trovarono una piazza nel bel mezzo del restauro.

Fig. 4: il foro di Pompei

Quando l’eruzione del 79 d.C. ricoprì la città di Pompei, il foro e molti edifici pubblici e privati erano in stato di ricostruzione a causa di un violento sisma che aveva colpito l’intera Campania nel 62 d.C. Ma quel restauro non era stato il primo ad interessare il foro, infatti il foro primitivo presentava un mercato di dimensioni ridotte a cui si poteva accedere da tre strade principali; una a ovest che arrivava dal mare (oggi Via Marina), un’altra proveniente da nord (Via Consolare) e l’ultima proveniente da nord-est (Via di Nola-Fortuna). Accanto al mercato dal VI secolo a.C. furono costruite alcune botteghe e sul lato opposto fu eretto il tempio dedicato ad Apollo. Agli inizi del II secolo a.C., seguendo i modelli ellenici, la piazza del mercato fu ampliata e pavimentata con il tufo di Nocera, furono eretti il Capitolium e la basilica e qualche anno dopo fu circondata da un doppio portico con colonne doriche e ioniche. Durante gli ultimi anni di vita di Pompei, seguendo i costumi romani, alcune donne pompeiane di alto rango decisero di finanziare la costruzione di edifici sontuosi simili a quelli della capitale. Nella zona del foro oltre al mercato (macellum), al Capitolim e alla basilica avevano sede altri importanti edifici; un santuario dedicato ai lari pubblici, il santuario di Genius Augusti, l’edificio di Eumachia, il Comitium, gli edifici municipali e la mensa ponderaria (piano marmoreo che serviva alla verifica della precisione delle misure in uso nelle attività commerciali).

L'edificio di Eumachia

L’edificio fu costruito dalla sacerdotessa Eumachia per la corporazione dei tessitori, tintori e lavandai (fullones) che costituivano la più grande industria all'epoca a Pompei. Il complesso (fig.5) è molto ampio ed è costituito da una grande corte (spazio scoperto entro il perimetro dell’edificio che serviva a dare luce e spazio agli ambienti che vi si affacciavano) limitata da un porticato a due piani, dietro il porticato vi erano posti i magazzini per il deposito e l’esposizione delle merci prodotte.

Fig. 5: Di Lure - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16930481

La vendita veniva effettuata sotto i portici e nel piazzale scoperto, sul fondo del porticato, rimangono i resti di tre absidi, la più grande delle quali conteneva la statua di Livia moglie dell’imperatore Augusto, ai lati c’erano le statue di Tiberio e suo fratello Druso. Alle spalle dell’abside più grande i fullones avevano eretto la statua di Eumachia. Della ricca facciata verso il foro, oggi rimane solo una straordinaria decorazione in foglie d’acanto che ci mostra la maestria artistica che aveva raggiunto Pompei; ai lati del portale sorgevano due tribune molto probabilmente adibite per le vendite all'asta.

Il macellum

Il foro era chiuso nell'estremità settentrionale dal macellum (fig.6), un edificio monumentale adibito alla vendita di cibo, una sorta di odierno mercato.

Fig. 6: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19311769

Scavato tra il 1821 e il 1822, inizialmente fu scambiato per un pantheon a causa del ritrovamento di dodici basamenti di pietra nel cortile centrale e di resti di magnifiche decorazioni pittoriche del recinto. Successivamente, durante gli scavi furono ritrovati anfore e vasi di bronzo contenenti lische di pesce, e da questo particolare si comprese come quello spazio fosse adibito ai pescatori che vendevano la loro merce e che di conseguenza fosse un macellum. La struttura aveva al centro un vasto cortile con un porticato e si elevava in una specie di chiostro con tetto sorretto da dodici colonne e dai loro basamenti. La parte meridionale del cortile era composta da una serie di botteghe che vendevano vari prodotti, mentre sul lato occidentale si trovava l’ingresso principale al recinto, ai lati del quale si trovavano i negozi dei banchieri. Sul lato orientale c’erano tre spazi ampi; in quello centrale si trovava il sacellum (piccola area recintata e senza copertura con al centro un’ara), e nello spazio di destra c’era una macelleria decorata con pitture che raffigurano pezzi carne, pernici, una testa di maiale, un coltello e dei prosciutti. Lo spazio a sinistra era riservato molto probabilmente alla celebrazione dei banchetti sacri, dotato di un altare per offrire le libagioni. Il lato settentrionale del mercato era delimitato da un muro in cui erano presenti decorazioni pittoriche del quarto stile pompeiano, vi sono affreschi che raffigurano elementi architettonici in prospettiva e natura morta. Inoltre venne alla luce un piccolo scrigno contenete 1036 monete di bronzo e 41 d’argento, a cui si sommano altre 93 monete di bronzo trovate vicino alla porta di ingresso del mercato, con molta probabilità doveva essere l’incasso delle ultime settimane o dell’ultimo mese.

Il capitolium

Portato alla luce dagli archeologi nel 1816, il Capitolium (fig.7) era un tempio dedicato alla triade capitolina, ossia le tre divinità di Giove, Giunone e Minerva.

Fig. 7: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19312318

Durante gli scavi si notò che il tempio era sprovvisto di timpano (superficie triangolare racchiusa nella cornice del frontone) e tetto, probabilmente crollati a causa del sisma del 62 d.C.: proprio in questo luogo si ebbero molte vittime, cioè i soldati che erano di guardia al tempio e che furono schiacciati dall'improvviso crollo delle colonne del vestibolo (ambiente d’ingresso intermediario tra l’esterno e l’interno). Al tempio si accedeva attraverso una scalinata posta su due livelli; il primo era formato da due file di scalini che affiancavano una piattaforma su cui era posto l’altare. Alle estremità laterali troviamo due grandi plinti (qualsiasi struttura architettonica che abbia la funzione di basamento o di fondazione) che avevano la funzione di basamento per le due statue equestri, le quali non sono state ritrovate ma sappiamo per certo che fossero collocate in quel preciso punto grazie ad un rilievo marmoreo che Lucio Cecilio Giocondo aveva nella sua casa pompeiana. Dietro l’altare c’era un’ampia scalinata che conduceva al vestibolo e all'interno della cella in cui erano poste le tre statue di culto. Le offerte che venivano fatte dalla popolazione pompeiana erano custodite all'interno del podio sotto la cella, inoltre l’edificio del Capitolium era fiancheggiato da due archi di trionfo, uno per lato.

Il tempio della Fortuna Augusta

Il tempio della Fortuna Augusta (fig.8), non di grandi dimensioni come altri edifici presenti a Pompei, sorge all'estremità nord della via del Foro: l’edificio fu totalmente finanziato da Marco Tullio duumviro e nel 3 d.C. fu dedicato al culto dell’imperatore.

Fig. 8: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/08/Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG/1024px-Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG

Sulla parte inferiore della scalinata che conduceva al tempio si trovava un altare all’aperto, mentre la parte superiore della scalinata era protetta da un’inferriata. Dal basamento partivano quattro eleganti colonne di stile corinzio, un pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti) poco profondo conduceva alla cella, in cui ancora oggi si è conservata parte dell’edicola centrale (piccola costruzione a forma di tempietto che veniva eretta per ornamento e per la protezione delle statue) e quattro nicchie laterali, in una di esse si trovava la statua di Augusto, venerato come padre della Patria, mentre il sacrario (ambiente vicino al tempio destinato alla custodia della suppellettile sacra) era completamente rivestito di marmo. A destra del tempio trovavano spazio i negozi e il portico del Foro; i pilastri del portico erano caratterizzati da semi-colonne addossate, mentre nella parte sinistra del tempio c'è l’inizio della Via degli Augustali, piena di negozi e case a due piani. Infine vi era un arco all'incrocio delle due strade costruito con molta probabilità per sorreggere la statua dell’imperatore Caligola.

La Casa del Fauno

Il viaggio nell'antica Pompei continua con la descrizione delle domus più famose e sfarzose. Agli inizi del II secolo a.C. infatti Pompei raggiunse il massimo splendore dal punto di vista economico, infatti grazie all'espansione del commercio verso il Mediterraneo orientale la città si arricchì molto in breve tempo e si costruirono numerosi edifici lussuosi. La casa più grande e lussuosa costruita in quel periodo è quella che noi oggi chiamiamo “la Casa del Fauno” (fig.9).

Fig. 9: https://www.pompeionline.net/edifici/regione-vi/pompei-casa-del-fauno-vi-12-2

La novità principale che portò l’edilizia dell’epoca fu l’impluvium, ovvero un atrio aperto con una piccola vasca centrale collegata con delle cisterne sottostanti che raccoglievano l’acqua piovana. Alla tipica casa sannitica con cortile centrale chiuso, il tablinum (sala principale), diverse camere da letto intorno al patio e dietro un orto con stalle, vennero aggiunti altri ambienti tipicamente greci; il giardino porticato o peristilio, triclini o sale per banchetti, zone per accogliere gli ospiti, ambienti in cui riposare o esedre, biblioteche e bagni riscaldati da un braciere, il tutto riccamente decorato con pitture e mosaici. Quando nel 1832 la casa fu scoperta durante gli scavi, di tutte queste caratteristiche la casa del Fauno ne rivelò solo alcuni, e successivamente fu ulteriormente danneggiata a causa dei bombardamenti inglesi e canadesi tra agosto e settembre del 1943. La ricostruzione della casa iniziò nel 1945 rimettendo al loro posto i frammenti pittorici recuperati e, grazie alle accurate descrizioni del XIX secolo, si poté ricostruire l’immagine di quella che era la casa più ricca di Pompei. Il palazzo occupava un'area di tremila metri quadrati, l’ingresso principale dava accesso al vestibolo decorato con padiglioni a rilievo mentre il pavimento era decorato con un mosaico. La fontana centrale dell’atrio era a forma di un piccolo fauno danzante, i pavimenti della stanze erano decorati con mosaici prodotti da un laboratorio ad Alessandria d’Egitto e raffiguravano scene amorose e i cibi che venivano offerti nella casa. Dal tablinum si passava in due giardini, in uno dei quali fu ritrovato il famoso mosaico dell’ultima battaglia tra Alessandro Magno e Dario III di Persia.

La Villa dei Misteri

La villa dei Misteri (fig.10) non poteva mancare in questo viaggio nell'antica Pompei. Essa sorge sopra una collina e fu scoperta nel 1909: inizialmente fu concepita come una dimora signorile ma dopo la crisi dovuta al terremoto del 62 d.C. fu parzialmente trasformata in una villa rustica destinata alla produzione del vino.

Fig. 10: https://www.sorrentopost.com/riapre-villa-dei-misteri-pompei/

La villa infatti mantenne parte delle stanze lussuose ad uso del proprietario mentre altri ambienti furono adibiti per i servi e per un vilicus, ovvero il gestore dell’attività agricola. Il vilicus della villa era Lucio Istacidio Zosimo, un liberto che fu incaricato anche del restauro della villa dopo il terremoto. La struttura della villa dei Misteri, essendo una villa extraurbana, aveva caratteristiche differenti rispetto a quelle urbane, infatti superato il vestibolo non si trovava l’atrio bensì un grande peristilio. Dal peristilio si aveva accesso nella stanza dove erano riposti gli attrezzi da lavoro e alla zona delle cucine. Vi erano spazi adibiti anche alla produzione di vino e olio. Dal lato meridionale del peristilio si accedeva all'atrio tuscanico intorno al quale era disposte le dipendenze padronali: il tablinum, l’oecus (ossia un'ampia stanza da soggiorno o da ricevimento decorata con affreschi) con accesso ad un atrio secondario che serviva da anticamera di alcuni bagni provvisti di sauna. La sala più famosa e importante è sicuramente era il triclino in cui erano presenti i dipinti dei Misteri in cui si esaltava il dio del vino Dioniso.

Viaggio nell'antica Pompei. Le terme stabiane

Costruite nel IV secolo a.C., le terme stabiane (fig.11) sono il più antico e più grande complesso termale presente a Pompei.

Fig. 11: https://www.romanoimpero.com/2018/09/terme-stabiane-pompei.html

Nel II secolo a.C., con i cambiamenti apportati nel tessuto urbano, anche le terme stabiane furono modernizzate assumendo il loro aspetto definitivo. Dopo l’80 a.C. furono istituite cariche politiche intente a sistemare la palestra, alla costruzione di alcuni porticati, alla creazione di una sauna riscaldata con i bracieri e di un destrictarium (il luogo in cui si eliminava l’olio dal corpo). Dopo il sisma del 62 d.C. i muri della palestra furono decorati con stucco policromo a rilievo con scene di atleti, lottatori e scene tipiche termali. In quel periodo inoltre fu costruita anche una piscina di acqua fredda e si unì il destrictarium alla sala dell’acqua calda. Le zone maschili e femminili erano separate in zone non comunicanti, gli spazi femminili non davano accesso alla palestra e, inoltre, gli ambienti erano decorati in maniera molto semplice a differenza di quello maschili che avevano ricchi e pregiati affreschi.

Il Lupanare

Nel viaggio nell'antica Pompei non poteva mancare la descrizione di uno dei luoghi più frequentati a Pompei, il lupanare (o bordello). L’edificio era composto da dieci stanze collocate su due piani, i letti erano attaccati alla parete ed erano fatti di pietra e i materassi erano imbottiti di paglia. Nella parte superiore delle porte erano presenti dipinti di scene erotiche che fungevano da catalogo per i clienti, mentre al piano superiore c’erano dei balconi da dove le prostitute richiamavano l’attenzione di potenziali clienti. La prostituzione era diffusa, sia quella maschile sia quella femminile, e non veniva praticata solo all'interno dei bordelli bensì anche nelle strade o in camere in affitto di taverne. In molte case di Pompei possiamo trovare rappresentazioni di falli o l’immagine di Priapo, dio del corteo di Dioniso, che pesa il suo membro sulla bilancia; questo tipo di raffigurazioni era un simbolo di abbondanza, prosperità e fertilità non solo per gli uomini ma anche per i campi.

Il tempio di Iside

Ritrovato tra il 1764 e il 1766, il tempio di Iside fu l’unico ad essere totalmente restaurato dopo il sisma del 62 d.C. e prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (fig. 12)

Fig. 12: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18184986

Le decorazioni erano particolarmente sfarzose, vi erano cinque grandi pannelli di cui tre rappresentavano scene egizie mentre gli altri due riproducevano storie del mito di Io. All'ingresso dell’ecclesiasterium (luogo di incontro per l’assemblea popolare) furono ritrovati resti di un acrolito (un tipo di statua in cui parte era fatta in pietra o marmo (soprattutto testa, braccia, mani o piedi) e la restante parte era realizzata con materiali deperibili -legno) femminile della dea Iside seduta in trono. Nell'angolo sud orientale del recinto si trovava il sacellum dedicato a cerimonie di purificazione e un purgatorium (locale destinato alla purificazione con una vasca contenente l’acqua del Nilo). All'interno della cella del tempio furono ritrovati due bauli in legno che contenevano una coppa in oro, un vasetto di vetro, una statuetta, due candelabri di bronzo e due teschi umani.

Viaggio nell'antica Pompei. Il teatro grande

Il teatro principale di Pompei (fig.13), di ispirazione greca, fu costruito intorno al III secolo a. C. su un pendio naturale accanto ad una delle aree più sacre e antiche della città, e venne ampliato durante il periodo augusteo così che il teatro potesse contenere più di 5000 persone.

Fig. 13: Di Sylvhem - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15107307

La particolarità della struttura era che, nonostante fosse di stampo ellenico, presentava l’orchestra a forma circolare, ovvero tipica del modello romano. Dopo il rinnovamento della struttura, le opere drammatiche classiche vennero raramente riprodotte, si offriva al pubblico invece opere di argomento più leggero come mimi, pantomime e atellane, opere in cui si cercava l’intrattenimento della platea con scene grottesche e cruenti accompagnate da effetti scenici. L’edificio, oltre ad essere utilizzato come un teatro, veniva usato anche per radunare la popolazione al fine di mostrare i valori della famiglia imperiale e incentivare la partecipazione alla vita politica.

Porta Ercolano

Il viaggio nell'antica Pompei termina con una delle più importanti e trafficate porte a Pompei, la Porta Ercolano, che conduceva da Pompei ad Ercolano ma anche alle vicine saline di Pompei. Fu totalmente ricostruita durante il periodo augusteo, infatti accanto alla porta possiamo ancora oggi vedere i resti dell’antica cinta muraria della città. Il fornice centrale era riservato per il passaggio dei carri mentre i due laterali erano riservati ai pedoni. Nei pressi della porta si trovavano numerosi punti di ristoro, dove i viaggiatori potevano riposarsi prima di raggiungere il foro. Da queste strutture possiamo certamente dedurre come lungo la via dovesse esserci un traffico molto intenso di carri e animali da soma. (fig. 14)

Fig. 14: https://www.planetpompeii.com/it/map/porta-ercolano.html

In questo viaggio nell'antica Pompei si è cercato di dare un'immagine della città, ma tanto ancora c'è da raccontare.

SITOGRAFIA:

  • www.capitolium.it
  • www.ecampania.it
  • www.hippostcard.com
  • ilmattino.it
  • madeinpompei.it
  • pompeiinpictures.it
  • planetpompei.net
  • prolocopompei.net
  • romanoimpero.com
  • scavidipompei.net
  • viaggi.globalpix.net

BIBLIOGRAFIA:

  • VV, LE GRANDI AVVENTURE DELL’ARCHEOLOGIA, Volume 11, Roma, 1980
  • VV, NATIONAL GEOGRAPHIC Archeologia, POMPEI, Segrate (MI), 2018
  • ANGELA, VIAGGIO NELLA STORIA, Pompei lo scrigno del tempo, Pioltello (MI), 2015
  • CARPICECI, POMPEI oggi e com’era 2000 anni fa, Sesto Fiorentino (FI), 2009

STORIA DEGLI STUDI SU POMPEI

A cura di Marco Roversi

Le principali tappe della storia degli studi di uno dei parchi archeologici più affascinanti d’Italia

“Come potranno i posteri credere, quando le messi rispunteranno e questi deserti di nuovo rinverdiranno, che sotto i loro piedi sono sepolte città e popoli, e che i loro antenati sono scomparsi sotto un mare di fuoco?”

Correva l’anno 94 d.C. e così scriveva Publio Plinio Stazio, poeta di Età Flavia, a soli tre lustri dalla terribile eruzione del Vesuvio che nel 79 sconvolse la Piana Campana e sottrasse alla vista dei pochi sopravvissuti le due ricche città di Pompei ed Ercolano. Ove prima si estendevano campi verdi e rigogliosi, lussureggianti e ricchi vigneti e le città pullulavano e riecheggiavano di vita, dopo quella catastrofe ci si sarebbe trovati innanzi ad un paesaggio spettrale, vuoto, quasi lunare, privo di vita e avvolto da un importuno silenzio. E ciò che accadde in quel triste giorno di agosto non venne mai dimenticato, al punto che il ricordo delle due città vesuviane non scomparve mai, tramandato nel lento scorrere dei secoli sino all'Età Moderna, allorquando, con i primi scavi archeologici nell'area, la città di Pompei e le sue antiche vestigia tornarono a rivivere e a risorgere dalle loro ceneri innanzi agli occhi dei primi moderni esploratori e amanti delle passate antichità.

Fig. 1 - Mappa degli scavi del 1832.

La ferita causata dalla totale scomparsa della città e dalla morte di migliaia di persone rimase fresca a lungo già in antico, fatto che portò ad alcuni primissimi tentativi di riportare in luce i centri sepolti dalle ceneri chiroplastiche del Vesuvio. Il più antico intervento di scavo che interessò l’area dell’antica Pompei risale, infatti, al regno di Alessandro Severo, imperatore appartenente alla Dinastia dei Severi e in carica tra il 222 e il 235 d.C. Tuttavia, tale intervento di recupero non ebbe buon esito a causa dell’elevato e profondo spessore delle coltri di cenere e dei lapilli e dalla vegetazione sempre più fitta e rigogliosa. Nonostante ciò quella di Pompei fu, già per gli antichi, una tragedia da non dimenticare, destinata a riecheggiare nei secoli una volta affidata ai versi e alle nobili parole di oratori, scrittori e poeti. Ed il suo mito mai si fermò, pur affievolendosi nel corso della millenaria Età Medievale.

Le prime fortuite scoperte: Domenico Fontana

Fu così che all'alba del ‘500 il nome di Pompei tornò nuovamente ad affascinare le menti di letterati ed artisti, primo tra i quali il poeta napoletano Jacopo Sannazzaro (1458-1530), il quale ridestò la curiosità di molti suoi contemporanei immaginando nella sua Arcadia la riscoperta dell’antica città vesuviana, della quale si era oramai persa del tutto l’esatta locazione topografica. Il Sannazzaro la collocava idealmente nei pressi della località di Civita, nell'area di Torre Annunziata. Da quel momento in poi molti furono i tentativi di riportare in superficie ciò che rimaneva di quel lontano passato, ma furono tutti tentativi inutili e vanificati da erronee, grossolane e frettolose conclusioni. Le prime autentiche scoperte si verificarono, invece, per paradosso, in modo del tutto casuale. Nel 1592 l’architetto svizzero Domenico Fontana (1543-1607), in occasione di alcuni lavori di canalizzazione delle acque del fiume Sarno, presso Torre Annunziata, si imbattè, dopo aver divelto e tagliato le mura di alcuni edifici in situ, in un’iscrizione latina recante una dedica alla Venus Phisica Pompeiana. Dai terreni cinerei di Pompei cominciarono ad affiorare anche altri tesori, quali monete d’oro, lapidi ed altre iscrizioni su muri tinteggiati di un vivido color rosso accesso, a loro volta accompagnati dalle ricche pavimentazioni in lastre marmoree e a mosaico. Informato di queste sensazionali scoperte, fu lo stesso Fontana, per primo, a calarsi in un pozzo e a passeggiare, primo uomo dopo quasi un millennio e mezzo, tra le strade morte di un quartiere di Pompei, con visioni straordinarie che solo lui potè godere. Quasi un secolo più tardi, nel 1689, un contadino del posto, intento nello scavo di un pozzo alle falde del Vesuvio, fu anch'egli scopritore di altre antichità pompeiane, specie di numerose epigrafi, tra le quali una menzionava esplicitamente il nome di “Pompeii”, seppure erroneamente ascritto ad una del tutto immaginifica villa di un tal “Pompeus” di cui si era architettonicamente persa ogni traccia.

Fig. 2 - Veduta dell’Anfiteatro in una stampa del 1823-1824.

Gli scavi di Alcubierre e Francisco De La Vega

La storia degli studi su Pompei prese una svolta fondamentale nemmeno 50 anni dopo quando, nel 1748, l’ingegnere Gioacchino Alcubierre (1702-1780), già scopritore nel 1735 della vicina Ercolano, ottenne da re Carlo III di Borbone l’autorizzazione allo scavo nell'area nei pressi di Civita, dopo che gli scavi di Ercolano erano giunti ad una temporanea fase di stasi. L’Alcubierre si interessò subito all'area di scavo, fermamente convinto che si trattasse del sito dell’antica Stabiae, ma ben presto venne smentito dai suoi stessi rinvenimenti, il più sensazionale dei quali lo portò ad ammirare i resti di un antico edificio di spettacolo, da lui subito ribattezzato “Teatro Stabiano”, pur ignorando che quello che aveva scoperto e portato alla luce dopo migliaia di anni era in realtà il monumentale Anfiteatro di Pompei. Al di là della grande eco generatasi dopo queste prime grandi scoperte, quelli dell’Alcubierre furono scavi tutt'altro che sistematici, in quanto il vero intento delle ricerche era quello di trovare antichità ed oggetti preziosi che potessero arricchire e affollare le vetrine del Museo di Portici. Successivamente gli scavi vennero sospesi, in seguito alla scoperta ad Ercolano della ben nota Villa dei Papiri. Ripresero nel 1754, e nemmeno un anno dopo fu scoperta la Villa di Giulia Felice, un treppiede sorretto da satiri in bronzo, e nel 1763 fu portata in luce la Porta Ercolano ed una nuova epigrafe.

Fig. 3 - La scoperta di Via dell’Abbondanza.

Nel 1780 l’ingegnere Francisco de la Vega sostituì l’Alcubierre nell'esplorazione di Pompei, e per primo ne migliorò la pianificazione dei lavori e delle fasi di scavo, nonché le tecniche di conservazione di ciò che era già stato precedentemente portato alla luce. Con l’arrivo delle truppe francesi e l’insediarsi di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, le operazioni di scavo non si fermarono, ma continuarono con eccezionali risultati, specie nell'area del Foro Civile, portato alla luce tra il 1806 e il 1815 attraverso il prolungamento degli scavi aperti in precedenza: vennero, infatti, alla luce la “Basilica”, l’area del Foro, il tratto di strada tra la Villa di Diomede e la Casa di Sallustio e le case dette del Poeta e del Fauno.

La storia degli studi su Pompei e il Grand Tour

Con il ritorno del dominio borbonico i nuovi scavi portarono in superficie ciò che rimaneva del monumentale Tempio della Fortuna e delle Terme del Foro e fu in quegli anni che Pompei diventò una sorta di “museo a cielo aperto”, attirando a sé moltissimi visitatori. Sino alla metà del XIX secolo, infatti, il viaggio sino a Ercolano, Stabia e Pompei era quasi un’avventura epica, sentita con grande entusiasmo da curiosi e visitatori provenienti da tutta Europa. Il viaggio a Pompei offriva diverse attrattive ai numerosi viaggiatori europei che percorrevano l’Italia intera, da nord a sud, nel loro Grand Tour, un percorso turistico educativo che li portava a visitare siti e città di assoluta e straordinaria importanza storica, culturale, ma anche naturale e paesaggistica. E Pompei rispondeva alla perfezione a tali esigenze: da un lato mostrava le rovine di un’antichissima città romana sospesa nel tempo a causa di una catastrofe naturale, emozionante per l’animo romantico dei visitatori, che meditavano sulla fragilità della vita e sui capricci del fato; dall'altro, la vicinanza dell’imponente Vesuvio, allora fumante, permetteva di addentrarsi nei misteri della vulcanologia. Ma a recarsi a Pompei non erano solo i rampolli delle ricche famiglie aristocratiche di tutta Europa, ma anche le personalità del mondo accademico o politico del tempo, visite preparate con cura affinché risultassero particolarmente spettacolari e sorprendenti. A tal scopo si preparavano persino delle scoperte archeologiche, che dovevano sembrare fortuite agli occhi di chi le ammirava estasiato, e si disseppellivano, così, come per caso, scheletri di vittime dell’eruzione per sorprendere, ma anche commuovere, gli astanti. Il fascino che Pompei emanava era talmente unico e straordinario che frequenti furono le richieste per visitare le rovine al chiaro di luna o addirittura per fare dei pic-nic tra le sue immortali vestigia. Tra i moltissimi visitatori che rimasero profondamente colpiti da Pompei e dalla sua bellezza ci fu anche il poeta tedesco J.W.Goethe (1749-1832), che la visitò già nel 1816, e che con molto cinismo nel suo Viaggio in Italia così scrisse: “Di tutte la catastrofi che si sono abbattute sul mondo, nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni future. Credo che sia difficile vedere qualcosa di più interessante”.

Fig. 4 - Vecchia fotografia ritraente la Via Stabiana.

Dal Regno d'Italia ad Amedeo Maiuri

Con la nascita del giovane Regno d’Italia la direzione degli scavi venne affidata, nel 1863, all'archeologo napoletano Giuseppe Fiorilli (1823-1896), il quale per primo introdusse delle innovazioni fondamentali nelle operazioni di scavo e nell'organizzazione del sito, stabilendo, infatti, un sistema di numerazione delle strade e delle case. Fu così il primo a dividere la città in regiones, ossia in quartieri, e in insulae, ossia in agglomerati di abitazioni. Inoltre introdusse un’altra eccezionale innovazione: facendo colare del gesso nei vuoti del terreno lasciati dai corpi consunti delle vittime, ottenne dei calchi in modo tale che le impronte dei corpi potessero così essere conservate nel tempo. I lavori del Fiorilli terminarono nel 1875, e a lui seguirono Michele Ruggiero e poi Giulio de Petrai, scavatori di alcuni sepolcreti nelle vicinanze della Casa dei Vettii, e ancora Antonio Sogliano e Vittorio Spinazzola, i quali perfezionarono le tecniche di recupero e di conservazione degli edifici portati in luce.

Nel 1924 la guida agli scavi del sito passò nelle mani di Amedeo Maiuri (1908-1955), il quale venne nominato direttore durante il governo fascista. Fu lui ad inaugurare lo scavo stratigrafico a Pompei, puntando ad individuare soprattutto le fasi più antiche dell’abitato, arrivando anche a restituire nella sua completezza il circuito murario della città e rinvenendo sul versante meridionale di Porta Nocera la più estesa area di necropoli oggi nota a Pompei. Sotto la sua direzione fu avviata una nuova, assai fitta e costante attività di scavo, volta a meglio esplorare i confini del sito e dell’area di scavo sino ad allora nota, connettendola così agli scavi già effettuati, a sgomberare la terra di riporto accumulata in molti punti e che ostruiva la visione del sito, ma anche a creare attrezzature per la fruibilità dell’area, come l’Antiquarium, le biglietterie, i giardini e gli impianti di illuminazione. Grande attenzione fu da lui riposta anche alla conservazione e al restauro delle strutture, prefissandosi, assieme all'allora soprintendente Alfonso de Franciscis, di conservare pressoché intatte quante più strutture possibili, sia nelle loro composizioni architettoniche, sia nelle loro ricche decorazioni parietali, ritenendo più urgente l’arresto del degrado (causato anche dai molti bombardamenti alleati che negli ultimi momenti della Seconda Guerra Mondiale  portarono alla distruzione di molte case e altre strutture). Alla fine dei suoi lavori, nel 1945, solo un terzo della città rimaneva non scavato.

Fig. 5 - L’archeologo e Direttore degli scavi Amedeo Maiuri.

Gli scavi scientificamente condotti continuarono sino ai giorni nostri, e continuano ancora oggi sotto la direzione di Massimo Osanna, professore ordinario di Archeologia Classica presso l’Università Federico II di Napoli. Negli ultimi 40 anni le novità in sito sono state molte, soprattutto in materia istituzionale, a partire dalla nascita della Soprintendenza Archeologica di Pompei decretata nel 1981 operando il distacco territoriale dei comuni vesuviani dal resto della provincia di Napoli e dal Museo Archeologico Nazionale, il quale, per volontà dei Borbone, era stato destinato ad accogliere, oltre alla collezione Farnese, anche le antichità provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Solo 16 anni più tardi un altro passo ulteriore: per preservarne l’integrità, nel 1997, le rovine, gestite dalla Soprintendenza di Pompei, insieme ai siti di Ercolano ed Oplonti, sono entrate a far parte della lista mondiale dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Recentemente, nel 2016, la Soprintendenza prende la nuova denominazione di Soprintendenza di Pompei, mentre l’anno successivo il DM 12 gennaio 2017 attribuisce alla Soprintendenza la nuova denominazione di Parco Archeologico di Pompei, a seguito dell’adeguamento agli standard internazionali in materia di istituiti e luoghi della cultura. Contestualmente anche il vicino sito di Ercolano fuoriesce dalla competenza di Pompei e diviene Parco Archeologico di Ercolano.

 

Bibliografia

- “Pompei” in Collana ARCHEOLOGIA National Geographic, testi a cura di Elena Castillo, traduzioni di Enrica Zaira Merlo, pubblicazione periodica quattordicinale, Editore RBA Italia s.r.l., Milano 7 marzo 2017.

- “Prima del Fuoco, Pompei storie di ogni giorno”, Mary Beard, traduzione di Tommaso Casini, Editore Laterza nelle “Economica Laterza”, Bari, luglio 2012.

 

Sitografia

- www.Pompei.it

- www.Pompeiisites.it

- www.Vesuviolive.it

- www.Treccani.it

- www.Pompeiitaly.org


LE 25 ORE DI POMPEI: STORIE DI UN’ERUZIONE

A cura di Dennis Zammarchi

Introduzione

Sulla città romana di Pompei e sull’eruzione del Vesuvio (avvenuta durante il regno di Tito nel 79 d.C.) che ne ha causato la distruzione prima e il seppellimento poi sono stati versati nel corso dei secoli fiumi d’inchiostro.

Si può ormai consciamente dire che le vicende riguardanti la celeberrima città romana siano entrate a far parte della cultura mondiale grazie ai risultati di decenni di studi storici e archeologici e alla conseguente divulgazione al pubblico.

Fig. 1 - Pompei, Parco Archeologico (da napolidavivere.it).

Si è arrivati persino ad avvolgere gli avvenimenti con un alone di mistero e leggenda utili a renderli gradevoli e accattivanti per delle trasposizioni realizzate attraverso media come la tv ed il cinema, non sempre rispettando la veridicità storica dei fatti, in nome della spendibilità del prodotto.

Nel corso degli anni ne sono state tratte decine di trasposizioni bibliografiche, da romanzi storici fedeli alla realtà, per esempio “I tre giorni di Pompei” di Alberto Angela, a fumetti per grandi e piccini, sia di stampo occidentale che dal più tipico stile orientale (i manga giapponesi, che frequentemente prendono come spunto eventi storici avvenuti nel Bel Paese).

Come detto in precedenza, sono state realizzate anche moltissime trasposizioni cinematografiche e televisive: considerando solo le opere del XXI secolo, si possono citare la recente pellicola “Pompei” diretta nel 2014 da Paul W.S. Anderson, con protagonista Kit Harington (il Jon Snow del Trono di Spade) e la miniserie tutta italiana del 2007 chiamata “Pompei”.

Tuttavia, se il nostro scopo fosse quello di far luce sui motivi che attraggono ogni anno più di due milioni di visitatori da tutto il mondo a Pompei dovremmo partire dal principio.

La particolarità di questo sito archeologico, uno tra i più grandi del mondo e tra i meglio conservati, è quella di restituire un momento di una vita passata svoltasi durante l’Impero Romano sorretto dalla famiglia Flavia. Mutuando dall'antropologia culturale il termine potremmo parlare di “cristallizzazione”.

Questo è dovuto al fatto che oltre all'architettura della città, con i suoi monumenti e le sue numerose e splendide ville arredate, piene di splendidi affreschi (da cui prende il nome la celebre pittura pompeiana) e mosaici, ciò che differenzia Pompei dagli altri siti archeologici è la possibilità (parziale e influenzata dallo stato di conservazione del sito e dall'avanzamento degli scavi nei secoli) di rivedere lo stile di vita dei suoi abitanti, ma soprattutto è possibile “osservare” i cittadini pompeiani nei loro ultimi attimi di vita, talvolta distinguendone persino l’espressione.

Fig. 3 - Pianta degli scavi archeologici di Pompei, con indicati i principali punti di riferimento e la suddivisione della città nelle Regio (Pin di Silvia de Anna, da Pinterest).

Nella città i turisti possono vedere ancora le loro attività in corso per mezzo dei pochi arnesi e utensili sopravvissuti, i luoghi frequentati per piacere e per diletto come l’anfiteatro e il lupanare, ma ciò che affascina di più sono gli stessi abitanti.

Cittadini e forestieri che non sono riusciti ad evitare di essere coinvolti in questo disastro di proporzioni immani avvenuto il 79 d.C. che ha causato migliaia di vittime nell'area vesuviana.

Oggi chiamati comunemente fuggiaschi, queste bianche sagome, quasi eteree, non sono altro che i calchi delle vittime, realizzati nel corso dei decenni per mezzo di tecniche sempre più avanzate. Semplificando, si può dire che essi sono ottenuti riempiendo con il gesso i vuoti lasciati dai corpi nel deposito vulcanico.

Nel corso dei decenni e degli studi è stato sfatato “il mito” in cui Pompei viene descritta come la fotografia fedele di un momento di quotidianità sconvolta da un disastro naturale.

Questo è stato visto grazie agli scavi, ma anche per mezzo delle importantissime lettere, scritte a scopo letterario (Epist. VI,16) e dirette all'imperatore Traiano, che Plinio il Giovane (governatore in Bitinia, un’antica provincia romana situata in Asia Minore) avrebbe scritto come testimone oculare dell’eruzione del Vesuvio. All'interno di questa corrispondenza è riportata anche la morte dello zio di Plinio il Giovane, Plinio il Vecchio, che come comandante della flotta imperiale di Miseno, tentò di portare soccorso ai pompeiani e che forse proprio a causa della sua passione per la scienza e la natura (di Plinio il Vecchio è celebre la De Naturalis Historia, una sorta di enciclopedia del sapere) si attardò nell'osservazione dell’evento e perciò perse la vita.

Dalle lettere sappiamo che il vulcano lanciò delle avvisaglie prima di eruttare per più giorni, che permisero a molte persone di raccogliere i propri beni personali e di fuggire dalla città.

Inoltre, già prima dell’eruzione di Pompei molte strutture erano pericolanti; numerose case ed edifici pubblici erano infatti in attesa di opere di ristrutturazione, resesi necessarie per sanare i danni causati da terremoti precedenti, il principale dei quali, sembra essere secondo le fonti quello del 62 d.C.

Ciò fece sì che molte delle abitazioni al tempo dell’eruzione non potevano essere abitate, almeno come non lo erano usualmente in quella regione della penisola.

Fig. 4 - Una delle numerosissime reinterpretazioni del momento dell’eruzione del Vesuvio (da madeinpompei.it).

Le numerose tracce di attività di cantiere e materiale da lavoro rinvenute negli scavi, oltre che la presenza di contenitori per provviste e suppellettili di uso domestico, rinvenuti in alcuni spazi che solitamente avevano una funzione abitativa o da sala di ricevimento chiariscono in che modo si cercò di trovare una soluzione ai problemi.

Inoltre Pompei, con i grandi edifici al tempo riconoscibili anche sotto gli strati di cenere, venne depredata, nel corso del tempo, da saccheggiatori pratici del posto, che andarono alla ricerca di oggetti di valore soprattutto all'interno delle case dei più abbienti.

Fig. 5 - La battaglia di Isso, a sinistra è visibile Alessandro Magno, mentre a destra si vede Dario III di Persia. Il mosaico ora esposto al Museo Archeologico di Napoli è stato trovato nel 1813 all'interno della Casa del Fauno.

In aggiunta, ulteriore elemento inficiante la quantità e qualità delle informazioni provenienti dagli scavi è il fatto che al momento dello sterro ottocentesco il materiale scavato è stato distribuito in aree adiacenti esplorate solo in un momento successivo.

Al tempo in più non si annotava né l’esatta posizione, né la quota del ritrovamento, ma l’obbiettivo era solo il mero recupero dell’oggetto intatto, soprattutto se di valore.

Una breve storia della città

Dal percorso irregolare delle mura cittadine ora visibili è evidenziata la volontà di adattarsi alle condizioni geografiche del luogo. Il passaggio da un terreno leggermente in salita verso nord in direzione del Vesuvio ad uno che dolcemente degrada verso est, avviene senza particolari interruzioni. Il percorso spigoloso del muro ad ovest segue invece il brusco declivio di un plateau di lava su cui la città era stata fondata verso la fine del VII secolo a.C.

Anche se è difficoltoso ricostruire l’andamento della costa antica e si rilevano certe differenze nelle ipotesi degli studiosi, attualmente è quasi certo che in epoca romana la città si trovasse molto più vicina al mare rispetto ad oggi.

La foce del Sarno, navigabile, sembra trovare nelle lagune prospicienti una difesa naturale e per questo un ottimo punto di attracco per le navi. Questa caratteristica fa di Pompei un luogo molto interessante per lo scambio di merci, tra cui il sale che proveniva dalle non lontane saline.

Scavi molto recenti evidenziano come gli insediamenti sorti agli inizi del I millennio a.C. siano stati spostati, verso la fine del VII secolo a.C., nelle vicinanze della foce del fiume.

Fig. 7 - La città di Pompei vista dall’alto in una cartolina (da romanoimpero.com).

Stando a quanto emerso dagli scavi archeologici il settore nord della città sembrerebbe essere stato tracciato e in parte edificato già nel VI secolo a.C., mentre l’ampliamento verso est sembra essere avvenuto solo durante il IV secolo a.C.

Nell'arco di alcune generazioni il primo insediamento sembra essere quindi cresciuto molto rapidamente e questo portò alla realizzazione di un primo muro di difesa, seppure di moderate dimensioni.

Ben presto però, forse già nel V secolo a.C. al modesto muro si sostituirà una prima fortificazione di dimensioni maggiori. Non è ancora noto se questa decisione fu presa per difendersi da un’effettiva minaccia da parte degli abitati vicini o delle tribù dell’entroterra.

Il V e il IV secolo a.C. restituiscono grazie alle evidenze archeologiche l’immagine di un periodo buio per la città; questi secoli corrispondono, infatti, con la fase del dominio sannitico, durante il quale non vennero create nuove opere urbanistiche, ma corrispose ad una fase di stagnazione.

Questa situazione cambiò solo con l’arrivo dei romani che nel corso delle guerre latine dal 343 a.C. espansero la loro sfera di influenza verso sud, oltre i confini del Lazio.

Grazie all'opera dello storico romano Livio (59 a.C.-17 d.C.) sappiamo che un distaccamento romano approdò alle foci del Sannio attorno al 310 a.C.

Solo nel III secolo la città assunse l’assetto urbanistico che determinò l’approvvigionamento e il traffico della successiva età imperiale, contraddistinta dalle sue 7 porte e dalla suddivisione nelle Regio.

L’eruzione

L’eruzione che coinvolse le città vesuviane è storicamente datata al 24 agosto del 79 d.C., ma oggigiorno questa datazione è messa in dubbio sia dalla documentazione letteraria che dai ritrovamenti archeologici.

Plinio il Giovane scrisse che suo zio, Plinio il Vecchio, morì nei pressi di Stabia (una delle coinvolte dal disastro, vicina a Pompei) durante l’eruzione arrivando dal porto di Miseno (essendo ammiraglio di una delle maggiori flotte dell’Impero) per andare in soccorso alla popolazione ed a un amico.

Dalle lettere si evince che l’eruzione fu “Nonum Kal. Sept.”, ossia nove giorni prima delle calende di settembre, il primo giorno del mese per il calendario romano.

Oltre a questo, sono stati trovati numerosi dolii, dei grandi vasi per contenere le derrate, pieni di mosto, quindi in un periodo in cui la vendemmia era quasi finita.

Inoltre, fondamentale testimonianza fu il rinvenimento di una moneta, coniata successivamente al 24 agosto per gli studiosi: un aureo con al diritto il volto di Tito e come legenda riporta la XV acclamazione imperatoria.

Fig. 8 - Aureo di Tito, che supporta l’ipotesi dell’eruzione in autunno.

Tra le altre testimonianze che mettono in dubbio l’eruzione in agosto vi è la presenza di alcuni bracieri utilizzati al momento del disastro, il loro uso agli studiosi appare quantomeno inusuale durante un mese estivo.

Fig. 9 - La zona colpita dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (da vanillamagazine.it).

La città di Pompei, si trova nelle vicinanze di Napoli, a sud-est del cono del Vesuvio, non direttamente sul mare al tempo dell’eruzione, a differenza di Ercolano a soli 7 km dal cono del Vesuvio.

L’eruzione dura circa 25 ore, ma ad un certo punto si interrompe permettendo ai fuggitivi di ritornare in città. Pompei, Stabia, Ercolano e Oplonti sono le più colpite dall'eruzione; dal Vesuvio sono eruttati circa 1000000 di metri cubi di materiale.

Solitamente alle eruzioni vulcaniche, così come vediamo spesso nelle trasposizioni cinematografiche di questi disastri, sono associate le colate laviche, l’evento più semplice, ma soprattutto scenografico; ma sia nel caso di Pompei che Ercolano non si ha a che fare con della lava.

Fig. 10 - Schema di un’eruzione vulcanica (da lidentitadiclio.com).

In realtà ciò che ha colpito la famosissima città romana sono dei tephra, ossia dei depositi di caduta lanciati in aria assieme alla colonna eruttiva anche a velocità supersonica fino a raggiungere quote elevatissime (come 30 km nei casi dell’eruzione del Vesuvio) per poi ricadere sotto forma di detriti di caduta, giungendo anche a distanze notevoli dalla colonna eruttiva per mezzo dei venti prevalenti.

Altri fenomeni, ben più distruttivi, che coinvolsero l’area vesuviana dopo l’eruzione sono stati i flussi piroclastici, dei flussi di materiale eruttato dal vulcano che ad un certo punto dopo essere stato lanciato in aria dalla colonna eruttiva ricade (poiché la spinta dei gas diminuisce) fino a formare delle enormi nubi di materiale incandescente comprendenti ceneri e materiali con dimensioni maggiore, come i lapilli, che durante la loro corsa distruggeranno tutto ciò che incontrano. Questi flussi possono spostarsi a velocità notevoli, tra i 20 m/s e i 100 m/s.

Il fenomeno peggiore però, ed il più pericoloso, sono sicuramente i “base surge” legati all’attività esplosiva e non al collasso della colonna; essi sono letali perché si tratti di gas ad altissima temperatura (tra 200 e 700 gradi Celsius) e rocce che possono provocare la combustione di moltissimi materiali, tra cui il legno, la vegetazione e i vestiti delle persone.

Questi gas incandescenti sono composti da materiali di dimensioni minime, che creano depositi spessi solamente qualche cm per ogni loro ondata.

Tutto si è svolse in due giornate, tenendo per buona la datazione classica, tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C.

Le fasi iniziali furono caratterizzate dalla formazione della colonna eruttiva alta fino a 30 km, con la caduta del materiale che colpì direttamente la città di Pompei risparmiando però Ercolano che si trovava sottovento durante l’eruzione.

Successivamente l’energia della colonna diminuì portando a creare i primi flussi piroclastici che iniziarono la loro corsa distruttiva.

Poi, dopo aver eruttato molti metri cubi di materiale la pressione nella camera magmatica diminuì facendo entrare in questo modo l’acqua all'interno, questo evento portò all'inizio dell’attività esplosiva e alla conseguente formazione dei base surge che uccideranno la maggior parte delle persone coinvolte nel disastro.

Queste tre tipologie di fenomeni (materiali di caduta dalla nube, flussi piroclastici e base surge) sono distinguibili tra loro nei depositi archeologici per mezzo della differente granulometria dei materiali che li compongono. Questa caratteristica è fondamentale perché permette di ricostruire le diverse fasi dell’eruzione e di evidenziare come le città siano state colpite in modo differente.

Ad esempio, a Pompei sono caduti circa 2,5 m di lapilli, mentre Ercolano trovandosi sottovento non ne è quasi stata colpita.

Differentemente, al momento del collasso della nube con la conseguente partenza prima dei gas e poi dei flussi piroclastici è stata Ercolano la prima ad essere colpita e di conseguenza gli abitanti della città sono stati i primi a morire.

I fuggiaschi

I defunti di Pompei, come abbiamo detto in precedenza vengono chiamati, dalla letteratura di settore e dagli specialisti, fuggiaschi; essi sono allo stesso tempo probabilmente “l’attrazione” più famosa e sconvolgente del sito archeologico, un aspetto tanto inquietante quanto surreale che riporta ad un momento immutabile del passato e che, forse, permette di riuscire a comprendere, almeno in parte, cos’hanno provato i cittadini di Pompei al momento del disastro.

In questo aspetto così triste e affascinante allo stesso tempo ci viene incontro la ricerca scientifica che ha visto come a Pompei vi risiedessero all'incirca dodicimila abitanti; data la dimensione del sito, alcune zone non sono ancora state scavate e sono state fatte quindi delle ipotesi statistiche grazie ai dati finora ottenuti.

Sono stati trovati i resti di circa 1047 persone, e per 103 di esse stati ottenuti i calchi (dati aggiornati al 2018).

Fig. 11 - I fuggiaschi, alcune immagini di calchi e scheletri rinvenute a Pompei e Oplontis (da Plos One, G. Mastrolorenzo et al., p. 7).

L’ottenimento dei famosi calchi dei fuggiaschi è stato possibile grazie ai depositi dei base surge (quelli derivati dai gas incandescenti ad altissima velocità) e dei flussi piroclastici che si sono induriti e cementati dopo aver colpito la città e gli abitanti; successivamente a ciò, le parti molli dei corpi (come tessuti e muscoli) si sono decomposte e dei defunti non è sopravvissuto altro che lo scheletro.

A causa di questo evento è rimasta un’intercapedine che si riferisce ai tessuti molli, dovuta al fatto che la cenere ha aderito al volume del corpo prima che esso si decomponesse. Queste intercapedini preannunciano quindi la presenza dei corpi per mezzo di una cavità visibile nei depositi vulcanici.

I primi esperimenti per l’ottenimento dei calchi sono stati fatti nell’800, fase in cui veniva colato del gesso liquido per ottenere il riempimento della cavità per poi scavare attorno; ora, invece, si utilizzano delle resine plastiche più avanzate tecnologicamente che hanno un grado di restituzione e di precisione dei dettagli anatomici molto più elevato.

In definitiva, se non è presente l’intercapedine non vi è alcuna possibilità di ottenere il calco del corpo.

Siccome il materiale depositato a Pompei era soprattutto a grana fine (cenere fino a 2 mm di diametro e lapilli fino a 64 mm), in molti casi sono rimaste impresse anche la fisionomia del volto e le espressioni dei cittadini, oltre che i dettagli dei vestiti e delle calzature.

Inoltre, come detto in precedenza, le ossa si sono conservate nel vuoto lasciato dai corpi e rimanendo così all'interno dei calchi, per questo motivo nella maggior parte di essi si evidenziano le ossa del cranio e i denti.

La maggior parte di questi corpi si trovava a 2,5 m di altezza, all'interno del deposito formato dai gas incandescenti e dalla cenere, poiché al momento del loro arrivo (la vera causa dello sterminio) erano caduti sulla città già più di 2 metri di materiali eruttato dal Vesuvio che hanno iniziato a far crollare le prime strutture (le pomici, il materiale eruttivo preso singolarmente è piuttosto leggero in realtà).

Uno dei ritrovamenti più spettacolari per la ricerca scientifica è un gruppo di persone ritrovate nei pressi della casa del Criptoportico: essi visibilmente disorientati e in fuga, camminavano sopra lo strato di lapilli fino all'arrivo delle prime nubi incandescenti che li hanno tragicamente uccisi e così sepolti. I corpi sono stati trovati all'interno delle pomici, il materiale dalla granulometria maggiore, per cui non è stato possibile ricavarne il calco.

A differenza di Pompei, a Ercolano durante gli anni ’80 è stata scavata una zona che si affacciava alla spiaggia dove sono stati trovati una grande quantità di scheletri e un rinvenimento eccezionale: un grande pezzo di imbarcazione capovolto.

A Ercolano è impossibile ottenere dei calchi perché i depositi di cenere sono a contatto diretto con le ossa e non vi sono le intercapedini.

La particolarità di tutto questo, e la sua drammaticità, è legata intrinsecamente alle posture dei fuggiaschi, esse evidenziano una morte immediata legata al calore, le persone sono come sospese durante un’azione (circa il 70% dei calchi di Pompei) oppure sembra che dormano (più del 25%).

Fig. 12 - “La signora degli anelli” da Ercolano (da vanillamagazine.it).

Altre persone, invece, hanno subito l’impatto dei flussi piroclastici, morendo quindi per cause “meccaniche” come il crollo degli edifici, ma queste ultime sono veramente in numero esiguo (circa il 2%).

La postura più rilevante per la ricerca (il 64% di quelli che presentano una posizione simile ad un’azione di vita cristallizzata, a cui è stato assegnato un nome, è quella del pugile poiché ne ricorda le movenze sul ring, in cui le braccia e i gomiti sono piegati verso l’alto.

Fig. 13 - I fuggiaschi, alcune immagini di calchi nelle tipiche posture ritrovate a Pompei, tra cui la famosa posizione del pugile (immagine a-2), (da Plos One, G. Mastrolorenzo et al., p. 6).

In precedenza, si riteneva che questa posa fosse assunta per difesa, mentre ora, grazie alle ricerche bio-archeologiche si è visto che questa posizione è dovuta al fatto che nel caso il nostro corpo subisca l’esposizione a temperature di 200-300 gradi centigradi (o superiori) i tendini si contraggono violentemente e le braccia assumono una postura simile alla guardia dei pugili.

Con temperature al di sopra dei 200 gradi il rilassamento dei tendini e muscoli non avviene, per cui è impossibile spostare le persone da quella posizione, per far ciò bisognerebbe tagliarne i tendini, è per questo motivo che ancora dopo 2000 anni le ritroviamo in quella postura.

Anche le ossa evidenziano dei segni di termo-alterazione dovuti all'esposizione a temperature elevate, esse infatti mostrano delle differenze di colorazione a causa dell’esposizione a temperature elevatissime, passando dalla classica cromia delle ossa ad una colorazione tendente al giallo.

Grazie a questi studi in cui la biologia e la fisiologia sono state applicate alle analisi più prettamente archeologiche si è potuto far luce alle cause che hanno portato alla distruzione della città di Pompei e al suo seppellimento riuscendo finalmente a districarsi tra le innumerevoli versioni della vicenda che circolano sin dall'antichità, sia tra i documenti di chi ha assistito dal vivo all'eruzione e ne è sopravvissuto, che tra i testi e le note redatte dagli storiografi e dai biografi antichi.

Bibliografia

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Mastrolorenzo, P. Petrone, L. Pappalardo, F.M. Guarino, Lethal Thermal Impact at periphery of Pyroclastic Surges: Evidences at Pompeii, Plos One, 5, 2010, pp. 1-12.

Savio, Monete romane, 2014, Jouvence, Milano, pp. 337.

Cremaschi, Manuale di Geoarcheologia, 2000, Laterza, Bari, pp. 386.

Sitografia

Pompei, enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/pompei/

http://pompeiisites.org

https://www.pompei.it