STRATIFICAZIONE STORICA DI CAPUA E LA BASILICA DI SANT’ANGELO IN FORMIS

A cura di Alessandra Apicella

 

 

 

Tra la seconda metà del VI e dell’VIII secolo, l’Italia si ritrovò divisa in due aree di influenza: quella che faceva capo alla popolazione dei Longobardi e quella dell’esarcato, sottoposta al protettorato dell’Impero d’Oriente con sede a Costantinopoli. Per quanto concerne i primi, questi discesero in Italia dalla Germania Orientale nel 568 e i loro domini nella penisola interessarono due ampie aree: la Langobardia Maior, estesa dalle Alpi alla Toscana e la Langobardia Minor, concentrata prevalentemente nell’area centro-meridionale, importante centro politico dopo la sconfitta del re longobardo Desiderio da parte di Carlo Magno (771). Dopo la battaglia, una delle figlie di Desiderio, Adelperga, sposò il nobile longobardo di origine friulane, Arechi, che divenne principe di Benevento nel 774 con il nome di Arechi II.

Una volta spostato l’asse di interesse politico e sociale verso il meridione, i principali insediamenti longobardi principali di quest’area, Benevento, Salerno e Capua, divennero centri di irradiamento culturale di prim’ordine fino all’arrivo della popolazione normanna che si fece promotrice dell’unificazione dei territori sotto il medesimo dominio, quello di Ruggero II, nel 1130.

Tra i suddetti centri meridionali, la città di Capua divenne ben presto crocevia e polo culturale, sia per la sua posizione strategica che per la sua origine romana. La storia di questa città si caratterizza per molte fasi di stratificazione storica che hanno permesso lo sviluppo di realtà culturali differenti, in perfetta armonia tra loro, attraverso l’usuale tendenza di guardare al passato e alle proprie radici.

L’antico nucleo originario della città di Capua, chiamata altera Roma da Cicerone, corrisponde all’attuale Santa Maria Capua Vetere. Distrutta dalle incursioni saracene per una guerra interna al ducato di Benevento, la popolazione fu costretta alla fuga e si rifugiò nella zona di Triflisco, per poi collocarsi, a distanza di breve tempo, su un’ansa del fiume Volturno.

 

Il sito di questa rifondazione era in piena pianura, sul luogo di quella che era stata Casilinum, il porto della Capua antica, rispetto a quella più arroccata precedente, ma altrettanto inespugnabile grazie alla naturale difesa data dal fiume. La nuova città si pose subito in assoluta continuità con il suo passato romano e alto medievale, ereditandone nome, cittadinanza e tessuto sociale. Mentre il sito antico finiva in un decadimento progressivo a causa di mancanza di attenzione, la nuova città divenne capitale del principato di Capua, e riuscì ad estendere il proprio controllo anche su altre cittadine e territori limitrofi, come nel caso della frazione di Sant’Angelo in Formis. Quest’ultima, ai piedi del monte Tifata, è attualmente parte integrante della provincia di Caserta, nell’ambito del comune di Capua, e particolarmente famosa per l’omonima chiesa.

 

Edificata in epoca longobarda e dedicata al culto di San Michele, molto diffuso presso la popolazione, ricostruita e decorata nel 1072, per volere dell’abate Desiderio, come attestato dall’inscrizione in facciata, la basilica sorge sugli antichi resti di un tempio preesistente pagano, dedicato alla divinità preromana di Diana Tifatina. L’interpretazione etimologica del termine “in Formis” risulta ancora in dubbio, molteplici sono le ipotesi come quella che deriverebbe dal termine latino forma (acquedotto), che potrebbe indicarne la vicinanza ad un condotto o anche la derivazione dalla parola informis (senza forma), alludendo, invece, ad una condizione più spirituale.

 

L’edificio riprende lo schema paleocristiano basilicale con nartece e tre navate, terminanti in tre absidi, inoltre, è priva di transetto. La navata centrale è il doppio delle laterali in ampiezza ed è anche più alta, come si evince anche dell’esterno, riprendendo il modello benedettino-cassinese. La divisione tra le navate è marcata da colonne di spoglio, con capitelli corinzi che sorreggono archi a tutto sesto. Sia nelle colonne che nel tessellato del pavimento è possibile identificare materiali di spoglio provenienti dall’edificio pagano precedente, rinvenuto nel 1877 e di cui la basilica ne ripercorre il perimetro con l’aggiunta poi delle tre absidi finali. L’edificio presenta una strutturazione al suo interno in arcate, finestre monofore nella parte alta ed un tetto a capriate lignee.

 

La chiesa è celebre soprattutto per un importantissimo ciclo di affreschi, di cui è possibile datare la produzione entro l’epoca dell’abate Desiderio, rappresentato in atto di omaggio dell’edificio a Cristo nell’abside. L’abate è rappresentato con l’aureola quadrata, simbolo utilizzato per le persone ancora in vita, ma già con fama di santità, ed è descritto con minuta attenzione nelle vesti e nel volto, tanto da risultare quasi un ritratto. Nel modellino della chiesa, tenuto dall’abate, si sono invece riscontrate delle differenze rispetto all’edificio vero e proprio, sia nella resa degli archi del nartece che nella posizione del campanile: gli archi nell’edificio sono a sesto acuto, mentre nell’affresco a tutto sesto, e il campanile, che nell’edifico si trova a destra, è spostato a sinistra nella raffigurazione. Questa differenza potrebbe essere riconducibile tanto a delle modifiche avvenute poi nell’edificio quanto ad una tendenza semplificatoria della raffigurazione nella resa dell’affresco. Nel ciclo di affreschi, che culmina con la rappresentazione di Cristo in trono circondato dai tetramorfi e dalla volta celeste, nell’abside centrale, si dispiega la rappresentazione della storia dell’umanità.

 

Nella navata centrale si possono osservare scene del Nuovo Testamento, come compimento dell’Antico, raffigurato invece nelle navate laterali, secondo la considerazione per cui il ciclo veterotestamentario si pone come una sorta di previsione del nuovo. Il ciclo è suddiviso in tre registri per ogni parete, per cui il primo registro della parete di destra si concludeva in maniera continua nel primo registro della parete di sinistra, avendo nella posizione del coro il punto privilegiato di visione. Ogni scena, per sottolinearne l’indipendenza dalle altre, è dipinta all’interno di finti riquadri delimitati da colonne. Nella zona dei pennacchi, tra la fine della colonna e l’inizio del registro, sono rappresentati perlopiù Profeti con cartigli o Sibille, che si rifanno alla scena poi rappresentata nel registro sovrastante. L’attenzione al dettaglio della resa volumetrica e naturalistica dei personaggi si evince dalle particolari scocche rosse sul viso, elementi usuali nella pittura romanica-bizantina dell’epoca.

 

Data la prestigiosa committenza (l’abate Desiderio) e la vicinanza di questo luogo alla sede di Montecassino, è probabile che le maestranze fossero le stesse della sede abbaziale, che rappresentava un vero e proprio crogiolo artistico in cui erano presenti sia maestri italiani di tradizione latina, sia maestri di origine orientale, depositari della tradizione greco-bizantina. Il ciclo nella sua organizzazione presenta un forte impatto narrativo, enfatizzato anche dalla presenza di didascalie, quasi come se fosse una trasposizione di un codice miniato. In più è importante la lettura delle singole scene, oltre che quella complessiva, nell’ottica di analizzare il punto preciso in cui sono poste e della visibilità di cui godevano verso i fedeli e i monaci.

Per quanto riguarda l’esterno dell’edificio, la facciata è preceduta da un portico a cinque arcate ogivali, di cui la centrale è più alta delle altre e presenta elementi marmorei di reimpiego. Immediatamente visibile è anche l’altezza maggiore della navata centrale, che si mostra all’esterno con una resa a salienti e l’aggiunta di tre monofore. Le arcate sono rette da colonne di marmo cipollino a sinistra e granito grigio a destra, e presentano capitelli differenti tra loro, in quanto elementi di spoglio. Alla destra della facciata è presente il campanile, con un basamento in blocchi di reimpiego ed un fregio con decorazioni zoomorfe; al secondo piano si attesta una fila di bifore.

 

L’atrio presenta alcune decorazioni in corrispondenza delle lunette degli archi, di cui quella centrale presenta una particolarità: è visibile, infatti, una doppia lunetta, dovuta ad un innalzamento della volta. La più bassa presenta una maestranza maggiormente bizantina, più grafica e meno volumetrica; al contrario, quella più in alto, databile ad un intervento successivo, oltre a presentare una gamma cromatica più sgargiante, prevede anche una resa più dinamica delle figure di Cristo e degli angeli.

 

La basilica di Sant’Angelo in Formis riesce a racchiudere in sé secoli di storia che si sono propagati nel corso del tempo e che si mostrano attraverso dettagli e riusi di elementi di spoglio in perfetta armonia tra di loro, come parte integrante di una storia comune che racconta e mostra la natura caleidoscopica e artistica del meridione italiano.

 

 

Bibliografia

Bertelli C., Invito all’arte 2. Il Medioevo, edizione azzurra, scolastiche Bruno Mondadori, 2017

Bonelli R., Bozzoni C., Franchetti Pardo V., Storia dell’architettura medievale, editori Laterza, 2012


UN CASO PARTICOLARE: LA CHIESA DI SANTA MARIA FORIS PORTAS A CASTELSEPRIO

A cura di Beatrice Forlini

 

 

La chiesa di S. Maria Foris Portas oggi si trova immersa in un grande parco archeologico nel piccolo paese di Castelseprio, oggi in provincia di Varese (fig.1), che comprende anche i resti di un antico castrum costruito su preesistenze militari del IV-V secolo d.C. e il monastero di Torba, a poca distanza, oggi bene FAI. Il nome, tradotto letteralmente, significa «fuori dalle porte», perché la  piccola chiesa sorgeva proprio fuori dalle mura dell'antico borgo fortificato di Castelseprio, ed era probabilmente un luogo di sosta per i pellegrini che scendevano lungo il corso del fiume Olona).

 

La chiesa risale probabilmente al IX secolo, anche se non si hanno riferimenti precisi, ed è l'unico edificio rimasto intatto dell'antico borgo fortificato, forse grazie alla devozione legata al luogo di culto; dopo che il castello e il modesto nucleo urbano circostante sono andati definitivamente in rovina, la piccola chiesa oggi rimane pressoché isolata e sospesa nel tempo.

La piccola costruzione si trova infatti su un'altura distante duecento metri dalla cinta muraria dell’antico castrum ed è orientata da Ovest a Est. La chiesa si presenta esternamente molto semplice e rustica, ed è preceduta da un nartece con grande arco a tutto sesto, aggiunto successivamente e datato al XVII secolo anche se originariamente doveva essere scandito da numerose aperture. La chiesa presenta una pianta trilobata a croce greca con un'unica navata rettangolare (fig.3), non molto lunga, anche se questo semplice schema planimetrico è arricchito dalle tre absidi ad arco oltrepassato (dette anche «a ferro di cavallo»), ritmate esternamente da quattro contrafforti di rinforzo, in stile orientale (forma che prende il nome di triconco).[1] (Fig.2)

 

Le tre absidi sono uguali tra loro tranne che per la disposizione delle finestre. All'esterno, esse sono rinforzate da contrafforti e coperte da bassi spioventi semiconici. Internamente la chiesa doveva essere intonacata e coperta da affreschi e stucchi, mentre il pavimento presenta intarsi di marmo.

La testimonianza più prestigiosa della chiesa però è al suo interno perché l'abside principale è decorata da pitture murali di straordinario valore scoperte nel 1944 dallo storico Gian Piero Bognetti (che è sepolto, su sua volontà, nell’abside sud della chiesa), in assoluto tra le testimonianze più importanti della pittura muraria europea dell'Alto Medioevo. Il ciclo, disposto su due registri, descrive episodi dell'Infanzia di Cristo; l'anonimo maestro che li realizza è probabilmente di origine orientale, perché ripropone i canoni di quella fase della cultura artistica bizantina ricordata come “Rinascenza Macedone”. Anche se deteriorati, ma ancora molto ben leggibili si trovano nella parte inferiore: la Presentazione al tempio, la Natività con l’annuncio ai pastori(fig.4) e l’Adorazione dei Magi; mentre nel registro superiore sono presenti l’Annunciazione, la Visitazione, la Prova delle acque amare (fig.6) il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme(fig.8). Sopra la finestra centrale della parete absidale è presente un medaglione che rappresenta Cristo Pantocratore(fig.7). Nella parte interna dell’arco trionfale invece corrisponde un analogo tondo che rappresenta un’Etimasia(fig.5).[2] Tutti questi soggetti riconducono al tema del mistero dell’incarnazione di Cristo, forse non casuale nella scelta in un’area che all’epoca era sotto il controllo dei longobardi, già convertiti al cattolicesimo ma ancora in qualche modo legati all’eresia ariana.

 

Gli elementi principali che distinguono questi affreschi da tutti gli altri esempi di pittura altomedievale sono, infatti, la complessità delle forme e l'attenzione al dato naturalistico, gli scorci prospettici, i legami con la pittura romana antica, tutte caratteristiche che li fanno entrare di diritto nella lista dei patrimoni dell'umanità dal 2011. Tutta quest’area fa, infatti, parte del sito Unesco “Longobardi in Italia: i luoghi del potere” con altre sei località che custodiscono i beni artistici e monumentali dell’epoca longobarda. In età post-carolingia la chiesa probabilmente diventa un edificio di culto privato, annesso a quelle che vengono identificate come residenze dei conti e gastaldi del Seprio; secondo degli studi archeologi a queste residenze è seguita poi la costruzione di un fossato e di una zona funeraria. Nel corso dei secoli pochi elementi hanno modificato l'aspetto della chiesa, tra questi solo la chiusura delle varie aperture presenti nel Nartece e, come già detto, la realizzazione nel XVII secolo della grande apertura ad arco a tutto sesto nella parete d'ingresso.

 

 

 

 

Note

[1] G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, pp. 576-577.

[2] Motivo iconografico cristiano di tradizione orientale consistente in un trono sormontato da una croce, simboli della presenza spirituale di Cristo (cit. G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 577).

 

 

Bibliografia

Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016.

 

Sitografia

Scheda SIRBeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00785/,/

http://www.unescovarese.com/code/15317/La-chiesa-di-Santa-Maria-foris-portas.

http://www.castelseprio.net/info_tur/monumenti/S.%20Maria/chiesa/S.Maria.htm.


LA CAPPELLA DI SAN GIUSEPPE A BRERA

A cura di Francesca Richini

 

 

La cappella di San Giuseppe. Da Santa Maria della Pace alla Pinacoteca di Brera

Visitando la Pinacoteca di Brera si può osservare la pittura lombarda del XV-XVI secolo: Bergognone, Foppa, Bramante, Bernardino Luini sono alcuni degli artisti presenti. Questo percorso passa per la sala XIII, dove si ripropone quella che doveva essere la struttura della cappella di San Giuseppe, in origine in Santa Maria della Pace a Milano.

 

Gli affreschi dipinti da Bernardino Luini e Bernardo Zenale intorno al 1520-1521 sono arrivati a Brera in diversi momenti dal 1805 al 1875. Il convento venne soppresso per decreto napoleonico nel 1805 e trasformato in caserma, deposito e scuderia. Fu questo atto a far optare per la scelta di spostare gli affreschi all’interno della Pinacoteca di Brera con l’intenzione di salvarli da fine certa. Partendo dalle pitture meglio conservate e più facili da rimuovere, arrivando poi a quelle della volta, dell’arco di ingresso e dei pennacchi più complicate da strappare. La disposizione attuale delle opere cerca di riproporre quella originaria della cappella. È tuttavia il frutto di uno studio eseguito da Ludovico Pogliaghi, come testimonia un suo acquerello, su volere dell’allora direttore della Pinacoteca di Brera. Studio utile ma tuttavia difficile, data la già precaria situazione nella quale versava la struttura e l’affresco, come testimonia Carlo Torre nella sua “Guida di Milano” a causa della forte umidità.

 

La cappella di San Giuseppe

Avvicinandosi alla cappella riproposta a Brera si può osservare nell’intradosso di ingresso quattro profeti: Davide, Salomone ed altri due profeti. Alzando lo sguardo, si osserva la volta con lunette a forma di conchiglie dove sono presenti arcangeli accompagnati da coppie di angeli intenti a reggere spartiti e strumenti musicali. Gli strumenti musicali raffigurati e riconoscibili sono un flauto traverso, un doppio flauto dritto, un liuto, una lira, un organo portativo, una lira da braccio, una cetra a corde detta altobasso, una tromba ed una zampogna. Dei cherubini collegano spicchi e lunette e sono presenti anche nelle fasce ornamentali, nelle vele e nei rombi; mentre, come punti di unione, piccole teste di angeli fanno da ponte alle strutture.

 

 

Scendendo con lo sguardo si possono osservare gli affreschi delle pareti il cui tema principale sono le “Storie della Vergine e di San Giuseppe”. Ricordandosi che la disposizione attuale non rispecchia probabilmente quella originaria, ma è frutto di studi. Partendo da sinistra, nella controfacciata la Cacciata di Gioacchino dal Tempio, sotto lEducazione di Maria; sulla parete sinistra lAnnuncio della nascita di Maria, lIncontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea, la Natività della Vergine; sulla parete di fondo Tre giovani, San Giuseppe eletto sposo della Vergine, San Giuseppe e la Vergine di ritorno dalle nozze; sulla parete di destra la Presentazione della Vergine al Tempio, il Congedo di Maria dal Tempio, il Sogno di San Giuseppe; in controfacciata un frammento di angelo in volo.

 

Una problematica insoluta e che fa ancora discutere è la disposizione originaria delle opere. L’acquarello di Pogliaghi riprende le pareti già spogliate, mentre illustra la volta, il sottarco ed i pennacchi. Le guide del Seicento e del Settecento descrivono una pala, oggi andata perduta, raffigurante la Morte di San Giuseppe eseguita da Gerolamo Chignoli; lo stesso autore risulta essere pagato nel 1631-1632 per eseguire affreschi, di cui non rimane traccia, nel coro di Santa Maria della Pace insieme a Tanzio da Varallo, al Volpino e al Cerano. Non è certa neanche la posizione dell’altare. C’è chi sostiene che dovrebbe trovarsi sulla parete di fondo insieme alla pala perduta, dato che guide e fonti antiche riferiscono di affreschi di Luini alle pareti laterali. Altri, che l’altare avrebbe dovuto trovarsi sul lato destro, sotto la finestra, nell’incavo poco profondo dipinto dal Pogliaghi.

 

L’interpretazione delle figure fa ricorso a diverse fonti, quali i Vangeli apocrifi, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze e, non ultima, lApocalypsis Nova scritta dal Beato Amadeo nel 1470 circa, su rivelazioni ricevute dall’arcangelo Gabriele. A quest’ultimo scritto si deve la massiccia presenza angelica della volta, come la rappresentazione di Maria e Giuseppe in preghiera dopo l’elezione di San Giuseppe a sposo della Vergine, ed anche la scena del Congedo di Maria dal Tempio, nel quale il sacerdote le impone di sposarsi e Maria si sottomette al volere del religioso. Una cosa salta all’occhio dello spettatore, la mancanza del completo ciclo pittorico. Andato perso a causa delle operazioni di strappo separate nel tempo e non complete.

 

Santa Maria della Pace

 

La chiesa, in origine facente parte del convento degli amadeiti, si trova in via S. Barnaba dietro l’edificio del palazzo di Giustizia di Milano. Acquistata nel 1967 dall’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, è aperta al pubblico la mattina del primo giovedì del mese. Costruita nel 1466 con il supporto di Bianca Maria Visconti e sotto richiesta di Amadeo Mendes da Silva. La chiesa venne terminata nell’anno della consacrazione nel 1497, avvenuta sotto lo sguardo dell’arcivescovo Guido Antonio Arcimboldi.

 

La struttura religiosa, originariamente suddivisa da un tramezzo atto a separare i religiosi dai laici, oggi è a navata unica con cinque campate a volte ogivali a crociera. Alle pareti sono presenti grossi sostegni pensili che sorreggono i costoloni e gli archi trasversali del soffitto. Le cappelle laterali sul fianco destro, visibili da via S. Barnaba, sporgono semiottagonali dal lato della chiesa e hanno finestre allungate ogivali. Mentre sul lato sinistro sono presenti due cappelle per campata. La facciata, tra due contrafforti, con cornice in cotto ha un portale architravato restaurato che sostituisce l’originale barocco. Ai due lati sono presenti due finestroni e nel mezzo una grande finestra circolare sovrastata dal grande sole con il motto “Pax”. Il campanile cinquecentesco si trova presso la zona absidale.

 

La struttura della chiesa vide l’intervento di numerosi artisti della Milano dell’epoca, Guiniforte e Pietro Antonio Solari rispettivamente ne disegnarono la struttura originaria e la realizzarono. L’intervento di Marco d’Oggiono sia per la cappella di Giovanni Battista Bagarotti nel 1519, sia l’anno seguente per la crocifissione eseguita per il refettorio del convento. Gli affreschi di Tanzio da Varallo, ancora visibili in loco, sulla volta del vano absidale: l’Annunciazione dei Magi e l’Annuncio dei Pastori, eseguiti prima del 1630. La cappella di San Giuseppe dalla pianta quadrata e con volta ad ombrello fu costruita intorno al XVI secolo, vicino alla zona presbiteriale. Questa era, secondo le guide antiche, vicina alla cella del Beato Amadeo e ad un sacello dedicato al beato.

 

Nel 1805 la chiesa per decreto napoleonico venne chiusa e soppressa e sotto la direzione di Andrea Appiani, direttore della Pinacoteca di Brera, vennero rimossi dalla chiesa e trasferiti nella Pinacoteca le opere dei fratelli Campi, di Marco d’Oggiono, Gaudenzio Ferrari e Bernardino Luini (qui analizzati). A partire da questa data molte opere della chiesa vengono disperse e, in alcuni casi, sono visibili oggi in vari musei italiani. Nel 1841 diventa Riformatorio Marchiondi, poi riscattata nel 1900 circa diventa il Salone Perosi, sede di concerti. Restaurato ad opera dei Bagatti Valsecchi passa nel 1906 alle suore di Santa Maria Riparatrice. Oggi è, come già scritto, sede dei Cavalieri del Santo Sepolcro.

 

Amadeo Mendes da Silva

Il Beato Amadeo è stato l’iniziatore della Congregazione amadeita, scrittore dell’Apocalypsis Nova e fondatore di edifici religiosi nel ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia, rispettivamente la Chiesa di Santa Maria della Pace a Milano nel 1466, la Chiesa di S. Maria Bressanoro a Castelleone nel 1460, il Convento della Santissima Annunciata a Borno nel 1469 e Santa Maria delle Grazie a Quinzano nel 1468.

Amadeo Mendes nacque nel Nordafrica forse a Ceuta nel 1420 circa, di lui non si hanno notizie certe né della famiglia di provenienza né di ciò che fece sino al 1452, anno nel quale ottenne la licenza di passare all’Ordine dei francescani minori e di recarsi in Italia ad Assisi. Arrivò a Milano nel convento di S. Francesco ed in breve la sua fama di guaritore e visionario giunse fino al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, di cui diventò sia il confessore privato sia la persona mandata per risolvere missioni delicate. Proprio grazie alla protezione di Bianca Maria ottenne la possibilità di fondare i conventi prima elencati.

Il frate, noto come “frater Amedeus Hispanus”, animato da una volontà di riforma fondò, oltre ai conventi, una nuova “organizzazione”. Atto che venne malvisto dall’Ordine dei francescani minori e che fece nascere diverse tensioni: tanto da coinvolgere il papa. Nonostante la mancanza di appoggio degli Osservanti il frate riuscì ad ottenere nel 1471 la protezione del papa Sisto IV, Francesco della Rovere, utile affinché la Congregazione, appena fondata, avesse la possibilità di allargarsi. Amadeo Mendes morì in seguito ad un malore mentre stava andando a Roma il 10 agosto 1482, nel convento milanese di S. Maria della Pace. La stessa struttura dal quale è stato staccato il dipinto qui analizzato.

 

 

 

Bibliografia

Touring Club Italiano, Milano, Guida d’Italia, Touring Editore, Rotolito Lombardia, Milano, ediz. 2015.

  1. Agosti, J. Stoppa, R. Sacchi, Bernardino Luini e i suoi figli. Itinerari. Ediz. illustrata, Officina Libraria, Milano, 2014.

 

Sitografia

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00210/

https://www.treccani.it/enciclopedia/menes-silva-amadeo-de_(Dizionario-Biografico)/

https://pinacotecabrera.org/collezioni/opere-on-line/?sala=13

https://www.treccani.it/enciclopedia/bernardino-luini_(Dizionario-Biografico)/


LA MADONNA DEL ROSARIO DI VINCENZO DEGLI AZANI DA PAVIA NELLA CHIESA DI SAN DOMENICO DI PALERMO

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

Vincenzo degli Azani da Pavia: una biografia critica

Presso la Chiesa di San Domenico, a Palermo, è custodita la Madonna del Rosario (1540, figg. 1-2) del pittore Vincenzo degli Azani da Pavia. Figura assai misteriosa, quella di Vincenzo degli Azani da Pavia, e che vide la storiografia, a partire dal Settecento, impegnarsi con l’obiettivo di gettare ulteriore luce sul suo profilo biografico e sul suo percorso artistico, data la scarsità di fonti documentarie relative alla sua vita e alla sua attività e tenuto conto che le ricerche, specialmente quelle circa il suo nome e le sue origini, si rivelarono ardue ed estremamente problematiche.

Certa è innanzitutto la presenza del pittore a Palermo, dove arrivò per la prima volta tra il 1517 e il 1519 e una seconda volta nel 1529.

Le notizie che emersero in ambito storiografico nel 1600, rivelavano la presenza di un certo Vincenzo a Palermo, il quale si formò a Roma e a cui venne attribuito il nome di Romano, che ebbe contatti con Polidoro da Caravaggio.

Altre fonti lo menzionarono come proveniente da Imola o Aniemolo, tra cui il Mongitore ed il Susinno. Furono tuttavia altre due figure a dare i contributi più importanti relativi a Vincenzo detto il Romano.

Il primo fu Gioacchino Di Marzo (1839 – 1916), al quale si deve il primo tentativo di realizzazione della prima biografia artistica del pittore, prima nell’ambito di una Storia delle Belle Arti in Sicilia, in cui lo studioso contrastava parte delle notizie riferite dalla storiografia precedente, e in seguito nel 1916, anno in cui venne pubblicata la prima opera organica su Vincenzo da Pavia. Il Di Marzo fu anche l’uomo dietro alla pubblicazione del testamento e dell’atto di morte di Vincenzo.

Una seconda ed altrettanto importante figura fu invece quella del Cosentino, le cui ricerche furono una vera e propria svolta per quanto riguarda le origini del pittore.

Cosentino ritrovò infatti alcuni documenti d’archivio dai quali si evinceva una diatriba giudiziaria tra il cognato e il nipote di Vincenzo, e nei quali si desumeva proprio la provenienza del pittore, ovvero pavia, e la famiglia d’origine: gli Azani.

Grazie a queste ricerche si riuscì a comporre un quadro biografico e a dar un filo logico a tutte quelle notizie che, in maniera frantumata, andavano emergendo nel tempo, e a stabilire la data di morte (1557) mentre incerta è la data di nascita, collocabile tuttavia verso la fine del Quattrocento (probabilmente entro l’ultimo decennio).

 

La Madonna del Rosario di Vincenzo degli Azani da Pavia: descrizione e influenze

Nel 1540 Vincenzo degli Azani realizza, per la chiesa di San Domenico a Palermo, una Madonna del Rosario, un quadro chiave all’interno del percorso artistico di Vincenzo degli Azani e di cui la studiosa Teresa Viscuso puntualizza la scarsa mole di studi. “Nonostante quest’opera rappresenti uno dei più alti raggiungimenti del da Pavia”, scrive la Viscuso, “la storiografia non ne ha mai affrontato l’approfondimento e si è limitata a semplici citazioni”.

La particolarità iconografica dell’opera risiede nella scelta dei santi raffigurati attorno alla figura centrale della Vergine. Essendo, come accennato, una rappresentazione prettamente legata al culto dell’Ordine Domenicano, è naturale che l’artista abbia inserito dei santi facenti parte del medesimo ordine, ad eccezione delle due sante.

Al fianco di Maria e del Bambino, infatti, sono rappresentati, attorniati da angeli, motivi floreali e brani di paesaggio, San Tommaso d’Aquino, intento a ricevere il rosario dal Gesù, San Vincenzo Ferrer con il libro in mano (suo attributo iconografico) ed infine Santa Ninfa, vergine e martire legata alla città di Palermo e Santa Cristina, rappresentata – analogamente a Santa Ninfa – con la palma del martirio tra le mani.

Quest’opera sembra racchiudere l’intero compendio di influenze e formulazione sintattica del pittore.

 

Anzitutto si evince un passaggio prettamente tipologico, dal tipico polittico a sportelli alla tavola con le storiette, che circondano interamente il perimetro della tavola centrale e non sono limitate alla sola predella inferiore. Le storiette narrano i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è la struttura compositiva della tavola centrale, da cui è possibile partire per rintracciare le influenze artistiche del pittore. Una nota tardogotica è riscontrabile nel fondo oro da cui emerge la figura della Vergine. Questo diviene portatore di un messaggio religioso, e la sua funzione è anche quella di conferire al personaggio di Maria un senso di forte tridimensionalità rispetto alle figure circostanti.

Oltre all’oro spicca, nell’omogeneità cromatica in cui a far da padroni sono soprattutto i bianchi e i neri, un rosso acceso che si ritrova nel manto di Santa Cristina e in alcuni dettagli presenti delle storiette. La brillantezza del rosso è un segnale chiaro, da parte dell’artista, della conoscenza della cultura pittorica veneta. Osservando le storie laterali, poi, ed in particolare la scena dello Spasimo, si può notare un incontro con l’analogo episodio dipinto da Raffaello.

 

Fin qui, dunque, dall’analisi di alcuni elementi presenti nell’opera, è stato già rintracciato un certo numero di influenze pittoriche di Vincenzo da Pavia, ma non è tutto. Altri elementim infatti, devono essere tenuti in considerazione per avere una comprensione più precisa della formazione e del percorso artistico di Vincenzo degli Azani.

Particolare attenzione, ad esempio, deve darsi all’elemento paesaggistico: esso viene reso mediante la caratteristica prospettiva “a volo d’uccello” già riscontrabile nell’opera del Foppa, mentre la stessa atmosfera rarefatta rimanda, oltre che a quest’ultimo, alla prospettiva aerea di Leonardo da Vinci.

Circa la fisionomia delle figure, quella della Madonna su tutte, c’è da dire che esse si caratterizzano per le tipiche forme affusolate che trovano riscontro in particolar modo nella cultura artistica emiliana.

 

I restauri

L’attenzione della ricerca per la Madonna del Rosario di Vincenzo da Pavia iniziò attorno alla metà del Settecento (1747) e specialmente nel periodo in cui, in seguito alla ricognizione di tutte le opere di interesse storico e di elevato valore artistico, essa fu oggetto di una prima campagna di restauro. Il documento relativo al primo intervento di restauro specifica come nel 1747 fosse stato affidato ad un artista ignoto il compito di “ristorare o ritoccare il quadro del Rosario”. Al primo intervento di restauro, ne seguirono altri due, il primo nel 1852 e il secondo nel 1993.

 

 

Bibliografia

Viscuso T. Scheda n.62 Vincenzo da Pavia, Madonna del Rosario coi Santi Cristina, Vincenzo Ferrer, Tommaso d’Aquino e Ninfa, in Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V, 1999, pp.378-382

Viscuso T., Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V, 1999, pp.209-234


LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA E SANTA CECILIA A CAGLIARI

A cura di Denise Lilliu

 

 

La chiesa di Santa Maria Assunta e Santa Cecilia è uno dei principali edifici di culto della città di Cagliari, insieme alla Basilica di Bonaria. Divenuta chiesa cattedrale nel 1258, la chiesa, posizionata nel vecchio quartiere di “castello”, è riparata dal traffico e dalla frenesia della città.

 

Storia e descrizione

La facciata

Il primo impianto della cattedrale, che dal 1254 è documentata come Santa Maria di Castello (“Sancte Marie de Castello”), risale agli inizi del tredicesimo secolo ed è realizzato dai Pisani. Nel 1258, in seguito alla distruzione della vecchia cattedrale di Santa Cecilia, Santa Maria di Castello divenne la nuova chiesa cattedrale di Cagliari.

 

La facciata attuale ricorda, nelle forme, tanto il Duomo di Pisa quanto quello di Lucca. È a salienti, in stile neoromanico ed è stata completata, con l’impiego della pietra calcarea del Colle di Bonaria, nel 1931 dall’architetto Francesco Giarrizzo.  Presenta, inoltre, una bifora gotica completata nel primo Trecento.

 

Interno

All’interno, la cattedrale presenta una struttura a croce latina (originariamente l’impianto era rettangolare), a tre navate, con transetti – questo realizzato agli inizi del Trecento –  e sette cappelle laterali. La chiesa, inoltre, presenta anche una una cupola ottagonale, le cui vele sono impegnate dai Quattro Evangelisti del pittore sardo Filippo Figari (1885-1975). Il pavimento in marmo policromo, risalente al Seicento, è stato rifatto nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento. Sulla volta della navata centrale, poi, sono presenti L’Esaltazione della croce, La Pietà e le Storie della diffusione della fede in Sardegna, anche queste realizzate da Figari.

 

La navata sinistra

La navata sinistra della cattedrale contiene la cappella del Battistero, la cappella della Vergine della Mercede e la cappella di Santa Barbara e delle Famiglie Sante.

 

Cappella della Vergine della Mercede

La Cappella della Vergine della Mercede appare molto imponente in quanto a dimensioni, dal momento in cui essa contiene due tombe: la prima appartenente a uno stimato arcivescovo, Paolo Maria Serci di Nuraminis, l’altra a Luigi Amat di Sorso. La cappella è realizzata esclusivamente in marmo, e al suo interno contiene, in una nicchia la statua della Madonna del Pilar e un quadro di Giacomo Altomonte raffigurante la Madonna della Mercede.

 

Cappella di Santa Barbara e delle famiglie sante

La Cappella di Santa Barbara e delle Famiglie Sante contiene, sopra il tabernacolo centrale, un’urna contenente i resti dei beati Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi e quelli di Luigi e Zelia Martin, genitori di Santa Teresa di Lisieux. Al centro, in alto, la tela – attribuita a Corrado Giaquinto – con Santa Barbara che rifiuta di adorare gli idoli pagani. Solo recentemente, dal 2008, la cappella è stata dedicata anche alle sante famiglie.  Al centro in alto c’è anche un dipinto, un olio su tela che racconta il martirio di Santa Barbara perché solo recentemente (nel 2008), la cappella è stata dedicata anche alle sante famiglie.

 

La navata destra

La navata destra, invece, ospita la cappella di Santa Cecilia, la Cappella di Nostra Signora di Sant’Eusebio e la cappella di San Michele.

 

Cappella di Santa Cecilia

Si tratta di una delle cappelle più importanti, anche se poche notizie si hanno a riguardo, dal momento che Cecilia è la santa patrona della cattedrale insieme alla Vergine Maria. Anch’essa è costruita con marmi policromi, tra cui anche il marmo giallo delle colonne, che ha origine sarda e proviene dalle cave di Seulo.

 

Transetto

Il transetto sinistro custodisce la Cappella Pisana (o feriale), la Cappella del Crocifisso e il Mausoleo di Martino d’Aragona. Nel transetto destro invece si trovano la cappella di Sant’Isidoro, la cappella del Santissimo Sacramento e la cappella della Madonna delle Grazie, che ospita la tomba dell’arcivescovo Ernesto Maria Piovella.

 

Presbiterio

Nel presbiterio rialzato si trova una credenza in marmo, risalente agli inizi del Settecento, l’altare maggiore – anch’esso in marmo, e contraddistinto dalla presenza di cinque colonne – il coro e i due organi, uno grande e uno più piccolo. Sull’altare, un paliotto di fattura spagnola mentre alle spalle della mensa trova posto un tabernacolo in argento. Ai lati del presbiterio, due leoni stilofori, databili al dodicesimo secolo, che in origine sostenevano il pergamo di Maestro Guglielmo. Da una piccola rampa di piccoli scalini, posta vicino al presbiterio, si accede nella zona sotterranea della cattedrale, il Santuario dei Martiri, voluto nel 1614 dall’arcivescovo Francisco de Esquivel.

 

 

Il Mausoleo di Martino d’Aragona

Tra le opere più imponenti e vistose della cattedrale, c’è il Mausoleo dedicato a Martino d’Aragona (1374-1409), detto anche Il Giovane, re di Sicilia. Divenuto celebre dopo aver combattuto e vinto la Battaglia di Sanluri contro Guglielmo III di Narbona il 30 giugno 1409, Martino muore di malaria a soli 35 anni, anche se una leggenda vuole che la sua morte sia stata in realtà dovuta alla passione verso una giovane sconosciuta, la “Bella di Sanluri”, che si dice abbia rivendicato la sconfitta dell’esercito sardo portando il re alla morte.

 

Il Mausoleo, concepito da Giulio Aprile e completato tra il 1676 e il 1680, si divide in tre registri architettonici: dal basso verso l’alto, il linguaggio barocco della struttura si connota per una certa apertura alle varianti ligure-piemontesi. Nel primo registro. Quattro guerrieri e due angeli tengono uno scudo, mentre il secondo è occupato dal blasone della casata d’Aragona, con la data di morte di Martino. Nel terzo e ultimo registro, infine, è custodita l’urna che contiene i resti del re, un suo ritratto scultoreo e la personificazione della Morte, circondata dalle allegorie della Giustizia, a sinistra, e della Fede a destra.  Recentemente, nel 2005, poi, sono stati anche riscoperti, in maniera del tutto fortuita, i resti del corpo di Martino.

 

I pulpiti

Nella navata destra, poco notati ma di grande importanza ci sono due pulpiti che prima appartenevano al Duomo di Pisa e in seguito sono stati portati a Cagliari. Realizzati in marmo, essi presentano dei riquadri scolpiti, probabilmente costruiti dall’artista che si occupò di costruire anche la Torre di Pisa.

 

Il Santuario dei Martiri

La parte forse più interessante della cattedrale è il Santuario dei martiri, che si trova in un ambiente sotterraneo rispetto alla cattedrale, e al di sotto del presbiterio. Il santuario, inaugurato nel 1618, è diviso in tre ambienti diversi: La cappella centrale, la Cappella di San Lucifero e La Cappella di San saturnino. I tre ambienti contengono un totale di centosettantanove nicchie contenenti le reliquie dei martiri cagliaritani, scoperte per puro caso in occasione di uno scavo. Nel 1615, data di ritrovamento delle reliquie, venne deciso, sempre per volontà dell’arcivescovo Esquivel, di ristrutturare il complesso della cattedrale. Ad Esquivel si deve anche l’impegno di aver impedito il traffico delle reliquie, un fenomeno estremamente diffuso all’epoca.

 

Cappella centrale (o cappella della Madonna dei Martiri)

La Cappella centrale, o Cappella della Madonna dei Martiri, è la più grande. È accessibile direttamente dalle scale e ospita sessantasei nicchie. Sopra le due porte ai lati, che conducono alle altre due cappelle, sono presenti delle lapidi con iscrizioni che riportano le risposte tra papa Paolo V e il re di Spagna, Filippo III, al momento del rinvenimento delle nicchie. Al centro della cappella è presente un altare marmoreo. Il soffitto, infine, è decorato da circa seicento rosoni, decorati ognuno in modo diverso e comprendenti un quadrifoglio di buon auspicio per coloro che riescono a individuarlo.

 

Cappella di San Lucifero

La cappella di San Lucifero invece, è dedicata all’omonimo vescovo di Cagliari di cui si trovano le ossa all’interno di un’urna sotto l’altare. Essa contiene circa 80 nicchie, e ospita anche una statua dell’arcivescovo Ambrogio Machin, che prese il posto di Esquivel, nonché il monumento funebre dedicato a Maria Luigia di Savoia.

Cappella di San Saturnino

Nel lato a sinistra della cappella centrale, c’è la cappella dedicata al primo martire e patrono della città di Cagliari, le cui reliquie sono contenute all’interno di un sarcofago.  La cappella, eretta nel 1620 e di dimensioni ridotte rispetto alle due precedenti, contiene anche una statua in marmo del santo, oltre a trentatre nicchie.

 

 

Bibliografia

Roberto Coroneo. Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo '300. Nuoro, Ilisso, 1993

 

Sitografia

Cattedrale di Cagliari (duomodicagliari.it)

 

 

Informazioni Utili

Il Duomo si trova nel quartiere di Castello a Cagliari, nei pressi di Piazza Palazzo.

 

Orari

GIORNI FERIALI: 9:00-13:00                       16:00-20:00

GIORNI FESTIVI: 8:00-13:00                       16:30-20:00


IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DELLA NOCE A INVERIGO

A cura di Alice Savini

 

La miracolosa apparizione

Il santuario di Santa Maria della Noce, che ancora oggi è un importante luogo di devozione, si erge sulle colline del paese di Inverigo situato nel cuore della Brianza. Il Santuario nacque per volontà della popolazione del paese allo scopo di ringraziare la Madonna, a seguito della sua apparizione a due fanciulli che si erano persi nel bosco. Secondo la tradizione la figura divina apparve, in un giorno imprecisato del 1501, al di sopra delle fronde di un albero di noce, recando tra le braccia il Bambin Gesù, per portare in salvo i due malcapitati. Ancora oggi il luogo dell’epifania divina è ricordato dall’effige dipinta di una Madonna con Bambino (posta nella muratura dell’odierna torre campanaria, molto probabilmente sorta al posto dell’antica chiesa), collocata al di sopra di un albero di noce (che in origine era piantato all’interno dell’edificio).

 

Santa Maria della Noce e la sua storia

La costruzione della chiesa, inizialmente in pietra, iniziò il 2 giugno del 1519; ma fu solo grazie a Carlo Borromeo che la piccola edicola si trasformò in un grande santuario mariano. Nel 1570, in visita pastorale a Inverigo, l'arcivescovo Carlo Borromeo si lamentò per le condizioni deplorevoli della chiesa di Santa Maria della Noce, mai finita: l’arcivescovo diede disposizioni per il completamento della fabbrica; il nuovo santuario, terminato solo nel 1671 dopo i solleciti di Federico Borromeo, sembra essere frutto di un progetto realizzato da Pellegrino Tibaldi, l'architetto di fiducia dell'arcivescovo.

Giungendo davanti all’ingresso dell’odierno edificio si può vedere una balaustra marmorea che ne delimita il sagrato, la “recinzione” voluta da Carlo Borromeo permette di dividere lo spazio sacro da quello destinato al mercato della piazza circostante. L’austera facciata della chiesa dai tratti classicheggianti è un rimando all’arte rinascimentale: quattro giganti lesene di ordine ionico, poste su un alto basamento, scandiscono la facciata terminante con una struttura a timpano triangolare. La stessa composizione, formata da timpano privo di fregio e sorretto da colonne ioniche, è riproposta in scala ridotta a racchiudere un portale ligneo intagliato. Sul retro della chiesa troviamo invece la torre campanaria quattrocentesca costruita in cotto.

 

Una volta varcata la soglia ci troviamo in un ambiente che accoglie e “abbraccia” il pellegrino, grazie anche alla pianta centrale dell’edificio. Volgendo lo sguardo verso l’alto è possibile osservare la cupola archiacuta terminante con una lanterna finestrata. Alla base della cupola troviamo i quattro evangelisti, mentre le volte sono dipinte con un motivo a cassettoni che imitano un soffitto ad intaglio ligneo. Lo spazio interno è scandito da quattro colonne doriche giganti che si innalzano fino all’imposta delle volte. All’interno vi sono anche due cappelle che, oltre che contenere un importante dipinto e un crocifisso ligneo di grande qualità, sono abbellite con una decorazione in stucco di notevole complessità piena di elementi vegetali, racemi, putti e rosette.

 

A contrastare con gli elementi classicheggianti vi sono l’altare e l’ambone che sono opere contemporanee, realizzate in marmo di Carrara dall’artista contemporanea Marie Michèle Poncet.

 

Sei importati dipinti

Il Santuario di Santa Maria della Noce accoglie al suo interno una serie di dipinti di grandi artisti riconosciuti, ciò testimonia la grande importanza che nei secoli doveva aver assunto il santuario. Nella cappella laterale di sinistra un prezioso dipinto celebra il santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo; una cornice di stucco bianco racchiude la tela raffigurante San Carlo in Gloria datata 1618. La tela è assegnata alla mano di Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, un’importante pittore della Controriforma in Lombardia; si tratta dell’unica prova pittorica del maestro per il territorio della Brianza, che testimonia anche l'importanza raggiunta dal santuario in epoca borromaica. La composizione prevede al centro della tela la figura di San Carlo benedicente dallo sguardo severo e austero vestito con piviale e mitria dorati. Egli è circondato da una gloria di angioletti recanti alcuni oggetti sacri tra cui un crocefisso, il calice e il cappello arcivescovile. Degno di attenzione è il dettaglio della Bibbia aperta e offerta allo spettatore da un angioletto, dove si può constatare l'attenzione del pittore per i dettagli, dal segnalibro che taglia a metà la pagina, alle ombreggiature della piega della pagina sinistra che rimandano alla tradizione naturalistica lombarda. Il soggetto è uno tra i più frequentemente trattati dai pittori della Milano federiciana.

 

Subito a fianco, al di sopra di una porta di accesso al santuario, si può invece ammirare una tela raffigurante un San Gerolamo scrivente attribuito a Jusepe de Ribera e alla sua cerchia[1]. L’uomo è raffigurato in età avanzata mentre scrive la Vulgata, il corpo nudo è coperto da un semplice drappo mentre con la mano destra impugna uno stilo. A destra dell’altare invece è posta una tela di medie dimensioni caratterizzata da un forte gioco chiaroscurale, si tratta dell’Orazione nell’orto eseguita da Antonio Campi nel 1577[2]. L'immagine descrive un ambiente notturno in cui le figure di Cristo al centro e dell'angelo sulla sinistra sono avvolti da una innaturale fonte luminosa che traccia le superfici dei loro corpi.

 

Un dipinto dai colori brillanti e smaltati raffigurante La Visitazione della Santa Vergine a Santa Elisabetta è posto subito all’ingresso. Realizzato dal pittore Francesco Crivelli e commissionato dell’omonima famiglia Crivelli (il cui stemma è ancora visibile all’interno della maestosa cornice dorata) in un periodo di tempo che va dal 1530 al 1560. La scelta iconografica è inusuale poiché non vi è raffigurata la stretta di mano tra le due cugine, bensì un abbraccio.

Altra opera conservata nel santuario è il grande dipinto raffigurante l’Assunzione della Vergine di Gian Domenico Caresana. La Madonna è ritratta mentre ascende al cielo in un turbinio di nuvole e angeli; ai suoi piedi i dodici apostoli (tra cui Pietro e Paolo) sono spaventati alla vista del sepolcro vuoto. Il dipinto raffigurante Cristo e la Cananea rimane quello più enigmatico, sconosciuto è ancora il suo esecutore anche se l’ipotesi più accreditata è quella di Paolo Cazzaniga, copista e pittore di casa Borromeo. Si tratta infatti di una copia del dipinto eseguito da Annibale Carracci per palazzo Sampieri a Bologna.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto fu un pittore spagnolo che trovò fortuna come pittore nella corte spagnola di Napoli. Famoso per le sue opere dal sapore caravaggesco, ricche di chiaroscuri e raffiguranti la realtà, a volte anche violenta e brutale.

[2] Solo dopo il restauro del 1990 il dipinto è stato attribuito ad Antonio Campi grazie al ritrovamento della firma, in passato si pensava fosse stato dipinto da Simone Peterzano.

 

 

Bibliografia

Giussani, Il Santuario di Santa Maria della Noce in Inverigo, 2013.

 

Sitografia

Il Santuario S. Maria della Noce - Comunità Pastorale Beato Carlo Gnocchi (parrocchiainverigo.it)

Cammino di sant'Agostino (cassiciaco.it)


SANT'ANNA DEI LOMBARDI PT III

A cura di Ornella Amato

 

La sagrestia del Vasari

 

* Doveroso un ringraziamento speciale all’intero staff operante all’interno del Complesso, anzitutto per la gentilezza e la disponibilità, per aver inoltre fornito materiale storico e per l’autorizzazione alla realizzazione delle immagini fotografiche contenute in questo elaborato.

 

Note biografiche sulla presenza di Giorgio Vasari a Napoli

 

Giorgio Vasari è stato pittore e architetto, autore de Le vite dei pittori scultori e architettori, pubblicato in due edizioni, la prima del 1550 e la seconda del 1568, tutt'oggi considerato una pietra miliare per lo studio degli artisti e della storia della critica dell'arte.

La sua opera si ricorda soprattutto tra Firenze e Roma, ma operò anche a Napoli nel biennio 1544-1545 per affrescare il refettorio della chiesa degli olivetani, Santa Maria di Monteoliveto, cioè l'attuale Sant'Anna dei Lombardi. È lo stesso Vasari, nelle sue Vite, quando parla della sua di vita, a raccontare della commissione dell'affresco del refettorio, una commissione che in un primo momento rifiutò poiché temeva che non ne avrebbe tratto vantaggio in termini di fama.

 

 

L’accettazione dell’incarico

Grazie a Miniato Pitti, estimatore del Vasari, ed alla fitta corrispondenza tra i due intercorsa, l’aretino accettò la commissione e l’opera da lui realizzata è oggi un unicum nell’area centro-meridionale della penisola.

Il primo problema che il Vasari dovette risolvere fu l’eliminazione delle arcate gotiche. Le volte ogivali furono abbassate, furono smussati gli angoli e gli spigoli. Con gli affreschi il Vasari ha creato effetti ottici estremamente particolari in ragione dei quali guardandoli lateralmente se ne riconosce la forma angolare, mentre guardandoli in maniera frontale la parte laterale diventa impercettibile.

 

Altro problema che il Vasari dovette risolvere era quello della luce: il refettorio, infatti, non godeva di una buona illuminazione naturale. Tutt’oggi entrando sono presenti alla parete di sinistra solo tre grandi finestre e Vasari scelse di realizzarne altrettante tre sulla parete di fronte per creare maggiore simmetria, ma si tratta di affreschi e non punti luce reali ed inoltre scelse uno sfondo di stucco bianco non solo per dare maggiore risalto all’opera, ma per dare ad essa una luce su cui splendere.

 

Per accedere all’ex-refettorio, cioè la sagrestia dipinta dal Vasari, è necessario attraversare l’intera navata e superare la quarta cappella sulla destra e infine percorrere un piccolo corridoio, dove si trova anche la campana del campanile che fu totalmente distrutto coi bombardamenti del marzo del ‘44.

Inizialmente, l’ingresso della sagrestia era dal lato opposto a quello attuale, dove oggi c’è l’altare su cui è esposta l’opera Reliquia di Jago e la tela con San Carlo Borromeo.

 

Per affrescare la volta, il Vasari la suddivise in tre quadranti con affreschi allegorici dedicati all’eternità, alla fede e alla religione, una scelta che gli consentì di esplicare negli affreschi tematiche di estrema importanza nel mondo del monachesimo e legate a coloro che scelgono la vita monacale. Ne derivò una sorta di vero e proprio richiamo ai monaci e a non dimenticare i sacrifici imposti dalla vita monastica, alla regola di San Benedetto – a cui gli olivetani appartenevano – alla meditazione, al silenzio durante il pasto.

 

Considerando che l’ingresso attuale è al lato diametralmente opposto a quello originale, nella prima campata, dedicata alla religione, sono rappresentati temi legati alle costellazioni del Nord dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore, ovviamente secondo i canoni tolemaici conosciuti all’epoca. Per la campata centrale il pittore propose le costellazioni dello Zodiaco; infine nella terza campata, che riparte dal tema dello Zodiaco iniziando dal segno dei Pesci, rappresentò le costellazioni del Sud.

 

Alzando lo sguardo per ammirare gli affreschi, si notano anche segni del lavoro svolto dall’aretino per la preparazione degli stessi, con le stuccature bianche di sfondo che, ad uno sguardo attento, mostrano le striature presenti sulla base successivamente affrescata.

 

Oltre Vasari: gli intarsi lignei di Frà Giovanni da Verona

Le pareti laterali della Sagrestia sono rivestite da pannelli di intarsi lignei che rappresentano falsi armadi contenenti all’interno oggetti di vario genere, architetture urbane e paesaggistiche, realizzati in maniera tridimensionale per la sagrestia vecchia della chiesa (l’ex – refettorio è noto come Sagrestia Nuova, oltre che convenzionalmente come Sagrestia del Vasari) e trasferite nel 1558 al refettorio. Attualmente i pannelli sono trenta: dodici da un lato, diciotto dall’altro, ma è ignoto il numero originario.

 

Conclusioni

La presenza del Vasari a Napoli permette al Rinascimento di superare i confini di Firenze e quelli romani, penetra e stravolge il tardogotico ancora persistente in città.

La sua maniera a Napoli irrompe e lascia sconvolti.

Sosteneva che “non ne avrebbe tratto alcun giovamento” nell’affrescare la volta, ma si sbagliava.

Il suo capolavoro, grazie ad un sistema di illuminazione artificiale, oggi avvolge e sorprende il visitatore:

entrando in una sala buia, dove grandi tendaggi coprono le uniche tre finestre, ad ogni passo, luci artificiali automatiche illuminano lentamente la Sagrestia. Le luci calde lentamente si schiariscono, lasciando spazio a led bianchi di luce fredda; ad ogni passo un gruppo di luci si accende, fino ad illuminare completamente il tutto, dal basso verso l’alto, dal retro degli intarsi lignei fino alla volta, facendola risplendere e accompagnando lo sguardo del visitatore tra le 48 figure allegoriche che la compongono e a sentirsi quasi inglobato in essa, parte di un capolavoro unico nel meridione d’Italia.

 

Dove non espressamente riportato in didascalia, le immagini fotografiche sono state realizzate dall’autrice del testo su autorizzazione del personale del Complesso Museale di Sant’Anna dei Lombardi di Napoli.

 

 

 

 

Sitografia

https://www.santannadeilombardi.com

https://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-vasari/

http://www.arte.it/notizie/napoli/alla-scoperta-del-rinascimento-toscano-a-napoli-a-sant-anna-dei-lombardi-17605

https://it.storiadellacriticadarte.org/wiki/Le_vite de_eccellenti_pittori,_scultori_e_architettori

https://www.roadtvitalia.it/vasari-napoli-gli-affreschi-santanna-dei-lombardi

https://www.latestatamagazine.it/2021/05/giorgio-vasari-e-il-gusto-manierista-a-santanna-dei-lombardi/

https://corrieredinapoli.com/2021/03/18/la-sagrestia-vasari-una-piccola-perla-rinascimentale/

https://criticaclassica.wordpress.com/tag/sagrestia-del-vasari/

https://www.ilmattino.it/blog/l_arcinapoletano/sacrestia_vasari_rinascimento_ignorato_di_napoli-1372206.html


GIOTTO AL SANTO

A cura di Mattia Tridello

 

La cappella della Benedizioni nella basilica di Sant’Antonio Padova

Giotto nella città di Padova

Per poter comprendere appieno la presenza del pittore toscano nella città patavina occorre innanzitutto rintracciare, negli anni precedenti al suo arrivo nella pianura padana, i luoghi e le numerose committenze che ne segnarono e ne accrebbero indelebilmente la fama. Giotto, insieme alla sua bottega e a una miriade di altri artisti provenienti da molte località della penisola, aveva già decorato splendidamente, a partire dagli ultimi decenni del XIII secolo, le pareti della Basilica di San Francesco ad Assisi, le mura di una chiesa che costituì un luogo di fondamentale, se non cruciale, importanza per il rinnovamento dell’arte, una fucina di talenti e innovazioni che determinò, da quel momento in poi, un nuovo e inarrestabile sviluppo della pittura in Italia e nel resto del mondo. Le decorazioni parietali, promosse grazie all’intervento di Niccolò IV (primo papa francescano), vennero commissionate agli artisti dai frati minori, dall’ordine che, come si illustrerà, rivestirà un ruolo dominante nella scena artistica dell’Italia del ‘300 e nella carriera personale dello stesso Giotto. Dopo l’esperienza umbra, quest’ultimo fu infatti impegnato in altri affreschi in città nelle quali i francescani erano presenti in numerose chiese, si veda, ad esempio, Firenze dove l’artista si recò per decorare la cappella Peruzzi nella Basilica di Santa Croce. Terminata la permanenza toscana egli, chiamato nuovamente dai minori, arrivò a Rimini per decorare l’interno della gotica San Francesco (trasformata nel corso del ‘400 nell’attuale “tempio Malatestiano”) e infine giunse a Padova, alla celebre Basilica di Sant’Antonio, la seconda chiesa, per importanza, dell’ordine. Le fonti giunte a noi attestano che il pittore venne assunto tra il 1302 e il 1303 per affrescare non una sola porzione ma ben tre luoghi distinti all’interno della chiesa e del convento adiacente. Probabilmente, come riscontrato da studi e ipotesi recenti, Giotto decorò per prima la cappella della Madonna Mora (il nucleo originario della chiesetta di Santa Maria Mater Domini dove venne inizialmente sepolto Sant’Antonio- per leggerle l’articolo a Lui dedicato clicca qui-). In questa, dietro l’altare che custodisce la statua di Maria con il Bambino, è presente un affresco che rivela, ai lati dell’effige della Vergine, due figure monumentali di profeti riconducibili alla mano del maestro toscano. Dai panneggi delle vesti alle espressioni facciali, tutti i dettagli rendono fortemente plausibile la somiglianza di tali figure con i soggetti che, da lì a pochi anni, il pittore mirabilmente realizzerà nella Cappella degli Scrovegni. Tuttavia, il pennello dell’artista, secondo testimonianze storiche documentate, ricoprì di colore anche altri luoghi del complesso antoniano, di questi, ad oggi, ne sono stati accertati altri due: la cappella delle benedizioni e la sala del Capitolo. In questa le porzioni ritrovate degli affreschi trecenteschi risultano poco leggibili a causa della sovrapposizione, nel corso del XVIII secolo, di altre pitture murali ma condurrebbero gli storici ad intravederne un ciclo narrativo raffigurante la Crocifissione. Proprio tra le navate della basilica, Giotto, probabilmente, ebbe modo di entrare in contatto con un ricco banchiere padovano, Enrico Scrovegni che, da lì a poco sarebbe diventato il mecenate di uno dei capolavori assoluti e indiscussi della storia dell’arte.

La parte delle attribuzioni pittoriche giottesche della basilica che, ad oggi, risulta più leggibile grazie al recentissimo restauro, si trova nella Cappella di Santa Caterina, anche detta “delle benedizioni” nella parte destra delle cappelle radiali del deambulatorio.

 

La cappella di Santa Caterina

Già dal XIV si può far risalire la dedicazione della cappella a Santa Caterina d’Alessandria (fig. 1). Quest’ultima, patrona dello Studio dei Legisti dell’Ateneo di Padova (fondato nel 1222), dell’università di Parigi e protettrice delle cosiddette “arti liberali”, è raffigurata anche nella Cappella degli Scrovegni nella stessa città. Fu infatti Enrico Scrovegni, che deteneva il patronato ecclesiastico della cappella nella basilica, a commissionare a Giotto un ciclo decorativo per questo luogo, come è testimoniato dalla presenza dallo stemma di famiglia nel sottarco d’ingresso alla stessa.  La decorazione, della quale si conservano ancora importanti tracce, presenta otto mezzi busti di Sante inseriti in cornici marmoree quadrilobate di una qualità molto elevata tra sottili tralci ed elementi floreali (fig.2) L’imposta dell’arco d’accesso alla cappella si instaura su capitelli in marmo dipinti a doratura che sovrastano le paraste decorate finemente con la tecnica a finto marmo.

 

L’attribuzione del ciclo affrescato del sottarco al maestro toscano fu proposta per prima da parte di Francesca Flores d’Arcais per poi essere ripresa più volte da altri storici dell’arte. Quest’ultima, già nel ’69, riteneva che lo stato conservativo dell’opera fosse critico e bisognoso di un restauro.

Il restauro

Il restauro del ciclo (fig. 3), appena concluso, durato neve mesi, è riuscito a ridare luce e visibilità a quella che è stata definita “una sorta di prova generale della Cappella degli Scrovegni”, e contribuisce ad arricchire lo studio dei motivi storici e artistici dello spostamento del maestro toscano da Assisi alla città veneta. La complessa e delicata opera conservativa è stata promossa dall’Ente Basilica Sant’Antonio di Padova e dalla Delegazione Pontificia. L’esecuzione del restauro è stata sotto il diretto controllo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia le Province di Belluno, Padova e Treviso, con la squadra di esperti formata dal soprintendente Fabrizio Magani, dalla storica dell’arte Monica Pregnolato, dal direttore scientifico Giovanna Valenzano, e tecnico Cristina Sangati della impresa AR Arte e Restauro S.r.l. Padova. Come ha sottolineato l’Arcivescovo Fabio Dal Cin (delegato Pontificio per la Basilica di Sant’Antonio in Padova): «La Delegazione ha fortemente voluto il restauro, auspicando che fosse un’operazione ai massimi livelli scientifici e, soprattutto, un momento per coinvolgere le eccellenze della città di Padova, che custodisce con venerazione e partecipazione il corpo del Santo. Tra gli alti compiti della Delegazione Pontificia c’è infatti quello di unire la custodia del Complesso Antoniano alla salvaguardia delle opere d’arte nate per elevare il luogo sacro, ben consci che la bellezza di queste sia parte della devozione dei fedeli e un’eredità preziosa da preservare».

L’opera di restauro ha così contribuito a svelare e riscoprire un altro importante luogo che va ad arricchire la meravigliosa produzione pittorica di Giotto nella città patavina, una serie di affreschi che nel passato hanno aiutato la preghiera di milioni e milioni di persone, che oggi, ancora a noi parlano e si fanno testimoni della bellezza artistica, di Fede e devozione custodita nella basilica del Santo.

 

 

Bibliografia

Vv., La basilica del Santo. Storia e arte, Roma, De Luca Editori d'Arte, 1994;

Francesco Lucchini, “Disjecta membra”: Circolazione di reliquie e committenza di reliquari al Santo nel primo Quattrocento, in “Il Santo. Rivista francescana di storia, dottrina e arte”, vol. 50, Padova, Ass. Centro Studi Antoniani, 2010, pp. 533-555

Leo Andergassen, L’iconografia di Sant’Antonio di Padova dal XII al XVI secolo, Padova, Ass. Centro Studi Antoniani, 2017

Cesare Crova (a cura di), Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, vol. 67, Roma, 2018;

Il Messaggero di Sant’Antonio, numero di approfondimento del Giugno Antoniano, Padova 2019;

Maria Beatrice Autizi, La basilica di Sant’Antonio a Padova. Storia e arte, Treviso, Editoriale Programma, 2021;


SANT’ANNA DEI LOMBARDI PARTE II

A cura di Ornella Amato

 

I segreti nascosti nelle cappelle

 

*Doveroso un ringraziamento speciale all’intero staff operante all’interno del Complesso, anzitutto per la gentilezza e la disponibilità, per aver inoltre fornito materiale storico e per l’autorizzazione alla realizzazione delle immagini fotografiche contenute in questo elaborato.

  

Nelle cappelle

dove

grandi nomi provenienti da Firenze,

hanno lasciato la loro opera.

Introduzione

Il viaggio che virtualmente si compie tra la Napoli aragonese e la Firenze rinascimentale si esplica soprattutto attraverso le opere realizzate all’interno di quello che fu il grande cantiere di Santa Maria di Monteoliveto e che trova la sua realizzazione in diverse cappelle, all’interno delle quali lavorarono importanti nomi fiorentini.

La Cappella Piccolomini

Entrando a sinistra, la prima cappella che il visitatore incontra è la Cappella Piccolomini voluta da Antonio Piccolomini, Duca di Amalfi, per la moglie Maria d’Aragona, morta nel 1470 a soli 18 anni ed il cui monumento funebre è collocato sulla parete sinistra della cappella stessa.

Lo stemma della casata, realizzato a seguito dell’unione della casata aragonese coi Piccolomini, è incastrato nel pavimento della cappella e contiene i simboli di entrambe le famiglie: i simboli del casato d’Aragona affiancano la mezza luna per la famiglia del duca.

 

Alla cappella e al monumento funebre, datati intorno agli anni immediatamente successivi alla morte della duchessa, lavorarono prima Antonio Rossellino fino al 1479, anno della sua morte, e successivamente Benedetto da Maiano, che la completò intorno al 1492.

All’interno della cappella Rossellino ripropone lo schema e gli arredi da lui utilizzati per San Miniato al Monte e per questo stesso motivo è probabile che in origine la cappella fosse stata ornata anche da tondi realizzati con la tecnica della terracotta invetriata, tipica dei Della Robbia, già utilizzata in San Miniato e che si ritrova anche nella cappella Tolosa, all’interno dello stesso complesso monumentale.

Allo scalpellino del Rossellino - e a quello di Matteo del Pollaiolo - è assegnato anche l’Altare della Natività, collocato sulla parete sinistra e lateralmente al monumento funebre. Al centro si trova la splendida scena della Natività e ai lati si segnala la presenza dei Santi Andrea e Giacomo, esplicito richiamo alla famiglia committente poiché erano i santi eponimi dei fratelli del duca.

 

La scena della Natività non sembra seguire l’iconografia tradizionale perché tripartita in tre momenti. A destra, sullo sfondo, si riconosce l’annuncio ai pastori. Avanzando nella scena, sopra la capanna vi è un tripudio di angeli festanti che danzano a lode e gloria della nascita del Salvatore.

 

Nella capanna si trovano la Vergine col Bambino e davanti a loro San Giuseppe che riposa, realizzato in una posizione che sembra fare riferimento ad uno dei momenti immediatamente successivi alla natività: il riposo del padre putativo di Gesù che precede la fuga in Egitto. Sovrastano l’intera scena quattro putti reggi festone.

 

Lateralmente all’altare è collocato il monumento funebre di Maria d’Aragona.

 

Il volto della giovane duchessa è quello di una fanciulla morta in giovane età e la sua bellezza è tale che, più che morta, sembra che dorma.

 

La mano di Benedetto da Maiano è stata identificata nel rilievo raffigurante la Resurrezione, tra i due angeli inginocchiati posizionati ai lati del monumento, e nel gruppo in alto in cui è rappresentata una Madonna con Bambino all’interno di una ghirlanda, sorretta anch’essa da due angeli in volo.

 

La cappella ospita anche un’opera d’arte contemporanea, del 2017: Muscolo Minerale. L’opera è di Jago ed è posizionata al centro della cappella, di cui sembra quasi una sorta di “cuore pulsante”. Non monopolizza l’attenzione del visitare, bensì si integra coi capolavori della cappella, quasi fosse stata concepita con essa e per essa.

 

L’illuminazione naturale della cappella fa risaltare le opere che custodisce, evidenziandone la tridimensionalità ed incantando chi le osserva.

 

La Cappella Correale

La prima cappella a destra della porta d’ingresso è la Cappella Correale, voluta dal maggiordomo di Alfonso II, Marino Correale, conte di Terranova, di cui la stessa accoglie anche il sarcofago.

 

La struttura segue l’impianto tipicamente utilizzato nella tradizione rinascimentale fiorentina con vano cubico, cupoletta e lunette.

Lo sguardo del visitatore è catturato dalla pala d’altare di Benedetto da Maiano raffigurante l’Annunciazione. L’arcangelo Gabriele originariamente aveva nella mano sinistra un giglio, andato perduto, del quale restano sulla pala i fori.

 

La Vergine è rappresentata in una posa non convenzionale: con la mano sinistra – di grandi dimensioni – sorregge parte della tunica che indossa ed un libro, mentre la mano destra è posta sotto il seno, quasi ad abbracciarsi. Questa posizione è quella tradizionalmente assunta dalle donne gravide nell’atto di proteggere il bambino che portano in grembo. Le braccia e le mani sembrano quasi dare forma ad un cerchio che circoscrive il ventre, non ancora rigonfio dalla gravidanza, nel quale verrà custodito il Salvatore, come annuncia l’arcangelo stesso.

Ai lati della scena centrale sono rappresentati i santi Giovanni Battista ed Evangelista, mentre nella predella sottostante sono rappresentate le scene della vita di Cristo. In quest’ultima, è da notare che sono invertite due scene della vita di Cristo: la scena raffigurante la Resurrezione, infatti, precede quella della Deposizione. L’intero riquadro è chiuso da una cornice decorata con un fregio sovrastato da spiritelli che reggono un festone.

Lo spiritello reggi festone di destra oggi è al centro dell’attenzione della critica d’arte: studi diversi lo attribuiscono ad un giovanissimo Michelangelo Buonarroti che, secondo la studiosa tedesca Margrit Lisner, intorno ai quattordici anni si sarebbe trovato a bottega proprio presso Benedetto da Maiano, permettendo di conseguenza di datare l’opera intorno al 1489. Tuttavia, si tratterrebbe di un’attribuzione di stile e non documentata[1]. Il volto e l’atteggiamento della scultura sembrano troppo innovativi rispetto allo stile tradizionalmente rinascimentale di Benedetto, inoltre la postura dello spiritello, che presenta il braccio destro alzato, è una postura che lo stesso Buonarroti riprenderà anche in una fase più matura della sua attività, come per esempio nel Cristo giudicante della Cappella Sistina o nello Schiavo barbuto della Galleria dell’Accademia di Firenze.

  

Il Cappellone del Santo Sepolcro: Cappella Fiodo e Cappella del Compianto

Il Cappellone del Santo Sepolcro è un grande vano bipartito e il primo ambiente in cui si accede è la Cappella Fiodo.

La cappella ospita la tomba di Antonio Fiodo, dalla particolare forma di sedile marmoreo, ma ospita anche sulla parte opposta le tombe di Antonio d’Alessandro e della moglie.

Il secondo vano è la Cappella Lannoy, appartenente alla famiglia Lannoy – Colonna, di cui lo stemma è inserito nel pavimento della cappella. All’interno di essa trova collocazione uno dei capolavori della chiesa: il Compianto sul Cristo morto del modenese Guido Mazzoni, commissionatogli direttamente da Alfonso II e realizzato in terracotta policroma.

 

La vena realistica che caratterizza l’intero gruppo scultoreo è impressionante.

 

Gli otto personaggi sono tutti a grandezza naturale. Il corpo del Cristo è adagiato su un basamento e intorno a lui si riconoscono: Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, la Maddalena, Maria di Salomè, che sembra quasi sorreggere la Vergine, San Giovanni Evangelista e Maria di Cleofa.

 

Il forte realismo che caratterizza la scena finisce col rendere il visitatore incluso nella scena stessa, come se si trovasse sul Golgota, appena dopo la deposizione del Cristo.

Nessun dettaglio è stato trascurato e la cura del particolare è probabilmente la sua maggiore caratteristica: sguardi addolorati e volti distrutti dal dolore della perdita; occhi piangenti e visi contratti con rughe d’espressione fortemente in evidenza; bocche aperte come se stessero gridando. Tutti i dettagli sono inseriti, anche quelli che potevano essere nascosti poiché lontani dallo sguardo dell’osservatore.

I tratti fisiognomici dei soggetti rimandano alla famiglia d’Aragona, in particolare Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo sembrano ricordare rispettivamente Alfonso e Giovanni Pontano, umanista di corte. Inoltre, non sono mancati critici che nei tratti di Nicodemo hanno voluto vedere il volto di Ferrante d’Aragona.

 

È da notare che gli abiti indossati dalla Maddalena, da Nicodemo e da Giuseppe D’Arimatea rimarcano l’abbigliamento quattrocentesco. Questo dimostrerebbe come gli artisti “forestieri” chiamati a Napoli, pur proponendo tematiche già realizzate nelle loro città, fossero riusciti a soddisfare le esigenze e le richieste della committenza napoletana.

Per quel che concerne l’opera nel suo complesso, è da segnalare che l’attuale collocazione non è quella originale poiché inizialmente era stata concepita e collocata a sinistra del presbiterio. Non è inoltre da escludere che anche la collocazione attuale delle statue non sia originale: infatti volti e sguardi – ad esempio quello di Ferrante e quello di Nicodemo – sembrano quasi perdersi nel vuoto piuttosto che voltarsi verso il Cristo morto, come logica vorrebbe. Una testimonianza di questa teoria sono i gruppi scultorei, dello stesso Mazzoni, del Compianto (1450) della Chiesa del Gesù di Ferrara e di quello di Modena, nella chiesa di San Giovanni Battista, datato tra il 1477 e il 1479: i personaggi sono posti intorno al corpo del Cristo in un semicerchio che trova il suo congiungimento nel corpo del Salvatore disteso, come a dare senso al cerchio della vita.

 

L’opera dei fiorentini in Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è notevole: la testimonianza della loro presenza aggiunge un altro tassello alla storia del periodo del Rinascimento, uno tra i periodi più ricchi e fecondi: storia, letteratura ed arte si muovono lungo la penisola, sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico, lasciando capolavori d’arte inestimabile.

 

 

 

Le immagini fotografiche inserite in questo elaborato – laddove non indicato espressamente - sono state realizzate dall’autrice, previa autorizzazione alla realizzazione ed alla pubblicazione delle stesse, da parte del personale addetto del Complesso monumentale di Sant’Anna dei Lombardi.

 

Note

[1] Tratto da ‘La Testata magazine.it – Anna Illiano – Michelangelo Buonarroti - Il tesoro di Sant’Anna dei Lombardi si amplia ‘ 2 Gennaio 2022


SANT’ANTONIO ABATE DI PELUGO

A cura di Alessia Zeni

 

 

Sono molte le piccole e antiche chiese disseminate sul territorio del Trentino Alto-Adige che attraverso i loro affreschi e le loro architetture tramandano la storia della nostra regione. Una di queste è la piccola chiesa di Sant’Antonio abate nel comune di Pelugo in Val Rendena che si innalza isolata nell’aperta campagna tra Pelugo e Borzago e sulla strada che conduce a Pinzolo-Madonna di Campiglio.

 

La chiesa

Come spesso accadde è difficile conoscere le origini di queste antiche chiese, nel caso di Sant’Antonio abate di Pelugo pare fosse stata costruita nella prima metà del XV secolo come chiesetta devozionale al santo protettore degli animali. Ma la chiesa fu costruita probabilmente molto tempo prima, intorno all’anno mille dalle genti della Val Rendena, come piccola cappella devozionale, quadrangolare e absidata, dedicata ai Santi Giacomo e Antonio. Questa cappella fu rimaneggiata e poi ricostruita nelle attuali forme, in uno stile di transizione dal romanico al gotico che prese piede in Trentino tra il Quattrocento e il Cinquecento.

La chiesa che misura 16m per 10m circa ha tutt’oggi una struttura molto semplice: una pianta rettangolare con presbiterio rivolto ad oriente, sacrestia e campanile lungo e slanciato. L’area del presbiterio è un’aula quadrata, singolarmente priva dell’abside, con pareti e volta a crociera magnificamente affrescate. L’aula riservata ai fedeli è invece più sobria con l’arco santo che ne delimita l’area e una volta a botte che richiama lo stile romanico.

All’esterno la chiesa appare semplice, ma riccamente decorata sia nella facciata principale che nella parete meridionale dove un ciclo di affreschi racconta le vicende della vita di Sant’Antonio abate. Infine svetta sulla struttura della chiesa, il campanile in granito, a doppio ordine di bifore romaniche, con la cuspide piramidale talmente slanciata verso l’alto che sembra voler toccare la volta celeste. La torre campanaria è appoggiata al lato orientale della chiesa e per chi arriva dalla strada è la cifra distintiva del paese di Pelugo.

La particolarità di questa piccola chiesetta della Val Rendena sono gli affreschi che decorano l’interno e l’esterno dell’edificio religioso. Sono affreschi di elevato interesse critico e storico sia per il programma iconografico che per la loro attribuzione; infatti, rappresentano una tappa fondamentale nella produzione artistica della famiglia di pittori originari del bergamasco, i Baschenis di Averara, tra il XV secolo e il XVI secolo[1].

 

Gli affreschi esterni

 

Sono molti i riquadri dipinti che decorano la facciata della chiesa. Partendo dal registro superiore, all’estrema sinistra, una Madonna in trono contempla con le mani giunte il Bambino adagiato sulle sue ginocchia e vicino una Trinità con il Padre assiso in trono e il figlio crocifisso. A fianco, sopra il portale gotico, un’Annunciazione è dipinta all’interno di un paesaggio alquanto singolare, ovvero una cinta muraria turrita che fa da sfondo all’Arcangelo Gabriele in ginocchio e alla Vergine Maria con le mani conserte e il capo chino. Sono affreschi alquanto semplici nelle cromie e nelle figure, ma vi è una certa attenzione per i dettagli luministici e le profondità di architetture e panneggi.

Nel registro inferiore due riquadri deteriorati rappresentano Sant’Orsola con aureola e stendardo mentre si avvia al martirio accompagnata da una schiera di vergini e, a fianco, l’immancabile San Michele arcangelo con lancia per trafiggere il maligno. L’arcangelo Michele, capo delle schiere celesti che combattono i diavoli, è qui raffigurato per ricordare al fedele che verrà il momento del giudizio davanti a Dio.

 

Completa la decorazione della facciata, il Sant’Antonio abate dipinto sopra il portale gotico per rammentare all’osservante il santo patrono della chiesa (Fig. 5). È dipinto su di un trono con mano benedicente e pastorale, al quale è appesa la campanella, ha la mitria in testa, abiti abaziali e, ai suoi piedi, un maialino ricorda la sua iconografia. Un’iscrizione sul sedile del trono menziona la data e l’esecutore dell’affresco: Cristoforo I Baschenis, 1474.

Dionisio Baschenis dipinse all’estrema destra della facciata un gigantesco San Cristoforo, patrono di viaggiatori e pellegrini in difficoltà e quindi immancabile in luoghi di passaggio come la Val Rendena (Fig. 6). È qui raffigurato in grande formato per essere visto a lunga distanza con volto rigido e sguardo fisso verso la campagna, il Gesù Bambino sulla spalla e il bastone fiorito nella mano.

 

La decorazione all’esterno della chiesa prosegue e si conclude con il ciclo di Sant’Antonio abate, dipinto sulla parete meridionale dell’edificio religioso. Una storia che si doveva sviluppare in trenta riquadri, su tre ordini, dalla nascita alla vita eremitica, con didascalie in volgare a commentare i singoli episodi. Le intemperie hanno cancellato gran parte dei riquadri, ma si sono però conservati i riquadri del sotto gronda dai quali emergono scene elementari e semplici. Nonostante la semplicità delle immagini il pittore ha cercato di curare il dettaglio, il colore e gli sfondi architettonici e paesaggistici, mostrando la volontà di raccontare in maniera veritiera la storia di Sant’Antonio abate.

Gli affreschi della navata e del presbiterio

Una volta giunti all’interno della chiesa, al visitatore non sfuggiranno alcuni riquadri dipinti sulla parete settentrionale della navata che rappresentano episodi della Passione di Cristo, una Crocifissione e un’Ultima cena. Sono immagini che hanno parecchie lacune e i loro colori sono in parte sbiaditi, ma il soggetto iconografico è ancora ben leggibile. La più interessante è sicuramente l’Ultima cena che fu dipinta da Cristoforo I Baschenis secondo le caratteristiche impiegate dalla famiglia bergamasca per questo tipo di soggetti, ovvero gli apostoli sono sempre dipinti dietro ad una tavola riccamente imbandita nella quale non manca mai il vino e, soprattutto, sulle tavole dipinte dai Baschenis non mancano mai i caratteristici gamberi di fiume.

Passando al cuore dell’edificio, ovvero il presbiterio, il visitatore resterà colpito dalla ricca e vistosa decorazione delle pareti e della volta a crociera. La prima immagine che appare è la grande Crocifissione dipinta sulla parete frontale del presbiterio. Una Crocifissione maestosa affrescata nell’ultimo quarto del Cinquecento probabilmente da Filippo Baschenis, seguendo i dogmi emanati dal Concilio di Trento (Fig. 8). A fianco altri riquadri riempiono la decorazione della parete orientale: una Santa Margherita d’Antiochia, i Santi Fabiano e Sebastiano dipinti in abiti tardogotici e una bellissima immagine di Sant’Elena, la madre di Costantino, con la grande Croce del Signore che ritrovò a Gerusalemme.

 

Sulle altre pareti del presbiterio sono affrescate alcune scene della Vita e della Passione di Cristo realizzate per mano di Dionisio Baschenis, tra il Quattrocento e il Cinquecento. Sono immagini dai colori nitidi, ben disegnate con una certa attenzione per la resa delle architetture e dei paesaggi che fanno da sfondo a personaggi dalle gestualità e dalle espressioni ben definite tipici di una pittura tardogotica. Partendo dalla parete nord, in alto, il racconto inizia con la scena dell’Annunciazione e la Natività di Gesù per proseguire nel registro inferiore con la Presentazione al tempio dove il Bambinello è stretto al collo della madre davanti al sacerdote sulla soglia del tempio. All’interno di una nicchia, la storia prosegue con la Fuga in Egitto, un’immagine significativa per la cura nella resa dell’animale condotto da Giuseppe e sul quale sono adagiati Maria e Gesù nel tentativo di raccogliere dei datteri da una palma, il tutto raccontato all’interno di un paesaggio collinare con case turrite e città murate (Fig. 9). A fianco vi è Gesù fra i Dottori nel Tempio (Fig. 10), il Battesimo di Gesù, più in basso l’Ingresso di Cristo a Gerusalemme.

 

Nella parte inferiore ritorna l’Ultima cena dei Baschenis con gli apostoli sistemati dietro ad una tavola imbandita e in mezzo l’agnello pasquale (Fig. 11a-11b). La decorazione della parete settentrionale si conclude con la Lavanda dei piedi di Gesù agli apostoli (Fig. 12).

 

L’ultima parete, la meridionale, è interamente dedicata alla Passione di Cristo, anche se gran parte dei riquadri sono stati danneggiati dall’apertura di una finestra semicircolare. Ben leggibili sono le scene dell’ultimo registro, ovvero la Deposizione di Cristo dalla croce, e la suggestiva Sepoltura alla presenza delle pie donne (Fig. 13) con un Cristo sanguinante per le ferite inferte. La Redenzione dal peccato (Fig. 14) e, in ultimo, la Resurrezione di Cristo che emerge trionfante dal sepolcro con i soldati dormienti ai suoi piedi, un’immagine molto simile alla Resurrezione di Piero della Francesca.

 

Infine, la decorazione della volta del presbiterio, attribuita a Cristoforo Baschenis. Le vele della crociera sono decorate da un Cristo benedicente e i simboli dei quattro evangelisti, un’Adorazione dei magi e, le vele laterali, dai quattro Dottori della chiesa. Su due cartigli compare la data di inizio e di fine lavori nell’opera di decorazione dell’edificio: 17 agosto e 1° ottobre 1489 (Fig. 8).

All’interno della chiesa di Sant’Antonio abata sono presenti in realtà anche diversi altri affreschi, molti dei quali sono però stati cancellati col passare del tempo o sono entrati  a far parte di stratificazioni pittoriche attribuibili ad epoche e mani diverse.

 

 

 

Note

[1] I Baschenis furono pittori itineranti di Averara nel bergamasco, attivi tra Quattrocento e Cinquecento, affrescarono buona parte delle chiese fra le Giudicarie, la Valle di Non e la Valle di Sole in Trentino. Le loro opere si trovano in chiese isolate o inserite nei paesi e oggi costituiscono in Trentino un raro esempio di patrimonio artistico dallo stile unitario che esprime la devozione popolare montana (Belli, Itinerari dei Baschenis, 2008, pp. 9-11).

 

 

 

Bibliografia

Adamoli Antonello, La chiesa di Sant'Antonio Abate, cappella della Pieve di Rendena, Tione di Trento, Antolini Tipografia, 2014

Belli William, Itinerari dei Baschenis. Giudicarie, Val Rendena, Val di Non e Val di Sole, Trento Temi, 2008

Facchinelli Walter, Nicoletti Giorgio, Val Rendena. Guida turistica, Tione di Trento, Tipografia Antolini, 2003

Castellani Ivan, Loprete Luigi, Orlandi don Adolfo, La chiesa di S. Antonio Abate in Pelugo, Tione di Trento, Editrice Rendena, 1994

Rasmo Nicolò, Storia dell'arte nel Trentino, Trento, Stampa rapida, 1982