LA BASILICA DI SAN GIOVANNI O DEL ROSARIO

LA BASILICA MINORE DI SAN GIOVANNI BATTISTA O DEL ROSARIO A LECCE

Sul sito di una precedente costruzione risalente al 1348 - anno di arrivo dei domenicani  a Lecce- nel 1691 iniziano i lavori della basilica di San Giovanni Battista o del Rosario, in una città in cui si stava vivendo il pieno sviluppo dei canoni dell’arte Barocca, di cui ne è fortemente investita partendo dal modello romano. Barocco come fenomeno artistico che si afferma in maniera totalitaria nel territorio salentino grazie all'assimilazione e alla reinterpretazione delle forme medievali, all'autonomia delle forme rispetto ad altre zone e soprattutto all'utilizzo della pietra calcarea leccese, duttile sotto le mani degli artisti, che rendeva possibile la decorazione di tutti gli elementi architettonici: colonne, fregi e capitelli con festoni, ghirlande, angeli e putti.

I lavori della Chiesa furono affidati ad un ormai anziano Giuseppe Zimbalo, che contribuì tra l’altro al finanziamento e che qui richiese ed ottenne sepoltura, quando nel 1710 muore. Alla sua morte i lavori passarono nelle sapienti mani di Giulio Cesare Penna il giovane e Leonardo Protopapa, fino al completamento nel 1728.

Il prospetto esterno si presenta esuberante e movimentato, diviso in tre ordini come da richiamo ad altre opere dello Zimbalo - una su tutte la Basilica di Santa Croce - da due lunghe balaustre che seguono l’andamento dell’intera struttura. Il registro inferiore si presenta diviso in cinque volumi scanditi da numerose paraste e da due voluminose colonne con scanalature a spirale a maglia stretta, con due corone di fiori e piccole pigne - più o meno ad un terzo dell’altezza - che ne spezzano l’andamento. Le colonne incorniciano il portale sormontato dal simbolo dei domenicani e dalla statua di San Domenico Guzman.

Ai lati del portale ci sono due nicchie con San Giovanni Battista e beato Francesco dell’Ordine dei Predicatori, caratterizzate dalle decorazioni a punte lanceolate, anche queste tipiche delle decorazioni di Zimbalo.

Le due possenti colonne poggiano su una base di forma rettangolare che ritroviamo nella forma dei due alti plinti che ai lati dell’intero prospetto chiudono la facciata ed ospitano due statue: al momento ne è presente solo una, ed è quella di San Tommaso d’Aquino. Caratterizzanti sono i capitelli corinzi in cui terminano: tra i classici motivi floreali trovano spazio anche cavalli alati e una sirena bicaudata.

Quest’ultima è uno degli elementi che il Barocco leccese ripete molte volte nelle sue decorazioni, ma è uno di quegli elementi di chiara provenienza medievale, in cui risiede una simbologia dicotomica tra pagano e cristiano, tra peccato e fertilità.

Una trabeazione alta e liscia, sormontata da una cornice fortemente aggettante, divide il registro inferiore da quello superiore, caratterizzato da una lunga balaustra che segue l’andamento della facciata, ed è decorata da grandi trionfi floreali e dieci statue di piccoli putti posti su dei piedistalli sferici, rappresentanti le visioni del profeta Ezechiele.

Al centro di questa balaustra si trova la statua della Vergine, in corrispondenza del finestrone, che funge, quindi, da elegante e profonda nicchia. Ai suoi lati altre due nicchie con statue di santi e i trionfi floreali sulle volute: queste nicchie collegano, visivamente, i due registri della facciata.

Nel terzo registro più in alto, una balaustra più bassa chiude la facciata separando questa sezione dal timpano mistilineo in cui altri trionfi floreali, più piccoli rispetto ai precedenti, scandiscono lo spazio insieme a candelieri e due statue ai lati, di cui adesso ne è presente una.

L’interno della Basilica, a croce greca, presenta un grande vano ottagonale coperto da capriate lignee: in origine infatti il progetto prevedeva una copertura con una cupola, mai realizzata data l’ampiezza prevista da Zimbalo e la sua morte arrivata prima dell’inizio dei lavori di questa struttura. Tutto il perimetro della fabbrica è segnato da numerose nicchie con statue di santi e dodici cappelle con altrettanti ricchi altari barocchi sei-settecenteschi: dall'ingresso troviamo posizionati gli altari di Santa Caterina da Siena e del Battesimo di Gesù, entrambi della prima metà del XVII secolo su disegno di Manieri.

Proseguendo verso sinistra si susseguono gli altari della Natività di Gesù, della Madonna del Rosario e della Natività di Maria. Il presbiterio accoglie l’altare maggiore in pietra leccese e diversi dipinti tra qui quello più importante con la tela raffigurante la Predicazione del Battista (forse di Oronzo Letizia, artista di Alessano) di patronato dei Montefusco.

Continuando, trovano posto gli altari dell’Assunta, del Crocifisso e di Santa Rosa da Lima, in cui trova spazio una tela del 1735 di Serafino Elmo.

Tutte le ricche colonne degli altari sono di tipo salomonico, modello che si afferma dapprima negli altari della chiesa di Sant’Irene: funge da quinta scenica per le rappresentazioni sacre. Sul fusto tortile si avvolgono tralci di vite e grappoli di uva, simboli del sangue di Cristo che si trasformano in vino tramite la celebrazione dell’Eucarestia. La decorazione a tutto tondo diventa sempre più elaborata e l’andamento ascensionale , curvilineo, sensuale, permette di rispondere ai bisogni di chiaroscuro del barocco, insieme ai bisogni di movimento, di esuberanza artistica e di significati. Le varietas di tutti questi bisogni si manifestano nel numero di spire e nei cambiamenti delle decorazioni man mano che si sale dalla base al capitello, che, prevalentemente corinzio, sembra essere avere la forma di una corona.

Un’ulteriore differenziazione sta anche nella disposizione numerica delle colonne in diversi ordini: singole, binate o trine, in cui la terza colonna è di rinforzo alle altre due e presenta un forte gioco di dimensioni tale da permettere un’integrità di visuale prospettica - esempio è l’altare del Crocifisso -.

Nelle cappelle dell’ottagono ci sono altri quattro altari dedicati a San Tommaso d’Aquino, San Vincenzo Ferrer, San Domenico e San Pietro martire.

Il pulpito cesellato, proprio vicino all'altare di San Domenico, anch'esso in pietra leccese, rappresenta la scena della visione dell’Apocalisse, l’unico delle chiese leccesi ad essere realizzato in pietra.

Lungo il perimetro dell’intera struttura trovano spazio gli stemmi scolpiti delle famiglie aristocratiche di Lecce che contribuirono alla realizzazione della chiesa, mentre sulla contro-facciata si conserva il cenotafio di Antonio De Ferrariis, chiamato anche “il Galateo”, con ritratti ed epigrafi marmoree del 1651 e 1788.

Adiacente alla Basilica di San Giovanni o del Rosario si trova il convento dei Domenicani, ricostruito dal priore Contegresco, che realizza le stanze superiori e il chiostro su due pilastri, il cui prospetto, attribuito ad Emanuele Manieri, è scandito da sei paraste di ordine gigante e delimitato alle estremità dai due portali raccordati mediate volute ai balconi sovrastanti. Attualmente è sede dell’Accademia delle Belle Arti.


CHIESA DI SAN FRANCESCO D'ASSISI A GERACE

Nel bellissimo borgo di Gerace, in provincia di Reggio Calabria, uno dei più suggestivi della Calabria, è presente una delle più importanti architetture appartenente all’ordine mendicante dell’Italia meridionale.

L’edificio di san Francesco d’Assisi a Gerace, realizzato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento sui resti di un precedente edificio romanico, faceva parte di un complesso conventuale di cui restano solo il pozzo e una parte del chiostro oggetto di un restauro recente.

L’apparato architettonico vanta un portale lapideo ad arco acuto con triplice archivolto risalente al trecento riccamente adornato da decorazioni geometriche e fitomorfe di chiara provenienza arabo-sicula, arricchito da una modanatura e da capitelli tra cui è inserita una svastica, la rappresentazione stilista del sole.

Il portale è a ghiera multipla archiacuta posto su due piedritti polistili con colonnine addossate di cui quelle esterne reggono capitelli a crochets, quelle interne invece si legano direttamente alla cornice intermedia di imposta dell’arco, decorata a palmette in successione paratattica disposte su due registri.

L’interno è composto da una navata principale costituita da un ampio ambiente rettangolare coperto da un tetto a capriate, illuminato da una serie di monofore che si susseguono lateralmente, composte da lancette centrali e da due oculi che la affiancano.

Nel presbiterio quadrangolare, coperto da una volta stellata a otto vele, è collocato il sarcofago lapideo di Nicola Ruffo di Calabria, datato 1372-1374. È un’opera attribuita ad un discepolo dello scultore senese Tino da Camaino, il personaggio principale è vegliato da Santa Maria de Jesu affiancata ai lati da due angeli e i Santi Pietro, Elena, Caterina e Paolo.

L’arco trionfale, che mette in comunicazione l’aula con il presbiterio e l’altare maggiore del XVII secolo, sono eccezionali esempi di barocco calabrese, composti da tessere marmoree policrome, con formelle che riproducono elementi fitomorfi, zoomorfi ed elementi paesaggistici, oltre che elementi floreali stilizzati.

Il complesso di San Francesco d’Assisi a Gerace mantiene la sua sacralità fino al 1806, furono i francesi che costrinsero i frati ad abbandonare l’edificio portando con loro il vasto patrimonio artistico che era qui conservato. Dal 1997 la chiesa, sconsacrata, è stata adibita a sala polifunzionale per eventi di interesse culturale.

 

Sitografia

www.comune.gerace,rc.it

www.beniculturali.it

www.paesionline.it

www.viaggiart.com

www.locride.it

A.M. Spanò, Insediamenti francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace, Soveria Mannelli 2006, pp. 39-50.


SAN DOMENICO MAGGIORE A NAPOLI

…NEL CUORE DEL CENTRO DI NAPOLI:

Un caffè a Piazza San Domenico Maggiore a Napoli

Nel cuore del centro storico di Napoli, ai margini tra i decumani e la città greca, maestosamente si apre Piazza San Domenico Maggiore.

Su di essa si affacciano la Basilica di San Domenico Maggiore, da cui prende il nome, e la guglia di San Domenico,   e le fanno  da contorno  imponenti palazzi nobiliari.

Area pedonale, crocevia di studenti e turisti, poco distante dagli altri luoghi simbolo della città, inglobata nel tessuto urbano senza mai perdere la propria identità che affonda le sue radici storiche, artistiche e culturali nel periodo aragonese vissuto dalla città a partire dal 26 febbraio 1443, giorno in cui Alfonso I il Magnanimo, fa il suo ingresso in città.

La piazza fu voluta dagli aragonesi che, da semplice slargo, ne resero il luogo favorito della nobiltà tanto che i più vi edificarono i loro palazzi non solo nell’età aragonese ma anche nei secoli successivi. Infatti l’occhio del visitatore è rapito dalla convivenza dei diversi stili architettonici che sono in essa presenti senza contrapporsi ma in maniera armoniosa, nonostante la diversità di stili ed epoche di appartenenza, poiché la piazza divenne una sorta di “salotto mondano” anche nei secoli successivi la dominazione aragonese.

Nel corso dei secoli successivi, e con i sovrani che succedettero agli Aragonesi, la cura ed il mantenimento decoroso della piazza restano infatti una priorità, tanto da indurre il re Ferdinando IV a  murare nel 1764 nelle pareti della chiesa una lapide in cui si vietava espressamente di “giocare a carte, palle o schiassare” e anche di “farvi vendita di frutti, melloni, deporvi sfrattature o immondezze, mettervi posti d’affittare sedie o banchi di cambiavalute”.

fonte wikipedia
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Al centro di essa, a forma piramidale, si innalza l’obelisco di San Domenico.

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L’obelisco di San Domenico, secondo dei tre obelischi della città (gli altri sono quello di San Gennaro e quello dell’Immacolata) viene eretto per espresso desiderio del popolo napoletano, pagato con somme di denaro stanziate dallo stesso e alle quali contribuirono anche i padri domenicani nel 1656; è un’opera scultorea di età barocca realizzata per ex – voto a San Domenico a seguito della pestilenza che colpì la città in quell’anno. I domenicani ne commissionarono l’opera a Cosimo Fanzago che era già impegnato nella realizzazione di un’opera simile, la guglia di San Gennaro iniziata nel 1636, tenendone il progetto fino al 1658 quando passò a Francesco Antonio Picchiatti che ne mantenne il cantiere fino al 1666.

Sin da subito, i lavori procedettero a rilento tanto da riprendere poi solo nel 1737 da Antonio Vaccaro, che seguì la sua realizzazione fino al completamento della stessa avvenuta in quello stesso anno sebbene ancora priva della statua del Santo, di cui il Vaccaro ne fece il bozzetto.

L’opera è di forma piramidali  e si innalza al cielo per circa 26 metri. Il primo ordine è in piperno e su di esso si alternano  due iscrizioni a  due busti raffiguranti la sirena Partenope. Il second’ordine è invece caratterizzato dalla presenza di stemmi, in particolare ritroviamo quello di Napoli – ovviamente contemporanea alla realizzazione dell’opera – dell’ordine dei domenicani, dei Re di Spagna e dei Viceré d’Aragona.

Al terzo ordine sono di risalto i medaglioni coi Santi domenicani che sono opere del Vaccaro; su suo modello è stata eseguita la statua bronzea di San Domenico, che però risulta essere di un ignoto autore settecentesco…è posta lì proprio ad esaltare l’ordine domenicano, fu collocata al vertice dove tutt’ora si trova, nel 1747, due anni dopo la morte del Vaccaro stesso.

Alle spalle della guglia, si alza maestoso il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore di Napoli, noto anche come “Museo Doma”.

La  fondazione della Basilica  risale al 1283, quando Carlo I d’Angiò ne finanziò l’edificazione e affidò l’edificio, che fu completato nel 1324, ai frati domenicani.

In realtà sulla piazza si affaccia l’abside che, per le sue aperture, sembra avere “gli occhi, il naso, la bocca”  e quindi non la facciata principale che invece si trova nel giardino del convento; ciononostante, dalla piazza, è possibile accedere alla Chiesa attraverso una scala che fu voluta da Alfonso I d’Aragona per la chiesetta romanica di San Michele Arcangelo a Morfisa, chiesa probabilmente eretta intorno al X sec. e successivamente inglobata nella struttura basilicale di cui oggi è al transetto destro.

fonte wikipedia

Nel 1255 Papa Alessandro IV dedicò la chiesa a San Domenico sotto il cui patronato aveva posto anche il convento; successivamente, Carlo II – nel 1283 – volle ingrandire la chiesa, senza però distruggere la precedente, incorporandola così nella nuova.

La Basilica è a croce latina, e fu eretta secondo i canoni del gotico, con tre navate e cappelle laterali con ampio transetto ed abside poligonale, per questo si trova rivolto con verso la piazza, mentre all’ingresso principale si accede attraverso un ampio cortile, raggiungibile da Vico San Domenico, stradina adiacente la piazza. Inizialmente prevedeva tre ingressi: uno per ciascuna navata, ma le due laterali furono chiuse nel corso del XVI sec. per far spazio alle cappelle che, in totale, sono ben 36. Accanto al portone d’ingresso è posto il campanile settecentesco.

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L’interno, sebbene sia estremamente vasto, conserva circa 800 anni di storia e storia dell’arte e presenta una prospettiva architettonica pressoché perfetta, dimostrando che i numerosi interventi cui è stata soggetta non ne hanno alterato l’armonia.

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Nella controfacciata della chiesa, vi è il tondo raffigurante San Domenico. Il soffitto  non è quello originale, poiché fu sostituito nel 1670 da quello attuale a cassettoni con stucchi e dorature e con al centro lo stemma domenicano e, ai lati, quelli vicereali.

Lungo le navate laterali si  trovano 14 delle 36 cappelle, 7 per ciascun lato: si ricordano quella dei Brancaccio con gli affreschi di Pietro Cavalini, oppure la cappella dedicata a San Carlo dove si conservano due tele di Mattia Preti, quella dei De Franchis, detta di “Zì Andrea”   che prende il nome dell’opera lignea “Madonna di Zì Andrea” posta sull’altare, che ha sostituito la “ Flagellazione” del Caravaggio, oggi conservata al Museo di Capodimonte, commissionata proprio dalla famiglia de Franchis al Merisi, per adornare la Cappella.

Altre cappelle sono ospitate anche nei transetti laterali, sia di destra che di sinistra.

La zona absidale vede, alle spalle dell’altare maggiore, la cassa barocca dell’organo, che si trova in uno spazio inizialmente occupato dalle prime sepolture aragonesi, qualcuna andata distrutta nell’incendio del 1506.

L’altare maggiore e la balaustra marmorea sono opera del Fanzago, ma hanno comunque subito diversi lavori a causa di incendi e terremoti. Oltre la chiesa, elevata al rango di Basilica minore nel 1921 da Papa Benedetto XV, scrigno d’arte e capolavoro del barocco napoletano, è sicuramente la Sagrestia.

Sagrestia   copyright : sandomenicomaggiore.it

La Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore è a pianta rettangolare decorata in stile barocco con stalli lignei alle pareti e, sulla volta, presenta il capolavoro assoluto di Francesco Solimena, l’affresco raffigurante “Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani” eseguito tra il 1701 ed il 1707.

L’opera è un turbinio di personaggi sacri che si sviluppano centralmente, sebbene la scena sembri essere quasi caotica: nella parte superiore è Dio, il Crocifisso, la Colomba dello Spirito Santo,la Vergine e San Tommaso col sole in petto, e, nella parte più centrale, si riconoscono San Pietro Martire, Santa Caterina da Siena e Santa Caterina de’ Ricci e Santa Rosa da Lima, e sulla sinistra, San Domenico circondato dalle Virtù; infine nella parte inferiore, sono raffigurati i corpi caduti nell’eresia.

Arche Aragonesi copyright : museosandomenicomaggiore.it

F. Solimena“Il Trionfo della Fede sull’eresia ad opera dei Domenicani”  – Sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore – fonte wikipedia

Volgendo lo sguardo verso il basso, tra la volta e gli stalli si trova un ballatoio ligneo sul quale sono collocate le cosiddette “Arche Aragonesi”, ovvero 42 arche reali del casato d’Aragona, sarcofagi ricoperti di preziosi tessuti colorati che, fino al 1594, si trovavano all’interno dell’abside della chiesa.  Tra i corpi vi era anche quello di Alfonso I il Magnanimo, deceduto nel 1448, ma le cui spoglie furono traslate in Spagna nel 1668, la cassa pertanto è vuota ma è comunque sormontata da un ritratto del re.

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Annessa alla Basilica, è il Convento dei Padri Domenicani, il cui ingresso è da Vico San Domenico, accanto all’ingresso principale della basilica stessa. Restaurato del 2012, sebbene abbia mantenuto le forme di un primo intervento architettonico del XVII sec. , la struttura conventuale si sviluppa su tre livelli: al piano terra il chiostro, anche se in principio erano tre, la sala degli insegnamenti di San Tommaso d’Aquino che qui soggiornò; al primo piano invece sono ancora presenti la biblioteca, il refettorio, la sala del Capitolato ed alcune celle dei domenicani, compresa quella di San Tommaso, con ancora il dipinto originale della Crocefissione, noto per aver parlato al Santo; infine all’ultimo livello, gli alloggi privati dei domenicani tutt’ora presenti nel Convento.

A percorso ultimato, tornando sulla piazza, magari per un babà alla multi secolare pasticceria Scaturchio, che ha qui ha  la sua sede storica, nell’ora del tramonto non è difficile immaginare il corteo reale della Napoli Aragonese dei tempi che furono: complice anche la vicinanza della cappella e del laboratorio dei Sansevero, si materializzano davanti ai nostri occhi, il Re Alfonso I che cammina con la sua Favorita, oppure il fantasma di Maria d’Avalos e del suo amante, il duca d’Andria Fabrizio Carafa, assassinati dal marito della donna, il principe Carlo Gesualdo da Venosa. Un delitto passionale datato 18 ottobre 1590, ovvero quando Carafa, insospettito dalle dicerie su sua moglie, ritornò senza preavviso a Palazzo Sansevero ed in anticipo da una battuta di caccia compiendo l’atroce delitto.

Da allora, e per secoli, chi abitava nei pressi del Palazzo diceva di sentire ancora le urla della donna.

Una piazza intrisa di storie e di leggende di ieri e di oggi, un pullulare di anime e di corpi che hanno attraversato e che tutt’oggi attraversano la piazza, ne accarezzano con la loro anima i palazzi nobiliari da cui è circondata, volgono lo sguardo alla statua di San Domenico posta al vertice della guglia, o lanciano uno sguardo all’abside della Basilica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

  1. Ruggiero “Le piazze di Napoli” – collana ‘Napoli Tascabile’ – Tascabili economici Newton
  2. Salerno “Il Convento di San Domenico Maggiore in Napoli” – Napoli 1997

F.N. Arnoldi “Storia dell’arte “ Vol. III fabbri Editori.

 

Sitografia:

museosandomenicomaggiore.it

wikipedia.it

vesuviolive.it

10cose.it

napoligrafia.it.