LA FLAGELLAZIONE DI CRISTO DI CARAVAGGIO

A cura di Ornella Amato

 

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, La flagellazione di Cristo, 1607, olio su tela, 286 x 213 cm

Collocazione iniziale:

Cappella De Franchis, basilica di San Domenico Maggiore;

Collocazione attuale:
Sala 78 del Museo Nazionale di Capodimonte.

 

Breve introduzione

La presenza del Caravaggio a Napoli trova il suo punto più alto nelle committenze che l’artista bergamasco riceve, tra le quali quella di Tommaso De Franchis.

Tommaso De Franchis era l’esponente di una famiglia di magistrati napoletani che, avendo acquisito il titolo nobiliare di marchesi, aspirava ad un veloce ascesa sociale e nobiliare. Probabilmente, proprio per “velocizzare” questa scalata sociale, scelsero di commissionare al pittore più controverso presente al momento in città la tela che avrebbe adornato in un primo momento una loro cappella privata, ma che successivamente vollero all’interno della loro cappella nella basilica di San Domenico Maggiore. L’opera dal 1972 è collocata alla sala 78 del Museo di Capodimonte.

 

Il dipinto

La Flagellazione di Cristo - più semplicemente nota come La flagellazione del Caravaggio - è una di quelle tele del maestro nelle quali la ricerca della luce e dei suoi effetti sono innalzati a livelli altissimi. La rappresentazione del tema sacro sembra quasi sfidare l’iconografia tradizionale del Cristo alla colonna; la scena è violenta e silenziosa al tempo stesso e il senso delle azioni dei soldati flagellanti è dettato dalla luce che, dal corpo seminudo Cristo, irrompe sulla scena.

 

La scena è quasi teatrale. La colonna che affiora dall’oscurità della scena diventa il punto focale[1] da cui il tutto si snoda: è là che è legalo il Cristo e dal suo corpo tutto si irradia.

Il Caravaggio ha rappresentato gli istanti immediatamente precedenti l’inizio delle frustate. Il corpo di Cristo non è stato ancora martoriato dai flagellanti, rappresentati con atteggiamenti e sguardi rabbiosi. In tre – dopo averlo legato, eseguendo gli ordini di Ponzio Pilato successivi al sommario processo a cui Gesù era stato sottoposto – stanno per iniziare il supplizio che sarà inflitto sul suo corpo.

Tutti i personaggi presenti sulla scena non indossano abiti alla moda romana, ma piuttosto in linea con l’abbigliamento contemporaneo al pittore: ancora una volta Caravaggio umanizza la scena sacra e la rende coeva al suo tempo, senza toglierle sacralità e solennità, che sono invece accentuate dalle tonalità usate.

Dal buio di una vera e propria “quinta teatrale” affiora la colonna marmorea alla quale sono legate le braccia di Gesù. Il suo corpo, al centro della scena, è illuminato da un raggio di luce proveniente da una fonte alta ed esterna che, colpendolo, si espande travolgendo – seppure marginalmente – tutti i personaggi presenti attorno a lui. Sulla sinistra, il primo dei flagellanti è inginocchiato con la schiena ricurva e il capo rivolto verso il Cristo: sta preparando il flagello legando tra loro i rami di legno di una frusta.

 

Alla sua sinistra, un suo compagno tiene stretto in mano il flagello pronto per essere usato, mentre con destra tira i capelli del giovane Gesù, per fargli sollevare il capo chinato. La sua espressione è rabbiosa e lo sguardo quasi violento; una rabbia travolgente che, di lì a breve, sfogherà nel supplizio inflitto a Gesù.

 

L’episodio tratta della flagellazione che i testi sacri raccontano essere avvenuta nelle ore mattutine del venerdì santo, prima che Pilato mostrasse il corpo distrutto e vessato del Cristo al popolo di Gerusalemme in quella che – prendendo spunto dalle stesse parole del prefetto della Giudea – è divenuta poi l’iconografia dell’Ecce Homo.

 

All’estrema destra della tela si trova il terzo ed ultimo flagellante. Il personaggio è impegnato a legare il Cristo alla colonna mentre col piede sinistro spinge, quasi a dare un calcio, il polpaccio sinistro di Gesù, che a sua volta sembra reggersi appena alla colonna, assumendo una posizione disequilibrata e non parallela, facendo forza sul ginocchio e sul piede destro, ben piantati a terra.

 

Nell’opera Caravaggio ha voluto non solo fotografare l’istante precedente all’inizio delle violenze, ma anche immortalare tutti i gesti e le espressioni che istintivamente ne conseguivano.

Il corpo di Gesù è lì al centro, che quasi attende il suo destino.

 

Il pittore conferisce umanità al corpo di Cristo, ma soprattutto al suo volo, che già indossa la corona di spine, rendendolo di una dolcezza che quasi contrasta con la durezza della scena, mantenendo comunque la sacralità dell’evento rappresentato.

 

La grandezza di Caravaggio nel rendere umani i personaggi sacri e nell’affrontare le tematiche dure e crude, come quelle legate alla Passione di Gesù, mirano – secondo F. Negri Arnoldi – “ad una naturalità diretta e disadorna, senza l’intermediazione di norme e modelli ideali. Da cui deriva una nuova e più vera umanità […] per l’evidenza espressiva dei loro atti e sentimenti dai quali scaturisce la versione drammatica delle composizioni”[2].

 

I giorni del Sacro Triduo di Pasqua

La drammaticità della rappresentazione del Caravaggio, accentuata dalla purezza del biancore del corpo nudo del Cristo che in maniera inerme si prepara al supplizio sta per ricevere, è soltanto uno dei momenti più duri dei tre giorni del triduo pasquale: le ore che seguono l’Ultima Cena, la preghiera del Cristo nell’orto del Getsemani, il tradimento e l’arresto, il processo sommario e la flagellazione. Il triduo pasquale trova infine il punto più drammatico nel momento della condanna e della morte di Gesù, che i testi sacri riportano essere avvenuta alle 3 del pomeriggio del venerdì.

Dal Vangelo di Mc, Cap 15, 33 – 37:

 

[33] Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. [34] Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». [35] Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». [36] Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere,

dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». [37] Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

 

 

 

Note

[1] Stando a studi e radiografie cui è stata sottoposta la tela nel corso degli anni ’80, pare che la stesura della opera abbia subito molti ripensamenti da parte del pittore. La colonna è decentrata perché probabilmente la larghezza della tela stessa è stata aumentata di 17cm rispetto alle sue misure iniziali.

[2] Cit.: F. Negri Arnoldi – Storia dell’Arte – Vol. III 1997, Fabbri editori - Seicento e Settecento – La Rivoluzione naturalistica del Caravaggio – pagg. 232 -240

 

 

 

Bibliografia

Negri Arnoldi – Storia dell’Arte – Vol. III 1997, Fabbri editori - Seicento e Settecento – La Rivoluzione naturalistica del Caravaggio – pagg. 232 -240;

Pacelli – La Pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano – Italiane Ed. Scientifiche Cap. II pagg.39-42;

Lachi – La Grande storia dell’Arte – Vol. 7 - Gruppo Editoriale L’Espresso – prima parte – Cap. 2 Caravaggio e la Rivoluzione del Naturalismo – pagg.62 – 81

 

Sitografia

https://www.mbnews.it/2016/03/caravaggio-la-flagellazione-cristo-descrizone-opera-monza-villa-reale-curiosita-storia/

https://capodimonte.cultura.gov.it/la-flagellazione-di-caravaggio-rientra-al-museo-di-capodimonte/

https://artsandculture.google.com/story/8gLi2X8Vigy7JA

http://www.lachiesa.it/liturgia/allegati/pdf/BPALM.pdf

https://www.novena.it/sacra_bibbia/vangelo_matteo/vangelo_matteo27.htm

 

ORNELLA AMATO

LAUREATA NEL 2006  PRESO L’UNIVERSITÀ DI NAPOLI “FEDERICO II” CON 100/110 IN STORIA * INDIRIZZO STORICO – ARTISTICO.

Durante gli anni universitari  ho collaborato con l’Associazione di Volontariato NaturArte per la valorizzazione dei siti dell’area dei Campi Flegrei con la preparazione di testi ed elaborati per l’associazione stessa ed i siti ad essa facenti parte.

Dal settembre 2019 collaboro come referente prima e successivamente come redattrice per il sito progettostoriadellarte.it


LEONARDO DA VINCI E CARAVAGGIO: DUE ARTISTI A CONFRONTO SUL TEMA DELLA NATIVITÀ

A cura di Mery Scalisi

 

Si avvicina il Natale, si avvicina la nascita di Gesù, episodio cardine all’interno della tradizione iconografica cristiana. La Natività, infatti, è un argomento trattato dall’arte cristiana sin dai tempi antichi, presente già nella pittura del IV secolo.

Nelle svariate versioni della Natività vengono narrate le vicende della nascita di Gesù così come descritte nei Vangeli dell’Infanzia, quelli di Luca e di Matteo: gli episodi ricorrenti sono la nascita povera di Gesù, l’Adorazione dei pastori e la visita dei Magi.

In questo articolo mi soffermerò sul confronto tra due artisti lontani nel tempo, nello stile e nel carattere, ma entrambi impegnati, a loro tempo, nella realizzazione di due interpretazioni della Natività: Leonardo da Vinci, equilibrato, statico e strutturato, e Caravaggio, impetuoso e incontenibile.

 

Leonardo da Vinci

Leonardo, nato a Vinci (Firenze) il 15 aprile del 1452, era figlio illegittimo di Ser Piero. Formatosi nella bottega del Verrocchio, rappresenta ancora oggi un caso unico, nonostante fosse “homo sanza lettere”; in vita sua non intese mai occuparsi solo di pittura, scultura e architettura, ma si impegnò a riconoscere il valore dell’esperienza, intesa come sperimentazione e studio meticoloso e scientifico della realtà, in tutte le sue forme.

Di Leonardo, spirito critico e innovatore del Rinascimento italiano, tutti ormai conoscono il genio, ma pochi conoscono l’uomo che non smise mai, in fondo, di essere quel bambino di Vinci che si chiedeva perché e per cosa.

La sua storia, ancora oggi, rappresenta una vera e propria odissea (fig. 1).

 

Adorazione dei Magi, 2,46 x2,43 m, Galleria degli Uffizi, 1481-82, olio su tavola e tempera grassa

Preso sempre da nuovi interessi, Leonardo spesso ebbe difficoltà a portare a termine le sue opere. Nel 1481 i frati del Convento di San Donato a Scopeto (Firenze) gli commissionarono una pala d’altare col tema dell’Adorazione dei Magi, opera che non verrà mai terminata a causa della partenza dell’artista verso Milano.

La tavola dell’Adorazione dei Magi ritrae il momento della visita dei Magi di Gesù bambino; l’artista, inoltre, richiama l’assenza della figura paterna, ricordandoci la propria condizione familiare (fig. 2).

 

Fisionomia, prospettiva, architettura, botanica, zoologia, sono le materie sulle quali Leonardo focalizza il suo interesse, anche a costo di sminuire la correttezza teologica della scena. In questo giovane Leonardo è già possibile riconoscere la trasversalità delle sue conoscenze. Forse i lineamenti del personaggio all’estrema destra del quadro sono quelli di Leonardo stesso, come era di prassi fra gli artisti del tempo farlo (fig. 3).

 

Leonardo in questa opera contrappone la pace trasmessa dai protagonisti sacri al caos espresso dal resto della figurazione (fig. 4, 5).

 

 

A livello compositivo la tavola presenta una struttura del tutto nuova e particolarmente audace per l’epoca: le figure che prendono parte all’evento straordinario fanno da corona alla Vergine, allungandosi con un movimento orbitale verso l’esile figura immersa in un’atmosfera che è anche barriera invisibile per la massa di persone.

L’opera che ammiriamo si presenta ai nostri occhi pressoché allo stato di abbozzo, ma già così ci permette di percepire il lungo processo creativo, fatto di una lunga serie di studi preparatori, che ha visto impegnato l’artista. Prima di arrivare all’abbozzo dell’Adorazione, Leonardo si impegnò a studiare l’episodio precedente, vale a dire il momento della nascita, della Natività, incorporato da Leonardo nell’evento dell’Adorazione e collocato sulla destra, come in una scena cinematografica, grazie all’utilizzo della prospettiva, la “cinepresa” del suo tempo, al tempo.

La composizione è centrata secondo un sistema di diagonali che s’incrociano sul capo della Vergine, ma la scena prospettica ha il suo punto di fuga spostato a destra, fra i due alberi; ciò significa che la carrellata scenografica sta lasciando fuori campo quello che è a destra, la capanna nella quale sono rimasti solo l’asino e il bue, solo in parte visibili: è in questo modo che Leonardo allude a ciò che è accaduto due settimane prima, la nascita di Cristo (fig. 6).

 

Caravaggio

Michelangelo Merisi, nato a Milano il 29 settembre del 1571, da una famiglia del borgo di Caravaggio, il suo apprendistato nella bottega del Peterzano dove assimila la tradizione del realismo lombardo di Moretto, Romanino e Savoldo, che gli permisero di imporsi come uno degli artisti più innovativi del suo tempo.

La vita di Caravaggio fu particolarmente tormentata e proprio questo aspetto fece sì che nel corso dei secoli l’artista rientrasse tra i geni definiti “maledetti” (fig. 7).

 

Lo sviluppo stilistico di Caravaggio lo portò dalle tinte chiare delle prime opere giovanili fino ai forti contrasti di ombre e luci che, nelle opere più mature, accentuano spesso l’immediatezza della brutale realtà della rappresentazione.

Negli ultimi anni del Cinquecento l’artista abbandonò anche i temi della pittura giovanile, prevalentemente di carattere allegorico, per lasciare posto ai soggetti sacri: d’ora in poi le figure protagoniste verranno evidenziate da funesti fasci di luce che, in contrasto con nette zone d’ombra, renderanno profonda e cruda la realtà raccontata dal pittore.

Senza disegno preparatorio e con pennellate veloci, in questa nuova fase della pittura di Caravaggio prevalgono gli sfondi scuri, all’interno dei quali viene abolito quasi del tutto lo sfondo paesistico, in modo tale da porre così invece l’attenzione tutta sull’uomo.

Da questa breve premessa sulla figura di Caravaggio capiamo chiaramente quanto sia forte la componente realistica della sua arte: in ogni tela egli trasferisce la vita vissuta, dipinge dal vero utilizzando dei modelli umili, presi dalla strada, che posano separatamente per poi essere sovrapposti sulla tela. Trovata, questa, che gli causò non pochi rifiuti da parte dei committenti, i quali non potevano accettare di vedere, ad esempio, una Vergine simile ad una donna del popolo, scoperta e ritratta in un ambiente umile e negletto.

 

Natività con i santi Lorenzo e Francesco d'Assisi, 2,68x1,97 m, 1600, olio su tela

Durante la permanenza in Sicilia, nel suo penultimo anno di vita, l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo di Palermo commissionò a Caravaggio una Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi.

L’opera, realizzata nel segno del grande realismo, sua più nota cifra stilistica, mette in scena sei personaggi che nell’aspetto sembrano essere poveri ed emarginati: la Madonna, San Giuseppe, San Lorenzo, San Francesco d’Assisi, l’angelo planante e il sesto personaggio, probabilmente San Leone (fig.8).

 

L’opera, trafugata nel 1969 e della quale se ne sono perse del tutto le tracce, rivela ancora una volta il senso doloroso della vita per Caravaggio, con la presenza di personaggi interpretati da gente semplice e con un’intensità espressiva del tutto unica; protagonisti sono ancora una volta gli emarginati e i poveri che Caravaggio aveva conosciuto e con i quali aveva vissuto durante le sue continue fughe per l’Italia.

Se nell’Adorazione dei Magi Leonardo aveva scelto di abbandonare il momento della Nascita di Cristo per lasciare spazio al momento dell’Adorazione, Caravaggio invece ci racconta il momento vero e proprio della Natività. Grazie all’autentico realismo, presente fino all’ultimo nelle sue opere, l’artista rende l’episodio del tutto verosimile, oltre ad accentuare la componente drammatica grazie ai giochi di ombre e luci che caratterizzano questa sua fase creativa.

La Natività in questione, oltre a presentarsi come assolutamente vera e profonda, mette in scena una serie di personaggi colti in atteggiamenti del tutto spontanei: San Giuseppe, molto giovane rispetto all'iconografia tradizionale, ci volge le spalle e, avvolto in un manto verde, è intento a dialogare con un personaggio che si trova dietro la figura di San Francesco, l’ipotetico Fra Leone. La presenza di San Francesco è sicuramente un tributo all'Oratorio, che all'epoca era passato alla Venerabile Compagnia a lui devota costituitasi già nel 1569. La figura a sinistra è San Lorenzo. Al centro, la Madonna appare qui con le sembianze di una donna comune, nel suo aspetto estremamente malinconico e forse già consapevole della fine del figlio, posto sopra un piccolo giaciglio di paglia (fig.9, 10). È proprio il Bambino a conferire alla scena un forte senso di realismo: Caravaggio dipinge il figlio di Dio come un bambino qualsiasi, evitando di rappresentarlo in preghiera o in Giudizio, come accade in quadri più antichi; proprio sopra il bambino, intanto, vi è un angelo planante, simbolo della gloria divina (fig,11).  La testa del bue è visibile, mentre l'asino si intravede appena.

 

 

 

Bibliografia

Il libro dell’arte. Come guardare l’arte, Bernard Myers, Grolier incorporated

Leonardo, la pittura. Carlo Pedretti, artedossier, Giunti editore

Leonardo, l’ultima cena, Rizzoli, a cura di Federico Zeri

Leonardo pop-up, Courtney Watson McCarthy, Edizioni White Star

Leonardo da Vinci. Dall'Adorazione dei Magi all'Annunciazione. Raffaele Monti, Sillabe

Caravaggio. Roberto Longhi, a cura di Giovanni Previtali, Editori riuniti

Caravaggio, Canestra di frutta. Introduzione di Philippe Daverio. I capolavori dell’arte, Corriere della sera

Caravaggio. La Natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro. Michele Cuppone, Saggi di storia dell’arte

 

 

MERY SCALISI

Sono nata ad Adrano, in provincia di Catania, nel 1990.
Ho conseguito i miei studi presso l'Accademia di Belle Arti di Catania, conseguendo dapprima laurea di primo livello in Comunicazione e valorizzazione del patrimonio storico artistico e successivamente laurea di secondo livello in Progettazione artistica per l'impresa, diventando cultrice della materia storia dell'arte contemporanea presso la stessa Accademia.
Ho avuto la possibilità di intraprendere percorsi lavorativi di svariata natura, dalla didattica museale, attraverso percorsi laboratoriali, portati anche nella scuola dell'infanzia e primaria, al ruolo di operatore culturale per la curatela e organizzazione di eventi d'arte nella mia città e lavorando anche presso una galleria d'arte contemporanea ho avuto la possibilità di inserirmi in un contesto contemporaneo nazionale e internazionale conoscendo artisti le cui tecniche e i modi di lavorare camminano al passo col mercato dell'arte.
Per Storia dell'arte sono redattrice per il progetto Discovering Italia per la regione Sicilia.


MICHELANGELO MERISI DETTO IL CARAVAGGIO, IL MARTIRIO DI SANT’ORSOLA

A cura di Ornella Amato

 

Napoli, Palazzo Zevallos Stignano, Gallerie d'Italia

Napoli, Via Roma già Toledo, Palazzo Zevallos Stignano, sede napoletana delle Gallerie d’Italia, secondo piano, sala degli Stucchi. È qui che si conserva il Martirio di Sant’Orsola, ultima opera di quel genio che rivoluzionò la pittura, quale fu Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.

 

La Napoli vicereale del 1610 fa da scenografia al palcoscenico sul quale, per la seconda volta nella sua vita, si muove il Caravaggio.

 

Breve introduzione ai periodi napoletani del Caravaggio

I fatti romani del 28 maggio 1606, giorno dell’omicidio di Ranuccio Tommasoni, a seguito del quale il Merisi fugge a Napoli e vi si stabilisce una prima volta, sono storicamente accertati e provati.

Inoltre, da documenti d’archivio risulta che il pittore è già documentato nella città vicereale sin dall’ottobre di quello stesso anno, quando ha probabilmente già ricevuto la commissione delle Sette opere di Misericordia, della quale si registra l’attestato di pagamento nel gennaio dell'anno successivo. Del suo primo soggiorno napoletano è testimone anche la documentazione tutt'oggi esistente legata alla commissione della famiglia De Franchis per La Flagellazione, oggi a Capodimonte, avvenuta l’11 maggio del 1607 per la cappella familiare all'interno della chiesa di San Domenico Maggiore, nel centro della città.

Dopo questo primo periodo napoletano, Caravaggio fu nella città partenopea quando, in fuga dal carcere della Valletta, passando dalla Sicilia approda poi a Napoli, dove è presente il 24 ottobre 1609 e dove riceve la commissione del Martirio di Sant’Orsola.

 

La Leggenda di Sant’Orsola

La storia di Sant’Orsola è avvolta in una leggenda che, dal IV secolo d.C., è giunta fino a noi.

Orsola, principessa inglese di culto cristiano, viene promessa in sposa ad un re pagano, con la promessa di costui di convertirsi al Cristianesimo.

Prima di raggiungere il suo sposo, la principessa fa tappa a Roma dove l’accoglie Papa Ciriaco – personaggio di dubbia esistenza storica – per poi ripartire alla volta delle nozze. Tuttavia, sulla sua strada incontra Attila, re degli Unni, che invaghitosene la chiede in sposa. Al rifiuto di Orsola, la principessa viene uccisa nei pressi di Colonia con una freccia scoccata proprio dall’arco del re unno. La stessa sorte tocca alle undici ancelle al suo seguito, successivamente divenute 11.000 a causa di un errore nella segnatura del numero XI tramandato da un’iscrizione che ne ricordava il martirio e ritrovata nei pressi di una chiesa di Colonia. Dalla Chiesa cattolica, Sant’Orsola e le sue ancelle sono venerate il 21 di ottobre.

 

La commissione dell’opera al Caravaggio

Il ritrovamento di documenti all’interno dell’archivio storico di Napoli ha permesso agli storici di ricostruire nel dettaglio la vita della tela, dalla sua commissione fino all’attuale esposizione nella sala di Palazzo Zevallos-Stignano.

Mentre Caravaggio era a Napoli per la seconda volta, ricevette la commissione dell’opera dall’aristocratico e collezionista genovese Marcantonio Doria che, non trovandosi in città, ne delegò l’operazione al suo procuratore in città, Lanfranco Massa. Il genovese pare avesse fretta di ricevere il quadro e il Massa – di conseguenza - mise fretta allo stesso Caravaggio che gli consegnò l’opera prima ancora che si asciugasse la vernice di completamento. Il quadro, pertanto, venne consegnato non ancora ultimato al Massa che però ebbe l’infelice idea di metterlo al sole per farlo asciugare, ottenendo come risultato, piuttosto, quello dello scioglimento della vernice. Ne conseguì la richiesta del Massa stesso al Caravaggio di rimediare all’errore compiuto, ma non è chiaro se davvero il Merisi intervenne ulteriormente sull’opera. Quindici giorni dopo, la tela venne imballata e il 27 maggio 1610 caricata a bordo di una feluca - la Santa Maria di Portosalvo - con destinazione Genova, per raggiungere Marcantonio Doria, dove arriverà il 18 giugno. Il Merisi morirà esattamente 30 giorni dopo sulla spiaggia di Porto d’Ercole. La sua opera rimase a Genova fino al 1832, quando venne rinviata a Napoli, a bordo di una nave che portava lo stesso nome di quella con cui era partita, per essere trasferita in uno dei palazzi napoletani della famiglia Doria.

Nello stesso periodo, la banca commerciale italiana aveva avviato l’acquisizione del Palazzo Zevallos-Stignano, una residenza seicentesca al centro di via Toledo che, completata l’acquisizione nel 1920, venne destinata ad uso bancario. Nel 1972 la tela venne acquistata dalla stessa banca commerciale italiana per l’ufficio del direttore della nuova sede di Napoli quale dipinto di Mattia Preti, ma nell’anno successivo una serie di studi e le radiografie condotte sull’opera in fase di restauro portarono all’accertamento della paternità caravaggesca.

 

Il Martirio di Sant’Orsola

Nell’azzurra Sala degli Stucchi, così chiamata per gli stucchi bianchi che risaltano alle pareti, un’unica opera è esposta: Il Martirio di Sant’Orsola del Caravaggio.

 

L’opera ha le seguenti caratteristiche tecniche:

  • Dimensioni: cm 140.5 X 170.5
  • Tecnica: Olio su Tela
  • Anno di realizzazione: 1610

Il soggetto della tela descrive il momento in cui la freccia scagliata da Attila sta per trafiggere il cuore di Orsola, dal quale schizza sangue. Pochi sono i personaggi presenti sulla scena: i due protagonisti e due astanti, uno alla destra di Orsola e l’altro – probabilmente un autoritratto dello stesso Caravaggio – alle sue spalle.

 

Lo sfondo è buio, come se fosse una quinta teatrale, e sulla scena si sta concretizzando il martirio. Il manto porpora ripiegato sul braccio sinistro di Orsola, la veste bronzea, il suo petto, il suo volto e le sue mani sono illuminati da una luce cangiante che quasi irrompe sulla scena, rendendola più cruenta; alle sue spalle, nel volto dell’astante in cui si è riconosciuto il Caravaggio, si legge un’espressione quasi sgomenta per quello che sta accadendo. Il volto di Attila, invece, è rabbioso, ma di una rabbia che ha trovato sfogo nella forza usata per tendere la corda dell’arco, appena tirata con la mano sinistra. La figura tiene l’arco fermo nella mano destra, mentre la freccia sta ancora completando la sua traiettoria e sta andando a conficcarsi al centro del petto della fanciulla, che porge a sé le mani piegandole verso l’interno quasi “accogliendo” il supplizio.

 

L’abbigliamento dei personaggi – in particolar modo quelli maschili – è tipicamente seicentesco e proietta l’ambientazione stessa in un periodo coevo alla sua realizzazione, dimostrando ancora una volta come il Merisi fosse capace di rendere contemporanei fatti ed eventi accaduti in epoche lontane.

 

La piegatura delle mani della principessa ha indotto gli studiosi – specie durante gli anni dell’attribuzione del dipinto al Caravaggio – ad accostare l’opera ad un altro quadro realizzato da Caravaggio nello stesso anno del Martirio di Sant’Orsola: la Negazione di San Pietro, conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, che secondo una parte della critica sarebbe stata anch’essa realizzata a Napoli.

Qui il santo è ritratto nel momento in cui, nella notte del tradimento a Gesù ed immediatamente dopo l’arresto di Cristo nell’orto del Getsemani, viene riconosciuto da una donna di Gerusalemme che lo indica alle guardie come “uno dei Dodici”. L’apostolo, quindi, rinnega di essere uno di loro, piegando entrambe le mani verso l’interno, in un gesto atto a scagionare sé stesso e quasi di supplica verso i suoi accusatori.

 

 

L’ultimo Caravaggio

La vicinanza di datazione delle due opere ha aperto per non poco tempo la discussione su quale potesse essere stata l’ultima opera del pittore, ma il ritrovamento della succitata documentazione all’Archivio Storio di Napoli, relativa la Martirio di Sant’Orsola, l’ha posta come ultima opera del maestro lombardo che – ancora una volta e a conferma di quanto già fatto attraverso le opere precedenti - si è mostrato come un genio della pittura d’Italia. La stessa pittura napoletana nei decenni che seguirono il periodo caravaggesco si evolse verso le forme realistiche imposte dal maestro, elevandola a livelli alti e quasi mai raggiunti in passato. I soggiorni napoletani del Merisi aprirono le porte alla scuola napoletana, dalla quale usciranno i nomi di Fabrizio Santafede, Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Carlo Sellitto, Luca Giordano ed altri, apprezzatissimi nell’ambiente pittorico contemporaneo.

 

 

 

Bibliografia

V. Pacelli, La pittura napoletana da Caravaggio a Luca Giordano, Ed. Scientifiche Italiane, 1996, pp. 42-43

F. Negri Arnoldi, Caravaggio – Le opere napoletane e siciliane, in Storia dell’Arte, vol. III, Fabbri Editori, 1989, p. 240

AAVV – Testi di C. Lachi, Il Seicento parte I, in La Grande Storia dell’Arte, vol. VII, Gruppo Editori L’Espresso 2003, pp. 78-79

 

Sitografia

https://www.gallerieditalia.com/it/napoli/ultimo-caravaggio/

https://www.frammentiarte.it/2014/11-04-seicento-napoletano/

https://www.arteworld.it/la-negazione-di-san-pietro-caravaggio-analisi/

https://it.cathopedia.org/wiki/Sant%27Orsola_e_compagne

https://www.universy.it/2019/05/i-soggiorni-a-napoli-di-caravaggio/

https://www.arteworld.it/la-negazione-di-san-pietro-caravaggio-analisi/


DALLA SCUOLA DI CARAVAGGIO: MARIO MINNITI E PIETRO NOVELLI

A cura di Mery Scalisi

 

Nasceva a Milano, il 29 settembre del 1571, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore tra i più celebri di tutti i tempi; un mito oltre il suo tempo, che, grazie alla sua tecnica e rivoluzionando la pittura nella scelta dei temi, riuscì ad essere riscoperto nel secolo scorso(fig.1).

 

Una vita breve e tormentata, in continua tensione, un carattere oscuro e violento, anni caratterizzati da un omicidio, dalla fuga dalle carceri e dalla sua ultima condanna a morte, piena di contraddizioni e ancora avvolta nel mistero, portò il Caravaggio a creare una vasta serie di opere commissionategli da illustri uomini del tempo, i cui soggetti principali erano tratti dalle vite dei santi, reinterpretati dall’artista in maniera del tutto inedita e innovativa rispetto ai suoi predecessori.

I suoi personaggi furono veri, presi in prestito dalla realtà che lo circondava, spesso imperfetti, così da risaltare, all’occhio e all’anima, nella loro stessa umanità di modelli spesso raccolti in tutta la loro sofferenza.

Alla voglia di andare alla ricerca della verità, al desiderio di suscitare nello spettatore emozioni autentiche, Caravaggio affiancava un uso particolarmente scenografico della luce, che spesso invadeva la scena come un fascio di verità, capace di creare profondità e dinamismo.

Questo modo di pensare e fare arte influenzò notevolmente la nuova pittura barocca, una pittura nel quale la resa della realtà, possibile attraverso l’uso di forti contrasti di luci ed ombre, non era mai stata così vera e umana. La novità caravaggesca portò ben presto numerosi pittori dell’epoca barocca a seguire le sue orme. I "caravaggeschi", cosi vennero chiamati tali artisti, iniziarono adottandone lo stile e alle volte cercando di imitarne le opere.

Dopo un’accusa di omicidio, Caravaggio fu costretto a fuggire da Roma, recandosi prima a Malta, poi in Sicilia dove, tra il 1608 e il 1609, lasciò una gran quantità di opere che si allontanano notevolmente dallo stile romano, finendo per riflettere i drammi psicologici del suo ultimo periodo di vita. L’attività sicula di Caravaggio iniziò a Siracusa, per concludersi, l’anno dopo a Palermo.

In questo periodo vengono messe in luce le innovazioni; le pennellate si fanno più rapide, la figura umana si rapporta ad uno spazio incombente, maestoso, che ha lo scopo di ridurre l’importanza dei personaggi.

Attorno all’attività di Caravaggio in Sicilia l’articolo vuole porre l’attenzione sulle opere di due interpreti del caravaggismo siciliano, di cui il Museo Civico Castello Ursino di Catania conserva testimonianza: Mario Minniti e Pietro Novelli (fig. 2 e 3).

 

Mario Minniti

Mario Minniti nacque a Siracusa nel 1577; a soli 15 anni, alla morte del padre, iniziò il suo percorso di formazione artistica studiando disegno. Il primo incontro importante, che lo segnò per il resto del suo operato, fu quello a Roma col Caravaggio. Nella città eterna i due frequentarono la stessa bottega, instaurando un rapporto di sincera amicizia; furono proprio il soggiorno romano e la conoscenza del Merisi a rappresentare il momento più rilevante per la produzione artistica del Minniti. I due amici si ritrovarono poi a Siracusa, dove il Minniti operava nella propria bottega che, stando alle fonti, aprì nel 1608 al Caravaggio in fuga da Malta, procurando a quest’ultimo anche un’importante commissione, un Seppellimento di Santa Lucia oggi conservata a Siracusa, presso Palazzo Bellomo (fig.4).

 

Fig. 4 - Mario Minniti in La buona ventura, olio su tela (115x150 cm) realizzato da Caravaggio tra il 1593 ed il 1594. Credits: By Caravaggio - Wikimedia Commons, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53254346.

 

L’attività del pittore siracusano si svolse interamente fra la sua città natia e Messina, con qualche sporadico soggiorno a Malta e Palermo.

E’ importante ricordare come la scuola caravaggesca in terra siciliana corrisponda con la figura di Minniti, pittore che si lega al maestro grazie alle connessioni tematiche e ad alcuni espedienti tecnici, come l’uso ricorrente del chiaroscuro, pur mantenendo una personale e moderata lettura cromatica e paesaggistica, con un’influenza evidente soprattutto nelle opere datate attorno al 1625; successivamente, infatti, il suo stile venne condizionato da correnti di gusto che lo portarono ad un utilizzo diverso del colore, ad un ampliamento della gamma cromatica e ad uno schiarimento delle tonalità rese con pennellate mosse e vivaci. Dello stile del Minniti, oltre che la drammaticità del chiaroscuro, presa in prestito dall’amico Caravaggio, vanno altresì ricordate una verosimiglianza e una morbidezza lontane dall’incontro col Caravaggio e presumibilmente legate a un naturalismo ben più discreto e domestico, perfettamente in accordo con il clima della Controriforma, ben saldo nell’isola e particolarmente nella parte orientale, già dal Cinquecento.

 

Cristo alla colonna

Il Cristo alla colonna, recentemente attribuito al Minniti, è stato oggetto, nel corso degli anni, di complesse controversie circa la sua attribuzione (fig. 5).

 

Inizialmente venne attribuito a Battistello Caracciolo, per la posa del corpo del Cristo della Flagellazione di Caravaggio, dipinto nel 1607 per la chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.

Seguì l’intervento dello storico dell’arte Roberto Longhi, il quale, in seguito al ritrovamento di un dipinto di analoga fattura a Macerata, ipotizzò l’esistenza di un originale del Caravaggio di cui il ritrovamento di Macerata doveva esserne la copia, aggiungendo, però, che nell’esempio di Catania poteva ritrovarsi quell’originale, in cui erano evidenti i segni del Caravaggio, soprattutto nella forza vitale, nel torso del Cristo, nel gioco di luci e nelle penombre, nelle mani spesse dell’uomo alle spalle del Cristo; una terza versione, un Cristo alla Colonna in collezione Camuccini, venne ritenuta, sempre dal Longhi, una copia realizzata dal neoclassico Vincenzo Camuccini.

L’opera che oggi viene attribuita a Minniti, apparterrebbe al primo periodo messinese dell’artista, quello in cui l’influenza dell’amico Caravaggio è forte e si riconduce, per alcuni particolari, alla Flagellazione della Fondazione Lucifero di Milazzo, costituente un ciclo con Storie di passione.

Quasi l’intero dipinto è occupato dalla figura statuaria del Cristo, sofferente, un corpo che ben illuminato da un fascio di luce in diagonale, mette in risalto il torso e le braccia portate dietro; due uomini accompagnano la sofferenza del Cristo incolonnato (fig. 6,7 e 8).

 

Pietro Novelli

Figlio d’arte e supportato da un’eccellente abilità tecnica, Pietro Novelli, detto il monrealese, nacque a Monreale nel 1603 e morì a Palermo nel 1647.

Pittore e architetto italiano, nonché il più importante e influente artista del ‘600 siciliano, fu tra i maggiori pittori del suo tempo, tanto da venir nominato anche “pittore reale” (fig.9).

 

Durante il suo percorso artistico, sviluppatosi nell’arco di pochi decenni, nei quali si attuò il passaggio dal tardo manierismo al primo barocco, Novelli riuscì a rinnovare costantemente il proprio stile, stando al passo con gli stimoli, diretti e indiretti, offerti dalla cultura artistica del tempo.

Spesso, però, la posizione del Novelli, rispetto al fenomeno caravaggesco, resta difficile da cogliere e da definire, soprattutto per tre motivi: all’interno di un’opera si scontrano infatti idealismo e crudo realismo; in secondo luogo, in senso più propriamente cronologico e socio-politico, l’influenza caravaggesca gli arrivò negli ultimi anni, quando, come ingegnere a Messina, fu probabilmente colpito dalla drammaticità delle ultime opere del Caravaggio. Novelli preferì tuttavia rappresentare interessi aulici e aristocratici, pur non tralasciando il lato umano, vero e sofferto del mondo.

Dai rapporti con Antoon van Dyck, di cui conobbe l’opera quando il pittore fiammingo soggiornava Palermo (1624-25) al classicismo del Domenichino, passando per le tendenze realistiche caravaggesche e al colorismo veneto, sempre in equilibrio fra naturalismo classicistico e realismo, molti furono i fattori (ricordiamo anche il naturalismo napoletano) che resero Novelli uno tra i più ricercati pittori del Seicento, al quale vennero affidate numerosissime commissioni.

 

Il San Cristoforo

L’opera, un olio su tela di 256 x 165 cm, del 1637, appartiene a una fase matura della produzione del Novelli. In origine collocato a Palermo, nella collezione di Giovan Battista Finocchiaro, e considerato importantissima testimonianza dell’ultimo stile del monrealese, il dipinto è oggi custodito presso il Museo Civico Castello Ursino di Catania. Il santo, Cristoforo, si presenta in tutto il vigore di un corpo muscoloso immortalato nell’atto di trarre in salvo il Bambino (fig. 10).

 

Intento a sorreggere il piccolo Gesù sulla spalla sinistra, il santo si appoggia con la mano destra ad una roccia, mentre la sinistra è impegnata a reggere un bastone.

La leggenda racconta che, lungo la traversata, il Bambino aumentasse di peso fino a diventare quasi insostenibile per il santo che tuttavia riuscì, con tutta la sua forza, a portarlo sull’altra sponda del fiume, ove ottenne la predizione del suo martirio in Licia.

Nell’opera l’ispirazione riberesca è presente nel volto di Cristoforo, in cui fanno da protagonisti l’indagine naturalistica e la stesura materica, e l’impronta stilistica del Caravaggio e van Dyck è ravvisabile invece nel volto del Bambino e nelle carni bianche del Santo, esposte a una fonte luminosa che proviene da destra ad evidenziarne la plasticità del corpo e la torsione del busto; dalla luce, che mette in risalto il corpo del Santo in primo piano, passiamo ad uno sfondo, dal quale emergono colori molto scuri (terre, ombre, marroni e ocre) che contribuiscono a dare volume alla scena in primo piano (fig. 11 e 12).

 

L’impostazione della scena è classicheggiante nella monumentalità della figura del Santo e nello schema compositivo nel suo insieme, basato sul bilanciamento delle parti e sulla disposizione chiastica (per chiasmo o chiasma si intende una formula compositiva, usata soprattutto in scultura, consistente nella disposizione secondo un particolare ritmo capace di risolvere il problema dell'equilibrio della figura eretta, e in modo che questa venga ritratta con un arto inferiore flesso e, viceversa, l'arto superiore del lato opposto teso).

Per la realizzazione di questo dipinto il Novelli si rifà, con molta probabilità, al Polifemo di Annibale Carracci affrescato in una delle lunette della Galleria di Palazzo Farnese a Roma.

 

SI RINGRAZIA IL PERSONALE DELLA BIBLIOTECA ED EMEROTECA DEL MUSEO CIVICO CASTELLO URSINO DI CATANIA

 

 

Bibliografia

Michele Romano, Caravaggio contemporaneo – realismo storico e sperimentazione, Siracusa, Lettera Ventidue, 2010.

Michele Romano, Michele Cuppone (a cura di), Caravaggio a Siracusa – un itinerario nel Seicento aretuseo, Ragusa, Le Fate, 2020.

Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali, ambientali e della pubblica istruzione, Caravaggio in Sicilia – il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra di Siracusa (Museo Nazionale di Palazzo Bellomo, 10 dicembre 1984 – 28 febbraio 1985), Palermo, Sellerio editore, 1985.

Roberto Longhi, Caravaggio, a cura di Giovanni Previtali, Roma, Editori Riuniti, 2006.

AA.VV., Pietro Novelli e il suo ambiente, Palermo, Flaccovio, 1990.

Mario Minniti – l’eredità di Caravaggio a Siracusa, Napoli, Electa Napoli, 2004.

Francesca Cicala Campagna, Mario Minniti, in Archivio storico siracusano”, a. XV, 1969, Siracusa, Società Siracusana di Storia Patria, 1969.

Barbara Mancuso, Castello Ursino a Catania - Collezioni per un museo, Palermo, Kalòs, 2008.


CARLO BONONI

A cura di Mirco Guarnieri

Carlo Bononi: la vita

Carlo Bononi, secondo le fonti settecentesche, nacque a Ferrara nel 1569 ma studi recenti pongono la sua data di nascita un decennio più avanti. Il periodo storico in cui vive l’artista è quello della Devoluzione di Ferrara, passata poi sotto lo Stato Pontificio il quale però trascinerà la città ad un lento declino. Per quanto riguarda il periodo artistico siamo negli anni tra la Controriforma e la piena maturazione del nuovo linguaggio artistico naturalistico e barocco.

Grande disegnatore, inquieto sperimentatore e infaticabile viaggiatore sarà allievo - si dice - del Bastarolo per poi entrare in contatto con lo Scarsellino. I suoi riferimenti stilistici si trovano fuori Ferrara, in particolar modo per la tradizione cinquecentesca veneta di Tintoretto e Veronese e per ciò che di nuovo si stava presentando (Caravaggio, i Carracci e Simon Vouet).

Se dobbiamo trovare una data di inizio della carriera artistica di Bononi non la troveremo prima del 1600, infatti il suo primo dipinto è riconducibile al 1602 con la Madonna col Bambino in trono e i santi Maurelio e Giorgio(fig. 1) proveniente dalla residenza dei Consoli delle Vettovaglie, ora situato a Vienna. Il dipinto contiene riferimenti bastaroleschi che convivono con molteplici declinazioni (l’uso di tende e colonne tipiche della pittura veneta e l’espressione dolcemente sbalordita che riporta alla mente Correggio e Ludovico Carracci).

 

Attorno al 1605-1606 il pittore ferrarese porterà la sua carriera ad una svolta sostanziale. Oltre ad alcune incertezze in materia di conduzione pittorica presente anche nei dipinti precedenti, Carlo Bononi introdurrà un’anima nelle sue figure, facendo comunicare qualcosa di indefinito con un atteggiamento di leggera inquietudine, un indugiare mesto, eppure ammiccante in una compiaciuta tristezza. Le opere più rappresentative di questa svolta sono i due Angeli(figg. 2-3) del 1605-1606 della Pinacoteca di Bologna e Sibilla (fig. 4) del 1610 appartenente alla Fondazione Cavallini-Sgarbi.

 

 

I primi documenti che menzionano Carlo Bononi sono riconducibili al 1611 con le opere San Carlo Borromeo (fig. 5)per la Chiesa della Madonnina di Ferrara e l'Annunciazione (fig. 6), per la Chiesa di San Bartolomeo a Modena, poi dirottata l’anno successivo dallo stesso committente Ippolito Bentivoglio verso Santa Maria della Neve a Gualtieri. Queste due opere aprono la strada ad una formulazione del tutto moderna della pala d’altare nella quale diviene predominante l’aspetto emozionale. Importante anche è come ricorrerà a tutti gli espedienti narrativi della cultura barocca (sorpresa, luce e teatralità dispiegati in piena coscienza). Altre commissioni che Bononi riceverà saranno a Ravenna nel 1612, a Cento nel 1613 e Mantova nel 1614, ma quella che gli darà più fama sarà quella per il ciclo decorativo (figg. 7a-b-c-d-e-f-g-h-i-l) che orna la Basilica di Santa Maria in Vado  a Ferrara, concluso entro il 1617.

 

 

 

 

 

Dopo questi eventi il pittore capisce che Ferrara gli è troppo stretta e decide di andare in viaggio a Roma, ma non essendoci documentazioni a sufficienza non sappiamo se sia andato per trovare fortuna o per completare la sua formazione. Dopo Roma, Bononi si diresse a Fano dove presso la chiesa di San Paterniano, l’artista produsse una delle sue opere più intense e coinvolgenti, Il San Paterniano che risana la cieca Silvia (fig.8), facente parte delle storie del santo. In quest’opera notiamo come Bononi sia stato influenzato dal contatto con le opere caravaggesche (come le tele Cottarelli di San Luigi dei Francesi) dalle quali l’artista ha colto l’intimo vibrare della luce, il tono malinconico, la capacità di cogliere l’attimo e la pregnanza delle pose, senza però rinunciare alle sue radici emiliane.Un altro dipinto che riconduce alla pittura caravaggesca è Genio delle arti (fig. 9) del 1621-22 riconducibile ad Amor vincit omnia del Merisi. Inizialmente si pensava che l’opera di Bononi fosse unica, ma dopo recenti reperimenti, si è scoperto che un anno prima si trovava impegnato nel soddisfare le richieste di un’ancora ignota committenza,  richiedente un Genio delle arti, noto solo tramite fotografia.

 

Dal secondo decennio del 600 il talento del pittore ferrarese fu impiegato nel soddisfare committenze tra Ferrara e Reggio Emilia (definita in quel periodo la capitale della cultura figurativa del ducato estense) come la decorazione della Volta della Cappella Gabbi o dell’Arte della seta di Reggio Emilia. Sempre nello stesso anno Bononi concluse per il Refettorio di San Cristoforo della Certosa di Ferrara le Nozze di Cana (fig. 10), ispirato all'omonimo quadro di Veronese con chiari elementi di Barocco incipiente. Ma soprattutto ci fu la conclusione del ciclo di Santa Maria in Vado, intervenendo nel presbiterio. Un’altra opera di cui però non si sa con esattezza la data di conclusione è l'Angelo Custode (fig. 11) per la chiesa di Sant'Andrea a Ferrara (poi trasferito alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara nel 1863, prima che la chiesa venisse chiusa al culto). Carlo Bononi morirà il 3 Settembre del 1632 sepolto nella chiesa di Santa Maria in Vado a Ferrara.

 

 

 

Le figure 4; 7a,b,c,e,f,g,h; 9 provengono da https://www.palazzodiamanti.it/1607/opere-in-mostra.

La figura 5 proviene da https://www.museoinvita.it/sassu-bononi/

La figura 6 proviene da https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2017/12/mostra-carlo-bononi-palazzo-diamanti-ferrara/attachment/carlo-bononi-annunciazione-1611-gualtieri-santa-maria-della-neve/

Le figure 7i,l provengono da https://www.museoinvita.it/sassu_bononi_vado/

La figura 8 proviene da https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/carlo-bononi-secondo-andrea-emiliani

La figura 10 proviene da https://gallerie-estensi.beniculturali.it/blog/osservando-lo-splendore-del-gran-desco-delle-nozze-di-cana-di-carlo-bononi/

 

 

 

Bibliografia

G. Sassu, F. Cappelletti, B. Ghelfi, "Bononi l'ultimo sognatore dell'Officina ferrarese", Ottobre 2017, Fondazione Ferrara Arte.