UNA DIMORA DAL FASCINO MAGNETICO: VILLA CARLOTTA A TREMEZZINA

A cura di Beatrice Forlini

 

Villa Carlotta è una bellissima e suggestiva dimora che affaccia sul Lago di Como, in località Tremezzo, oggi adibita a museo e location per eventi culturali. La villa incanta anche per il suo meraviglioso giardino ed è raggiungibile comodamente usando il traghetto che attraversa il lago collegando le varie località; dall’acqua è possibile ammirare tutte le meraviglie dei dintorni rendendo la visita della villa un’esperienza davvero unica. 

 

Notizie storiche

La villa venne fatta costruire alla fine del XVII secolo dal marchese Giorgio II Clerici (1648-1736) con l’idea di dar vita a un ambiente in cui natura ed arte potessero liberamente dialogare. Il complesso successivamente passò in eredità al pronipote, Antonio Giorgio (1715-1768), il quale non fu però in grado di amministrare le fortune di famiglia, tanto che alla sua morte la maggior parte dei pochi beni ancora rimasti in suo possesso passarono ad un ramo cadetto della famiglia. L’unico immobile che riuscì a lasciare in eredità alla figlia Claudia fu proprio villa Carlotta.  

Claudia, sposata col conte Vitaliano Bigli, nel 1801 decise di vendere la proprietà di Tremezzo a Gian Battista Sommariva, allora Presidente del Comitato di Governo della Repubblica Cisalpina (istituita in Italia settentrionale da Napoleone Bonaparte), considerato in quel momento tra gli uomini più potenti della zona di Milano. Egli era estremamente colto, amante e collezionista d’arte e vantava amicizie illustri, tra cui i più celebri artisti dell'epoca, da Antonio Canova a Jacques-Louis David e Bertel Thorvaldsen. Sommariva decise di decorare la villa allestendo al suo interno una parte molto consistente della sua collezione, tanto che si trovò a dover adattare alcuni ambienti così da renderli più idonei ad accogliere le opere. Furono proprio questi capolavori a rendere in  breve tempo la villa famosissima in tutta Europa, attirandovi illustri visitatori quali  Stendhal, Lady Morgan o Gustave Flaubert. 

Circa alla metà dell’800 la villa di Tremezzo venne acquistata dalla principessa Marianna di Nassau, moglie del principe Alberto di Prussia ma solo pochi anni dopo, in occasione delle nozze della figlia Carlotta con il granduca Giorgio di Sassonia-Meiningen, la proprietà passò definitivamente nelle mani della nobile casata tedesca. La villa, adibita a dimora di villeggiatura, porta ancora oggi il nome di Carlotta. Il nuovo passaggio di proprietà non comportò troppe modifiche alla struttura dell’edificio, mentre i saloni interni vennero arricchiti con motivi decorativi in stile neo-rinascimentale. Gli interventi più importanti si riscontrano per esempio nelle grandiose sale di rappresentanza che si devono all’artista Lodovico Pogliaghi (1857-1950). 

I nuovi proprietari in breve tempo vendettero quanto restava della raccolta d'arte di Sommariva, ad eccezione dei grandi dipinti e di alcune sculture, ma gli interventi più importanti si riscontrarono soprattutto nel grande parco. I duchi Bernardo e Giorgio II, appassionati di botanica, arricchirono il giardino con nuove specie di piante e soprattutto con rododendri, azalee, camelie e palme.

 

L’Ente Villa Carlotta

Allo scoppio della Prima guerra mondiale i beni di proprietà di famiglie tedesche vennero sequestrati in tutta Italia con l'intento di non favorire lo schieramento nemico. Villa Carlotta, nonostante fosse ancora di proprietà dei granduchi di Sassonia, non venne requisita ma venne sottoposta ad una sorta di amministrazione controllata che durò fino al principio degli anni Venti.  Nella primavera del 1921, la proprietà passò infine allo Stato italiano ed è proprio in quegli anni che si cominciò a pensare alla possibilità di dar vita a un ente privato, senza scopo di lucro, preposto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio della villa. 

Nel 1926 l’avvocato Giuseppe Bianchini, insieme all'industriale Giovanni Silvestri, all'ingegnere Luigi Negretti e ad alcuni imprenditori tessili, crearono il comitato promotore dell'Ente Villa Carlotta, riconosciuto con il Regio Decreto del 12 maggio 1927. Al nuovo ente venne affidata la cura e la gestione della villa e del giardino e dopo quasi 100 anni continua ad essere in attività. Lo scopo perpetrato dall’ente in tutti questi anni continua ad essere quello di conservare e valorizzare la villa promuovendo numerosi interventi di mantenimento del giardino e tutta una serie di iniziative culturali di alto livello tra cui mostre temporanee, concerti, balletti e pubblicazioni, che richiamano anche adesso numerosi visitatori e studiosi. 

L’edificio tra le meravigliose collezioni e archivi

 

La villa presenta un corpo di costruzione massiccio e geometrico, secondo la sobria tradizione lombarda, impostato su un unico asse centrale che divide in due parti uguali la proprietà.
Con Sommariva l'edificio venne modificato sia all'esterno, con l'aggiunta di lesene e della balaustra con l’orologio, sia all'interno nella predisposizione delle sale del primo piano, destinate ad accogliere le meravigliose opere d'arte. Il salone centrale venne arricchito da un’importante volta dipinta in finto stucco e da ampie finestre a lunettoni per valorizzare il gruppo scultoreo di Venere e Marte, realizzato nel 1805 da Luigi Acquisti e l'altorilievo con l'Ingresso di Alessandro Magno in Babilonia, un capolavoro dello scultore danese Bertel Thorvaldsen.

 

Nelle altre sale trovarono posto il celebre gruppo di eccezionale bellezza Amore e Psiche, eseguito tra il 1818 e il 1820 da Adamo Tadolini da un unico blocco di marmo di Carrara, così come la grande tela con Virgilio che legge il sesto canto dell'Eneide del pittore francese Jean-Baptiste Wicar ed il capolavoro di Francesco Hayez, l'Ultimo bacio di Romeo e Giulietta del 1823, manifesto della pittura romantica in Italia.

 

Al secondo piano trovava posto la dimora dei Sassonia-Meiningen con arredi d'epoca, stanze private e gli oggetti della principessa Carlotta, inoltre la Villa conserva un archivio storico ed è depositaria dell’archivio Belloni Zecchinelli.

 

ll Giardino

Il parco che si sviluppa intorno alla villa copre oggi una superficie di circa otto ettari ed è rinomato per la stupefacente fioritura primaverile dei rododendri e delle azalee in più di un centinaio di varietà che risalgono ancora allo spirito naturalistico improntato dai duchi della casata tedesca. In ogni periodo dell'anno l’aspetto del giardino cambia, si trasforma e merita sicuramente una visita per ammirare la dedizione che viene data alla cura degli antichi esemplari di camelie, cedri e sequoie, platani e faggi purpurei per esempio.

Una parte dell’ampio parco che risale alla costruzione della villa è uno splendido giardino all’Italiana che fronteggia l’elegante dimora con una fontana a vasca sagomata e una statua raffigurante citarista dell'antica Grecia Arione di Metimna. Il giardino si sviluppa su un ideale asse simmetrico che lo attraversa dal cancello fino all’orologio posto sul tetto dell’edificio. A decorazione troviamo le siepi potate in forma, fontane e bellissimi giochi d’acqua, statue e aiuole geometriche.

 

 

 

Sitografia

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/CO160-00021/

Sito ufficiale Villa: https://www.villacarlotta.it/it/


L’ARCHITETTURA ROMANICA E LA CATTEDRALE DI SAN MICHELE ARCANGELO A CASERTAVECCHIA

A cura di Alessandra Apicella

 

 

Nel corso dell’XI secolo l’ondata di novità che si abbatté sull’Europa fu di una portata straordinaria: dal miglioramento nei commerci alla ripresa culturale, il passaggio dall’Alto al Basso Medioevo segnò l’apertura di una nuova fase, dove i linguaggi artistici ebbero un posto privilegiato.

Imponendosi come fenomeno unico e complesso per la molteplicità di soluzioni adottate, l’architettura svolse un ruolo guida nella rielaborazione di elementi di culture precedenti, aprendo le porte a quello stile che sarebbe stato definito successivamente “Romanico”. Il termine roman, usato per la prima volta da Charles de Gerville, nell’Ottocento, serviva a sottolineare il legame che si era visto tra questa tipologia costruttiva ed il modello di riferimento, quello delle province romane. La prima attestazione italianizzata di questo termine, romanico, si ritrova nelle Antichità romaniche in Italia dei cugini Defendente e Giuseppe Sacchi.

Le novità principali riguardarono la divisione dell’edificio, che venne strutturato in successive unità spaziali (le campate), lo studio delle volte in muratura per coprire le navate e la corrispondenza tra l’articolazione interna e l’aspetto esterno dell’edificio. L’organizzazione dello spazio interno in campate permise di rispondere anche ad alcune necessità pratiche e funzionali per il culto, come l’ampliamento della zona presbiteriale per la presenza del coro. Protagonista di eccezione nell’architettura romanica è l’arco a tutto sesto, usato sia come diaframma per scandire la divisione delle navate, sia come base per le coperture murarie a volta, che sempre di più sostituirono quelle a capriate lignee. Eretta su pianta quadrata o rettangolare, la volta a crociera è formata dall’intersezione di due volte a botte, rinforzata da costoloni che partono dai pilastri di sostegno, presenti soprattutto nella navata centrale, in sostituzione delle colonne preferite per le navate laterali, creando il cosiddetto sistema alternato di sostegni. L’organizzazione interna prevedeva anche una scansione su più livelli, partendo dal basso (con la cripta), per passare alle navate, al matroneo e, in alcuni casi, al cleristorio.

 

Per quanto concerne l’esterno, quest’ultimo aveva il compito di suggerire l’articolazione dello spazio interno attraverso contrafforti, lesene e arcate cieche. Le facciate potevano essere di due tipologie: a capanna, con due soli spioventi, e a salienti, con spioventi a più livelli che riflettevano all’esterno il dislivello di altezze tra la navata centrale e quelle laterali. Tipico del romanico italiano è anche il protiro, una sorta di arco di trionfo sormontante il portale di ingresso, sorretto da colonne poggianti su leoni stilofori o su telamoni e spesso coronato anche da una nicchia ulteriore ospitante una statua o un’icona del santo di riferimento. Nella ridefinizione dello spazio del transetto e del presbiterio, acquisì importanza anche il tiburio, elemento architettonico di tradizione paleocristiana, che aveva la funzione di sottolineare la crociera e racchiudere la cupola in una copertura esterna in muratura, e che spesso era coronato da un tetto piramidale e – non di rado – da una lanterna, con funzione decorativa.

 

Di pari passo con l’elaborazione architettonica, il romanico si caratterizzò anche per una ripresa dell’elemento scultoreo, perlopiù assente nell’Alto Medioevo, che andava a decorare lo spazio di capitelli, cibori, pulpiti, architravi e portali. Legata a questa tendenza decorativa era poi la pratica di utilizzare materiali di spoglio, recuperati da edifici più antichi, in particolare romani, come colonne e capitelli.

 

Nata nel regno dei Franchi, la corrente architettonica del Romanico si diffuse in tutta Europa prendendo di volta una volta una declinazione differente a seconda del paese e ancora di più della regione. Ad esempio, in Italia, ed in particolare nella zona del meridione, la diffusione del Romanico fu essenzialmente connessa all’Abbazia benedettina di Montecassino, centro fondamentale per lo sviluppo della cultura artistica di gran parte dell’Italia centrale e meridionale.  Altrettanto importanti, però, risultarono anche gli influssi d’oltremare, come nel caso della cattedrale di San Michele Arcangelo a Casertavecchia.

 

Antico borgo medievale di origine longobarda, Casertavecchia fu un importante centro fortificato anche durante la successiva dominazione normanna, con Riccardo di Aversa nel 1062. In questo periodo si attestò lo sviluppo urbano, la creazione della diocesi e la costruzione della cattedrale, forse sui resti di un precedente edificio longobardo. La chiesa venne costruita a partire dal 1113 per volontà del vescovo Rainulfo, come attestato dall’iscrizione sul portale destro della facciata. Una seconda iscrizione ci permette di risalire anche al momento della consacrazione al culto (1153) e al maestro responsabile del cantiere, l’architetto Erugo.

L’interno dell’edificio presenta una pianta a tre navate con croce commissa, con la navata centrale coperta da capriate lignee e delimitata da colonne di spoglio. I capitelli, infatti, sono tutti diversi tra di loro, provenienti perlopiù da edifici romani e medievali e caratterizzati dalla presenza di pulvini per arginare il problema della differenza delle altezze. Come la maggior parte delle chiese medievali, anche San Michele nel corso del tempo subì molte modifiche e ampliamenti. Nel XIII secolo vennero eseguiti degli interventi di ampliamento della zona presbiteriale, con la creazione di un transetto a tre absidi, coperto da volte a crociera costolonate. A questo intervento si somma anche la costruzione della cupola, poggiante su un alto tamburo e nascosta all’esterno da un tiburio ottagonale. L’edificio ha perso gran parte delle sue decorazioni medievali parietali a causa degli interventi successivi, ma si possono ancora osservare un affresco quattrocentesco, pervenutoci integro – una Madonna con Bambino di influenza senese tra la navata ed il transetto – e, ancora in questa zona, due sepolture trecentesche, quella del vescovo Giacomo Martono e quella del conte Francesco I della Ratta, ispirate all’opera di Tino da Camaino. Infine, è conservato anche un pulpito seicentesco, in realtà ricavato dal reimpiego di due amboni medievali del XIII secolo.

 

All’esterno la facciata, in tufo grigio campano, è a salienti, occidentata e arricchita da tre portali di marmo bianco di Luni, che creano un contrasto cromatico con il resto dell’edificio. I portali sono anche decorati con festoni vegetali e sculture zoomorfe, tipiche del romanico pugliese. Per quanto riguarda la parte superiore della facciata, il timpano è decorato da una serie di archetti ciechi ad ogiva intrecciati, poggianti su colonnine di marmo, a loro volta poste su di una mensola sporgente. Gli altri due lati dell’edificio presentano invece decorazioni a losanghe marmoree e forme ellittiche.

 

Lateralmente, a destra della facciata, è presente un campanile, terminato nel 1234, come attesta un’altra iscrizione nella parte alta della torre. Alla base del campanile si può osservare un maestoso arco ad ogiva, di matrice gotica, seguito nel piano superiore da una decorazione di archetti intrecciati, che riprende quella della facciata, e due livelli di bifore. Sull’ultimo livello è presente una cella campanaria con torrette cilindriche agli angoli, di ascendenza araba.

 

Fondamentale per lo studio delle varie epoche dell’edificio fu il restauro, condotto nel Novecento, che riportò alla luce l’aspetto romanico originale, coperto per secoli dal massiccio intervento che in epoca barocca portò alla sostituzione degli antichi affreschi medievali e degli altari parietali con una pesante decorazione in stucco.

La chiesa, con la sua fusione di stili e tendenze differenti, dal romanico pugliese delle sculture, a quello lombardo della facciata con tre portali e della differenza di altezza delle navate, rappresenta una perfetta armonia di componenti eterogenee, il cui dinamismo si percepisce attraverso gli influssi arabi – provenienti dalla Sicilia e da Amalfi – rappresentati dagli archetti intrecciati, dagli intarsi policromi e dalle torrette cilindriche del campanile.

 

 

 

Bibliografia

Bertelli C., Invito all’arte 2. Il Medioevo, edizione azzurra, scolastiche Bruno Mondadori, 2017

Bonelli R., Bozzoni C., Franchetti Pardo V., Storia dell’architettura medievale, editori Laterza, 2012


UNO “SCRIGNO” SENZA TEMPO: IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DEI MIRACOLI DI SARONNO E IL “CONCERTO DEGLI ANGELI” DI GAUDENZIO FERRARI

A cura di Beatrice Forlini

 

Il Santuario di Saronno. Storia e costruzione

Il Santuario di Saronno, intitolato alla Beata Vergine dei Miracoli (Fig. 1) è una delle più rinomate testimonianze dell’architettura religiosa in Lombardia, un luogo ricco di opere d’arte realizzate da numerosi artisti, alcuni dei quali annoverabili tra le eccellenze non solo del Cinquecento lombardo, ma dell’intero Rinascimento italiano.

 

L’edificio sorge a Saronno, una cittadina a metà strada fra Milano e Varese. Esso è costruito, per volontà dei cittadini saronnesi, a partire dal 1499 sulla Varesina, la strada che collegava la zona a Varese. I cittadini vollero costruire l’edificio in onore di S. Maria e per dare ospitalità al simulacro della Madonna del miracolo, una statua della seconda metà del XIV secolo che si riteneva dispensasse miracolose guarigioni, posta allora in una cappella sulla strada e oggi nell'abside. Un’altra ipotesi vede invece, attorno al 1460, un giovane, già malato e costretto a letto da alcuni anni, miracolosamente guarito dalla Madonna della Strada Varesina la quale lo invitò a costruire una chiesa in suo onore. In seguito alla costruzione di una provvisoria “chiesuola”, i saronnesi decisero di erigere un tempio più grande dedicato a Maria. La prima pietra del nuovo Santuario viene posta l’8 maggio del 1498, giorno di S. Vittore. Il cantiere del tempio mariano era coordinato da un insieme di “deputati”, un organo composto da uomini eletti che avrebbero dovuto prendere in carico l’attività di amministrazione della fabbrica. I deputati saronnesi, che all’inizio del Cinquecento fecero innalzare anche la “casa” con i loro uffici, probabilmente si rivolsero all’architetto Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522), già responsabile dei lavori del duomo di Milano, per progettare una chiesa che venne eretta in tre tempi. Il nome di Amadeo, che non è attestato dai documenti, è stato avanzato a partire dalla planimetria della chiesa, il cui modulo originario è una croce greca con cupola.

In una prima fase, inaugurata con la posa della prima pietra e terminata nel 1516, vennero completati l’abside, la zona presbiteriale e la cupola, con il tiburio (quest’ultimo attribuito con certezza ad Amadeo) e il campanile di Paolo della Porta.

Nel 1556 inizia un processo di espansione del santuario. A causa dell’afflusso sempre maggiore dei fedeli accorsi sul luogo, l’edificio venne ampliato in larghezza a tre navate e il corpo longitudinale allungato a cinque campate (Figg. 2-3). Il nuovo progetto del tempio, ora a croce latina, venne affidato al nuovo responsabile del cantiere milanese, Vincenzo Seregni (1520-1594), ma venne tuttavia interrotto circa dieci anni dopo. La sospensione dei lavori fu dovuta principalmente al fatto che, per proseguire l’ampliamento dell’edificio oltre la terza campata, bisognava demolire la piccola cappella “del Miracolo”. In seguito all’intervento diretto di Carlo Borromeo, la Statua della Madonna custodita nella piccola cappelletta venne trasferita all’interno della chiesa.

 

 

Contestualmente all’arrivo di Seregni, la fabbrica del santuario si arricchì di altre due presenze fondamentali, ovvero Cristoforo Lombardo e Giulio Romano (1499-1456), che vennero contattati per realizzare la sagrestia della chiesa, sormontata dalla caratteristica volta a vele.

Un altro protagonista della decorazione del Santuario è l’architetto Pellegrino Tibaldi (1527-1596), detto Pellegrino de’ Pellegrini, il quale tra il 1596 e il 1613 completò la maestosa facciata, costruita tra il 1596 e il 1613. I lavori proseguono fino al XVII secolo per sopraelevare la canonica, dove poco distante viene costruita una casa colonica per far alloggiare i contadini incaricati di curare la vigna e l’orto del Santuario.

La decorazione interna: Bernardino Luini e Andrea da Milano

Per quanto riguarda la decorazione interna, l’anno decisivo fu il 1525, momento in cui si decise di rinnovare completamente l’apparato decorativo. A tal proposito vennero contattati i più importanti maestri lombardi nelle arti della pittura e della scultura per dar vita a un apparato che, nelle intenzioni dei deputati, avrebbe dovuto raffigurare alcuni episodi della vita di Maria e Gesù.

 

Alberto da Lodi (1490-1528) decorò la volta dell’abside, del presbiterio (Fig. 4) e dell’antipresbiterio, mentre le pareti furono affidate a un grande della pittura lombarda del tempo, Bernardino Luini (1481-1532). Luini si impegnò ad affrescare uno Sposalizio della Vergine e un Gesù tra i dottori (antipresbiterio, figg. 5-6); l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al tempio (presbiterio, figg. 7-8): Quattro Evangelisti e i Quattro Dottori della Chiesa (lunette della volta); Virtù Teologali e Pace (lesene). All’interno delle cappelle che fiancheggiano la cupola, poi, sono collocate anche le statue lignee di Andrea da Milano (1475-1547). Andrea da Milano (o “da Saronno”) scolpì invece alcuni pregevoli gruppi policromi, come il Cenacolo (cappella sinistra, fig. 9) e il Compianto sul Cristo morto (cappella destra).

 

 

La cupola: Il Concerto degli Angeli di Gaudenzio Ferrari

Dopo la morte di Luini, la cui opera è ritenuta tra le più alte espressioni della pittura del Cinquecento lombardo, per decorare la cupola con un’Assunzione della Vergine (Fig. 10) viene invitato dapprima Cesare Magni che, non avendo colpito i committenti, venne sostituito nel giugno del 1534 da Gaudenzio Ferrari (1475-1546), pittore originario di Valduggia in Valsesia e definito da Giovanni Paolo Lomazzo, insieme ad Andrea Mantegna, Michelangelo, Polidoro da Caravaggio, Leonardo, Raffaello e Tiziano Vecellio uno dei sette “Governatori” del “Tempio della Pittura”.

 

Il capolavoro di Gaudenzio Ferrari, i cui documenti di pagamento indicano nel 1534 l’anno di stipula del contratto e nel 1536 quello di conclusione dei lavori, si trova nel cuore del santuario, la grande cupola di quasi 100 metri quadri interamente affrescata. Un’opera quasi senza precedenti, decorata con 86 meravigliosi angeli “in concerto” accompagnati da strumenti musicali reali ma anche di fantasia e l’uno diverso dall’altro. Al centro trovano invece spazio le statue del volto del Padre Eterno e dell'Assunta; tutto intorno poi, a raffigurare il Paradiso, ad accompagnare il corteo di angeli musicanti diviso in quattro cerchi, vi sono trenta puttini danzanti che accolgono l'arrivo della Vergine.

Il “Concerto degli Angeli” di Gaudenzio si dimostra fonte inesauribile di ricerca: da un lato gli studiosi cercano infatti di identificare i vari strumenti proposti dal pittore, dall’altro quest’ultimo manifesta, sin dai disegni preparatori, una meticolosa attenzione nei confronti dei dettagli: nelle prove grafiche preliminari (tra i quali particolare rilevanza acquisisce un disegno a penna e acquarello marrone con rialzi a biacca oggi conservato a Monaco di Baviera) infatti, si può notare lo studio dell’esatta posizione del corpo, delle mani e degli strumenti musicali.

 

Il Santuario ha inoltre assunto, nel corso del tempo, una grandissima rilevanza nel panorama religioso italiano. Oltre ad essere una costante meta di pellegrinaggio, il tempio mariano di Saronno è stato considerato da alcuni pontefici quasi al livello di una delle Sette Basiliche di Roma. Da Pio II Piccolomini (papa dal 1458 al 1464) fino a Giovanni Paolo II (1978-2005), infatti, più di cento sono state le bolle con cui venivano concessi privilegi e indulgenze.

 

Foto scattate dalla redattrice dell'articolo

 

 

Sitografia

Sito ufficiale del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli: http://www.santuariodisaronno.it/home.html

 

Bibliografia

Agosti, J. Stoppa (a cura di), Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, Milano, Officina libraria, 2018, cat.81, pp.457-458.


IL LAGHETTO DELLE COLONNE A MAIANO. PITTORESCA E ROMANTICA PISCINA DI SIR JOHN TEMPLE LEADER

A cura di Arianna Canalicchio

 

 

Possessore fino dal MDCCCLV dei terreni limitrofi, il commendatore Giovanni Temple Leader acquistava nel MDCCCLXVII dal R. Demanio la cava detta delle Colonne ed ivi immettendo le acque del torrente Mensola riduceva nella forma presente il Laghetto delle Colonne e ne abbelliva i contorni costruendo il ponte, la torre, la fonte e i fabbricati vicini[1].

 

Così viene descritto e celebrato il romantico Laghetto delle Colone da Sir John Temple Leader che lo face realizzare nei suoi numerosi possedimenti acquistati a Maiano, nei pressi di Firenze.

 

Sir John Temple Leader, ricco e facoltoso nobiluomo londinese, nonostante la sua brillante carriera politica si interessò fin da subito alla storia e all’arte. Profondamente appassionato di pittura Tre-Quattrocentesca, abbandonò l’Inghilterra nel 1844 per trasferirsi a vivere prima a Cannes in Francia e poi in Italia. Nel 1850 acquistò la sua prima villa in Toscana, Villa Pazzi Tolomei a Maiano decidendo da quel momento di dedicarsi alla sua passione: lo studio e la valorizzazione delle colline fiesolane nei pressi di Firenze.[2] La seconda metà dell’800 fu un momento molto vitale per il capoluogo toscano, tantissimi inglesi, affascinati dalla città, considerata una sorta di paradiso in cui si univano arte, storia e un clima mite, vi si trasferirono. Solo per citarne alcuni, Frederick Stibbert, Seymur Kirkup, estroso artista e collezionista, William Rossetti, figlio del pittore Dante Gabriele, il collezionista Herbert Horne e lo storico dell’arte Bernard Berenson che scelse Firenze come sua residenza a partire dal 1900.

 

Nel 1850 Temple Leader acquistò anche l’antica Villa di Maiano che ristrutturò, ma il suo intervento più noto è sicuramente quello sul vicino Castello di Vincigliata[3]. Acquistato nel marzo del 1855 era ormai poco più che un rudere che lui fece ricostruite da capo a piedi in perfetto stile neogotico. Si trattò di un intervento veramente sorprendente con il quale il nobiluomo inglese volle provare a dare forma concreta al suo sogno cavalleresco. Scoperto forse per caso durante una passeggiata, il maestoso castello si presentava con le mura divorate dal tempo e dalla vegetazione ma ancora perfettamente in grado di rievocare nella mente dello studioso quelle atmosfere medievali descritte nei romanzi di Walter Scott.

 

Temple Leader acquistò terrenti tra Vincigliata e Maiano per un’estensione di circa 280 ettari, comprendenti le 40 cave di pietra che si trovavano nei dintorni. La zona di Maiano era infatti una sorta di grande cava di pietra serena che fin dai tempi di Michelangelo era stata usata per estrarre il materiale di alcuni dei più celebri monumenti della città. Secondo alcune fonti ottocentesche sarebbero arrivate da queste colline le pietre con cui venne data forma alla Loggia degli Uffizi, alla Cappella Gaddi in Santa Maria Novella e al coro della SS. Annunziata.[4] Pare, inoltre, che si sia recato sulle pendici di Maiano anche Michelangelo per scegliere le pietre per gli scalini della Biblioteca Laurenziana.

Dopo aver acquistato le cave, Temple Leader, decise di chiuderle tutte ad esclusione di due che gli servirono per estrarre la pietra per la ricostruzione del castello e delle mura che lo circondavano. Aiutato dall’architetto Giuseppe Fancelli e dall’esperto di idraulica e architettura ambientale, Alessandro Papini, Temple Leader iniziò un approfondito studio del terreno e decise di dar vita a un parco romantico. I lavori per rimboschire le pendici e aumentare i corsi d’acqua nelle sue proprietà iniziarono nel 1854. In breve tempo, quello che era un terreno ormai spoglio, divenne un vero e proprio bosco con alberi, rocce e torrenti. Nel cuore di questo giardino il nobiluomo volle crearsi uno stagno da usare come piscina naturale, fu così che nacque il Laghetto delle Colonne.

“La cava che ora il proprietario di Majano ha cambiata in bagno era fra le privilegiate e conosciuta come cava del Mulinaccio, da un mulino che le sta presso sulle dirupate e fronzute sponde della Mensola; ma più come cava delle colonne perché nel 1817 ne furono levate le colonne della Cappella dei principi in San Lorenzo”[5]così racconta lo storico Giuseppe Marcotti nel suo Fantasie di Majano pubblicato nel 1883. Come in una sorta di diario, Marcotti descrive le proprietà di Temple Leader fornendoci molte importanti informazioni che ancora oggi sono alla base dei principali studi sui suoi interventi.

 

Proprio come raccontato da Marcotti, la Cava nella quale Temple Leader fece costruire il suo laghetto venne utilizzata nel 1817 per dar vita alle colonne della Cappella dei Principi nella Basilica di San Lorenzo[6] da qui deriverebbe il nome stesso di Laghetto delle Colonne con cui è tutt’oggi conosciuto. Lucy Baxter, scrittrice inglese, ci riporta addirittura che i tagliapietre in quell’occasione furono Antonio Bartolini e Francesco Materassi, pagati quattro franchi al giorno. Durante i lavori però pare che sia crollato un grande pezzo di roccia uccidendo una delle persone che si trovavano sul posto, un tal Bulli, e rompendo la gamba di un signor Maiano, di cui però non abbiamo nessun’altra informazione. [7] Proprio a causa di questo incidente la cava venne chiusa e rimase tale per diversi anni, fino al 1833. In questa data, sotto la supervisione del capo tagliapietre Pietro Bartolini, forse figlio del precedente Bartolini, vennero cavate le pietre per la costruzione della nuova scalinata di Palazzo Pitti progettata dall’architetto Bernardo Poccianti. Suonano dunque estremamente azzeccate le parole della Baxter: “The bath is certainly ideal in beauty. But this is not all, for in this lovely hollow is contained a whole chapter of Florentine art history”[8].

Temple Leader riuscì a ottenere dal Demanio la storica Cava nel 1867. Lo spazio della cava divenne con il nuovo intervento un bacino per accogliere le acque del torrente Mensola che era stato deviato. L’idea di Temple Leader era di costruirsi una sorta di oasi in cui poter nuotare e accogliere i suoi amici. Interessante è sempre la descrizione di Marcotti: “Ora limpide acque dalle tinte azzurra o verdognola secondo l’ora del giorno, iridescenti d’argento quando il venticello ne accarezza la superficie, riempiono la grande vasca: a ponente paurose rocce di cupo colore, variegato dai grigi filoni dell’arenaria, si innalzano a picco e in qualche punto sporgono così da formare come l’ingresso d’una oscura grotta.”[9]

 

Marcotti non è però l’unico a descrivere il Laghetto delle Colonne, il romantico specchio d’acqua affascinò molti visitatori e ne abbiamo una bella descrizione in un articolo dal titolo Maiano, Vincigliata and Settignano pubblicato dal Barone Alfred de Reumont nell’agosto del 1875 sulla rivista tedesca “Allgemeine Zeitung”[10].

Del piccolo laghetto parla anche Lucy Baxter, scrittrice inglese che nel 1891 pubblica il suo resoconto del viaggio nella zona di Maiano e del Castello di Vincigliata, ospite del suo amico Sir Temple Leader. La Baxter si era trasferita a vivere a Firenze nel 1867 dopo il matrimonio con Samuel Thomas Baxter ed era conosciuta in molti dei più importanti centri culturali frequentati dalla comunità inglese. Come molti dei suoi lavori anche questo volume venne pubblicato con lo pseudonimo di Leader Scott. Il testo è ricco di descrizioni e racconta un’avventurosa passeggiata nel vasto parco che collega il Castello alla Villa di Maiano, accompagnata dal guardiacaccia: “[...] Still down, down to a deep gorge where the Mensola[11] comes tumbling amidst its crags, and crossing over it on the bridge built by Mr. Leader, we reach the bank of a little green lake, beneath great crags of rock, than hang above it, jagged, ragged, and projecting: and rich in sombre tints of brown and gray”[12]

Descrizione forse un po’ enfatizzata a causa dal momento avventuroso che termina però con un’immagine del laghetto più simile a quello che effettivamente appare e doveva apparire già al tempo. Eliminando il turbinio delle acque che si rompono sulle rocce, ritroviamo infatti un luogo solitario: “Its solitude is almost overpowering, - nothing to break the silence but the ripple of the Mensola over its stones, the faint rustle of the wind in the pine-woods opposite, or the swish of a bird’s wing as it flies in and out of his home in the great crags above”[13]

 

Le sponde del laghetto sono costituite da un lato dalla parete della cava con la pietra e alcune insenature e grotte artificiai usate, come appunto viene descritto, come “trampolini” per i tuffi o come spogliatoi (fig. 6). In una delle nicchie Temple Leader fece mettere una robbiana raffigurante una Madonna col Bambino, immagine votiva usata un tempo per proteggere dalle frane chi lavorava nelle cave. Dall’altro invece il nobiluomo inglese fece piantare un boschetto. Gli interventi di Temple Leader non si fermano qua; fece infatti edificare una torretta in stile neogotico (fig. 7) che sovrasta il laghetto e che ben si armonizza con la sua idea di parco romantico. Sulla torre spicca lo stemma congiunto della famiglia del nobile inglese e della moglie, Luisa Raimoni (fig. 8), mentre all’interno troviamo una sala decorata da Ruggero Focardi. L’interno non è purtroppo accessibile trattandosi ormai di una stanza di albergo, stando però a quanto scrive in tempi recenti la storica dell’arte Francesca Baldry, gli affreschi raffigurerebbero una copia della Primavera di Botticelli mentre dall’atro lato Vergini fanciulle che si bagnano nel laghetto silvestre con il Castello di Vincigliata alle spalle, soggetto che ben si addice al luogo e che si ispira al Ninfale fiesolano del Boccaccio.[14] La torre è collegata al resto del parco da un piccolo ponte che passa sopra il fiume Mensola. Intorno al laghetto Temple Leader fece costruire una casetta in legno che doveva servire come spogliatoio per le signore. Secondo le fonti del tempo pare che il gentiluomo si recasse tutti i giorni, solo o con degli amici, a nuotare nel suo “pelaghetto”. Poco distante dal lago si trova invece un’altra struttura fatta modificare dal nuovo proprietario ma che già esisteva ai tempi dell’utilizzo della cava; si tratta di una casetta usata dagli scalpellini come deposito degli attrezzi e che Temple Leader trasformò in una coffe-house. Per rendere più elegante l’ambiente fece anteporre all’ingresso un piccolo porticato di ispirazione cinquecentesca con colonne in pietra serena e decorò l’interno con tavolini e sedie così che i suoi ospiti dopo il bagno potessero consumare insieme pranzi o merende.

 

Uno degli ospiti sicuramente più noti e illustri del piccolo laghetto artificiale fu la Regina Vittoria d’Inghilterra che nell’aprile del 1893 fu accolta nella sua dimora da Temple Leader. Per quanto è improbabile che la regina abbia fatto il bagno nelle acque del lago, aveva sicuramente sostato all’interno della coffe-house e si era riposata nel tranquillo parco. La visita fu a tal punto significativa per il nobile inglese che la volle ricordare con una targa che recita: “Il di XII aprile MDCCCXCIII Vittoria Regina d’Inghilterra Imperatrice delle Indie con la figlia Beatrice Principessa, Enrico di Battemberg e seguito, qui sostava e deliziandosi della bellezza e tranquillità di questo laghetto ne faceva dei disegni nel suo Album di Ricordi”[15].

Il laghetto, come si legge nella targa, era piaciuto molto alla regina, tanto che decise di raffigurarlo in alcuni schizzi e disegni. La rivista inglese “The Illustrated London News” nel numero uscito il 6 maggio del 1893 dedica il frontespizio a un disegno firmato “A. Forestier” che raffigura la regina seduta con davanti un tavolino intenta ad ammirare il laghetto. L’immagine ci mostra fedelmente la torre e tutte le altre strutture intorno alla piscina mentre due gentiluomini con la tuba sono intenti ad osservarla.[16]

Con il suo laghetto Temple Leader si costruì un’oasi di pace in cui dare sfogo alla sua passione per il nuoto e allo stesso tempo rievocare le ambientazioni fiabesche del Boccaccio e quel romanticismo di ispirazione neogotica.

 

 

Note

[1] Targa fatta apporre dal proprietario Sir John Temple Leader nei pressi del laghetto.

[2] F. Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997, pp. 11-21.

[3] Antico castello un tempo proprietà dei Visdomini e degli Alessandri. Le mura vennero abbattute nel 1364 ma subito ricostruite dagli Alessandri. Sir Temple Leader dopo l’acquisto decise di affidare i lavori di restauro all’architetto Giuseppe Fancelli che si era formato presso Gaetano Baccani (architetto del Torrino del Giardino Torrigiani); il giovane architetto morì però nel 1867 a lavori non ancora ultimati. La bibliografia sul Castello di Vincigliata è molto ampia si vedano ad esempio: F. Guerrieri, Il Palazzo Temple Leader in Firenze, Alinea, Firenze 1991 e R. Innocenti, Storia e magnificenza di John Temple Leader, “Verde Domani”, I, 1991, pp. 9-10.

[4] G. Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883, p. 75

[5] Ivi, p. 77.

[6] La Cappella, adiacente alla Chiesa di San Lorenzo, è conosciuta per le sue decorazioni ad intarsio in marmi policromi e pietre dure che ne rivestono pareti e pavimento.  Si tratta della seconda cupola di Firenze per dimensioni ed accoglie i grandi sarcofagi, realizzati in granito, di sei Granduchi di Toscana. La cappella era stata pensata già da Cosimo I che ne aveva affidato il progetto al suo architetto di fiducia: Giorgio Vasari. Il progetto non prese però mai avvio a causa della morte, quasi coeva dei due. Sarà solo il figlio, Ferdinando I che dopo una serie di concorsi scelse nel 1604 il progetto proposto da Don Giovanni, figlio naturale e riconosciuto di Cosimo I. La bibliografia sulla Cappella dei Principi è molto vasta, si veda ad esempio: U. Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

[7] L’episodio è descritto in: L. Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891, p. 153.

[8] “Lo specchio d’acqua è certamente di una bellezza ideale. Ma non è tutto perché in questo adorabile incavo è contenuto un intero capitolo della storia di Firenze”.  Ivi, p. 152.

[9] Marcotti 1883, p. 77.

[10] L’articolo è online sul sito della Biblioteca di Stato bavarese https://opacplus.bsb-muenchen (consultata il 20/01/2022)

[11] Si riferisce al fiume Mensola dal quale venne creato artificialmente il Laghetto.

[12] “[…] Ancora giù, giù fino a una profonda gola dove il Mensola arriva a ruzzolare tra le sue rocce, e attraversandolo sul ponte costruito dal signor Leader, raggiungiamo la riva di un piccolo lago verde, sotto grandi rocce a precipizio, che pendono sopra di esso, frastagliate e sporgenti: e ricche di tinte cupe di marrone e grigio". Scott, 1883, p. 152.

[13] “La sua solitudine è quasi opprimente – niente che rompa il silenzio se non l’incresparsi del Mensola contro le rocce e il debole fruscio del vento nelle pinete di fronte, o lo sbattere dell'ala di un uccello che vola dentro e fuori dalla sua casa nelle grandi insenature rocciose di sopra". Ivi, p. 153.

[14] Baldry 1996, p. 102.

[15] Targa commemorativa di dedica alla regina Vittoria.

[16] Frontespizio di “The Illustrated London News” del 6 maggio 1893, online presso https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/ The British Newspaper Archive (consultato il 28/01/2022)

 

 

 

Bibliografia

Baldini, A. Giusti, A. Pampaloni Martelli (a cura di), La Cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, Electa, Milano 1979.

Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Olschki, Firenze 1997.

Marcotti, Simpatie di Majano, Tipografia di G. Barbera, Firenze 1883

Scott, Vincigliata and Maiano, G. Barberà, Siena 1891.

 

Sitografia

Biblioteca di Stato bavarese - https://opacplus.bsb-muenchen

The British Newspaper Archive - https://www.britishnewspaperarchive.co.uk/

Sito della Fattoria di Maiano - https://www.fattoriadimaiano.com/


PALAZZO GIO CARLO BRIGNOLE A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

Il palazzo Gio Carlo Brignole venne edificato dall’architetto Bartolomeo Bianco al termine degli anni ’20 del XVII secolo per la committenza di Giovan Battista Brignole di fronte ad un palazzo di proprietà della famiglia Grimaldi, abitato all’epoca da Gerolamo Grimaldi; con questi Giovan Battista Brignole stipulò un accordo affinché il futuro edificio non superasse in altezza Palazzo della Meridiana, nome con cui è nota questa residenza Grimaldi.

Nel corso degli anni ’70 dello stesso secolo, Gio Carlo Brignole – figlio di Giovanni Battista – avviò i primi grandi rinnovamenti estetici: commissionò a Pietro Antonio Corradi una revisione architettonica, e allo scultore genovese Filippo Parodi un ciclo scultoreo per conferire magnificenza al portale d’ingresso. Questo era – ed è tuttora – fiancheggiato da due possenti Telamoni quasi a proteggere coloro che entrano nel palazzo; al di sopra dell’architrave stava una coppia di putti con in mezzo lo stemma araldico della famiglia Brignole, oggi perduto a causa di modifiche all’intera architettura del palazzo e al successivo passaggio di proprietà, avvenuto nel 1854 a favore della famiglia Durazzo.

Questa famiglia genovese, che ancora oggi è proprietaria del palazzo, commissionò al pittore Giuaseppe Isola (1808-1893) gli affreschi del sontuoso atrio d’ingresso, realizzati secondo un linguaggio pittorico meramente accademico.

La volta ribassata, posta a copertura di questa prima sezione dell’atrio è stata pensata per omaggiare non solo alcuni viri illustres liguri –  ai lati, ma anche la volontà di indipendenza dell’ormai defunta Repubblica di Genova – al centro del soffitto. Tra gli uomini qui dipinti si possono citare Guglielmo Embriaco (1040-1102), eroe genovese durante la Prima Crociata (1096-1099) che stando agli annali cittadini fu il primo ad entrare a Gerusalemme, mentre secondo il poeta Torquato Tasso si distinse tra i vari cavalieri presenti durante la presa della Città Santa per le doti ingegneristiche. A seguire Caffaro di Rustico da Caschifellone (1080-1164) autore degli Annali, fonte storica principale per la ricostruzione degli eventi che segnarono la nascita e i primi anni di vita del Comune di Genova. Proseguendo in ordine cronologico sono presenti Simone Boccanegra, che nel 1339 istituì la carica dogale; il famosissimo navigatore Cristoforo Colombo (1451-1506); il pontefice Giulio II (1443-1513) che a Roma commissionò a Michelangelo la decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina, mentre a Raffaello  affidò il cantiere delle Stanze vaticane; Andrea Doria (1466-1560); e da ultimo si riconosce il massimo pittore genovese di secondo Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), i cui capolavori sono conservati nei musei cittadini, e nelle volte dei saloni dei palazzi Rolli e delle ville aristocratiche fuori Genova.

Al centro del soffitto invece si trova la scena dedicata ad Ottaviano fregoso che fa distruggere la fortezza della Briglia, roccaforte francese costruita per volontà di Re Luigi XII al tempo della dedizione francese, che fu impiegata come avamposto di controllo politico-militare di Genova diventando così un segno tangibile dell’oppressione straniera, con un richiamo al periodo storico coevo al pittore: nel 1849, i bersaglieri guidati da Alfonso La Marmora avevano represso nel sangue un’insurrezione indipendentista contro il Regno di Sardegna [2].

La seconda parte dell’atrio è coperta da una serie di volte a crociera tutte decorate con il motivo della grottesca, che si ricollega così stilisticamente alle decorazioni dei palazzi genovesi di pieno XVI secolo, realizzate da Federico Leonardi, pittore specializzato in questo motivo ornamentale.

Affreschi del primo piano nobile di palazzo Gio Carlo Brignole

Della grande decorazione ad affresco citata nelle guide cittadine di XVIII e XIX secolo restano oggi le scene mitologiche realizzate da Gregorio e Lorenzo De Ferrari (1647-1726; 1680-1744). Eseguiti sui soffitti dei quattro salottini che circondano il grande salone centrale, gli affreschi sono ascrivibili alla piena maturità di Gregorio e al momento in cui Lorenzo si fece interprete di un linguaggio figurativo estremamente elaborato, soprattutto nella finzione pittorica. Nonostante si sia privi di documenti d’archivio che attestino l’identità del committente e gli anni in cui i pittori si occuparono di tale cantiere, gli studiosi del sito hanno ipotizzato di collocare cronologicamente i lavori entro gli anni ’20 del Settecento, identificando il committente nella figura di Giovanni Carlo Brignole junior, che diventò poi senatore della Serenissima Repubblica di Genova nel 1721.

Dei quattro salotti sopracitati, tre si devono attribuire alla mano del De Ferrari più anziano. Nello specifico, i due vani che si aprono su Strada Nuova mantengono una decorazione perfettamente conservata non solo sotto il profilo dei colori ma anche sotto quello ideologico conferitogli da Gregorio stesso. Leggermente differente è invece lo stato conservativo del salotto dedicato alla Primavera, poiché a causa di infiltrazioni è stato oggetto di ridipinture di qualità non eccezionale nel XIX secolo; tuttavia la decorazione risulta ancora leggibile e si pone in un dialogo ideale con le altre scene.

Seguendo il tradizionale percorso di visita istituito durante i weekend dedicati ai Rolli Days, la visita del piano nobile ha inizio in un salotto le cui decorazioni si datano agli anni centrali del XVIII secolo: sia le pareti che la volta sono dipinte di verde, a conferire un tocco di brillantezza sono gli inserti in legno dorato posti nelle zone di congiunzione tra i muri perimetrali e il soffitto; ad adornare lo spazio delle pareti sono alcuni dei quadri che costituiscono parte dell’ormai dispersa quadreria Brignole, tra cui si possono osservare due ritratti di esponenti della famiglia – la loro identità ad oggi è ignota – e un’Adorazione dei Pastori di Francesco Bassano e allievi (1549-1592).

A questa piccola stanza segue il cosiddetto salotto di Prometeo, opera magistrale di Lorenzo De Ferrari, dipinto negli anni ’30 del XVIII secolo. Raffigurata al centro della volta, dentro una cornice mistilinea prospetticamente aggettante, la scena mostra Prometeo, abbigliato con vesti sgargianti, che con la fiamma del fuoco rubato agli dei infonde la vita ad una statua che sarà l’Uomo. A sovrintendere l’intero evento sta Minerva, dea protettrice dell’ingegno umano capace di domare e superare le avversità, che nella scena è personificato e simboleggiato dal titano stesso. La figura di Prometeo viene dipinta dall’artista con un particolare avvitamento; come se lui stesso fosse una lingua di quella fiamma che a contatto con la pietra marmorea ne trasforma il freddo grigio in rosa carne. Dando le spalle alla finestra che si trova nella stanza, il visitatore può osservare la personificazione del Valore: un giovane ragazzo alato, appoggiato al cornicione, con addosso la leonté erculea e un braccio teso nell’atto di porgere una corona di alloro. Dalla parte opposta dell’illusoria cornice, si trova una seconda figura maschile, questa volta stante con le gambe leggermente divaricate, che regge un globo armillare e un compasso: è l’allegoria dell’Ingegno. Questi due aspetti della mente umana, qui rappresentati dai due giovani, connotano come eccezionale il gesto di Prometeo, che pagherà cara la sua insubordinazione con una punizione esemplare, qui non raffigurata: incatenato ad un monte, un’aquila in eterno gli mangerà il fegato, che ogni notte si rigenererà per poter così ripetere quotidianamente il castigo.

L’intera scena vuole omaggiare attraverso il ricorso all’allegoria il ruolo e la figura del self-made man incarnato dalla famiglia Brignole, i cui membri furono ammessi all’interno dell’aristocrazia genovese non per lignaggio e sangue ma per merito, qualità che concerne anche il rischio: i loro esponenti sono quindi tutti novelli Prometeo, capaci di modificare il destino della città di Genova, così come la figura mitologica protagonista della scena ha influito sulla storia dell’umanità.

Il salotto contiguo, che si affaccia su via Cairoli (già Strada Nuovissima), è quello della Primavera, realizzato da Gregorio De Ferrari nella sua maturità artistica, collocabile tra il primo e il secondo decennio del Settecento. La scena presenta un impianto prospettico molto meno illusionistico rispetto a quello del salotto precedente. Al centro dell’intera scena si può osservare la personificazione dell’Abbondanza, una giovane ragazza bionda adagiata su una nuvola che tiene sotto il braccio la cornucopia – suo tipico attributo – da cui si intravede ogni genere di ricchezze, in particolare monete d’oro, a simboleggiare la potenza economica ottenuta con il duro lavoro dalla famiglia Brignole. In una sezione meno centrale della volta è presente una seconda giovane donna, in questo caso con i capelli castani, raffigurata con una corona di fiori a cingerle il capo, adagiata anch’essa come l’Abbondanza su una nuvola, mentre con le mani cinge un festone floreale che le passa dietro la schiena. A completare l’intera scena troviamo alcuni putti di pieno gusto barocco disposti lungo il cornicione, intenti a giocare con differenti animali: tra i vari rappresentati – soprattutto animali da compagnia – compare il pavone, animale esotico (dall’elevato valore economico), che nell'antica simbologia cristiana rappresentava la rinascita e la vita eterna.

Sulle pareti di questo raffinato salottino trovano posto alcuni quadri, tra questi si possono notare due paesaggi realizzati da due differenti pittori olandesi secenteschi, una Guarigione di Tobia e un Eracle e Onfale.

A concludere l’intero tour del palazzo durante i weekend dedicati all’evento è la visita del grande salone di rappresentanza; sotto il profilo artistico questo presenta sulle pareti più lunghe due grandi arazzi risalenti al XV secolo circa, la cui cromia risulta alterata (in particolare i rossi hanno virato ad un marrone pieno, mentre il rosa degli incarnati oggi risulta molto sbiadito e tendente al beige). Al di là di ciò le due scene – tratte dalla storia antica – risultano nel complesso leggibilissime. L’arazzo della parete destra (dando il volto verso Strada Nuova) raffigura Cambise intento ad uccidere il bue Api; secondo il mito e la tradizione storica, il re persiano fu colpito da una particolare malattia mentale che lo portò appunto a sacrificare il sacro animale; sulla parete opposta invece si può osservare l’incontro tra Cesare e Cleopatra. All’interno di questo ampio salone sono stati poi collocati i busti di Giovanni Battista Brignole di Giacomo Antonio Ponzanelli (1654-1735); di Giovanni Luca Durazzo, opera di Filippo Parodi (1630-1702); di Eugenio Durazzo, di Francesco Maria Schiaffino (1688-1783; di Marcello Durazzo ad opera di Nicolò Traverso (1745-1823). I busti degli esponenti della famiglia erano conservati in quello che è oggi noto come Palazzo Reale, proprietà dei Durazzo sino a quando i Savoia – dopo l’annessione dell’ex-Repubblica di Genova al Regno di Sardegna – non lo acquistarono per farne il loro palazzo ufficiale durante i periodi di residenza nel capoluogo ligure; così la famiglia genovese, tutt’ora proprietaria del palazzo sito in piazza della Meridiana, collocò questi tre busti nel salone del piano nobile.

 

Note

[2] Con il Congresso di Vienna (1° novembre 1814 - 9 giugno 1815), la Repubblica di Genova – o come era meglio nota al tempo, Repubblica Ligure – non riottenne la sua indipendenza in quanto fu annessa direttamente ai territori governati da casa Savoia che da secoli cercavano uno sbocco sul mare, ottenendo così uno dei principali porti del Mediterraneo.

 

Bibliografia

Alizeri, Guida illustrativa della città di Genova, Genova 1845

Colmuto, Palazzo Brignole-Durazzo, in Genova, Strada Nuova, a cura di Vagnetti, Vitali e Ghianda, Genova 1967

Gavazza, Lorenzo De Ferrari, Milano 1965

Gavazza, Lo spazio dipinto. L’affresco genovese del ‘600, Genova 1989

Poleggi, Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1530-1664, Torino 1998

Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova in Liguria nel Settecento, 2000

Ciotta (a cura di), Genova. Strada Nuovissima. Impianto urbano e architetture, Genova 2005

Franzone, G. Montanari, Palazzo Brignole Durazzo alla Meridiana in Genova, 2018


LA SALA DELLE NOZZE DI ALESSANDRO E ROSSANE

A cura di Federica Comito

Subito successiva alla Sala delle Prospettive, si trova la camera da letto di Agostino Chigi conosciuta come la Sala delle Nozze di Alessandro e Rossane. Prende il nome dalle storie affrescate che vedono come protagonista Alessandro Magno e la principessa Rossane, figlia di Ossiarte satrapo della Battriana (una regione asiatica corrispondente più o meno all'attuale Afghanistan), che il giovane condottiero sposa nel 327 a.C. La storia scelta era destinata a glorificare il committente Agostino, paragonandolo all'eroe della classicità. Affrescata nel 1518-19, effettuarono i lavori nella sala prima l’architetto Baldassarre Peruzzi e poi il pittore Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. Questo incarico offrì al Sodoma la possibilità di entrare a far parte del prestigioso circolo di umanisti di Agostino Chigi. Nella sala colpisce l’elaborato soffitto a cassettoni con forme geometriche dorate e blu che incorniciano dodici piccoli riquadri rappresentanti scene dalle Metamorfosi di Ovidio alternate a decorazioni vegetali. Disegnato da Baldassarre Peruzzi, è stato eseguito poi da Maturino da Firenze aiutato probabilmente da un giovane Polidoro da Caravaggio. Al centro si trova lo stemma araldico di Agostino Chigi su fondo azzurro.

Fig. 1 - Soffitto cassettonato con lo stemma di Agostino Chigi e decorazioni.

Gli affreschi della Sala delle Nozze

Sulle pareti sono affrescate alcune significative scene della breve vita del condottiero Alessandro Magno, morto a soli 33 anni.

Sull’intera parete nord della Sala delle Nozze è raffigurata la scena, particolarmente conosciuta e che dà il nome alla stanza, delle Nozze di Alessandro e Rossane. Nell'affresco sono frequenti i richiami al tema matrimoniale, dai puttini alati alla fiaccola accesa sostenuta dal dio Imeneo, emblema delle nozze, ritratto alle spalle del seminudo Efestione, fedele compagno del condottiero macedone. Da notare i giochi prospettici: in basso una sorta di balaustra dietro la quale si vede un pavimento in prospettiva con Alessandro che porge la corona alla bellissima sposa; sul fondo del padiglione del letto c’è uno specchio - tipico della cultura fiamminga - che ingrandisce otticamente la stanza; un loggiato sulla destra dona profondità alla scena. Il letto, probabilmente, riprendeva quello realmente presente nella camera, costato 1592 ducati perché realizzato in oro, avorio e pietre preziose. L'affresco con le Nozze di Alessandro e Rossane era il più importante perché dedicato al matrimonio tra Agostino e Francesca, ma anche il più difficile da realizzare in quanto avrebbe dovuto ricreare un antico dipinto del pittore greco Aezione. Purtroppo però tale dipinto non esisteva più, e non ne erano neppure reperibili delle copie. Per ricostruirlo si dovette far fronte a una descrizione letteraria contenuta nell'Erodoto dello scrittore latino Luciano. Il testo, in greco, venne tradotto in latino nel 1503, ma stampato e diffuso solo dopo il 1529. Secondo alcuni storici è probabile che inizialmente Agostino Chigi avesse affidato a Raffaello il compito di dipingere questa camera, infatti in alcuni passi dei trattati di Dolce e Lomazzo si accenna ad un disegno realizzato dal Sanzio ad acquerello e biacca con le storie di Alessandro il Grande. Tuttavia Raffaello in quel momento era già impegnato ad affrescare la Loggia di Psiche perciò l'incarico passò al Sodoma, già conosciuto dalla famiglia Chigi in quanto aveva lavorato a Siena per Sigismondo, fratello di Agostino. Prendendo in esame lo studio di Raffaello, il Sodoma ridefinì la composizione, seguendo scrupolosamente il testo letterario e arricchendo la scena di elementi narrativi. La mano raffaellesca è ancora evidente, come nella donna con la brocca a sinistra, ripresa dall'Incendio di Borgo nell’omonima Stanza Vaticana, ma anche nelle architetture tipicamente bramantesche e nella dilatazione spaziale. Il Sodoma però effettua anche interessanti variazioni personali, dettate dai suoi studi archeologici: la figura di Alessandro deriva dalla conoscenza dell'Apollo del Belvedere, quella di Vulcano ripropone il movimento ricco di tensione e dramma del Laocoonte.

Fig. 2 - Parete affrescata con la scena delle nozze di Alessandro e Rossane.

Sulla parete successiva è raffigurato Alessandro Magno che doma Bucefalo, dipinto in cui è riconoscibile, specialmente nella parte destra, la mano di un collaboratore. Si pensa che questo affresco sia stato realizzato per coprire i buchi lasciati dalla rimozione del letto a baldacchino che doveva trovarsi ancorato proprio a quella parete. Pare invece che il lato sinistro sopra l’entrata, dove si intravede sullo sfondo la Basilica di Massenzio e in primo piano la Lupa con Romolo e Remo, sia da attribuire al Sodoma.

Fig. 3 - Affresco con Alessandro che doma Bucefalo.

Nella parete tra le due finestre è affrescata una scena di battaglia con un paesaggio di campagna romana che si perde all'orizzonte, visto, anche in questo caso, oltre un parapetto come se ci si affacciasse sulla battaglia.

Fig. 4 - Scena di battaglia affrescata tra le due finestre.

Sulla parete destra è dipinta la Clemenza di Alessandro Magno nei confronti della famiglia di Dario, il re persiano sconfitto: Alessandro Magno, dopo la battaglia, riceve e perdona la vedova e le figlie del rivale. Tra le figure femminili si è voluta riconoscere una donna ispirata alla Galatea di Raffaello. Sotto l’affresco si trova il camino e ai lati è affrescata la fucina di Vulcano. Il dio si trova nella sua bottega a forgiare le frecce dell'amore per Cupido: è chiara l'associazione tra la fucina del dio e l'allume vulcanico alla base della ricchezza di Chigi, ma anche la volontà di alimentare il fuoco dell'amore. Infatti Chigi soffriva di idropisia (termine oggi sostituito da anasarca) che, in alcuni casi, influenza le prestazioni sessuali. Questo potrebbe quindi essere collegato all'approccio rinascimentale alla medicina, che coinvolgeva la teoria degli Umori secondo cui il loro squilibrio causava malattie. Pertanto l’incendio della fucina contrasterebbe l'effetto negativo dell’acqua legato all’idropisia.

Fig. 5 - Affresco raffigurante la Benevolenza di Alessandro. Sotto il camino e la fucina di Vulcano. Credit: Franco Cosimo Panini Editore.

Esiste anche una diversa lettura di questi affreschi del Sodoma che si basa sull’ermeneutica alchemica, citando le quattro fasi della Grande Opera (nigredo, rubedo, citrinitas, albedo; rispettivamente annerimento, sbiancamento, ingiallimento e arrossamento) descritte con simboli crittografici. Conosciuta in latino come Magnum Opus, la Grande Opera è l'itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima, finalizzato a realizzare la pietra filosofale.

Imperia e Francesca

Secondo una teoria meno considerata l’intera Villa, e in particolare la Sala delle Nozze, sarebbero stati realizzati non per Francesca Ordeaschi ma per omaggiare Imperia, una cortigiana di cui Chigi si era innamorato prima di conoscere Francesca. Imperia era considerata la donna più bella di Roma, al pari di una dea, però non era felice. Innamorata, infatti, di un nobile romano, Angelo Del Bufalo, non poteva sposarlo perché l’uomo era già coniugato. Quindi, dopo l’ennesimo litigio con l’amante, decise di uccidersi, assumendo un veleno mortale: a nulla valsero le cure dei medici più famosi di Roma chiamati da Agostino Chigi. Dopo due giorni di dolorosa agonia, Imperia morì. Agostino finanziò un maestoso funerale a Roma, sensazionale per una cortigiana. Il suo monumento funebre a San Gregorio al Celio non è sopravvissuto fino ai giorni nostri.

Questa sala, conosciuta come la "Camera delle Nozze", è stata incessantemente associata alla decisione di Chigi di sposare la veneziana Francesca Ordeaschi nel 1519, quando Imperia era già morta. Tuttavia recentemente è stato pubblicato un ritratto di Imperia e, se questo ritratto presenta le reali fattezze della donna, gli stessi lineamenti del viso possono essere chiaramente osservati in Rossane, in Galatea nel Trionfo di Galatea e in Venere nel pennacchio con Venere e Psiche nella Loggia di Psiche.

Quindi lo schema unificante per i dipinti di Villa Farnesina raffigurerebbe il grande amore di Chigi per una cortigiana, culminante in questa stanza finale, dove egli, attraverso la fantasia, potrebbe negare la realtà dei fatti e vivere un matrimonio immaginario, non reale, incarnato in parte nell'iscrizione originale che correva attorno alle pareti:

Vale et dormi; somnus enim otium est. Animae felices a miseris in dimidio vitae non differunt

(Addio e sonno; veramente nei sogni c'è tempo libero / pace / quiete / riposo. Gli spiriti della fortuna e della miseria nella vita vengono mandati via ma non dispersi.)

Nella Stanza delle Nozze tutto viene spazzato via a favore di una vita di fantasia, l'illusione del sogno dell'antichità e della classicità, dove tutto è bello oltre che eterno. Questo può forse essere il significato di fondo di uno dei tanti elogi a Imperia in occasione della sua morte, dove Chigi è identificato con l'Impero e Imperia con Venere e la loro storia d'amore elevata a un mito della Roma rinascimentale:

Dii duo magna dederunt munera Romae: Imperium Mavors et Venus Imperiam ... Hos contro steterunt Mors et Fortuna, rapitque Fortuna imperium, mors rapit Imperium. Imperium luxere patres, nos luximus ipsi hanc: Illi orbem, nos nos cordaque perdidimus.

(Gli dei fecero a Roma due grandi doni: Marte le diede l'Impero e Venere [diede] Imperia ... La morte e la fortuna erano contro di loro: la fortuna portò via l'Impero e la morte [prese] Imperia. I nostri padri piansero sull'Impero e noi piangemmo troppo su di lei: persero [l'Impero] mentre noi perdemmo il cuore.)

Così il poeta Giano Vitale piange la morte della cortigiana nell’Imperiae panegyricus nel 1512, anno della morte della fanciulla.

Conclusione

Si tratta della storia d’amore tra una ragazza di rango inferiore, anche in questo caso, e un uomo di successo, come la storia d’amore tra Francesca Ordeaschi e Agostino, perché anche Imperia era una cortigiana. Gli affreschi dipinti dal Sodoma raccontano delle nozze tra Alessandro Magno e Rossane, prima prigioniera e poi sposa. La scelta non è casuale, infatti gli affreschi non servono solo ad elogiare il matrimonio ma anche l’ascesa della moglie, Francesca Ordeaschi, da amante a moglie legittima. Quest’ultima versione è quella generalmente accolta.

Gli affreschi della Stanza, ritoccati da Carlo Maratta alla fine del ‘600, vennero restaurati nel 1974-1976 grazie ad un nuovo e fondamentale restauro.

 

Bibliografia

“A Fantasia Of Pagan Myth In The Villa Farnesina: Agostino Chigi’s Homage To His Lover, Imperia”, in Pagans and Christians- from Antiquity to the Middle Ages, ed., Lauren Gilmour, British Archaeological Reports, International Series 1610

Terenzio, La Farnesina, in “Bollettino d’arte del Ministero della Educazione Nazionale”, n. 24, 1930/31, pp. 76-85

 

Sitografia

http://www.travelingintuscany.com/arte/ilsodoma/villafarnese.htm

ww.villafarnesina.it

https://www.youtube.com/watch?v=eXPhhjkGLsI


PALAZZO BARBERINI A ROMA

A cura di Maria Anna Chiatti

Palazzo Barberini: il casato, il progetto e la fabbrica

La storia dell’intera famiglia Barberini sarebbe, come facilmente si intuisce, troppo lunga e perigliosa da affrontare in una trattazione come questa, quindi ci si limiterà a delineare soltanto le vicissitudini di alcuni personaggi, in particolare di Maffeo Barberini, ben più noto con il nome di papa Urbano VIII. Il prestigio che prima il cardinalato e poi la tiara valsero all’intero casato, sta alla base delle motivazioni che portarono alla costruzione di uno dei palazzi più belli di Roma, nel XVII secolo così come oggi.

Fig. 1 - Pietro da Cortona, Ritratto di Urbano VIII, 1624 – 1627 ca. Credit: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?cu

Il casato e lo stemma

Maffeo Virginio Romolo Barberini (1568 – 1644, fig. 1), quinto dei sei figli di Antonio Barberini (M. 1571) e di Camilla Barbadori (M. 1609), nacque il 5 aprile 1568 a Firenze, dove sette anni prima si erano trasferiti i suoi avi, commercianti di tessuti, oriundi di Barberino di Val d’Elsa; da questo luogo proviene anche il cognome della famiglia, che ab origine era Tafani.

Alla prematura scomparsa del padre l’educazione dei figli fu affidata a Camilla sotto la tutela del cognato Francesco Barberini (1528 - 1600), il primo laureato, sacerdote e prelato della famiglia, allora protonotario apostolico presso la Curia romana.

Maffeo svolse studi umanistici presso il Collegio fiorentino dei gesuiti e nel 1584 si trasferì a Roma su invito dello zio per frequentare il Collegio romano e perfezionare gli studi; due anni più tardi si recò all’Università di Pisa, dove si laureò il 7 aprile 1588 in utroque iure [1]. Dopo il ritorno a Roma si occupò soprattutto dell’amministrazione dei beni e degli affari dello zio impegnato nel mercato di compravendita degli uffici vacabili: Francesco comprò per il nipote numerosi e costosi uffici, grazie ai quali questi poté fare carriera all’interno della Curia pontificia. Nel 1593 lo zio rinunciò al protonotariato in favore di Maffeo, che qualche anno più tardi riuscì anche ad ottenere la carica di chierico di Camera, un promettente trampolino di lancio per raggiungere il cardinalato.

Il 28 maggio 1600 morì lo zio Francesco, lasciandolo come unico erede fiduciario.

Grazie all’enorme ricchezza ereditata, a Maffeo furono conferiti da Clemente VIII (1536 - 1605) incarichi dispendiosi ma molto prestigiosi: la nunziatura straordinaria ricevuta nel 1601 lo portò alla corte di Parigi, dove instaurò ottimi rapporti con il mondo politico e culturale francese.

La carriera del nostro ebbe poi sviluppi assai rapidi: nel settembre del 1604 fu ordinato sacerdote e ad ottobre era già arcivescovo titolare di Nazareth (seppure questa fosse una nomina sui generis, perché l’arcivescovato di Nazareth era unito a quello di Barletta e ne condivideva le esigue entrate). A novembre fu ufficialmente nominato nunzio ordinario alla corte di Francia, dove rimase per tre anni; l’11 settembre 1606 papa Paolo V (1552 - 1621) promosse Maffeo al cardinalato, e il 14 ottobre a Fontainebleau il re di Francia Enrico IV (1553 - 1610) consegnò il berretto rosso al nuovo cardinale alla presenza della corte reale.

A seguito di questa nomina i tre tafani che avevano finora popolato lo stemma della famiglia vennero sostituiti con altrettante, più nobili, api (Figg. 2-3).

 

Il Cardinal Barberini non prese più residenza nella “Casa Grande” in via dei Giubbonari perché il palazzo risultava troppo piccolo per le sue esigenze: nel 1620 la famiglia contava quarantasei persone, e gli stretti vicoli di accesso non consentivano l’agevole passaggio delle carrozze. Durante i soggiorni romani, perciò, egli usava affittare prima il palazzo Salviati in piazza del Collegio romano, poi il palazzo Madruzzo in Borgo.

Quando il 19 luglio 1623, undici giorni dopo la morte di Gregorio XV (1554 - 1623), iniziò il conclave per la nomina del nuovo pontefice, l’orizzonte si delineava incerto perché dei cinquantacinque cardinali che parteciparono al conclave, almeno quindici erano ritenuti papabili: le tre fazioni in concorrenza, numericamente equivalenti, erano formate dai rapporti di clientela che le legavano alla casa Aldobrandini o Borghese o Ludovisi, piuttosto che da appartenenze politiche filofrancesi o filospagnole. Dopo diciassette giorni di inutili scrutini, mentre il caldo estivo si faceva insopportabile e dilagava fra i conclavisti una febbre infettiva (che dopo qualche tempo ne avrebbe uccisi quaranta), finalmente si raggiunse un compromesso fra le fazioni Borghese e Ludovisi: la mattina del 6 agosto si arrivò all’elezione del Cardinal Barberini con cinquanta voti su cinquantaquattro.

Maffeo assunse il nome di Urbano VIII.

Palazzo Barberini: dal progetto alla fabbrica

L’elezione al soglio pontificio di Maffeo determinò quindi per l’intera famiglia la necessità di avere una residenza romana adeguata al nome di Sua Santità per immagine e dimensioni.

Se in un primo momento si pensò di ampliare la “Casa Grande” in via dei Giubbonari attraverso l’acquisto di edifici attigui, ben presto fu palese la necessità di costruire una dimora che fosse nuova e più rappresentativa rispetto alla casa in cui vivevano Carlo Barberini (1562 - 1630, fratello di Maffeo) e la famiglia dal loro arrivo a Roma all’inizio del secolo.

Quasi tutte le proposte presentate si riferivano alla proprietà sulle pendici del Quirinale che Francesco Barberini (1597-1679, figlio di Carlo) aveva acquistato nel 1625 da Alessandro Sforza, tenendo conto dell’edificio già presente in quel sito: un lungo e stretto corpo di fabbrica a due piani, risultato di parecchi ampliamenti (l’ultimo dei quali molto recente) dell’originario casino di metà Cinquecento.

I primi progetti contemplavano tutti la tipica struttura fiorentino - romana del palazzo con corte centrale, come si può osservare in un codice dell’Archivio Barberini (Barb. Lat. 4360), o nel disegno di Carlo Maderno (1556 - 1629) conservato a Stoccolma, o ancora nella prefigurazione che compare nella pianta di Giovanni Maggi del 1625 [2]. In tutti questi esempi il casino Sforza veniva inglobato nella fabbrica come uno dei lati che circondano la corte centrale quadrata, e la scelta di mantenere la preesistenza prevalse poi anche nel progetto definitivo, avviato nel 1628: un progetto che si discostava sostanzialmente da tutte le proposte precedenti, “imponendosi come un caso di innovazione tipologica tra i più straordinari nella storia dell’architettura italiana” [3].

Il palazzo fu pensato come un volume compatto, ma sviluppato in avancorpi che ne racchiudessero sia la facciata est verso il giardino che, più profondamente, la facciata ovest verso la strada Felice (oggi via delle Quattro Fontane). Questo prospetto occidentale è una bellissima finta loggia a tre piani, e all’epoca della sua costruzione era in dialogo sia con i prospetti sul cortile e sul giardino di palazzo Farnese che con la quattrocentesca loggia delle Benedizioni a San Pietro, demolita nel 1610 [4].

Appropriato a un sito suburbano, l’impianto con avancorpi consentiva un riutilizzo semplice e meno costoso della preesistenza Sforza. Inoltre è possibile che Urbano VIII e Francesco volessero conferire alla dimora di famiglia un aspetto simile ai contemporanei palazzi francesi: anche il “Cardinal nepote” aveva infatti trascorso un periodo in Francia nel 1625, e aveva potuto ammirare edifici come lo château Blérancourt (1612-1618) e il palais du Luxembourg (dal 1615), opere recenti di Salomon de Brosse (1571 - 1626) che presentavano la corte d’onore aperta tra corpi sporgenti.

Con questa struttura Palazzo Barberini avrebbe saputo assolvere una duplice funzione di dimora di rappresentanza e villa di otium.

Fig. 4 - Vista laterale dell’ala nord. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

Quando si arrivò alla definizione della pianta, la famiglia si affidò al settantenne Maderno, l’architetto più famoso di Roma, al quale tuttavia furono date precise direttive. Il Maestro va quindi considerato autore delle linee essenziali del progetto, dell’assetto e degli ornati degli spazi conclusi finché egli era in vita, quindi l’ala nord (Fig. 4, le cui fattezze sono replicate nell’ala sud), la facciata est (Fig. 5, quella sul giardino) con il corpo centrale come arco di trionfo, e i primi due livelli della loggia a ovest (Fig. 6).

Consulente dei Barberini, sin dall’inizio dei lavori, fu Gian Lorenzo Bernini (1598 -1680); artista già affermato e pupillo di papa Maffeo, è possibile che sia stato lui a suggerire al collega Francesco Castelli (altresì noto come Borromini, 1599 - 1667) l’iconico tema dell’ovale trasverso sia per la sala verso il giardino che per la scala sud, ancora circolare in un disegno di Borromini [5].

Bernini, al quale fu affidata la direzione dei lavori dopo la morte di Maderno, completò la loggia della facciata ovest con un terzo livello, e si può individuare il suo stile anche nelle finestre a edicola ionica delle campate di collegamento tra loggia e ali, e in alcuni portali e camini delle sale interne; tuttavia in questa nuova fase della fabbrica si manifestò anche, per la prima volta in piena autonomia, il linguaggio decorativo profondamente originale di Francesco Borromini, del quale Bernini, prima di rompere con il collega alla fine del 1632, accettò i disegni per i portali minori del salone centrale e per le finestre quadrate del terzo livello della facciata occidentale (Fig. 7).

Fig. 7 - Veduta della facciata occidentale; in alto a destra la finestra quadrata di Borromini. Credit: https://www.barberinicorsini.org/.

L’accesso al palazzo avveniva sia da piazza Grimana (l’odierna piazza Barberini), percorrendo un viale in salita che portava all’adito nord, oppure si poteva entrare da via Felice direttamente nella corte occidentale. Quest’ultimo è anche l’ingresso odierno, cui si accede mediante la cancellata progettata dall'architetto Francesco Azzurri (1827-1901) nel 1848, realizzata poi nel 1865, con i grandi telamoni scolpiti da Adamo Tadolini (1788–1868, Fig. 8).

 

 

Dal cortile si può godere della bellissima facciata, formata da sette campate che si ripetono su tre livelli di arcate sostenute da colonne che ripropongono i tre stili classici (dal basso dorico, ionico e corinzio, Fig. 9). Tramite le arcate del pianterreno si accede al grande portico, articolato in due file di sette e cinque campate coperte a volta (Fig. 10); qui, al centro, si apre una scala che porta ai giardini, sistemati ad un livello più alto del piano terra. Questo spazio coperto consentiva ai Barberini e ai loro ospiti di accomodarsi nel palazzo scendendo dalle carrozze al riparo dalle intemperie e servendosi dello scalone a pozzo quadrato a nord (il cosiddetto Scalone di Bernini, Fig. 11), o di quello elicoidale a sud, la scala del Borromini (che era riservata ad una circolazione più privata, meno di rappresentanza, Figg. 12 e 13). Le due scale monumentali costituiscono le porzioni mediane degli avancorpi accostati all’edificio centrale, secondo un principio estetico e funzionale; la forma del palazzo risulta quindi essere una “H”, in cui l’avancorpo a nord è costituito dal palazzetto Sforza.

 

 

Gli ambienti erano così distribuiti: l’ala settentrionale accoglieva gli appartamenti estivi e invernali dei membri laici della famiglia, Taddeo (nipote di Maffeo, 1603 - 1647) al pianterreno, la moglie Anna Colonna (1601 - 1658) al piano nobile, la madre Costanza Barberini in un settore del secondo piano; l’ala sud era interamente dedicata al cardinale Francesco, mentre il corpo centrale ospitava il grande salone di rappresentanza con soffitto a doppia altezza, l’anticamera agli appartamenti cardinalizi anch’essa a doppia altezza, e la sala ovale che affaccia sul giardino.

Nel 1633 al terzo piano del palazzo fu allestita la grandiosa biblioteca di Francesco (quarantamila volumi): aveva inglobato quella dello zio Maffeo e divenne famosissima e seconda solo alla Vaticana. Vi si accedeva dalla scala elicoidale, attraverso un’anticamera che ospitava sessanta busti di letterati, mentre nel salone dominava il busto di Urbano VIII scolpito da Bernini (Fig. 14). In altre stanze adiacenti furono esposte collezioni di monete, bronzetti, conchiglie, cristalli e minerali. Completava questa enorme raccolta di meraviglie il sontuoso giardino, perfettamente apprezzabile dalla biblioteca, dove si coltivavano specie rare in accordo con la passione botanica del cardinal Francesco.

Fig. 14 - Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Urbano VIII, 1632 - 1633. Credit:  https://www.instagram.com/barberinicorsini/?hl=it

I giardini

In una maniera del tutto pertinente al carattere duplice del complesso, a metà tra palazzo di città e villa suburbana, il giardino era in origine un vero e proprio parco: si estendeva dalla strada Pia (oggi via XX Settembre) fino all'odierna salita di san Nicola da Tolentino, ed era concepito come un giardino all'italiana, comprendente anche un giardino segreto, abitato da animali esotici come struzzi e cammelli. Alla fine del XVIII secolo l’assetto del parco cambiò, e per meglio conformarsi al gusto dell’epoca furono introdotti un'area di alberi ad alto fusto da giardino romantico e la cosiddetta casina di sughero, di fronte alla cordonata di collegamento del giardino con il palazzo. Nel 1814 nell'angolo tra la via Felice e la strada Pia fu costruito uno sferodromo [6] aperto al pubblico, che tale rimase fino al 1881, quando il parco di Palazzo Barberini cominciò ad essere progressivamente eroso dalle politiche urbanistiche, prima umbertina e poi fascista: il giardino, grande spazio libero nel cuore di Roma, venne risucchiato nello sviluppo urbanistico della nuova capitale, che vedeva i suoi ministeri allinearsi lungo via XX Settembre. Al parco fu risparmiata la lottizzazione totale che distrusse Villa Ludovisi, ma furono comunque sacrificate le strisce esterne verso la strada Pia, e lungo la rampa delle carrozze fu costruita nel 1875 la grande serra. Nel 1936 alle spalle della casina di sughero fu costruita la palazzina Savorgnan di Brazzà, ad opera di Gustavo Giovannoni (1873 - 1947) e Marcello Piacentini (1881 - 1960), durante i cui scavi di fondazione venne trovato un mitreo di II secolo.

Nei prossimi articoli si vedranno nel dettaglio alcuni aspetti di Palazzo Barberini come le grandi volte affrescate e le scale monumentali, ma anche il programma decorativo rococò dell’appartamento settecentesco di Cornelia Costanza Barberini, ultima erede diretta della famiglia.

 

Note

[1] Letteralmente “nell’uno e nell’altro diritto”: è un’espressione che si usava per definire i laureati in diritto civile e canonico.

[2] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p.140.

[3] Idem, cit. p. 142.

[4] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 142.

[5] A. Antinori, Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, p. 145.

[6] Impianto sportivo per le varie specialità del gioco del pallone - da non confondersi con il calcio. Nelle nazioni dove si praticano sport sferistici, le definizioni di sferisterio cambiano, ma il significato del termine si riferisce sempre all'impianto dove si disputano partite di giochi sferistici. (Via Wikipedia)

 

Bibliografia

Antinori A., Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, in Scotti Tosini A. (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, tomo I, Electa, Milano 2003, pp. 140 - 145

Spagnolo M., I luoghi della cultura nella Roma di Urbano VIII, in Luzzatto S., Pedullà G. (a cura di), Atlante della Letteratura, vol. 2, Einaudi, Torino 2011, pp. 387 - 409

 

Sitografia

Sito delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica al link: https://www.barberinicorsini.org/ (ultima consultazione 25/08/20)

Dizionario Biografico degli Italiani alle voci:

Urbano VIII, papa (http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-urbano-viii_%28Dizionario-Biografico%29/ ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Francesco (http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-barberini_(Dizionario-Biografico) ultima consultazione 25/08/20)

Barberini, Carlo (http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-barberini/ ultima consultazione 25/08/20)

Enciclopedia Treccani alla voce Barberini, Famiglia (http://www.treccani.it/enciclopedia/barberini_%28Enciclopedia-Italiana%29/ ultima consultazione 25/08/20)


LA SALA DELLE PROSPETTIVE

A cura di Federica Comito
Fig. 1 - Sala delle Prospettive, primo piano, Villa Farnesina.

L’occasione delle nozze con Francesca Ordeaschi convinse Agostino Chigi ad effettuare dei lavori di restauro all’interno della sua villa. In particolare si preoccupò di far allargare il salone al primo piano, conosciuto come Sala delle Prospettive, perché è questa la sala dove si sarebbe poi tenuto il suo banchetto nuziale il 28 agosto 1519, a cui parteciparono personaggi illustri e addirittura Papa Leone X. Agostino affidò tale compito, ancora una volta, al senese Baldassarre Peruzzi, architetto della Villa.

Nella cosiddetta Sala delle Prospettive si nota non solo un richiamo all’antico, ma anche quel desiderio di rapporto costante tra interno ed esterno che è il leitmotiv dell’intera villa e che vede nelle soluzioni di Peruzzi degli esiti straordinari. Infatti, la Sala delle Prospettive deve il suo nome al fatto che per le prime volte in pittura si utilizza la scenografia con effetto di trompe-l’oeil e illusionisticamente la stanza si apre a vedere quello che c’è fuori, ovvero la città che si estende attorno al Palazzo. Ai lati del salone l’architetto ha dipinto due finte logge con colonne affacciate su Roma, raffigurando un tratto di mura in primo piano con dietro la Chiesa di Santo Spirito, una basilica romanica, la Porta Settimiana e a sinistra Monte Mario con Villa Mellini (oggi Osservatorio Astronomico). Per rafforzare l’illusione, Peruzzi arriva a tagliare la lettera “A” del nome di “Agostino Chigi” in un’iscrizione per rendere reale l’effetto tridimensionale della colonna che sporge dalla parete.

Fig. 2 - Parete con espediente tridimensionale, lettera “A” mancante.

Questi affreschi fungono anche da testimonianza di come doveva presentarsi Roma al tempo. Una città ricca di torri i cui balconi venivano costruiti in legno, e che spesso finiva anche vittima delle esondazioni del Tevere. Infatti, in un punto sulla destra, l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia è proprio stato ricoperto dalle acque esondate del fiume. I pavimenti delle finte terrazze affrescate sono identici al pavimento vero e proprio all’interno della Sala delle Prospettive, che non è mai cambiato in 500 anni. Le linee del pavimento sono perfettamente corrispondenti a quelle degli affreschi, come se la pavimentazione continuasse anche nella terrazza; tuttavia, se si cambia punto di osservazione il trucco viene svelato.

Fig. 3 - Particolare del pavimento, cambiando punto di osservazione si nota la differenza tra quello reale e quello affrescato.

Il fregio mitologico e i riquadri con gli dei

Appena sotto il soffitto a cassettoni blu con decorazioni vegetali dorate a rilievo, corre un ampio fregio in cui le scene mitologiche narrate sono scandite da cariatidi in monocromo. Il lungo fregio, che cinge l’ambiente nella parte superiore delle pareti, è stato realizzato da Baldassarre Peruzzi e bottega o forse da un giovane Giulio Romano. Sotto il cornicione affrescato vengono rappresentati gli dei sulle entrate e sui finestroni. Entrando a sinistra le figure femminili e a destra le figure maschili. In ordine riconosciamo: Cerere, Diana, Minerva, Giunone e Venere, a seguire Apollo, Saturno, Giove, Nettuno, Marte e Mercurio. Tra le figure di Minerva e Giunone, Sopra il camino, si trova l’affresco con la Fucina di Vulcano che dà vita ad una lunga tradizione che vede il dio del fuoco associato ai domestici caminetti di tutta Europa e che si ritroverà anche nella Sala delle Nozze.

Partendo da sinistra sono presenti sulla parete nord le dee Diana, Minerva e Giunone. Nel fregio vediamo:

  • la morte di Adone amato da Venere: dal sangue di Adone nascerà l’anemone, il fiore del vento, per non essere mai dimenticato (episodio presente nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio);
  • il trionfo di Arianna e Bacco, divinità molto presente nelle sale della villa;
  • la gara sui carri tra Enomao, che amava decorare il suo palazzo con i crani dei nemici sconfitti, e Pelope che, vincendo la gara, sposò Ippodamia, figlia di Enomao;
  • una scena sul monte Elicona, la sede delle muse in cui è presente il cavallo alato Pegaso che tocca con lo zoccolo la pietra facendo nascere una sorgente sul fondo, altri personaggi con la corona di alloro in testa sono in primo piano;
  • nell’ultimo quadro della parete viene illustrata una scena acquatica con Venere come personaggio principale.

Sopra il camino l’affresco raffigurante la fucina del dio Vulcano.

Fig. 4 - Parete nord, sopra le tre entrate le dee Diana, Minerva e Giunone. In alto il fregio. Al centro il camino con la fucina di Vulcano.

Nella parete est della Sala delle Prospettive sono raffigurati sulle due porte Venere e Apollo, nel fregio tre scene:

  • la prima, molto enigmatica, sembrerebbe rappresentare la dea Iride, riconoscibile a sinistra per la presenza dell’arcobaleno. Probabilmente si tratta della scena in cui la dea chiede a Ipno (il sonno) di mandare uno dei suoi tre figli, in questo caso Morfeo, in sogno ad Alcione per comunicarle che il marito Ceice è morto in mare;
  • nel riquadro centrale Cefalo, che ha dato il nome all’isola di Cefalonia, di cui Eos, la dea dell’Aurora si innamora, e di Procri la sua sposa che dopo tradimenti e riconciliazioni viene uccisa proprio da Cefalo stesso;
  • nell’ultimo affresco si vede il carro del sole.
Fig. 5 - Parete est, il fregio e sopra le due entrate gli dei Venere e Apollo.

Nella parete sud scompaiono le cariatidi; sono presenti quattro finestre sormontate dagli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte, ai cui lati troviamo dipinte le muse. Nei riquadri del fregio sono affrescati:

  • la toeletta di Venere;
  • Apollo che intreccia una corona nuziale;
  • Il mito di Arione di Metimna, leggendario cantore e suonatore di cetra, costretto a gettarsi in mare dai marinai che volevano derubarlo. Viene salvato dai delfini incantati dalla sua melodia, che lo riportano a riva (Erodoto, libro primo delle Storie);
  • Il mito di Pan e Siringa, una ninfa seguace di Artemide, che per sfuggire alle insistenze del dio venne trasformata in un fascio di canne palustri che, mosse dal vento, produssero un suono talmente armonioso da spingere il dio stesso a costruire il famoso flauto a canne conosciuto ancora oggi come “flauto di Pan” (Ovidio, libro primo);
Fig. 6 - Parete sud, il fregio interrotto da finestrelle e sopra le finestre gli dei Saturno, Giove, Nettuno e Marte.

Sulla parete ovest della sala si trovano le due porte sormontate da Mercurio e Cerere e sul fregio le ultime tre scene separate da cariatidi, partendo da sinistra:

  • L’episodio in cui Alcione vede il corpo del marito Ceice in mare;
  • Il mito di Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti all’ira di Giove che, infuriato per la crudeltà degli umani, aveva mandato sulla Terra un terribile diluvio devastante. La coppia, sbarcata sul Parnaso, consulta l’Oracolo di Delfi ottenendo questa enigmatica risposta: "Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre". Stettero a lungo a pensare a queste parole ma un giorno Deucalione si illuminò e capì che la Gran Madre era la Terra, e le ossa della Terra erano le pietre; così le pietre gettate da Deucalione, appena toccarono la terra, diventarono uomini e quelle gettate da Pirra, diventarono donne. In questo modo la Terra si ripopolò.
  • Il momento in cui Apollo deride Cupido il quale si vendica lanciando due frecce che colpiscono Apollo e Dafne ma che hanno effetti contrari. Una d’oro che fa innamorare, l’altra di piombo che lo impedisce. È così che Dafne, per sfuggire agli assalti del Dio, implora il fiume Peneo suo padre e la terra Gea sua madre, di aiutarla a cambiare forma. La sua disperata richiesta verrà esaudita e si trasformerà nell’albero di alloro di fronte al dio che, abbracciando disperatamente il suo tronco, giura che da quel momento in poi il lauro sarebbe stata la sua pianta sacra usata come corona dal dio e dai massimi poeti.
Fig. 7 - Parete ovest, in alto il fregio e sopra le due porte gli dei Mercurio e Cerere.

I restauri della Sala delle Prospettive

Gli affreschi vennero completamente coperti nel 1863 da nuove decorazioni, ma recuperati dai restauri del 1976-1983. Il fregio rimase intatto, seppur con alcune lesioni. I restauratori hanno effettuate delle ricerche e successivamente una pulitura che ha confermato il buono stato di conservazione delle superfici originarie. Nella parte bassa della sala sono stati però riscontrati diversi danni: zone originali fortemente abrase e alterazioni cromatiche in corrispondenza delle finestrelle causate da infiltrazioni di umidità. Si è quindi dovuto procedere, dove possibile, con reintegrazioni a tempera. In prossimità di consistenti lesioni si erano verificati anche dei distacchi dell’intonaco. La parete est in seguito ad un cedimento, subì una lesione ampia circa 8 cm. Il cedimento è tuttora visibile sia nelle due grandi fessurazioni oblique, una delle quali interessa parte della figura di Apollo e il viso dell’amorino sottostante, sia nella posizione degli architravi delle due porte, che pendono sensibilmente verso il centro. Si cercò di ovviare a tale cedimento già nel 1775, con l’inclusione di una catena, mentre nel 1863-66 il duca di Ripalda costruì al piano inferiore un muro di sostegno. Per poter controllare eventuali movimenti delle murature sono stati applicati degli estensimetri alle fessurazioni, peraltro già documentati in antico, che sono stati rimessi in luce con l’asportazione della ridipintura ottocentesca sulle finestre [1]. Il film pittorico del fregio, corroso da precedenti puliture piuttosto drastiche soprattutto nei fondi azzurri e nei verdi, era stato ritoccato ad olio e a tempera e successivamente ricoperto da uno strato di protettivo (o resina ‘ravvivante’). In questo caso ci si è limitati a rimuovere i ritocchi e il protettivo che col tempo si erano scuriti, ma non si è intervenuti sulla pellicola pittorica perché, anche se solo in parte conservata, consente comunque una buona lettura delle figurazioni e dello stile degli artisti. Le pesanti ridipinture di colore marrone-rossiccio delle nicchie sopra le porte e le finestre, con le figure di divinità, come pure i ritocchi a olio effettuati sopra la ridipintura a tempera ottocentesca dei paesaggi e delle vedute tra le finte colonne, sono stati asportati mediante solventi. A seguito di queste operazioni, l’affresco cinquecentesco sottostante è tornato in luce in condizioni più che soddisfacenti, rendendo possibile oggi ammirarlo.

Conclusione

Queste pareti sono particolarmente ricche di storia, anche drammatica. Interessantissime sono le scritte lasciate dai Lanzichenecchi, i soldati mercenari di Carlo V che invasero la villa, ne asportarono i beni e in parte la distrussero. Fu il momento in cui una parte del Rinascimento finì nel Tevere - letteralmente e metaforicamente.  Le scritte vandaliche, che hanno in parte rovinato gli affreschi, sono in lingua tedesca e sono datate al 1527; qualcuno dei soldati di Carlo V, con un pugnale o un altro strumento appuntito, ha inciso delle frasi sul muro affrescato. Una di queste recita più o meno: “Perché noi non dovremmo ridere, noi che abbiamo fatto scappare il Papa?”, riferendosi chiaramente all’episodio in cui Papa Clemente VII fu costretto a riparare a Castel Sant’Angelo. L’odio luterano fu quindi un aggravante in questa tragedia che colpì Roma, che subì un calo di popolazione notevolissimo tra la peste, le fughe e le uccisioni avvenute, appunto, durante il Sacco del 1527.

Fig. 8 - Parete est, scritte incise sugli affreschi dai Lanzichenecchi.

 

Note

[1] Cfr. http://www.icr.beniculturali.it/pagina.cfm?usz=5&uid=68&rid=94

 

Bibliografia

Gli interventi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (già ICR) presso la villa Farnesina-Chigi a Roma, Francesca Romana Liserre

 

Sitografia

www.villafarnesina.it

https://www.vidlab.it/

https://www.youtube.com/watch?v=rgx1FeyPTdg


IL DUOMO DI TRENTO: VIAGGIO FRA I SUOI SEGRETI

A cura di Alessia Zeni

La struttura architettonica esterna

In queste tappe dedicate al Duomo di Trento si terrà un viaggio attraverso i segreti della struttura interna ed esterna della cattedrale. Perché segreti? Perché il Duomo di Trento, come altri monumenti dell’età medievale, nasconde un linguaggio, o meglio una simbologia, che trae origine dai bestiari medievali e dai testi biblici. Non solo, la sua struttura architettonica nasconde incisioni e targhe, memorie della sua storia arrivate fino a noi. In questo appuntamento si farà un tour virtuale attraverso la struttura architettonica esterna del Duomo di Trento, partendo dalla Piazza principale della città, prospicente il fianco nord della cattedrale, e proseguendo fino al fianco orientale della chiesa.

Dalla piazza principale (Piazza Duomo) emerge allo sguardo del visitatore la grande struttura architettonica duecentesca con l’abside nascosta dal castelletto merlato, sede del Vescovo, e la lunga galleria di colonne binate che ne alleggeriscono il prospetto settentrionale.

Fig. 1 - Piazza e Duomo di Trento, fianco nord (www.wikipedia.org).

La cosa che più colpisce il visitatore che si sofferma a guardare il Duomo dal centro della piazza è il grande ottagono del tiburio che copre la cupola interna della chiesa. Il tiburio è opera di fine Ottocento, ideata e realizzata dall’architetto triestino Enrico Nordio (1852-1923), che fu oggetto di molte critiche per la differenza di stile nel colore e nella forma delle pietre, tanto da ritenere Nordio “responsabile del disastroso ed arbitrario restauro purista del Duomo di Trento”, secondo le parole dello storico trentino Nicolò Rasmo.

Fig. 2 - Duomo di Trento, fianco nord, veduta aerea con il tiburio di Enrico Nordio (www.cattedralesanvigilio.it).

Non è l’unico elemento significativo che emerge in questo punto della cattedrale; infatti chi entra in Piazza Duomo ben presto noterà il capolavoro della Ruota della Fortuna, sistemata sul braccio nord del transetto. Un elemento architettonico inserito per ricordare al fedele che la vita è legata al ciclo inesorabile del tempo ed è un continuo oscillare di momenti funesti e momenti di trionfo. La fortuna è al centro del rosone, personificata da una donna coronata che con le braccia muove la ruota della vita. La ruota è suddivisa in dodici lobi che simboleggiano i mesi dell’anno, o le ore del giorno, cioè il tempo attraverso il quale l’uomo costruisce la sua fortuna o sfortuna. Sulla ghiera esterna del rosone sono rappresentati gli uomini sfortunati in posizione capovolta; stanno invece in piedi coloro che cercano di salire verso la sommità della ruota. In cima al rosone, una figura brinda con due boccali e li mostra con le mani alzate a rappresentare il colmo della felicità.

 

 

Sempre sul fianco nord dell’edifico è bene segnalare la grande Porta del Vescovo, perché da qui entravano i cortei vescovili che provenivano dalla residenza di Castel Buonconsiglio. La porta è sormontata da un sontuoso protiro rinascimentale sorretto da due grandi leoni stilofori, qui sistemati a guardia della chiesa, secondo l’antica fama dell’animale di dormire ad occhi aperti. Sul frontone del protiro emerge la figura scolpita del patrono, San Vigilio, e nella lunetta del portale è esposta una delle più antiche sculture del Duomo, un Cristo Pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti.

Fig. 9 - Duomo di Trento, fianco nord, lunetta con il Cristo pantocratore fra i simboli dei quattro evangelisti (www.wikipedia.org).

Proseguendo questo tour virtuale, da Piazza Duomo si svolta verso via Verdi per trovarsi di fronte alla Facciata principale del Duomo di Trento, il lato ovest con l’accesso alla chiesa. La facciata è dominata da un possente campanile con copertura a cipolla e da un magnifico rosone strombato suddiviso in sedici lobi decorati con colonne tortili e archetti gotici. Il rosone è un fine lavoro di intaglio della pietra, adornato sulla ghiera esterna dai simboli dei quattro evangelisti che guardano verso il Cristo assiso in trono. Chiude la facciata il portale strombato con architrave decorato da un tralcio di vite; il tralcio di vite è uno dei simboli cristologici più frequenti nelle chiese cristiane e ricorda il testo biblico: “Io sono la vera vite e voi i tralci”, ovvero Cristo è la vigna e i tralci sono i suoi seguaci o tutti i membri della chiesa cristiana.

Proseguendo verso Piazza Adamo d’Arogno si ammira il fianco sud del Duomo di Trento, che rispetto alle altre facciate della chiesa risulta essere meno incisivo. Qui emerge il corpo quadrangolare della Cappella del “Crocefisso del Concilio” con lo stemma del vescovo Francesco Alberti Poja, committente della cappella, e una modanatura dentellata con archetti pensili sostenuti da mensole con teste e animali stilizzati, opera di scultori campionesi.

Fig. 12 - Duomo di Trento, fianco sud, Cappella Alberti, stemma Alberti Poja (www.cattedralesanvigilio.it).

Chiude il tour il lato orientale, il luogo dove si trovano le absidi dell’edificio religioso, essendo questo orientato sull’asse est-ovest (come tutte le chiese dell’epoca medievale). È il lato più bello e più ricco, ma anche il luogo più antico del Duomo di Trento, poiché da qui presero avvio i lavori di ricostruzione della cattedrale, agli inizi del Duecento, per opera di Adamo d’Arogno. Accanto all’abside maggiore è collocata una piccola abside, molto sobria nella decorazione, ma elegante e lineare nella struttura. Questa fu realizzata prima di quella maggiore, come prova di come sarebbe stato costruito l’edificio.

Fig. 13 - Duomo di Trento, fianco est (www.wikipedia.org).

Accanto all’absidiola è sistemata una porta secondaria con un protiro sorretto da leoni stilofori e tre telamoni che, si pensa, raffigurino i tre figli di Adamo d’Arogno. I tre telamoni sorreggono le cosiddette colonne ofitiche (“òphis” dal greco serpente), ovvero una doppia colonna unita da un “nodo” in pietra che allude al Tempio di Salomone, al quale si richiamava idealmente la chiesa cristiana. Secondo la leggenda è il nodo che si formò fra i capelli del giovane Salomone, figlio di Davide, e re d'Israele, come monito ad essere più buono nei confronti delle persone che lo circondavano. Abbracciando le persone che vedeva, il nodo di Salomone si scioglieva.

Infine si arriva al corpo centrale dell’abside maggiore, la parte architettonica più interessante del Duomo di Trento per il suo ricco apparato decorativo e la grande monofora che illumina la zona dell’altare con la prima luce del mattino. Questa monofora è arricchita da un paio di doppie colonne “ofitiche”, sostenute da due grifoni alati (testa e ali d’aquila e corpo di leone) che agguantano una preda, il drago, a rappresentare la vittoria del bene sul male.

 

Si conclude qui questo viaggio virtuale attraverso i simboli e le decorazioni della struttura architettonica esterna del Duomo di Trento. Un viaggio alternativo per conoscere alcune delle sculture e dei simboli che decorano le pietre del Duomo, sculture e simboli che servono da monito al fedele a condurre una vita nella dottrina cristiana e lontana dalle tentazioni terrene.

 

Bibliografia

Malacarne Ambrogio, Una chiave di lettura della Cattedrale di Trento, Trento, Vita Trentina, 2006

Rogger Iginio, Il Duomo di Trento. Guida breve, Edizioni Museo Diocesano Tridentino, Trento 2004

Castelnuovo Enrico, Ronchetti Mario, Ceri Gianni, Peroni Adriano, Il Duomo di Trento, Trento, Temi, 1992-1993

 

Sitografia

www.cattedralesanvigilio.it


VILLA GRIMANI MOLIN AVEZZÙ PARTE II

A cura di Mattia Tridello

Introduzione

La mole di villa Grimani Molin Avezzù, stagliandosi mirabilmente nel comune di Fratta Polesine (RO), si configura come deciso e inconfondibile segno nel territorio polesano. Scrigno prezioso di innumerevoli tesori, essa diviene un unicum artistico che assurge a chiara e esemplare rappresentazione della villa veneta per antonomasia. Ancorata alla sua isola, definita a sinistra dallo Scortico e a destra da un canale minore, continua a imporsi come effige grandiosa e sublime di uno dei più prolifici periodi architettonici della storia dell’arte regionale, di un tempo passato che vide lavorare nelle sue sale artisti, decoratori e personaggi della storia.  Come statica testimone osservò silenziosamente l’opposizione e la resistenza nei confronti dell’invasore straniero durante il periodo risorgimentale, l’affermazione e il passaggio di committenti e proprietari, lo scorrere inesorabile delle epoche.

L’interno di villa Grimani Molin Avezzù: il piano nobile

L’interno dell’edificio, di chiara impronta geometrica, rivela il suo nucleo più importante e spettacolare nel piano nobile. Quest’ultimo, in pianta (Fig. 17), si presenta organizzato attorno al salone centrale rettangolare che, grazie alla sua dimensione e alla funzione distributiva, permette di accedere a una serie di stanze che si dipartono dal lato destro e sinistro dell’ambiente.

Fig. 17 – Pianta del piano nobile, incisione.

Ipotizzando di iniziare l’itinerario di visita dall'accesso del pronao in facciata, si viene introdotti al salone grazie a una porta d’ingresso del tutto unica. Questa, infatti, si apre in un emiciclo di muratura e si presenta inquadrata in una pseudo-nicchia arcata (Fig. 18 a-b). I possibili riferimenti costruttivi attinti dal progettista potrebbero derivare dallo stesso ingresso presente nel Palazzo dell’Odeo Cornaro di Padova. In quest’ultimo la cornice che sovrasta la porta è ricurva e termina in un arco con pennacchi (Fig. 19). Tuttavia, se nella città padovana l’ingresso si presenta per lo più senza decorazioni pittoriche, a Fratta, invece, viene arricchito da una raffigurazione realizzata da un emblematico pittore, non ancora del tutto identificato, che per generazioni ha suscitato studi e ricerche degli storici dell’arte. Il decoratore della villa realizzò un ciclo di affreschi che abbelliscono parte del piano nobile, ovvero il salone centrale e gli ambienti del lato sinistro mentre quelli a destra tutt'ora risultano incompleti o interrotti. Osservando che l’iconografia del ciclo è principalmente incentrata sui temi dell’amore e della fecondità, la critica ha avanzato l’ipotesi che la decorazione, avvenuta con sicurezza attorno al 1564, possa esser stata iniziata in occasione di un matrimonio; in questo caso di un’unione tra due famiglie, quella Grimani e quella Molin, con gli sposi Isabetta di Vincenzo Grimani (figlia di Vincenzo, proprietario della villa) e Andrea Molin. Una conferma di quanto detto potrebbe celarsi nel fatto che, sia all'ingresso che all'interno della residenza, vi è una sovrabbondante presenza degli stemmi della casata Molin. Un esempio lo si ritrova, come accennato, nel portale d’accesso. Sopra quest’ultimo compare lo stemma dello sposo novello accompagnato dalle personificazioni di fertilità e ricchezza (Giunone) a sinistra con un pavone, e abbondanza (Cerere) a destra con una cornucopia (Fig. 20). Si ritrovano quindi, già dall'entrata dell’abitazione, i temi fondamentali e sempre raffigurati dell’unione matrimoniale, rappresentazioni che senza il verificarsi di quest’ultima difficilmente sarebbero state realizzate.

Per quanto concerne l’attribuzione, la vicinanza tra villa Grimani Molin Avezzù e la “Badoera”, oltre a creare un termine di paragone, ha generato ed alimentato nel tempo forti confusioni attributive degli affreschi realizzati. Che Giallo Fiorentino sia l’autore delle pitture che adornano Villa Badoer non vi è alcun dubbio, ma sull'attribuzione di quelle della contigua residenza al pittore toscano non ci sono prove certe e significanti. L’assegnazione di queste opere alla mano del Fiorentino, per decenni, è stata considerata più che naturale vista la somiglianza delle pose e dei movimenti delle figure rappresentate. Al giorno d’oggi, dopo numerosi studi, si è più concordi nell'attribuire il ciclo ad un “anonimo Grimani”, a un pittore che probabilmente faceva parte della bottega di Giuseppe Porta Salviati e gravitava attorno alla cerchia tosco-romana e manierista presente a Venezia dalla seconda metà del secolo.  A sostegno di tale ipotesi occorre ricordare che Francesco Salviati, insieme ad alcuni artisti della sua scuola quali Giuseppe Porta, giunse a Venezia per la decorazione a grottesche del salotto di Palazzo Grimani commissionato da Vettor e Zuanne Grimani, zii del proprietario di Villa Molin, Vincenzo. La probabile commissione al pittore di Fratta potrebbe quindi derivare dalla volontà della famiglia veneziana di estendere il ciclo decorativo, non solo nel palazzo di famiglia in laguna ma anche nella dimora di campagna, quasi per istituire una sorta di parallelismo iconografico. Non stupisce quindi che la maggior parte degli affreschi in villa siano delle grottesche con personaggi disposti in pose simili ai soggetti rappresentati dal Salviati nel camerino o sala di Apollo nel palazzo veneziano.

Il salone centrale

Una volta entrati nell'ambiente fondante del piano nobile si viene subito attratti dalla quantità di affreschi che, mirabilmente, decorano ogni singolo spazio delle pareti laterali, frontale e posteriore (Fig. 21-21a). Davanti all'osservatore si presenta un ambiente rettangolare che termina, nella parete di fondo, con cinque finestre, delle quali una arriva fino a terra. Il soffitto, sostenuto da travi decorate presenta grandi spazi (ora vuoti) che probabilmente, come era consuetudine per l’epoca, dovevano ospitare delle tele ancorate alla copertura lignea. Procedendo dall'alto verso il basso, una cornice marcapiano affrescata (che corrisponde all'altezza dell’architrave delle porte) divide le pareti in due registri, uno superiore e uno inferiore. In quest’ultimo la decorazione lascia spazio a grottesche con medaglioni, ovali istoriati e monocromi (Fig. 22). La parte alta, invece, ospita ampi affreschi che occupano tutto il perimetro della sala.

Parete destra e sinistra

A destra e sinistra dell’ingresso la decorazione del registro superiore presenta un tema iconografico ripreso dalla storia romana e legato, come si vedrà, agli abitanti della villa. La decorazione, che presenta due scene tratte dal “Ciclo degli Scipioni” non è del tutto casuale perché potrebbe fare riferimento sia al soprannome di “Scipioni” assunto da un ramo della famiglia Grimani sia al fatto che i Loredan si ritenevano diretti discendenti di Muzio Scevola, personaggio altisonante e emblematico della Roma imperiale.

Parete destra: la continenza di Scipione

L’affresco del registro superiore di destra si basa su un episodio della seconda Guerra Punica narrato da Tito Livio e da Valerio Massimo (Fig. 23). Publio Cornelio Scipione, poi noto come Scipione l'Africano per aver vinto Annibale in Africa, durante la campagna di Spagna dopo la presa di Cartagena nel 209 a.C., ricevette come ostaggio un’affascinante vergine che gli fu consegnata personalmente. Egli, tuttavia, ascoltando le suppliche della ragazza, la rispettò rimandandola ai genitori e al fidanzato, con l'unica raccomandazione che il suo promesso sposo, Celtibero, si adoperasse per la pace tra Roma e Cartagine. Il protagonista Scipione viene quindi rappresentato seduto in trono all’estrema sinistra dell’affresco con davanti la fanciulla trattenuta da soldati e con al fianco sinistro il fidanzato di quest’ultima (con lancia ed elmo). Il generale indica il padre della ragazza che, stando in ginocchio di fronte a lui, porta con sé dell'oro per il riscatto della figlia, pegno che Scipione rifiuta annunciando la notizia di liberazione al familiare.

Fig. 23 – Anonimo Grimani, Continenza di Scipione.

Parete sinistra: il giudizio di Scipione

Il soggetto presente, invece, nel registro superiore di sinistra propone un tema iconografico di più arduo riconoscimento. Probabilmente questo dovrebbe raffigurare l’episodio in cui Scipione porge un melograno (simbolo di vittoria e unione) a due romani: il centurione Quinto Trebellio e il marinaio Sesto Digitio (Fig. 24). Questi ultimi si contestavano violentemente l’onore di aver scalato per primo le mura di Nuova Cartagine. Presenti al giudizio del generale compaiono anche altri soldati e comandanti. Tuttavia, oltre a questa ipotesi iconografica, sono state avanzate altre considerazioni che vedrebbero nell'affresco la raffigurazione di “Mise che presenta il melograno ad Artaserse re di Persia”.  In ogni caso comunque il generale antico, coronato e assiso su un trono di Sfingi a baldacchino, porge il frutto a un soldato in atto di inchinarsi. Qualunque sia il soggetto della seconda raffigurazione è chiaro che le due scene, oltre a sviscerare il filo romanismo summenzionato di Grimani e Loredan, rimandano alle doti di clemenza e Concordia che necessitavano per il cursus honorum giudiziario di Vincenzo Grimani.

Fig. 24 – Anonimo Grimani, Il giudizio di Scipione.

Parete dell’ingresso e di fondo: allegorie

La parete che volge le spalle all'ingresso essendo interrotta dalla porta centrale e da quelle laterali (dalle quali si accede alla scala interna) non presenta una decorazione unica ma più composizioni, che tramite le architetture delle grottesche mostrano varie personificazioni e allegorie. Tra queste spiccano quelle della virilità (Fig. 25), ricchezza e nobiltà (Fig. 26) che poi continuano anche negli spazi laterali della parete di fondo.

Prima sala di Levante

Aprendo la prima porta presente alla sinistra dell’ingresso si viene introdotti in una delle più vaste sale laterali del piano. L’ambiente, anticamente destinato alla funzione di sala da pranzo o dei banchetti, si presenta perlopiù dalla forma rettangolare e vi si aprono ben quattro finestre, due prospicenti la corte antistante e due affacciate sul giardino laterale (Fig. 27). La meraviglia di tale spazio risiede, tuttavia, nella decorazione a trompe l’oeil della volta a schifo (Fig. 28). Una cornice dentellata sorregge una balaustra, dalla quale si sporgono numerosi personaggi maschili e femminili vestiti in abiti cinquecenteschi e accompagnati da volatili e animali di vario genere, che guardano incuriositi il visitatore sottostante (Fig. 29 a-b). A dominare dall’alto la scena compare un riquadro entro il quale, tra le candide nubi del cielo, trovano spazio Giunone, riconoscibile grazie al suo simbolo - il pavone - e Giove, figura attualmente scomparsa ma identificabile grazie all’aquila. Come accennato, l’affresco si presenta fortemente danneggiato tanto da non riuscire a riconoscere la figura del padre degli dei, poiché prima degli interventi di restauro degl’anni ’70 del ‘900 la sala era divisa, come si evince da una pianta del Settecento (Fig. 30), da una tramezza in muratura che quindi divideva (e irreparabilmente manometteva) la delicata pittura.

Fig. 30 – Planimetria settecentesca raffigurante la pianta di villa Grimani Molin Avezzù, in evidenza la tramezza che divideva la sala.

Procedendo verso il basso, le parti ricurve della volta presentano altre decorazioni a grottesche ove figurano anche quattro riquadri, uno per lato, rappresentanti le personificazioni delle quattro stagioni (Fig. 31). Risulta, già da una prima occhiata, intuibile il riferimento, almeno nella concezione architettonica della volta e nella balaustra con personaggi dipinti, al medesimo soggetto dipinto da Paolo Cagliari (detto il Veronese), nel soffitto della sala dell’Olimpo di Villa Barbaro a Maser (Treviso) (Fig. 32). Inoltre, secondo un interessante suggerimento dello studioso Van der Sman, il tema centrale di Giove e Giunone alluderebbe alla celebre mutevolezza di sentimenti e umori delle due divinità e rimanderebbe ai giochi scherzosi d’amore dei personaggi della balaustra disposti, non a caso, in coppie. A fondale della scena si scorge anche la figura di un falconiere (Fig. 33). Questo, insieme a molte raffigurazioni di volatili, come a Villa Badoer, sancisce la ben nota passione per la caccia di Vincenzo Grimani, in particolare per l’uccellagione, assai di moda al tempo.

Seconda sala di levante: lo studiolo

La sala mediana, le cui ridotte dimensioni da studiolo esaltano le grottesche in tutta la loro potenzialità decorativa, è forse la più emblematica e criptica. Quest’ultima si presenta dalla forma rettangolare, con i quattro lati perimetrali occupati da quattro aperture; una di accesso al salone, due di passaggio tra la sala precedente e quella successiva e una finestrata che funge da fonte di illuminazione dell’ambiente. Le pareti, ricoperte interamente da incredibili architetture ispirate alle visioni pittoriche romane, presentano su piccoli triclini figure elegantemente coricate e astanti mentre osservano colui che attraversa lo spazio (Fig. 34). Una di queste, fra tutte, ha suscitato e continua a incrementare numerosi studi, ricerche e analisi vista la sua enigmatica raffigurazione, unica nel panorama delle ville venete. Sulla parete prospiciente il salone, su di un piccolo triclinio, giace la figura ignuda di un uomo anziano con la barba che regge nelle mani una piccola tavola recante alcune lettere dell’alfabeto ebraico (Fig. 35 a-b). Secondo recenti traduzioni la frase che più si avvicinerebbe ad un’interpretazione fedele sarebbe “Davar Milel Aleph”, ovvero, “Una parola esclamò Aleph”. Trinchieri Camiz, studiosa dell’affresco, è concorde nell'affermare che tale raffigurazione potrebbe ricondurre al concetto della creazione operata tramite una lettera dell’alfabeto ebraico come viene indicato nel sefer Yesirah (libro della tradizione cabalistica medievale spagnola). In tale tradizione, infatti, le lettere ebraiche erano oggetto di infinite elaborazioni di tipo magico volte a cercare di formare i nomi con i quali Dio creò il mondo.

Il principio creativo per il quale la Terra si inserisce in un apparato cosmologico, trova un'interessante analisi e rappresentazione anche nei lati della stanza ove, tra elaborate grottesche, si trovano Giove (Fig. 36), Saturno (Fig. 37) e Mercurio (Fig. 38).

Tuttavia, il vero motore stilistico e cosmologico dal quale si dipartono tutte le altre raffigurazioni è senz’altro il soffitto affrescato (Fig. 39 a-b).

Al centro, all'interno di una cornice con mensole aggettanti, viene raffigurata una tenera scena d’amore tra Venere e Marte, l’una riconoscibile grazie al piccolo cupido e alle colombe bianche che svolazzano nel cielo e l’altro, invece, per le armi deposte e la biga appoggiata a un cumulo di nubi. La relazione e il sentimento di passione tra i due amanti richiama sia il vincolo matrimoniale tra i coniugi Grimani-Molin, l’armonia “pitagorica”, motore dei corpi, delle sfere celesti (raffigurate dagli dei sottostanti), sia il cambiamento e l’avvicendarsi delle stagioni. Non a caso, negli angoli della volta, vengono raffigurati personaggi che richiamano il mondo naturale (si veda, ad esempio, la personificazione dei fiumi)e degli elementi, dei quali Marte rappresentava il fuoco e Venere l’acqua.  A decorazione del livello inferiore sono presenti quattro medaglioni ovali ciascuno dei quali rappresenta un determinato episodio sentimentale della vita di Giove, si noti “Leda con Giove in forma di Cigno” (Fig. 40) oppure “Giove in veste di toro che porta via Europa” (Fig. 41).

Terza sala di Levante

Dal dotto intellettualismo di sapore magico e cabalistico dello studiolo, si viene introdotti nell'ultima sala affrescata della parte orientale della villa. Le stanze dell’ala occidentale, invece, risultano non decorate. Molte ipotesi sono state fatte circa il motivo per il quale parte della decorazione non venne più continuata. La più condivisa a livello storico giustifica tale mancanza a seguito dell’improvvisa morte della moglie di Vincenzo Grimani, Lucrezia. La terribile notizia, probabilmente, causò l’arresto dei lavori che non verranno più ripresi.

L’iconografia del ciclo che decora la sala tratta il tema dell’amore sensuale (motivo per cui si è ipotizzato che tale stanza ospitasse la camera da letto dei novelli sposi) declinato in numerosi varianti. Per questo, le pareti dello spazio, per lo più quadrangolare, presentano diverse raffigurazioni di donne semi-ignude adagiate dolcemente e languidamente in triclini di gusto imperiale. Tra queste si riconosce la figura di Cleopatra (Fig. 42) grazie alla presenza, sul suo braccio alzato, di un serpente che ne richiama la vicenda storiografica e la morte.

Ancor più interessante e ricca risulta essere la volta decorata che funge da copertura dell’ambiente. Negli spazi ricurvi di questa trovano collocazione numerose grottesche di sorprendente invenzione che, insieme a festoni floreali e vegetali, sorreggono la cornice dentellata entro la quale si svolge una scena amorosa (Fig. 43). Al centro, infatti, vengono, come di consueto, raffigurati Giunone con il pavone e Giove con l’aquila. Proprio nella figura di quest’ultimo si possono scorgere notevoli somiglianze con i piccoli personaggi affrescati dal Salviati a Palazzo Grimani a Venezia (Fig. 44).

Fig. 43- Anonimo Grimani, volta della terza sala orientale.

Un altro interessante particolare della sala degno di menzione è senza dubbio il trompe l’oeil presente nella parete che volge le spalle al salone centrale (Fig. 45). In questa si aprono una porta reale e una solamente dipinta che presenta all'interno una successione prospettica di stanze, ove figura la rappresentazione di una donna riccamente abbigliata intenta nell'osservare l’interno dell’ambiente in cui ci si trova. Il riferimento per quest’ultima non può non essere legato alla medesima raffigurazione presente nella sala della crociera a Villa Barbaro, sempre dipinta dal Veronese (Fig. 46).

Sul volgere al termine di questo itinerario di visita non si può non pensare come la figura da poco accennata abbia avuto lo straordinario privilegio di essere sempre stata presente, ferma nella sua silenziosa osservazione, all'interno della villa, dentro un contenitore prezioso di arte e storia che non si chiuse definitivamente con il termine della decorazione e l’estinzione della famiglia Molin, ma continuò a rimanere aperto per nuovi proprietari e inquilini, novelle personalità che nell'Ottocento vi abitarono e tessero complicate, intense, pericolose relazioni che, come si vedrà, porteranno ad esiti drammatici. Un caso esemplare, forse il più famoso avvenuto all'interno della residenza, è senz'altro da collocare nel periodo risorgimentale, più precisamente nella giornata dell’11 Novembre 1818. In tale data, infatti, si compì la prima repressione austriaca del Regno Lombardo-Veneto. Durante la sera dello stesso giorno, in occasione di un banchetto nella Villa Grimani Molin, ora Avezzù Pignatelli, la contessa Cecilia Monti di Fratta che vi risiedeva stabilmente invitò numerosi personaggi del paese coinvolti nelle operazioni della carboneria a partecipare alla cena. Durante quest’ultima più volte si inneggiò alla liberazione dall‘Impero Asburgico. Tuttavia, pochi giorni dopo, alcuni gendarmi arrestarono per cospirazione la contessa e gli invitati: Antonio Fortunato Oroboni, Angelo Gambato, Antonio Francesco Villa, don Marco Fortini, Giovanni Monti, Antonio e Carlo Poli, Giacomo, Federico e Sebastiano Monti, Domenico e Antonio Davì, Vincenzo Zerbini e Domenico Grindati. Dopo un processo con accusa di alto tradimento, vennero condannati al tristemente noto carcere duro dello Spielberg. Per mantenere viva la memoria e rendere omaggio all'eroico sacrificio di tanti suoi figli, l’Amministrazione di Fratta rievoca ogni anno il tragico avvenimento con la cena carbonara (Fig. 47-48-49), proprio nel salone di villa Grimani Molin Avezzù, rinsalda un forte legame tra i suoi cittadini e la villa che ne corona l’urbe, rende ancora vivida l’importanza che la residenza ha assunto nei secoli per la storia frattense.

Grazie ai monumentali restauri avvenuti negli anni ’70 del secolo scorso e fortemente voluti dai coniugi Avezzù-Pignatelli (famiglia attuale proprietaria) la villa è potuta tornare al suo antico splendore dopo lo stato di abbandono imperante nei primi anni del ‘900. Grazie alla cura riservata a restituirne l’aspetto più fedele e consono alle testimonianze storiche, la residenza continua a imporsi con la sua maestosa dimensione, nel territorio polesano; continua a narrare quel sottile ma intenso percorso delle epoche, quell'avvicendarsi mutevole e irrefrenabile del tempo, delle dominazioni, dei secoli. Da cantiere cinquecentesco a scenario conviviale, con occhi silenziosi lancia ancora sguardi immutati sul territorio circostante, ben consapevole dell’immensa (se non unica) importanza che ha riversato e dilagato nella storia, nell'arte e nella civiltà. Importanza rara e gemma preziosa che continuerà anche negli anni a venire a brillare e tramandare i fasti gloriosi di un passato lontano, di un tempo unico che ha trovato la sua più concreta e compiuta realizzazione in essa, di un cuore vivo e pulsante che difficilmente smetterà di battere.

 

Bibliografia

Maschio, Villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001;

Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008;

Cevese, Invito a Palladio, Rusconi Immagini, 1980;

Daverio, la Storia dell’Arte, Manierismo e Controriforma, Corriere della Sera, 2019,

Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013;

Gli affreschi di Villa Badoer e Grimani Molin Avezzù, Minelliana, 2008;

Appunti delle lezioni di liceo della Professoressa Alessandra Avezzù;

 

Sitografia

Sito web di villa Grimani Molin Avezzù;

Sito web dell’Amministrazione del Comune di Fratta Polesine;

Sito web “carboneriarovigo”;

Sito web dell’Istituto Regionale Ville Venete;

Sito web di Villa Badoer a Fratta Polesine;

Sito web dell’Archivio di stato di Rovigo;

 

 

 

Fotografie e immagini:

Immagine tratte da:

  • Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013;
  • Maschio, villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001;
  • Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008;
  • Fotografie di dominio pubblico tratte da Google e Google Maps;