L'OTTOCENTO E IL MITO DI CORREGGIO
Conferenza stampa di annuncio mostra, Parma 3-7-2020. A cura di Mirco Guarnieri
“Il riallestimento di un museo non è mai definitivo: il museo deve essere un luogo dinamico e centro di ricerca tra le diverse collezioni presenti”
Questo è il messaggio del direttore Simone Verde che oggi, insieme alla storica dell'arte Carla Campanini, ha presentato la mostra “L’Ottocento e il mito di Correggio” visitabile presso la Galleria Nazionale de La Nuova Pilotta di Parma dal 3 Ottobre 2020 al 3 Ottobre 2021. La mostra avrà luogo negli ambienti de La Rocchetta, luogo difficile da musealizzare, dove sono collocate le quattro opere del Correggio, ossia la Madonna con la scodella, la Madonna di San Girolamo e le due tele provenienti dalla Cappella del Bono.
Antonio Allegri, meglio noto come Correggio (1489-1534), fu un pittore rinascimentale del Cinquecento annoverato fra i grandi maestri del suo tempo: attivo fra Parma, Roma e Mantova, fu autore di numerose opere all'interno della cittadina parmense, introducendo di fatto gli stilemi del barocco. All’interno della mostra dedicatagli dalla Pilotta, Correggio sarà al centro di una lettura del contesto artistico dell'epoca, ove verrà spiegato il perché della rimozione delle opere dai loro luoghi di appartenenza e la loro nuova sistemazione ad altezza d'uomo per una maggiore fruibilità. Per comprendere meglio questo stravolgimento culturale, è stato creato un percorso museale tipicamente contemporaneo. Il direttore, Simone Verde, ha tenuto a precisare che, dietro sua scelta strategica, dopo il lungo periodo espositivo la mostra si trasformerà in una sezione definitiva della grande pinacoteca della Nuova Pilotta.
Informazioni mostra
L'Ottocento e il mito di Correggio
Parma, La Nuova Pilotta
3 Ottobre 2020 - 3 Ottobre 2021
Mostra a cura di Simone Verde
VILLA GRIMANI MOLIN AVEZZÙ A FRATTA POLESINE
A cura di Mattia Tridello
Introduzione
La mole di Villa Grimani Molin Avezzù, stagliandosi mirabilmente nel comune di Fratta Polesine (RO), si configura come deciso e inconfondibile segno nel territorio polesano. Scrigno prezioso di innumerevoli tesori, essa diviene un unicum artistico che assurge a chiara e esemplare rappresentazione della villa veneta per antonomasia. Ancorata alla sua isola, definita a sinistra dallo Scortico e a destra da un canale minore, continua a imporsi come effige grandiosa e sublime di uno dei più prolifici periodi architettonici della storia dell’arte regionale, di un tempo passato che vide lavorare nelle sue sale artisti, decoratori e personaggi della storia. Come statica testimone osservò silenziosamente l’opposizione e la resistenza nei confronti dell’invasore straniero durante il periodo risorgimentale, l’affermazione e il passaggio di committenti e proprietari, lo scorrere inesorabile delle epoche. Qui di seguito si propone la prima parte della trattazione relativa a questo gioiello architettonico, ove si prenderanno in esame il contesto in cui Villa Grimani è calata e la sua splendida facciata.
Il contesto di Villa Grimani
Nel cercare di analizzare l’edificio, occorre innanzitutto relazionare quest’ultimo nel contesto storico-geografico circostante. Il corpo di fabbrica è infatti collocato a pochi metri dalla palladiana Villa Badoer e con questa instaura un preciso rapporto sia di vicinanza che di parentela e committenza. Risulta, infatti, veramente difficile riassumere la genesi della costruzione del fabbricato senza tener presente le relazioni instaurate dai proprietari di Villa Molin- Avezzù con quelli della tenuta vicina e viceversa. La “Badoera” (Fig. 1) fu voluta nel 1554 dal "Magnifico Signor Francesco Badoero", un personaggio di spicco modesto, privo di rilevanza pubblica ma discendente di un'illustre famiglia veneziana. Egli, a seguito del sodalizio con la famiglia Loredàn e del conseguente matrimonio con Lucetta (figlia di Francesco Loredan), aveva ricevuto in eredità l'ampio fondo terriero della Vespara (Fig. 2) (località nei pressi del centro cittadino del paese di Fratta ). Seguendo la diffusa e aristocratica tendenza veneziana, nel rivolgere attenzioni all'entroterra per favorire i propri investimenti (specialmente dopo la Lega di Cambrai), i committenti sentirono la necessità di creare un presidio dal quale amministrare le proprietà acquisite e rimarcare il prestigio economico raggiunto attraverso una villa di determinate caratteristiche. I Badoer iniziarono quindi la bonifica della Vespara e l'acquisizione di altri fondi nelle immediate vicinanze, terreni sui quali si diede avvio alla costruzione della villa progettata da Andrea Palladio nel 1556.
I problemi di attribuzione
Ben più complicata e intricata si presenta la situazione riguardo la villa vicina. A differenza della “Badoera” che risulta fin da subito autografa del Palladio tanto da essere inserita nei famosi “Quattro libri dell’Architettura”, il nodo problematico principale di Villa G. M. Avezzù risiede innanzitutto nell'impossibilità di appurare in modo inequivocabile l’autore della stessa. Frutto di ciò è la constatazione della carenza di documenti certi riguardanti la paternità e la data di costruzione dell’edificio. Tuttavia, ripercorrendo le vicende storiche e cronologiche riguardanti la proprietà del sito, si possono dedurre alcuni dati utili per la suddetta analisi. Era infatti il 1519 quando, dopo l’acquisto di duemila campi presso la località Vespara di Fratta, iniziò la breve ma significativa parentesi dei Loredan nel territorio polesano. In quest’ultimo periodo Giovanni Francesco Loredan e il figlio Giorgio comprarono dal governo della Serenissima e da possidenti locali terreni e case nella campagna frattense dimostrando, ben presto, un interessamento principale nei confronti dei fondi limitrofi al centro cittadino. Successive acquisizioni si protrassero fino al 1528, anno in cui venne stilato un atto di compravendita di 260 campi nella valle di S. Maria. L’importanza di tale documento non risiede solamente nell'ampio territorio che, da lì a poco sarebbe stato impiegato dalla famiglia veneziana, bensì nella prima e significativa citazione in questo di una dimora di G. Francesco e Giorgio Loredan situata a Fratta e affacciata sul canale dello Scortico. Grazie a questo piccolo ma importante dettaglio sono state avanzate numerose interpretazioni circa la realizzazione ex-novo della villa: la più accreditata prende in esame il documento sopracitato per dimostrare come, probabilmente, l’edificio cinquecentesco sia il frutto del rimaneggiamento di una fabbrica precedente. A sostegno di tale ipotesi risultano fondamentali le indagini sulla cartografia dell’epoca. In una di queste, datata 1549, risultano raffigurati, nella località del sito, numerosi fabbricati disposti, come specificato nell'atto, di fronte al canale che attraversa il paese (Fig. 3). Tali indizi lasciano quindi intuire che la villa che vediamo ancora oggi non sia stata costruita come edificio ex novo in un fondo terriero isolato, ma in un terreno già precedentemente occupato da altri fabbricati, perlopiù rustici, di proprietà dei Loredan. Accreditata risulta quindi la possibilità che uno di quest’ultimi abbia subito delle ristrutturazioni volte a rinsaldarne la struttura muraria e la valenza estetica in un periodo storico non ancora sicuro e certo. Cercando di stabilire le date di inizio e fine costruzione della fabbrica occorre, ancora di più, rimarcare le vicende familiari legate alle parentele, ai nuclei d’amicizia instaurati tra i proprietari delle due ville vicine e all'eredità lasciata dal proprietario dell’immobile.
L'eredità dei Loredan
Alla morte di Giorgio Loredan, non essendoci discendenti diretti, la tenuta venne divisa tra le due sorelle di quest’ultimo: Lucietta e Lucrezia, rispettive mogli di Francesco Badoer (tra l’altro, amico di Giorgio e appartenente, come quest’ultimo, alla Compagnia della Calza) e Vincenzo Grimani. Nonostante l'assenza di dati documentari decisivi, le ricerche storiche più recenti hanno individuato proprio nel Grimani il probabile committente delle trasformazioni dell'antica casa di famiglia della moglie, attuate dunque in anni paralleli alla costruzione della dimora Badoer, ossia intorno alla metà del Cinquecento, più precisamente tra il 1554 e il 1556. La datazione indicata si è potuta intuire non solo dalle vicende instaurate tra le due famiglie veneziane ma specialmente da un’altra carta geografica, datata 1557 (Fig. 4) (quindi un anno dopo l’inizio del cantiere Badoer) e dal confronto di quest’ultima con quella, prima citata, del 1549. Nel paragone istituito tra la prima e la seconda mappa raffiguranti entrambe, nel particolare, l'area di Fratta Polesine, possiamo agevolmente riconoscere come, nel lotto che a noi qui interessa, sia intervenuto un radicale cambiamento. Nel 1549 edifici dimensionalmente minori ne occupavano il suolo, mentre nel 1557 uno su tutti sembra spiccare quanto a monumentalità, mostrando addirittura l'abbozzo di due enormi camini alla veneziana. Tale raffronto permette quindi, quasi in certezza, di collocare la costruzione della villa in simbiosi temporale con il cantiere della “Badoera”.
Per giungere finalmente al “punctum dolens” dell'attribuzione, l’unica voce a difendere finora la sicura autografia palladiana rimane Glauco Benito Tiozzo, preceduto dalla settecentesca testimonianza dell’architetto e pubblico perito alle Fortezze Giovanni Vettori di Venezia. Secondo la maggioranza degli storici dell’arte, invece, l’opera non è l’esito diretto ma indiretto del maestro padovano, che potrebbe aver affidato un disegno o un abbozzo iniziale a un cantiere guidato da un soprastante architetto appartenente alla sua cerchia. Lo strettissimo vincolo parentale delle committenze, la contiguità fisica e di datazione con la Badoera nonché la presenza in loco di Palladio non escludono quindi possibili influenze a livello compositivo e stilistico ispirate sia alla vicina villa frattense sia alle opere precedenti e giovanili di quest’ultimo.
Analisi dell’edificio: la barchessa
Villa Grimani, con la sua non trascurabile dimensione orientata a Nord (come di consueto per le ville venete), dispone il suo fronte principale in maniera ortogonale alla facciata di Villa Badoer e si presenta in asse con la strada che scorre sull'argine sinistro dello Scortico e costeggia il muro di cinta della dimora vicina. Così facendo la villa crea un asse direzionale lineare e suggestivo che, insieme a quello perpendicolare della “Badoera” e a quello che partiva dal castello di Manfrone (demolito nel corso del secolo), diventa una delle direttrici urbanistiche e prospettiche principali del centro cittadino (Fig. 4).
Varcando i cancelli della proprietà si notano due punti fondamentali nell'assetto spaziale: il corpo centrale di villa Grimani, che si impone monumentalmente, e la barchessa laterale di destra. Quest’ultima, completamente staccata dalla casa padronale, era destinata, come per la maggior parte di tali costruzioni nel panorama veneto, a contenere gli ambienti di lavoro e di servizio. Se nella casa dominicale non vi era spazio per quest’ultimi, molto spesso, le barchesse ospitavano cucine e locali per la preparazione del cibo, in caso contrario esse includevano stalle e annessi rustici (rimesse per arnesi agricoli e magazzini per scorte alimentari) che venivano spesso celati grazie alla collocazione di ampi portici arcati in facciata. La costruzione laterale, nel caso di Villa Grimani, presenta una pianta molto semplificata (Fig. 5-5a), chiara e ben articolata formata da un volume pressoché rettangolare che ospita il porticato dal quale si accede ad ambienti rustici, probabilmente stalle, intervallati da pareti divisorie. Tuttavia, il vero elemento di interesse del corpo architettonico è senz'altro il prospetto frontale. Questo, scandito dalla successione di paraste tuscaniche, presenta cinque aperture arcate sormontate da un’evidente chiave di volta. A coronamento dell’edificio compare una cornice marcapiano che divide il livello porticato inferiore dall'attico superiore dove, in corrispondenza simmetrica agli archi, si trovano cinque finestre rettangolari.
Un’approfondita indagine sull'impianto compositivo del fronte rustico alluderebbe a probabili derivazioni architettoniche, dalle quali l’architetto della villa avrebbe tratto alcuni riferimenti. Una delle ipotesi più avvalorate e verosimili pone l’attenzione sulla presenza del sistema parasta-arco che, in questo caso, si ripete molte volte e termina con una doppia parasta su entrambi gli spigoli perimetrali laterali. La cifra stilistica sia nelle singole partizioni architettoniche che nella scansione delle stesse alluderebbe a un possibile intervento oppure ad un’influenza dell’architettura del veronese Michele Sanmichieli. Egli, attivo principalmente a Venezia e Verona, lasciò tracce in edifici presenti anche in polesine, primo fra tutti, Palazzo Roncale a Rovigo (Fig. 6). Come in quest’ultimo la barchessa presenta le arcate all'interno di un meccanismo compositivo scandito da paraste che, in coppia, terminano negli spigoli laterali. Ancora più coincidenti, gli stilemi propri dell'architettura sanmicheliana si riscontrano nelle finestrature di Palazzo degli Honori a Verona e soprattutto nella Villa Soranza a Castelfranco Veneto (Fig. 7).
Confronto tra la barchessa a sinistra e un particolare di Palazzo Roncale a destra
La scansione paradigmatica di arco, chiave di volta allungata, cornice marcapiano, finestrella dell'attico racchiusa, lateralmente, da lesene di ordine pseudo-gigante non lascia indifferente neppure l’attribuzione a riferimenti di origine mantovana. Influssi dalla città lombarda potevano giungere in polesine attraverso l'ambiente veronese, vicentino e, ancora, veneziano, ove approdavano personalità, maestranze o stampe, se non addirittura disegni, con le novità stilistiche portate alla corte dei Gonzaga da Giulio Romano. Non stupisce, quindi, una singolare somiglianza tra la barchessa in questione e i prospetti, in particolare quello centrale, di Palazzo Te, dimora che Federico II Gongaza si era fatto progettare e decorare dal pittore e architetto romano (Fig. 8).
Confronto tra un’arcata di Palazzo Te (sinistra) e l’arco della barchessa (destra)
Se nei disegni e rilievi realizzati nel 1775 dal Vettore (incaricato dai proprietari di ricavare le quotature dello stabile per ricavarne una stima immobiliare) compare una seconda barchessa che spazialmente circoscrive la corte antistante la villa, ora tale costruzione non è più visibile. Uguale sorte spettò, sempre secondo il sopracitato disegnatore, alla rampa di scale sinistra che conduce, insieme a quella a destra, al piano nobile dell’edificio. Quest’ultima, infatti, già dal ‘700 risultava mancante e perciò sono state avanzate alcune ipotesi sulla sua reale esistenza o distruzione che ci permettono di iniziare a descrivere la facciata principale del vero e proprio corpo di villa.
La facciata principale
Il fronte che più di tutti contraddistingue l’architettura della villa e la rende riconoscibile a qualsivoglia visitatore o abitante della cittadina di Fratta è senz'altro quello principale. Grazie alle cornici marcapiano, il prospetto viene diviso in tre livelli, uno inferiore per i servizi quali cucine e vani vari, quello intermedio occupato dal piano nobile e infine l’ultimo destinato ai locali del sottotetto. La costruzione viene arricchita da una cornice di gronda a dentelli che circoscrive la copertura a quattro falde (Fig. 9).
Il livello inferiore
Il piano terra del corpo padronale, esternamente, presenta il basamento bugnato e arcato che sorregge l’ampio pronao superiore. Il vano, sporgente rispetto al profilo perimetrale rettangolare che assume la costruzione, presenta cinque aperture, delle quali una centrale più ampia e due laterali per parte leggermente ristrette. La massa aggettante è affiancata, a destra e sinistra, da due rampe di scale con balaustra che, se percorse, conducono all’entrata del piano nobile. Come anticipato in precedenza, numerose ipotesi ricostruttive sono state analizzate per cercare di ricostruire, più fedelmente possibile, l’aspetto originario della villa. Riportata nei rilievi del Vettore, già dal XVIII secolo, vi è la completa assenza della scalinata di sinistra che tuttora vediamo grazie a un restauro filologico, avvenuto negli anni ’70 del ‘900, volto a ripristinare la perduta simmetria del fronte. Tuttavia la questione, continuando a stimolare ipotesi sempre diverse, ha portato alla considerazione che sarebbe stato, almeno per il Cinquecento, insensato demolire un elemento che determinava la simmetria della facciata; perciò, forse nelle intenzioni originarie dell’architetto, l’accesso alla dimora doveva avvenire senza scale esterne, dal piano terra della costruzione, passando per il vano inferiore bugnato, da dove si sarebbe raggiunto, tramite una scala posta sulla destra, il salone nobile. A testimonianza di questo vi è la presenza di un basamento veramente ricco di apparati decorativi esterni, il bugnato, simbolo imperiale per eccellenza, numerose entrate a fornice e una centrale di queste leggermente più larga e alta. Per comprendere meglio l’interpretazione occorre confrontare Villa Grimani Molin-Avezzù con la creazione palladiana di Villa Foscari (Fig. 10). Anche quest’ultima presenta un basamento rigido, scabro, sul quale si aprono una piccola porta angusta e varie finestrelle. La poca attenzione data a tale elemento trova risposta nel fatto che, ai lati, si configurano due rampe ascendenti, due scalinate d’accesso che costituiscono l’ingresso privilegiato al piano nobile. A Fratta, invece, la ricercatezza dell’esterno si ripropone anche all'interno del basamento. In un affresco della volta, oltre a decorazioni a grottesche, è presente la raffigurazione di un piccolo satiro (Fig.11) che con la mano invita i visitatori ad entrare. Si pensa quindi che anche tali piccoli accorgimenti decorativi non sarebbero stati presenti se l’ingresso fosse stato al piano superiore e quello inferiore fosse stato destinato all'uso della servitù.
L’influenza di tale, probabile, soluzione d’accesso all'edificio venne richiamata anche, cronologicamente più tardi, da parte dell’architetto Vincenzo Scamozzi che, per un ramo della famiglia Molin (proprietari succeduti ai Grimani nel frattempo a Fratta) nelle vicinanze di Padova realizzò una villa. Quest’ultima, se osserviamo accuratamente, non può, di certo, non richiamare la soluzione adottata in polesine: il basamento, privo di scale, ben decorato è il vero accesso allo stabile, il pronao soprastante e aggettante è un’altra conferma di una probabile influenza frattense (Fig. 12).
Il livello intermedio
Il livello superiore si contraddistingue e caratterizza principalmente per l’ampio pronao esastilo timpanato (Fig. 13). Le colonne di ordine tuscanico sorreggono una trabeazione composta da architrave, fregio e cornice in laterizio a vista che, a sua volta, sostiene il timpano con cornice sempre in cotto. La singolarità dell’avancorpo si concretizza con la presenza di proporzioni non del tutto esatte che fanno sì che l’intercolumnio centrale, in asse con l’arco del basamento, sia più largo e non della stessa dimensione di quelli laterali. Sorte analoga spetta alla suddivisione del fregio. Nella parte di quest’ultimo, corrispondente allo spazio centrale, si susseguono tre metope abbreviate, frutto di una accelerazione prospettica dovuta al non cambiamento della successione classica negli spigoli terminali laterali (Fig. 14). Con occhio attento e unendo questi dettagli, si può facilmente intuire che il progettista della villa, a conoscenza del viaggio a Roma di Palladio, abbia visto alcuni dei suoi rilievi di edifici antichi. In uno di questi, il tempio raffigurato mostra un pronao del tutto simile a quello in questione, con la successione di metope che parte dagli angoli per arrivare all’intercolumnio centrale (Fig. 15). Non stupisce, quindi, che questa sgrammaticatura stilistica, per altro innovativa nel suo uso in un pronao, non sia frutto di un banale errore tecnico ma probabilmente di un sapiente uso di fonti e riferimenti dai quali attingere.
A fianco del pronao si collocano, simmetricamente, due finestre per parte. Queste, di notevoli dimensioni, sono contornate da una cornice architravata in cotto che riprende il motivo dei materiali del portico e del basamento nel fronte.
Il livello superiore di Villa Grimani
Il livello con cui termina la costruzione esternamente presenta una successione di piccole finestre rettangolari e simmetriche che permettono di illuminare naturalmente l’interno del sottotetto. La copertura a quattro falde si arricchisce della presenza di ben quattro camini “alla veneziana” che, con un basamento in cotto inferiore, si stagliano a coronamento della struttura (Fig. 16).
Bibliografia
Maschio, Villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001;
Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008;
Cevese, Invito a Palladio, Rusconi Immagini, 1980;
Daverio, la Stori dell’Arte, Manierismo e Controriforma, Corriere della Sera, 2019,
Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of Villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013;
Gli affreschi di Villa Badoer e Grimani Molin Avezzù, Minelliana, 2008;
Appunti delle lezioni di liceo della Professoressa Alessandra Avezzù;
Sitografia
Sito web di Villa Molin Avezzù;
Sito web dell’Amministrazione del Comune di Fratta Polesine;
Sito web “carboneriarovigo”;
Sito web dell’Istituto Regionale Ville Venete;
Sito web di Villa Badoer a Fratta Polesine;
Sito web dell’Archivio di stato di Rovigo;
Immagine tratte da:
Shail, Cosmologican Themes in decorative Programs of Villa Grimani Molin Avezzù, Scuola di Dottorato Università Ca’ Foscari di Venezia, 2013
Maschio, Villa Loredan-Grimani Avezzù a Fratta Polesine, Minelliana, 2001
Negri, M. Cavriani, Palladio e Palladianesimo in Polesine, Minelliana, 2008
Fotografie di dominio pubblico tratte da Google e Google Maps
CRIPTA DI SAN MAGNO DI ANAGNI
A cura di Vanessa Viti
Luogo mistico e di rara bellezza è la cripta di San Magno di Anagni, sottostante la Cattedrale di Santa Maria: essa aveva l'importante ruolo di custode delle reliquie dei Santi. L’ambiente è suddiviso in tre navate, trasversali rispetto a quelle della chiesa superiore, e tre absidi. Dalle dodici colonne prendono vita ventuno volte che, con le rispettive pareti, sono decorate da un ciclo pittorico che racconta la storia della salvezza dell’uomo: dalla sua creazione fino alla fine dei tempi. Gli affreschi sono attribuiti a tre botteghe di artisti anonimi conosciuti come Primo Maestro di Anagni o Maestro delle Traslazioni, Secondo Maestro di Anagni o Maestro Ornatista e Terzo Maestro di Anagni. Per ragioni stilistiche e storiche i lavori di affrescatura della Cripta si collocano tra il finire del XII secolo e la prima metà del XIII secolo.
CRIPTA DI SAN MAGNO AD ANAGNI: NAVATA LATERALE
Seguendo lo schema riportato in fondo all'articolo, nelle prime due volte della navata laterale (1,2) è rappresentata la creazione del Cosmo, nella prima volta viene raffigurato il Firmamento ed i segni zodiacali, nella seconda l’uomo è al centro di un doppio sistema circolare: quello più interno rappresenta il ciclo della vita umana (microcosmo) mentre il più esterno quello della natura (mundus). Entrambi sono suddivisi in quattro parti e ad ognuno corrisponde un’età della vita dell’uomo (infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia), un temperamento umano (sanguigno, collerico, melanconico e flemmatico), una stagione dell’anno (primavera, estate, autunno e inverno) e i quattro elementi (aria, fuoco, terra e acqua). Proseguendo, nella volta successiva (3), sono rappresentati quattro tetramorfi che potrebbero alludere alla Creazione o all'anima dell'uomo, che si pensava fosse divisa in quattro parti. Nella volta (4) un disco con la croce gemmata sorretto da quattro angeli; degno di nota è l'affresco sulla parete, ove è rappresentato, infatti, un Cristo Pantocratore affiancato da quattro santi: da sinistra san Pietro apostolo, un santo (forse san Marco Evangelista), san Leonardo e infine san Giovanni Evangelista.
CRIPTA DI SAN MAGNO AD ANAGNI: NAVATA CENTRALE
Nelle volte della navata centrale (da 9 a 14) e nelle due (5 e 6) della navata laterale, troviamo i racconti del popolo ebraico in lotta con i Filistei. La narrazione cominciava con le pitture della perduta volta sopra l’altare di santa Oliva (14), distrutte nel XVIII secolo; nella successiva (13), durante la battaglia di Aphek, i Filistei uccidono i figli del sacerdote Eli e rubano l’Arca, contenente i Dieci Comandamenti, il bastone di Aronne, la bacchetta di Mosè e la manna scesa nel deserto. Il sacerdote Eli, ricevuta la sconvolgente notizia, cade dal suo seggio e muore. Nella volta successiva (12) i Filistei trasportano l’Arca Santa nelle loro città, ma la sua presenza causa terrore, morte e pestilenza. Nella volta seguente (11) il popolo filisteo restituisce l’Arca al popolo ebraico. Trainata da due vitelle da latte, l’Arca lascia Azotum e arriva a Besamis. Nella volta 10 il popolo ebraico accoglie l’Arca, ma i cittadini che osano guardarla cadono a terra morti.
Gli abitanti di Besamis chiedono agli abitanti di Cariat-Jearim di accogliere l’Arca. Questi accettano e la trasportano nella casa del sacerdote Abinadab. Nella volta successiva (9) Samuele ordina la distruzione dei falsi idoli: Astarot e Baalim vengono distrutti e segue la purificazione del popolo ebraico attraverso il sacrificio di un agnello. Nella volta alla vostra sinistra (6) è rappresentata la battaglia di Maspht in cui il popolo ebraico sconfigge i Filistei grazie all'aiuto di Samuele. Proseguendo il percorso, nella volta (5) è rappresentato il momento in cui il popolo ebraico chiede a Samuele di scegliere per loro un re. Questi, secondo le indicazioni di Dio, incorona Saul re del popolo ebraico e lo legittima attraverso l’unzione del capo, rappresentata nella vela più vicina alla navata centrale. Appare un evidente rimando alla storia contemporanea e alle continue lotte tra papato e impero. In questa volta assistiamo alla legittimazione del potere temporale di un re da parte di un sacerdote, custode del potere spirituale.
NAVATA LATERALE E ABSIDI
Il percorso alla scoperta delle meraviglie della cripta di San Magno ad Anagni prosegue sulla terza navata, qui sono presenti anche dei luoghi absidati. Nella volta (15) è raffigurato Cristo benedicente circondato dai simboli dei quattro Evangelisti; nella volta (16) vi è l’Etimasia, simbolo della preparazione del trono celeste. Il registro centrale dell’abside illustra la storia di Secondina, convertita al cristianesimo da San Magno. Da sinistra si riconoscono: la cattura durante la persecuzione dell’imperatore Decio, il processo, la conversione dei carcerieri ad opera della santa e il suo rifiuto a sacrificare agli dei, il suo martirio, l’elevazione della sua anima al cielo, la traslazione del corpo e la sua sepoltura. Nella volta centrale (18) vi è il Cristo Giudice, rappresentato all'interno di una mandorla con i capelli e barba bianca, la spada che esce dalla bocca, due chiavi in una mano e sette stelle nell'altra, simbolo delle Sette Chiese d’Asia alle quali Giovanni indirizza il suo scritto.
Al di sopra della finestra è l’Agnello Mistico, con i sette corni, i sette occhi e il libro chiuso dai Sette Sigilli. Intorno a lui sono i quattro simboli degli Evangelisti, mentre al di sotto i ventiquattro Vegliardi lo venerano. L’emiciclo dell’abside è dedicato a San Magno, qui troviamo la storia del martire a partire dalla sua cattura presso Fondi, sul litorale laziale. Sulla volta (20) è il profeta Elia che ascende in cielo su una quadriga di fuoco; sulla volta (21) c'è l’incontro tra Abramo e Melchisedec con l’offerta del pane e del vino. Sulla volta (7) i profeti Isaia, Davide, Salomone e Daniele annunciano la nascita del Messia. La Madonna del Latte sulla parete sottostante rappresenta l’avverarsi di quelle parole.
L’ottimo stato di conservazione, la notevole estensione della superficie dipinta (circa 540 mq) e i temi trattati hanno valso a questo prezioso ambiente l’appellativo di “Cappella Sistina del Medioevo”.
Le parole non renderanno mai giustizia alla magnificenza di questo luogo e all'estrema bellezza degli affreschi; merita, senza dubbio, una visita accurata.
Sitografia
https://www.cattedraledianagni.it/cattedrale
Bibliografia
La Cattedrale di Anagni-I Edizione-Orvieto
LE 25 ORE DI POMPEI: STORIE DI UN’ERUZIONE
A cura di Dennis Zammarchi
Introduzione
Sulla città romana di Pompei e sull’eruzione del Vesuvio (avvenuta durante il regno di Tito nel 79 d.C.) che ne ha causato la distruzione prima e il seppellimento poi sono stati versati nel corso dei secoli fiumi d’inchiostro.
Si può ormai consciamente dire che le vicende riguardanti la celeberrima città romana siano entrate a far parte della cultura mondiale grazie ai risultati di decenni di studi storici e archeologici e alla conseguente divulgazione al pubblico.
Si è arrivati persino ad avvolgere gli avvenimenti con un alone di mistero e leggenda utili a renderli gradevoli e accattivanti per delle trasposizioni realizzate attraverso media come la tv ed il cinema, non sempre rispettando la veridicità storica dei fatti, in nome della spendibilità del prodotto.
Nel corso degli anni ne sono state tratte decine di trasposizioni bibliografiche, da romanzi storici fedeli alla realtà, per esempio “I tre giorni di Pompei” di Alberto Angela, a fumetti per grandi e piccini, sia di stampo occidentale che dal più tipico stile orientale (i manga giapponesi, che frequentemente prendono come spunto eventi storici avvenuti nel Bel Paese).
Come detto in precedenza, sono state realizzate anche moltissime trasposizioni cinematografiche e televisive: considerando solo le opere del XXI secolo, si possono citare la recente pellicola “Pompei” diretta nel 2014 da Paul W.S. Anderson, con protagonista Kit Harington (il Jon Snow del Trono di Spade) e la miniserie tutta italiana del 2007 chiamata “Pompei”.
Tuttavia, se il nostro scopo fosse quello di far luce sui motivi che attraggono ogni anno più di due milioni di visitatori da tutto il mondo a Pompei dovremmo partire dal principio.
La particolarità di questo sito archeologico, uno tra i più grandi del mondo e tra i meglio conservati, è quella di restituire un momento di una vita passata svoltasi durante l’Impero Romano sorretto dalla famiglia Flavia. Mutuando dall'antropologia culturale il termine potremmo parlare di “cristallizzazione”.
Questo è dovuto al fatto che oltre all'architettura della città, con i suoi monumenti e le sue numerose e splendide ville arredate, piene di splendidi affreschi (da cui prende il nome la celebre pittura pompeiana) e mosaici, ciò che differenzia Pompei dagli altri siti archeologici è la possibilità (parziale e influenzata dallo stato di conservazione del sito e dall'avanzamento degli scavi nei secoli) di rivedere lo stile di vita dei suoi abitanti, ma soprattutto è possibile “osservare” i cittadini pompeiani nei loro ultimi attimi di vita, talvolta distinguendone persino l’espressione.
Nella città i turisti possono vedere ancora le loro attività in corso per mezzo dei pochi arnesi e utensili sopravvissuti, i luoghi frequentati per piacere e per diletto come l’anfiteatro e il lupanare, ma ciò che affascina di più sono gli stessi abitanti.
Cittadini e forestieri che non sono riusciti ad evitare di essere coinvolti in questo disastro di proporzioni immani avvenuto il 79 d.C. che ha causato migliaia di vittime nell'area vesuviana.
Oggi chiamati comunemente fuggiaschi, queste bianche sagome, quasi eteree, non sono altro che i calchi delle vittime, realizzati nel corso dei decenni per mezzo di tecniche sempre più avanzate. Semplificando, si può dire che essi sono ottenuti riempiendo con il gesso i vuoti lasciati dai corpi nel deposito vulcanico.
Nel corso dei decenni e degli studi è stato sfatato “il mito” in cui Pompei viene descritta come la fotografia fedele di un momento di quotidianità sconvolta da un disastro naturale.
Questo è stato visto grazie agli scavi, ma anche per mezzo delle importantissime lettere, scritte a scopo letterario (Epist. VI,16) e dirette all'imperatore Traiano, che Plinio il Giovane (governatore in Bitinia, un’antica provincia romana situata in Asia Minore) avrebbe scritto come testimone oculare dell’eruzione del Vesuvio. All'interno di questa corrispondenza è riportata anche la morte dello zio di Plinio il Giovane, Plinio il Vecchio, che come comandante della flotta imperiale di Miseno, tentò di portare soccorso ai pompeiani e che forse proprio a causa della sua passione per la scienza e la natura (di Plinio il Vecchio è celebre la De Naturalis Historia, una sorta di enciclopedia del sapere) si attardò nell'osservazione dell’evento e perciò perse la vita.
Dalle lettere sappiamo che il vulcano lanciò delle avvisaglie prima di eruttare per più giorni, che permisero a molte persone di raccogliere i propri beni personali e di fuggire dalla città.
Inoltre, già prima dell’eruzione di Pompei molte strutture erano pericolanti; numerose case ed edifici pubblici erano infatti in attesa di opere di ristrutturazione, resesi necessarie per sanare i danni causati da terremoti precedenti, il principale dei quali, sembra essere secondo le fonti quello del 62 d.C.
Ciò fece sì che molte delle abitazioni al tempo dell’eruzione non potevano essere abitate, almeno come non lo erano usualmente in quella regione della penisola.
Le numerose tracce di attività di cantiere e materiale da lavoro rinvenute negli scavi, oltre che la presenza di contenitori per provviste e suppellettili di uso domestico, rinvenuti in alcuni spazi che solitamente avevano una funzione abitativa o da sala di ricevimento chiariscono in che modo si cercò di trovare una soluzione ai problemi.
Inoltre Pompei, con i grandi edifici al tempo riconoscibili anche sotto gli strati di cenere, venne depredata, nel corso del tempo, da saccheggiatori pratici del posto, che andarono alla ricerca di oggetti di valore soprattutto all'interno delle case dei più abbienti.
In aggiunta, ulteriore elemento inficiante la quantità e qualità delle informazioni provenienti dagli scavi è il fatto che al momento dello sterro ottocentesco il materiale scavato è stato distribuito in aree adiacenti esplorate solo in un momento successivo.
Al tempo in più non si annotava né l’esatta posizione, né la quota del ritrovamento, ma l’obbiettivo era solo il mero recupero dell’oggetto intatto, soprattutto se di valore.
Una breve storia della città
Dal percorso irregolare delle mura cittadine ora visibili è evidenziata la volontà di adattarsi alle condizioni geografiche del luogo. Il passaggio da un terreno leggermente in salita verso nord in direzione del Vesuvio ad uno che dolcemente degrada verso est, avviene senza particolari interruzioni. Il percorso spigoloso del muro ad ovest segue invece il brusco declivio di un plateau di lava su cui la città era stata fondata verso la fine del VII secolo a.C.
Anche se è difficoltoso ricostruire l’andamento della costa antica e si rilevano certe differenze nelle ipotesi degli studiosi, attualmente è quasi certo che in epoca romana la città si trovasse molto più vicina al mare rispetto ad oggi.
La foce del Sarno, navigabile, sembra trovare nelle lagune prospicienti una difesa naturale e per questo un ottimo punto di attracco per le navi. Questa caratteristica fa di Pompei un luogo molto interessante per lo scambio di merci, tra cui il sale che proveniva dalle non lontane saline.
Scavi molto recenti evidenziano come gli insediamenti sorti agli inizi del I millennio a.C. siano stati spostati, verso la fine del VII secolo a.C., nelle vicinanze della foce del fiume.
Stando a quanto emerso dagli scavi archeologici il settore nord della città sembrerebbe essere stato tracciato e in parte edificato già nel VI secolo a.C., mentre l’ampliamento verso est sembra essere avvenuto solo durante il IV secolo a.C.
Nell'arco di alcune generazioni il primo insediamento sembra essere quindi cresciuto molto rapidamente e questo portò alla realizzazione di un primo muro di difesa, seppure di moderate dimensioni.
Ben presto però, forse già nel V secolo a.C. al modesto muro si sostituirà una prima fortificazione di dimensioni maggiori. Non è ancora noto se questa decisione fu presa per difendersi da un’effettiva minaccia da parte degli abitati vicini o delle tribù dell’entroterra.
Il V e il IV secolo a.C. restituiscono grazie alle evidenze archeologiche l’immagine di un periodo buio per la città; questi secoli corrispondono, infatti, con la fase del dominio sannitico, durante il quale non vennero create nuove opere urbanistiche, ma corrispose ad una fase di stagnazione.
Questa situazione cambiò solo con l’arrivo dei romani che nel corso delle guerre latine dal 343 a.C. espansero la loro sfera di influenza verso sud, oltre i confini del Lazio.
Grazie all'opera dello storico romano Livio (59 a.C.-17 d.C.) sappiamo che un distaccamento romano approdò alle foci del Sannio attorno al 310 a.C.
Solo nel III secolo la città assunse l’assetto urbanistico che determinò l’approvvigionamento e il traffico della successiva età imperiale, contraddistinta dalle sue 7 porte e dalla suddivisione nelle Regio.
L’eruzione
L’eruzione che coinvolse le città vesuviane è storicamente datata al 24 agosto del 79 d.C., ma oggigiorno questa datazione è messa in dubbio sia dalla documentazione letteraria che dai ritrovamenti archeologici.
Plinio il Giovane scrisse che suo zio, Plinio il Vecchio, morì nei pressi di Stabia (una delle coinvolte dal disastro, vicina a Pompei) durante l’eruzione arrivando dal porto di Miseno (essendo ammiraglio di una delle maggiori flotte dell’Impero) per andare in soccorso alla popolazione ed a un amico.
Dalle lettere si evince che l’eruzione fu “Nonum Kal. Sept.”, ossia nove giorni prima delle calende di settembre, il primo giorno del mese per il calendario romano.
Oltre a questo, sono stati trovati numerosi dolii, dei grandi vasi per contenere le derrate, pieni di mosto, quindi in un periodo in cui la vendemmia era quasi finita.
Inoltre, fondamentale testimonianza fu il rinvenimento di una moneta, coniata successivamente al 24 agosto per gli studiosi: un aureo con al diritto il volto di Tito e come legenda riporta la XV acclamazione imperatoria.
Tra le altre testimonianze che mettono in dubbio l’eruzione in agosto vi è la presenza di alcuni bracieri utilizzati al momento del disastro, il loro uso agli studiosi appare quantomeno inusuale durante un mese estivo.
La città di Pompei, si trova nelle vicinanze di Napoli, a sud-est del cono del Vesuvio, non direttamente sul mare al tempo dell’eruzione, a differenza di Ercolano a soli 7 km dal cono del Vesuvio.
L’eruzione dura circa 25 ore, ma ad un certo punto si interrompe permettendo ai fuggitivi di ritornare in città. Pompei, Stabia, Ercolano e Oplonti sono le più colpite dall'eruzione; dal Vesuvio sono eruttati circa 1000000 di metri cubi di materiale.
Solitamente alle eruzioni vulcaniche, così come vediamo spesso nelle trasposizioni cinematografiche di questi disastri, sono associate le colate laviche, l’evento più semplice, ma soprattutto scenografico; ma sia nel caso di Pompei che Ercolano non si ha a che fare con della lava.
In realtà ciò che ha colpito la famosissima città romana sono dei tephra, ossia dei depositi di caduta lanciati in aria assieme alla colonna eruttiva anche a velocità supersonica fino a raggiungere quote elevatissime (come 30 km nei casi dell’eruzione del Vesuvio) per poi ricadere sotto forma di detriti di caduta, giungendo anche a distanze notevoli dalla colonna eruttiva per mezzo dei venti prevalenti.
Altri fenomeni, ben più distruttivi, che coinvolsero l’area vesuviana dopo l’eruzione sono stati i flussi piroclastici, dei flussi di materiale eruttato dal vulcano che ad un certo punto dopo essere stato lanciato in aria dalla colonna eruttiva ricade (poiché la spinta dei gas diminuisce) fino a formare delle enormi nubi di materiale incandescente comprendenti ceneri e materiali con dimensioni maggiore, come i lapilli, che durante la loro corsa distruggeranno tutto ciò che incontrano. Questi flussi possono spostarsi a velocità notevoli, tra i 20 m/s e i 100 m/s.
Il fenomeno peggiore però, ed il più pericoloso, sono sicuramente i “base surge” legati all’attività esplosiva e non al collasso della colonna; essi sono letali perché si tratti di gas ad altissima temperatura (tra 200 e 700 gradi Celsius) e rocce che possono provocare la combustione di moltissimi materiali, tra cui il legno, la vegetazione e i vestiti delle persone.
Questi gas incandescenti sono composti da materiali di dimensioni minime, che creano depositi spessi solamente qualche cm per ogni loro ondata.
Tutto si è svolse in due giornate, tenendo per buona la datazione classica, tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C.
Le fasi iniziali furono caratterizzate dalla formazione della colonna eruttiva alta fino a 30 km, con la caduta del materiale che colpì direttamente la città di Pompei risparmiando però Ercolano che si trovava sottovento durante l’eruzione.
Successivamente l’energia della colonna diminuì portando a creare i primi flussi piroclastici che iniziarono la loro corsa distruttiva.
Poi, dopo aver eruttato molti metri cubi di materiale la pressione nella camera magmatica diminuì facendo entrare in questo modo l’acqua all'interno, questo evento portò all'inizio dell’attività esplosiva e alla conseguente formazione dei base surge che uccideranno la maggior parte delle persone coinvolte nel disastro.
Queste tre tipologie di fenomeni (materiali di caduta dalla nube, flussi piroclastici e base surge) sono distinguibili tra loro nei depositi archeologici per mezzo della differente granulometria dei materiali che li compongono. Questa caratteristica è fondamentale perché permette di ricostruire le diverse fasi dell’eruzione e di evidenziare come le città siano state colpite in modo differente.
Ad esempio, a Pompei sono caduti circa 2,5 m di lapilli, mentre Ercolano trovandosi sottovento non ne è quasi stata colpita.
Differentemente, al momento del collasso della nube con la conseguente partenza prima dei gas e poi dei flussi piroclastici è stata Ercolano la prima ad essere colpita e di conseguenza gli abitanti della città sono stati i primi a morire.
I fuggiaschi
I defunti di Pompei, come abbiamo detto in precedenza vengono chiamati, dalla letteratura di settore e dagli specialisti, fuggiaschi; essi sono allo stesso tempo probabilmente “l’attrazione” più famosa e sconvolgente del sito archeologico, un aspetto tanto inquietante quanto surreale che riporta ad un momento immutabile del passato e che, forse, permette di riuscire a comprendere, almeno in parte, cos’hanno provato i cittadini di Pompei al momento del disastro.
In questo aspetto così triste e affascinante allo stesso tempo ci viene incontro la ricerca scientifica che ha visto come a Pompei vi risiedessero all'incirca dodicimila abitanti; data la dimensione del sito, alcune zone non sono ancora state scavate e sono state fatte quindi delle ipotesi statistiche grazie ai dati finora ottenuti.
Sono stati trovati i resti di circa 1047 persone, e per 103 di esse stati ottenuti i calchi (dati aggiornati al 2018).
L’ottenimento dei famosi calchi dei fuggiaschi è stato possibile grazie ai depositi dei base surge (quelli derivati dai gas incandescenti ad altissima velocità) e dei flussi piroclastici che si sono induriti e cementati dopo aver colpito la città e gli abitanti; successivamente a ciò, le parti molli dei corpi (come tessuti e muscoli) si sono decomposte e dei defunti non è sopravvissuto altro che lo scheletro.
A causa di questo evento è rimasta un’intercapedine che si riferisce ai tessuti molli, dovuta al fatto che la cenere ha aderito al volume del corpo prima che esso si decomponesse. Queste intercapedini preannunciano quindi la presenza dei corpi per mezzo di una cavità visibile nei depositi vulcanici.
I primi esperimenti per l’ottenimento dei calchi sono stati fatti nell’800, fase in cui veniva colato del gesso liquido per ottenere il riempimento della cavità per poi scavare attorno; ora, invece, si utilizzano delle resine plastiche più avanzate tecnologicamente che hanno un grado di restituzione e di precisione dei dettagli anatomici molto più elevato.
In definitiva, se non è presente l’intercapedine non vi è alcuna possibilità di ottenere il calco del corpo.
Siccome il materiale depositato a Pompei era soprattutto a grana fine (cenere fino a 2 mm di diametro e lapilli fino a 64 mm), in molti casi sono rimaste impresse anche la fisionomia del volto e le espressioni dei cittadini, oltre che i dettagli dei vestiti e delle calzature.
Inoltre, come detto in precedenza, le ossa si sono conservate nel vuoto lasciato dai corpi e rimanendo così all'interno dei calchi, per questo motivo nella maggior parte di essi si evidenziano le ossa del cranio e i denti.
La maggior parte di questi corpi si trovava a 2,5 m di altezza, all'interno del deposito formato dai gas incandescenti e dalla cenere, poiché al momento del loro arrivo (la vera causa dello sterminio) erano caduti sulla città già più di 2 metri di materiali eruttato dal Vesuvio che hanno iniziato a far crollare le prime strutture (le pomici, il materiale eruttivo preso singolarmente è piuttosto leggero in realtà).
Uno dei ritrovamenti più spettacolari per la ricerca scientifica è un gruppo di persone ritrovate nei pressi della casa del Criptoportico: essi visibilmente disorientati e in fuga, camminavano sopra lo strato di lapilli fino all'arrivo delle prime nubi incandescenti che li hanno tragicamente uccisi e così sepolti. I corpi sono stati trovati all'interno delle pomici, il materiale dalla granulometria maggiore, per cui non è stato possibile ricavarne il calco.
A differenza di Pompei, a Ercolano durante gli anni ’80 è stata scavata una zona che si affacciava alla spiaggia dove sono stati trovati una grande quantità di scheletri e un rinvenimento eccezionale: un grande pezzo di imbarcazione capovolto.
A Ercolano è impossibile ottenere dei calchi perché i depositi di cenere sono a contatto diretto con le ossa e non vi sono le intercapedini.
La particolarità di tutto questo, e la sua drammaticità, è legata intrinsecamente alle posture dei fuggiaschi, esse evidenziano una morte immediata legata al calore, le persone sono come sospese durante un’azione (circa il 70% dei calchi di Pompei) oppure sembra che dormano (più del 25%).
Altre persone, invece, hanno subito l’impatto dei flussi piroclastici, morendo quindi per cause “meccaniche” come il crollo degli edifici, ma queste ultime sono veramente in numero esiguo (circa il 2%).
La postura più rilevante per la ricerca (il 64% di quelli che presentano una posizione simile ad un’azione di vita cristallizzata, a cui è stato assegnato un nome, è quella del pugile poiché ne ricorda le movenze sul ring, in cui le braccia e i gomiti sono piegati verso l’alto.
In precedenza, si riteneva che questa posa fosse assunta per difesa, mentre ora, grazie alle ricerche bio-archeologiche si è visto che questa posizione è dovuta al fatto che nel caso il nostro corpo subisca l’esposizione a temperature di 200-300 gradi centigradi (o superiori) i tendini si contraggono violentemente e le braccia assumono una postura simile alla guardia dei pugili.
Con temperature al di sopra dei 200 gradi il rilassamento dei tendini e muscoli non avviene, per cui è impossibile spostare le persone da quella posizione, per far ciò bisognerebbe tagliarne i tendini, è per questo motivo che ancora dopo 2000 anni le ritroviamo in quella postura.
Anche le ossa evidenziano dei segni di termo-alterazione dovuti all'esposizione a temperature elevate, esse infatti mostrano delle differenze di colorazione a causa dell’esposizione a temperature elevatissime, passando dalla classica cromia delle ossa ad una colorazione tendente al giallo.
Grazie a questi studi in cui la biologia e la fisiologia sono state applicate alle analisi più prettamente archeologiche si è potuto far luce alle cause che hanno portato alla distruzione della città di Pompei e al suo seppellimento riuscendo finalmente a districarsi tra le innumerevoli versioni della vicenda che circolano sin dall'antichità, sia tra i documenti di chi ha assistito dal vivo all'eruzione e ne è sopravvissuto, che tra i testi e le note redatte dagli storiografi e dai biografi antichi.
Bibliografia
A. Dickmann, Pompei, 2007, il Mulino, Bologna, pp. 127.
Mastrolorenzo, P. Petrone, L. Pappalardo, F.M. Guarino, Lethal Thermal Impact at periphery of Pyroclastic Surges: Evidences at Pompeii, Plos One, 5, 2010, pp. 1-12.
Savio, Monete romane, 2014, Jouvence, Milano, pp. 337.
Cremaschi, Manuale di Geoarcheologia, 2000, Laterza, Bari, pp. 386.
Sitografia
Pompei, enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/pompei/
https://www.pompei.it
CONCATTEDRALE DI RUVO DI PUGLIA
A cura di Michele Leuce
Oggi, come nel mio precedente articolo andrò a parlare di una cattedrale pugliese dedicata a Santa Maria Assunta. Come da titolo, parlo della Concattedrale collocata nella località Ruvo di Puglia.
Storia
L’edificio fu costruito tra il XII e il XIII secolo ed è uno dei più importanti esempi di romanico pugliese per via delle sue caratteristiche.
La chiesa è il fulcro del centro storico di Ruvo, inoltre, essendo stata sede della diocesi di Ruvo fino all’anno 1986, è connessa al palazzo vescovile.
Sulla costruzione della concattedrale ci sono diverse ipotesi, ma molto probabilmente la più veritiera è quella che vede Roberto II di Bassavilla, signore di Ruvo, insieme al Vescovo Daniele, a decidere di costruire una cattedrale a seguito delle invasioni Barbariche e degli eventi bellici del XII secolo che rasero al suolo la città. La chiesa ha una storia di continue modifiche e cambiamenti, già nel 1589 poteva contare dodici altari laterali (poi diventati quattordici). Nonostante l’alto numero di questi la prima cappella costruita si aggira intorno all’anno 1640 ed era dedicata al culto del Santissimo Sacramento, dove l’omonima confraternita si riuniva in preghiera ed a oggi non è più esistente. A questa cappella se ne aggiunse un’altra consacrata al culto di San Biagio e delle sue reliquie, infatti all’interno si venera un frammento del braccio di questo santo, racchiuso in un reliquiario a forma di braccio benedicente.
Nel XVII secolo la chiesa subì ulteriori contrasti a causa degli scontri avuti con il potere laico: sotto il dominio di Ettore Carafa, Duca di Andria e Conte della città di Ruvo fu abbattuto l’altare maggiore per sostituirlo con il trono dello stesso Conte. Fortunatamente nel 1697 fu costruito un nuovo altare e inoltre un ventennio dopo venne riedificato e ampliato il palazzo vescovile.
La cattedrale fu, nella prima metà del settecento, soggetta ad ulteriori cambiamenti: nel 1744 la facciata fu allungata di 2,40 metri per lato e pochi anno dopo (1749) si dotò del controsoffitto ligneo decorato dall’artista Luca Alvese. Inoltre presentava varie cappelle su entrambe le navate: sulla navata sinistra erano disposte le cappelle del coro di notte, del Crocifisso, del Santissimo Sacramento, di San Biagio e di San Lorenzo, mentre sulla destra furono costruite le cappelle dell'Addolorata, della Madonna di Costantinopoli, dei Santi Medici, di San Michele Arcangelo e della Madonna di Pompei.
Si ebbero ancora modifiche nel Novecento: Tra il 1901 e il 1925 fu costruito un nuovo ciborio sul modello di quello della Basilica di San Nicola a Bari e fu messa una vetrata policroma raffigurante l’Immacolata. Sempre nel 1925 fu riedificato l’Episcopio.
Furono eliminate tutte le cappelle, di cui l'ultima (quella del Santissimo Sacramento) solo nel 1935. La distruzione delle cappelle fu attuata (oltre che per motivi pratici) soprattutto per motivi ideologici: per preservare l’originaria veste romanica della cattedrale bisognava eliminare tutte le sovrapposizioni barocche (nel 1918 fu rimosso anche il controsoffitto decorato per gli stessi motivi).
Descrizione Esterno
La facciata, tipicamente romana, è a salienti dotata di tre portali: Il più grande è quello centrale ed è stato arricchito da bassorilievi.
Nell’arco esterno sono raffigurati Cristo affiancato da pellegrini, dalla Madonna e da San Giovanni Battista; questi ultimi sono affiancati da figure angeliche e dai dodici apostoli.
Nel secondo arco è centrale la figura dell’Agnus Dei (Agnello di Dio, simbolo dell’innocenza di Cristo), affiancato dai simboli dei quattro evangelisti; mentre nell’arco interno sono scolpiti due pavoni intenti a beccare un grappolo d’uva (simbolo dell’Eucarestia).
Il portale centrale è dotato di due colonnine sormontate da grifi che poggiano su leoni stilofori a loro volta sostenute da dei telamoni.
I due portali laterali sono invece più piccoli, con al di sopra un arco a sesto acuto.
Sulla facciata sono inoltre presenti archetti prensili con figure umane, zoomorfe e fitomorfe ed al centro si può vedere il grande rosone, cui al di sopra è possibile notare una figura, il “Sedente”, da taluni identificata in Roberto II di Bassavilla. Al culmine della facciata è invece posta la figura del Cristo Redentore che impugna una bandierina segnavento.
Il campanile fu costruito intorno all'anno 1000, prima della concattedrale, con funzione di torre difensiva e di vedetta tanto che da questa struttura era possibile tenere sotto controllo la pianura fino all'Adriatico. Inizialmente la torre era composta di soli tre piani, poi nel XVIII secolo furono aggiunti altri due piani copiando lo stile dei vani originari. La torre faceva quindi anticamente parte del sistema difensivo di Ruvo, per poi diventare campanile con l’edificazione della concattedrale.
Descrizione Interno
L’interno è suddiviso in tre navate che sfociano in tre absidi e in un transetto trasversale alle navate che segue la forma di una pianta a croce latina. La navata più grande è quella centrale ed è circondata in alto da un falso ballatoio che si poggia su due file di colonne, ognuna diversa dall’altra sia per caratteristiche che per provenienza. Le colonne di destra hanno un valore artistico aggiunto rispetto a quelle di sinistra, sono cruciformi e sopra vi sono rappresentate scene della vita di uomini e animali mitologici, su quelle di sinistra invece vi sono rappresentati motivi floreali.
La navata centrale culmina un fantastico ciborio realizzato nel XIX secolo su disegno dell’architetto Ettore Bernich (già famoso per aver realizzato l’eclettico Acquario Romano) e che si ispira a quello della basilica di San Nicola a Bari.
La navata centrale e il transetto sono coperti da una copertura a capriate, mentre le navate laterali da una volta a crociera.
Tesori e Opere d’arte
All’interno della Concattedrale vi sono numerose opere d’arte custodite, tra cui: la statua in legno policromo e intagliato di San Biagio, patrono della città; il reliquario dello stesso santo in argento; un affresco raffigurante la Vergine col Bambino e San Sebastiano risalente al XV secolo, la tavola firmata ZT (il Maestro ZT divenne uno dei protagonisti del revival neobizantino pugliese, che ne condizionò pesantemente lo stile e le iconografie) della Vergine di Costantinopoli; lo splendido crocifisso ligneo del XVI secolo; la statua in pietra del XVI secolo di San Lorenzo; l'affresco del XV secolo la Madonna in trono con il Bambino e il Martirio di S. Sebastiano; una tela della bottega di Marco Pino da Siena raffigurante l'Adorazione dei pastori; tracce di affreschi raffiguranti alcuni santi e la Madonna della misericordia.
Menzione importantissima è la statua argentea di San Rocco realizzata dal maestro napoletano Giuseppe Sammartino.
Sono parte della “collezione” anche numerosi pezzi d’argenteria e di manifattura tessile.
Ipogeo
Il patrimonio sotterraneo della cattedrale di Ruvo è rimasto nascosto per secoli fino al 1925, quando durante i lavori di ristrutturazione emersero alla luce alcune monofore. Tuttavia nel 1935 con l'abbattimento della cappella del Santissimo Sacramento occorse abbassare la quota di calpestio del transetto e delle navate. La nuova pavimentazione però si rivelava in continuazione umida e bagnata, così le indagini condotte tra il 1974 e il 1975 portarono alla scoperta del ricco sottosuolo. Nell’ipogeo furono trovate tombe riconducibili alla civiltà dei peuceti (e romani) che fa pensare che lo zona fosse adibita a necropoli.
Fotografie trovate in rete: tutti i diritti sono riservati agli autori.
Fonti:
“Storia della Cattedrale” , su cattedraleruvo.it , 2009.
“Sistema difensivo di Ruvo di Puglia”, su ruvosistemamuseale.it , 2009
Ferdinando Ughelli, Italia sacra, Venezia, Sebastiano Coleti, 1721.
L'ESTRO PARMENSE DI GIOVANNI LANFRANCO
A cura di Mirco Guarnieri
Giovanni Lanfranco nacque a Parma nel Gennaio del 1582. Divenne paggio del conte Orazio Scotti di Montalbo a Piacenza, ma con la scoperta del talento artistico del giovane Lanfranco il conte lo mise sotto gli insegnamenti di Agostino Carracci, che in quel momento si trovava a Parma al servizio di Ranuccio Farnese per la decorazione del Palazzo del Giardino. Assieme a Sisto Badalocchio rimase al servizio del Carracci fino al 1602, anno della sua morte, per poi dirigersi su indicazione di Ranuccio Farnese a Roma presso la bottega di Annibale Carracci, che stava realizzando gli affreschi del Palazzo di proprietà del fratello Odoardo Farnese. Tra l’arrivo a Roma e il 1610 il Lanfranco realizzò assieme agli altri pittori della bottega i riquadri di scene mitologiche sulle pareti della galleria quali “Arione sul Delfino”1, “Dedalo e Icaro”2, “Ercole e Prometeo”3 tra il 1604-05 e contemporaneamente nella cappella Herrera in San Giorgio degli Spagnoli dove secondo lo studioso Eric Shleiler, il pittore avrebbe messo mano alla lunetta raffigurante “l’Apparizione di San Diego sulla sua tomba”4. Negli ultimi due anni del primo decennio il Lanfranco lavora alla cappella di Sant’Andrea sono le direttive di Guido Reni nel 1608, nell’Oratorio di Sant’Andrea in San Gregorio al Celio nel 1609 dove realizzò le figure di San Gregorio e Santa Silvia, mentre insieme a Sisto Badalocchio produsse un volume di incisioni delle Logge di Raffaello nel 1610.
Il 1609 è l’anno della morte del maestro Annibale. Questo portò al ritorno del pittore nella città natale soggiornando presso il conte Orazio Scotti che gli portò numerose commissioni tra Piacenza e dintorni come il “l’Arcangelo Raffaele che sconfigge il demone”5 per la cappella in San Nazaro e San Celso (Museo Capodimonte, Napoli), la pala d’altare della “Crocifissione con i Santi Pietro e Paolo, la Maddalena e la Vergine” per la chiesa parrocchiale di San Pietro a Porcigatone presso Borgo Val di Taro del 1610, mentre nel 1611 fece la decorazione, andata perduta, della cappella di San Luca per il Collegio dei Notai in Santa Maria delle Grazie di cui è ci giunta solo “la pala dedicata al Santo”6. L’anno seguente è quello che vide il ritorno del pittore a Roma dove vi rimase fino al 1631. Durante questo secondo soggiorno romano realizzò la pala d’altare della “Salvazione di un’anima”7 per una cappella in San Lorenzo a Piacenza (Museo Capodimonte, Napoli) in cui sono visibili elementi chiaroscurali che rimandano alla pittura di Caravaggio. Ancora più visibili sono nel dipinto “Sant’Agata visitata e curata da San Pietro”8 del 1613-14 (Galleria Nazionale, Parma).
Nel 1615 il pittore firmò un contratto con Asdrubale Mattei per dipingere le volte di tre camere dell’ala settentrionale del proprio palazzo: “Giuseppe e la moglie di Putifarre”9,“Giuseppe nella prigione spiega i sogni dei prigionieri”10 e “l’Elia sul carro di fuoco”, andato distrutto. Sempre quell'anno il Lanfranco ricevette due importantissime commissioni: la prima arrivò dal vice-cancelliere di Santa Romana Chiesa, Alessandro Peretti Montalto, dove gli veniva chiesto di partecipare assieme a quasi tutti i pittori della bottega di Annibale Carracci alla realizzazione di un ciclo di undici quadri raffiguranti gli episodi della vita di Alessandro Magno, per ornare le pareti della villa del vice-cancelliere sull’Esquilino. Il Lanfranco realizzò “Alessandro malato mostra la lettera calunniosa al suo medico Filippo”11 e “Alessandro rifiuta l’acqua offertagli da un soldato”12 (Fondazione Cassa di risparmio Pietro Mondadori).
La successiva commissione portata a termine l’anno seguente fu anche la prima opera pubblica del Lanfranco a Roma, la decorazione della “cappella Bongiovanni in Sant’Agostino”13ab : nella cupola il pittore elaborò l’illusionismo caratteristico del Correggio in chiave annibalesca, riprese nuovamente l’elemento chiaroscurale del Merisi nelle due opere laterali cd, mentre la pala d’altare inizialmente non prevedendo la figura del Dio Padre13e (Louvre, Parigi) venne sostituita in quella attuale 13f. Sulla stessa scia stilistica in quegli anni abbiamo la “Madonna con Bambino e i Santi Carlo Borromeo e Bartolomeo”14 (Museo Capodimonte, Napoli) sempre nel 1616 e la pala raffigurante la “Vergine col Bambino in gloria tra i Santi Agostino, Borromeo e Caterina d'Alessandria”15 (San Pietro di Leonessa, Rieti) del 1630.
Giovanni Lanfranco si dedicò anche ai dipinti di piccolo formato adatti agli studioli, realizzando opere come “Davide che trascina la testa di Golia”16 (Fondazione Longhi, Firenze) per un membro della famiglia Gavotti, “l’Annunciazione della Vergine”17 per il cardinal Montalto (Hermitage, San Pietroburgo) e “l’Assunzione della Maddalena”18 (Puskin Museum, Mosca) tutte e tre realizzate tra il 1616-17 e legate dalla componente neoannibalesca.
L’enorme successo ottenuto dalla decorazione della cappella in Sant’Agostino attirò l’attenzione di personaggi importantissimi come ad esempio il cardinal Scipione Borghese, papa Paolo V e il cardinal Odoardo Farnese, per cui lavorò nel primo soggiorno romano.
Nel biennio 16-17 del Seicento troviamo il pittore parmense a realizzare il Fregio di una parete della sala Regia della cappella Paolina assieme a Carlo Saraceni e Agostino Tassi, facendogli guadagnare la decorazione pittorica della volta della loggia delle Benedizioni in San Pietro. La sfortuna volle che nel 1621 con la morte del papa, il progetto non proseguì e la loggia non fu dipinta.
Con l’arrivo di Gregorio XV, al Lanfranco vengono preferiti il Guercino e Domenichino, ma nonostante ciò negli anni 20 del Seicento realizzò gli affreschi per la “cappella Sacchetti”19abc in San Giovanni Battista dei Fiorentini (1622-23), per la “volta della loggia del primo piano”20 a Villa Borghese (1623-24) e per la “cupola”21 di Sant’Andrea della Valle (1625-27). In queste ultime due decorazioni si può notare come il Lanfranco rivolga il suo sguardo allo stile barocco.
A Gregorio XV succedette Urbano VIII e nel 1625 il pittore gli fece richiesta di ottenere l’incarico di dipingere la “Navicella” in San Pietro per sostituire la pala rovinata di Bernardo Castello e dopo la visione della cupola da parte del pontefice gli venne ufficializzato l’incarico. Nel 1628 l’affresco venne completato portandogli la nomina di Cavaliere all’ordine di Cristo da parte del papa. In questo affresco purtroppo frammentato, viene rappresentato il momento più alto dello stile pienamente barocco del pittore.
Prima di lasciare Roma nel 1634 alla volta di Napoli, Giovanni Lanfranco venne eletto principe dell’Accademia di San Luca nel 1631 e realizzò alcune pale d’altare come quella di Spoleto22 (1632-34), Perugia (1632), Augusta (1632) e Lucerna (1633).
Giunto a Napoli realizzò in poco più di un decennio gli affreschi per la cupola del Gesù Nuovo tra il 1634-36 (successivamente perduta), la “volta della navata maggiore”23 della Certosa di San Martino dal 1637-38, per gli “interni”24 abcdefg della chiesa dei Santi Apostoli tra il 1638-1641, per la “cupola”25 barocca della Reale cappella del Tesoro di San Gennaro tra il 1641-43 e il coro della Basilica della Santissima Annunziata Maggiore anch’esso andato perduto.
Tornato a Roma nel 1646, Giovanni Lanfranco realizzò le ultime due opere, l’affresco del catino absidale26, e dell’arco antistante26 nella chiesa dei barnabiti dei Santi Carlo e Biagio ai Catinati.
Secondo il Bellori l’affresco sarebbe stato inaugurato tra il 4 e 5 Novembre del 1647, poco tempo prima della morte del Lanfranco.
Sitografia
http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-lanfranco_%28Dizionario-Biografico%29/
http://www.bollettinodarte.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1482246588114_08_-_Toesca_337.pdf
https://core.ac.uk/download/pdf/14703481.pdf
LA CHIESA DEI SANTI LUCA E MARTINA AL FORO
A cura di Maria Anna Chiatti
La chiesa dei Santi Luca e Martina è la sede dell’Accademia Nazionale di San Luca, insieme al Palazzo Carpegna. Si trova in un punto fortemente suggestivo del centro di Roma, di fronte all’arco trionfale di Settimio Severo, ai piedi del Campidoglio (fig. 1). L’edificio sacro fu costruito ex novo sul sito del titolo primitivo di Santa Martina, concesso nel 1588 da papa Sisto V all' (ancora) Università dei Pittori di San Luca: il passaggio ufficiale da Universitas ad Accademia avvenne infatti nel 1593, con la simbolica fondazione ad opera di Federico Zuccari (1540 - 1609) dell’«Accademia de i Pittori e Scultori di Roma», della quale divenne il primo principe. Soltanto durante il principato di Pietro da Cortona (1596 - 1669), dopo il 1634, gli Architetti entrarono a far parte dell’Accademia al pari di Pittori e Scultori.
Sebbene la chiesa fosse stata oggetto di lavori e progetti di adattamento e parziale ricostruzione fin dall’ultimo decennio del Cinquecento, redatti probabilmente da Francesco da Volterra (1535 - 1594) e da Ottaviano Mascherino (1536 - 1606), il suo integrale rifacimento fu avviato solo nel 1635, grazie al rinvenimento delle reliquie di Santa Martina e all’interessamento del principe dell'Accademia, Pietro da Cortona, che ne progettò l’attuale veste architettonica. I lavori, più volte interrotti, possono considerarsi conclusi entro il 1679; tra il secolo XVIII e il XIX veniva compiuta la sistemazione degli altari e la decorazione interna. In seguito ai lavori per l’apertura, nel 1932, di via dell’Impero, la chiesa rimase unica superstite degli edifici che insistevano sul medesimo isolato e, su progetto di Gustavo Giovannoni (1873 - 1947) ne vennero ridefiniti i fronti laterale a nord e absidale. La demolizione della sede accademica, addossata e contigua alla chiesa, sancì il definitivo distacco dell’Accademia dall'edificio religioso che l’aveva ospitata per oltre tre secoli.
L’accesso alla chiesa avviene tramite l’articolata facciata principale, che fino alle recenti sistemazioni tardo novecentesche costituiva il fondale di via della Consolazione.
San Luca, la chiesa superiore
Maestro della pittura - si ricordi il meraviglioso esempio del Trionfo della Divina Provvidenza a Palazzo Barberini - anche sul piano della progettazione architettonica Pietro da Cortona sviluppò una interpretazione dello spazio del tutto personale. Pur partendo dalla costante e libera riproposizione degli ordini classici, egli attinse anche alle esperienze bramantesche e palladiane, modellando plasticamente i propri edifici in modo scenografico. Sin dai suoi esordi in campo architettonico, mostrò infatti la capacità di unire la tradizione classica e rinascimentale, manipolandole con una sensibilità scenografica in parte riconducibile alla lezione del manierismo fiorentino, in parte allo studio dell’architettura romano - ellenistica.
Tutto ciò è evidente nella chiesa presa oggi in considerazione, che resta uno dei primi e più completi esempi del Barocco romano. Come già detto, la costruzione sorge ai piedi del Campidoglio, tra il Foro di Cesare e l’antica Curia, in luogo della chiesetta medievale di Santa Martina.
Pietro da Cortona cominciò con la ricostruzione (a proprie spese) della cripta, dopo aver ottenuto da papa Urbano VIII il privilegio di potervi erigere la propria cappella funeraria; d’altro canto aveva già disegnato un progetto completo per la chiesa, e la pianta originariamente prescelta fu quella circolare, in omaggio alla tipologia del martýrion. Tuttavia, dopo il ritrovamento delle ossa di Santa Martina, nel corso degli scavi della cripta nell'ottobre 1634, l'importanza dell'impresa aumentò considerevolmente e l’architetto cortonese preferì optare per una pianta a croce greca (fig. 2), nella quale è evidente il ritorno agli schemi del rinascimento toscano anche se - ed è qui che risiede la genialità del progetto - egli ne reinventò completamente la distribuzione degli spazi: il braccio longitudinale della croce è leggermente più lungo di quello trasversale, sebbene entrambi terminino con absidi semiellittiche, le cui morbide curve annullano la percezione di qualsiasi asimmetria dimensionale.
Le pareti interne si snodano lungo il perimetro della croce con un suggestivo alternarsi di rientranze e aggetti scanditi dall'ininterrotto succedersi di colonne, nicchie e paraste ,culminante nell'addensarsi di un complesso sistema di colonne e pilastri ionici binati (figg. 3 - 6), agli angoli d’incrocio dei due bracci. In questo modo la presenza degli spigoli viene di fatto annullata e la sensazione che ne deriva è quella di uno spazio avvolgente che, modellandosi in modo quasi scultoreo, grazie anche all'assoluta prevalenza del colore bianco, suggerisce il senso di uno scenografico colonnato circolare.
Santa Martina, la chiesa inferiore
La chiesa inferiore, riccamente decorata da marmi policromi, è dedicata alla santa martire Martina, della quale sono custodite le reliquie nell'altare maggiore posto al centro della cripta (fig. 7): di forma rettangolare, questa è coperta da una cupola schiacciata a lacunari (fig. 8) sostenuta da colonne angolari. Due cappelle di tipo catacombale si aprono ai lati della cappella centrale, e altre strutture analoghe trovano posto sullo stesso livello inferiore (fig. 9).
Per disposizione testamentaria di Pietro da Cortona, l’amministrazione della chiesa inferiore di Santa Martina venne affidata dopo la sua morte al Conservatorio di Sant'Eufemia, che ne è attualmente proprietario.
La facciata della chiesa dei Santi Luca e Martina
La stessa logica di modellazione delle strutture murarie attraverso lo spregiudicato impiego dell’ordine architettonico si riscontra anche negli esterni e, in modo spettacolare soprattutto nella facciata, rivolta a Sud (fig. 10). Questa, a spiccato sviluppo verticale, è suddivisa in due livelli da una massiccia trabeazione aggettante, che svolge anche la funzione decorativa di marcapiano. La superficie della muratura, a differenza di ciò che avviene in corrispondenza delle altre tre absidi, le quali esternamente presentano pareti piane e squadrate, risulta qui convessa. In questo modo la forma interna trova un immediato riflesso anche all'esterno, dove l’articolato alternarsi di semi-colonne e paraste a coppie con capitelli ionici quasi anticipa al visitatore le soluzioni che potrà trovare all'interno.
L’andamento curvilineo della facciata arginato ai lati da coppie di pilastri sporgenti prosegue l’audace sperimentazione di forme, avviata da Pietro nella perduta Villa del Pigneto dei marchesi Sacchetti. Di fatto questa è la prima facciata decisamente barocca, nata parallelamente alle prime ricerche di Francesco Borromini (1599 - 1667) sul medesimo tema (la facciata dell'Oratorio di San Filippo Neri risale più o meno agli stessi anni). La magnificenza con cui sono state trattate le superfici, fortemente strutturate in un plastico succedersi di colonne incassate e pilastri aggettanti, riecheggia la lezione di Michelangelo senza però escludere accentuazioni decorative e imprevisti accostamenti di linee curve e spezzate che si fanno particolarmente apprezzare nelle capricciose invenzioni sia per l’interno (fig. 11) che per l’esterno della cupola a pianta circolare, la cui fantasiosa tipologia deriva dalla sovrapposizione di due ipotesi costruttive apparentemente opposte: da un lato la calotta a lacunari del Pantheon, dall'altro la struttura con costolonature rilevate di San Pietro. L’effetto decorativo che ne consegue è di straordinario impatto, in quanto il complicato arabesco di cassettoni ottagonali e nervature, valorizzato in toto dagli otto finestroni luciferi del tamburo, conferisce all'intradosso un profuso senso di spazialità dilatata, del tutto assimilabile agli effetti pittorici di sfondamento prospettico dei quali Pietro da Cortona era maestro.
Bibliografia
Cricco G., Di Teodoro F. P., Itinerario nell’arte, Vol. 2, Zanichelli, Bologna 2004
Sitografia
Sito web dell’Accademia di San Luca al link: https://www.accademiasanluca.eu/it/accademia/sede/la_chiesa_dei_santi_luca_e_martina
Sito web del Dizionario Biografico degli Italiani, voce Pietro Berrettini, al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-berrettini_%28Dizionario-Biografico%29/
IL CROCIFISSO DEL CONCILIO A TRENTO
A cura di Alessia Zeni
Il visitatore che si reca nel Duomo di Trento, tra le opere d’arte da vedere, dovrebbe annoverare il Crocifisso del Concilio, così chiamato perché sotto di esso furono firmati i decreti conclusivi del Concilio di Trento (1545-1563). Il Crocifisso è conservato nella Cappella Alberti costruita nel 1682-1687, sulla parete sud della cattedrale, per volere del principe vescovo di Trento, Francesco Alberti Poja (1677-1689), come luogo della sua sepoltura e conservazione della reliquia. E’ un'opera esemplare nel panorama artistico trentino, esempio di arte regionale molto spesso influenzata dalla scuola tedesca d'Oltralpe.
Il vescovo Alberti Poja fece costruire una cappella a pianta quadrata con tamburo ottagonale, cupola con lanterna e una decorazione pittorica e architettonica che doveva esaltare il Crocifisso del Concilio di Trento. La cappella venne realizzata nello stile barocco dell’epoca che tendeva al meraviglioso e allo sbalorditivo con pitture di Giuseppe Alberti (1640-1716), statue ed elementi plastici dello scultore trentino Paul Strudel (1648-1708) e stucchi di Girolamo Aliprandi della Valle d’Intelvi. Purtroppo molte di queste decorazioni sono state rimosse nel restauro del 1843-1845 per smorzare l’aspetto vistosamente barocco della cappella, probabilmente poco apprezzato dalla curia vescovile dell’epoca. Per fortuna gli stucchi che ornavano la cappella non sono andati tutti persi, alcuni di questi oggi decorano l’altare che contiene il Complesso scultoreo del Crocifisso.
La decorazione pittorica di Giuseppe Alberti prevedeva otto Episodi Biblici affrescati nella cupola, scelti per le loro connessioni con il tema della Crocifissione e della salvezza; a questi fanno seguito, più in basso, sulle pareti del tamburo, cinque Scene della Passione e, nei pennacchi, la raffigurazione allegorica di Quattro Virtù, le virtù esercitate da Cristo nel suo sacrificio. A questo tema si legano le rappresentazione delle tele laterali della cappella che raffigurano l’Adorazione dei pastori e la Resurrezione, opere di pittura barocca del bavarese Carlo Loth. Entro l’altare, infine, il rilievo di Adamo ed Eva davanti all’Albero del bene e del male che allude al Peccato originale (la causa del sacrificio di Cristo), le statue della Maddalena e della Veronica (oggi sistemate davanti all'ingresso della cappella) nonché le rappresentazioni dell’Arma Christi che evocano in termini diretti la Passione.
Questo complesso programma iconografico è stato pensato per esaltare la Crocifissione del Concilio di Trento, un’opera imponente con i suoi 218 cm di altezza, e dalla forte drammaticità, tanto da poterla ritenere tra le più tragiche rappresentazioni della morte di Cristo in croce. La scultura è di un artista tedesco, Sixtus Frei da Norimberga, che realizzò la scultura dopo il 1511, quando arrivò nel capoluogo trentino, in legno dipinto di stile tardogotico, dove ogni dettaglio è stato studiato per trasmettere il dolore di Cristo in croce e la tristezza dei due dolenti, Maria Addolorata e San Giovanni apostolo. Il Cristo con i capelli che cadono in disordine, le sopracciglia che si inarcano sulla fronte corrugata, gli occhi che fuoriescono dalle occhiaie incavate e la bocca semi aperta accentuano la sofferenza del figlio di Dio. Una sofferenza che viene amplificata dall'ossatura della cassa toracica, dove si intravedono le costole, da una ferita che mostra il sangue abbondante e dai chiodi che fissano il corpo alla croce. I due dolenti, Maria e Giovanni, sono raffigurati in ricchi panneggi ed entrambi evitano di guardare il Crocefisso, come a voler rifuggire dal guardare lo spettacolo drammatico del Cristo morente.
Il Crocifisso del Concilio è inserito in una delle opere più belle del Duomo di Trento, un altare realizzato in pietra e marmo con sculture e decorazioni dalla forte carica simbolica (figura 1). In primis i due Angeli di Paul Strudel sistemati sul timpano spezzato dell’altare e scolpiti in ginocchio, in morbidi panneggi, che tengono la lancia con cui venne trafitto il costato di Cristo, e la spugna, con cui i soldati gli diedero da bere aceto. Gli Angioletti esultanti che chiudono in alto l’altare, sorreggono uno striscione marmoreo che riporta la scritta: “Unde mors oriebatur inde vita resurgit” ovvero “Dalla morte è venuta la vita” (figura 1).
Inserita tra le colonne dell’altare vi è una delle sculture più belle della cappella, l’Arma Christi di Giuseppe Aliprandi, ovvero l’insieme dei simboli che si riferiscono alla Passione di Gesù. Tra le colonne di sinistra troviamo gli elementi che ricordano la notte in cui Cristo è stato tradito dal discepolo Giuda: il gallo, la sacca dei denari, una fiaccola, una coppa, un elmo, il guanto di un soldato, un pugnale, una lanterna, una veste e una spada. Tra le colonne di destra gli oggetti che ricordano la condanna, le torture e la crocifissione: alcuni flagelli, una brocca, uno scudo, dei fastelli di verghe, l’iscrizione INRI, un’ascia, un martello e la veste coi dadi. Infine inquadra l’edicola della Crocifissione uno straordinario fregio in pietra scolpito da Paul Strudel con l’intenzione di alludere all'albero da cui fu ricavato il legno della croce; l’artista scolpisce un tronco ricoperto di foglie e in alto lo conclude con una corona di spine (figura 3).
Chiude il tutto, nel timpano spezzato dell’altare, la scultura di Adamo ed Eva davanti all’albero del Bene e del Male che rappresenta l’albero del Paradiso terrestre e il peccato dei progenitori vinto da Gesù che morì sulla croce.
IL CASTELLO DELLA PIETRA
A cura di Simone Rivara
Nell'entroterra genovese, sull'Appennino ligure, lasciando la vallata principale dello Scrivia si entra in Val Vobbia, dove il paesaggio, caratterizzato da strati calcarei, all'improvviso cambia lasciando spazio alla Puddinga (roccia sedimentaria costituita da frammenti rocciosi più o meno arrotondati cementati da sostanze di varia natura, fig. 1). Qui millenni di erosione e paleofrane hanno formato i caratteristici canyon, dove il conglomerato Oligocenico emerge sulla macchia boscosa in un duello senza tempo.
In questo contesto paesaggistico sorge una delle più suggestive quanto, purtroppo, poco conosciute architetture medievali d’Italia: Il Castello della Pietra.
Unicum a livello globale, questo castello si erge isolato nella boscaglia tra due torrioni naturali di Puddinga che si elevano per oltre 150 metri ed è un esempio di perfetta coesione tra ambiente naturale ed opera dell'uomo (fig. 2).
Storia del castello della Pietra
Il castello della Pietra è situato nelle vicinanze del paese di Vobbia, che nasce come stazione commerciale lungo la Via dei Feudi imperiali (Via del Sale), che dal litorale ligure (Recco, Portofino e quindi Genova) conduceva alle città della Pianura Padana, un tempo percorsa dai mercanti che giungevano nei porti per scambiare le merci con il sale, fondamentale, all'epoca, per conservare gli alimenti.
Nonostante gli sforzi di ricerca compiuti il passato del castello rimane avvolto in un alone di mistero: le notizie storiche sono poche e frammentarie e riguardano tutte fatti relativi ai suoi proprietari, nessuna riguardante le caratteristiche edilizie e funzionali dell’edificio. L'unico documento che lo raffigura è uno schizzo di Matteo (fig. 3), eminente cartografo al servizio della Serenissima Repubblica di Genova, del 1748, che ci restituisce un’immagine approssimata che tuttavia lascia intendere una copertura a due spioventi nel corpo principale e una ad unico spiovente nel corpo di ingresso (informazioni utilizzate per il restauro di cui dopo parleremo); inoltre esistono alcune rappresentazioni del Castello nelle pitture parietali dell'oratorio di Ronco Scrivia, sebbene piuttosto fantasiosa (fig. 4), ed in quello di Vobbia, più fedele (fig. 5).
In assenza di sufficienti ed esaurienti documentazioni storiche in merito alla reale data di edificazione del Castello della Pietra, si è ipotizzato che la costruzione possa essere risalente al 1100 o ad una data ancora precedente ed è innegabile che la posizione ardita abbia suggerito ai primi signorotti l'idea di un rifugio inespugnabile.
Il primo documento ufficiale che cita il Castello della Pietra risale al 1252 con il quale divenne proprietà di Opizzone della Pietra, il cui appellativo deriva proprio dall'acquisizione di questo feudo. Si sa per certo che Opizzone fu anche l'unico feudatario ad abitarlo. Secondo i celebri Annali dello storico Caffaro di Rustico da Caschifellone già nel XIII secolo il castello presentava le stesse caratteristiche strutturali e architettoniche di quelle attuali e la sua giurisdizione comprendeva l'Alta Val Borbera travalicando il colle di San Fermo. A seguito della morte di Guglielmo della Pietra, il maniero passò di proprietà della famiglia nobiliare Spinola fino al 1518, quando fu ceduto per disposizione testamentaria agli Adorno: il testamento è datato al 7 giugno 1518 e si specifica il volere di Tolomeo Spinola in favore dei fratelli Antoniotto e Gerolamo Adorno. Prospero Adorno ne ottenne l'ufficiale investitura il 17 gennaio del 1565 e dieci anni dopo (1575) la proprietà passò nelle mani del fratello Girolamo Adorno. Nel 1579 fu espugnato da alcuni malviventi, ma venne riconquistato da Giorgio Centurione su incarico del Senato della Repubblica di Genova. Nel 1620 l'imperatore Mattia d'Asburgo lo annesse al feudo Pallavicino in val Borbera perdendo così ogni potere giurisdizionale autonomo, ma costituendo fino alla fine del Settecento una enclave tra i più grandi feudi dei Fieschi e degli Spinola; sotto la sua giurisdizione rientravano Torre di Vobbia, Pareto in val Brevenna e Gordena in Alta Val Borbera. In seguito divenne proprietà dei Botta Adorno. Nel 1797, le truppe francesi giunsero sull'Appennino e, per volere di Napoleone Bonaparte, vennero soppressi i Feudi Imperiali. Il maniero fu così abbandonato dall'ultimo carismatico castellano, Michele Bisio e dopo qualche anno fu dato alle fiamme decretandone così la progressiva rovina. Il bronzo dei cannoni fu prelevato dal vescovo di Tortona per essere poi utilizzato per la fusione delle campane della chiesa di Santa Croce di Crocefieschi. I ruderi dell'antico castello restarono comunque di proprietà dei Botta Adorno fino al 1882 quando fu ceduto alla famiglia Cusani Visconti. Il 21 maggio del 1919 il proprietario Luigi Riva Cusani lo vendette a Giovanni Battista Beroldo di Vobbia. La famiglia Beroldo lo donò poi al Comune di Vobbia nel 1979.
Storia di un restauro
Dopo aver affrontato una poco soddisfacente ricostruzione dei fatti storici, ad ogni buon conto doverosa, concentriamoci ora sul recupero dell'edificio, avvenuto negli anni ’80, indubbiamente l’aspetto più interessante.
Come già detto gli ultimi proprietari cedettero a titolo gratuito il Castello della Pietra al Comune di Vobbia. Tale passaggio da proprietà privata a bene pubblico fu fondamentale per ottenere finanziamenti pubblici, che arrivarono, i primi, nel 1980, per avviare i lavori di blocco del degrado murario, ponendo così la necessità di predisporre un progetto per i lavori di restauro, decisamente arduo in quanto il tema da affrontare si presentava in tutta la sua complessità, sia sotto il profilo della conservazione , sia sotto l'aspetto storico, considerate le condizioni di avanzato degrado dell'insediamento fortificato (fig. 6, 7).
Nel 1981 fino al 1986 una impresa edile lavorò al consolidamento di quanto restava delle strutture murarie e l'integrazione dei muri perimetrali (naturalmente sotto la stretta sorveglianza degli organi preposti), ricostruendo la volta del salone centrale con l'utilizzo di una centina in legno di eccezionale fattura (fig. 8, 9), nonché la copertura lignea dell'avancorpo. Tutti gli interventi operati furono realizzati secondo la metodologia del restauro critico, ovvero un restauro che consente una chiara lettura di quanto è stato introdotto rendendolo sempre distinguibile dal tessuto murario precedente. Fu anche necessario installare una teleferica (fig. 10) per ovviare al problema del difficile trasporto dei materiali in un luogo non solo alto e scosceso, ma anche collegato alla strada provinciale tramite un lungo sentiero in rovina nel bosco, solo successivamente adeguato agli standard di sicurezza per consentire la fruizione. Inoltre furono recuperate dal detrito interno la maggior parte delle pietre destinate al consolidamento, sempre per conferire al castello un aspetto il più possibile vicino all'originale, oltre a cercare eventuali oggetti tra le macerie.
I lavori proseguirono tra il 1989 e il 1991 con la costruzione dei tetti in scandole del corpo principale e del “camminamento” nord, rigorosamente in castagno (fig. 11). Di seguito iniziò il lavoro di installazione dei camminamenti costituenti il percorso di visita in elementi metallici grigliati e fu realizzato il sentiero che porta dalla strada provinciale al Castello della Pietra (fig. 12, 13, 14).
Durante i lavori non mancarono alcune significative scoperte.
Di seguito cito il geologo Sergio Pedemonte che, insieme a molti volontari locali, si impegnò in questo progetto di recupero, le sue parole ci restituiscono le sensazioni del momento:
Si partì dal salone principale e quella che era sempre stata ritenuta una stanza sotterranea scoprimmo subito essere una cisterna: il 1° novembre 1981 venne alla luce il pavimento in roccia del grande locale e i muretti di mattoni che si possono osservare sotto le griglie di protezione. Si ebbe l'accortezza di segnare con la vernice rossa il profilo dei detriti: ognuno può capire, a distanza di anni, cosa significò spostare quei metri cubi di pietre, terra e calce.
(PEDEMONTE Sergio 2012, 180)
Infatti all'interno del complesso si scoprirono, con grande sorpresa, tre distinte vasche di raccolta dell’acqua piovana (fig. 15, 16, 17): la prima (C1 in fig. 15), la più grande, si trova tra il corpo principale e il “camminamento” nord, la seconda (C2 in fig. 15) al di sotto del pavimento del salone principale, la terza (C3 in fig. 15) tra il corpo principale e la base del torrione ovest. Tutte e tre erano impermeabilizzate da uno strato di malta di calce spesso due-tre centimetri, conservatosi solo in corrispondenza dei livelli inferiori, protetti dai detriti. Va precisato che in corrispondenza di questo primo bacino, parzialmente scavato nella puddinga, lo sgombro dei detriti ha permesso il ritrovamento di resti carbonizzati (effetto torba) di un pavimento o soffitto in legno ed alcune “scandole”, precipitato sul fondo dell’invaso probabilmente durante l’incendio. Sul modello di tali reperti è stato possibile progettare l'attuale copertura dell'edificio.
La seconda cisterna (C2 in fig. 15) era alimentata da un sistema di tubature evidenziate in figura 15 (T1, T2) ed era accessibile solo grazie ad una botola posta nel salone principale.
Le tre cisterne erano molto probabilmente collegate tra loro e hanno una capienza complessiva di 100 m ³: ciò, secondo le stime, permetteva un’indipendenza dalle fonti di approvvigionamento esterne di sei mesi.
Il Castello della Pietra dal 1993 è visitabile negli ambienti interni e fa parte del “Parco Regionale Naturale dell'Antola”; inoltre ospita una mostra permanente sui castelli della Valle Scrivia.
- A causa della situazione di emergenza epidemiologica non è stato possibile purtroppo reperire immagini di migliore qualità -
Bibliografia
PEDEMONTE Sergio, Per una Storia del Comune di Isola del Cantone, Grafiche G7, Savignone (GE), 2012.
PEDEMONTE Sergio, PASTORINO Mauro Valerio, Le Cisterne dei Castelli di origine Medievale con particolare riferimento al Castello della Pietra, Quaderni della Comunità Montana Alta Valle Scrivia N°1.
Sitografia
http://www.boglivalboreca.it/itinerari/via-del-sale
http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=5214
L'ICONA DELLA MADONNA DEL PILERIO
A cura di Antonio Marchianò
Il culto della Madonna del Pilerio
L’icona della Madonna del Pilerio attualmente custodita e venerata nella Cattedrale di Cosenza, nella cappella a lei dedicata, è un pregevole dipinto su tavola risalente al XII sec. voluta dall'Arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo per favorire l'afflusso dei pellegrini. Il culto cattolico della Madonna del Pilerio risale all'anno 1576, quando una devastante epidemia di peste si accanì sulla città di Cosenza facendo numerose vittime. Secondo la tradizione cattolica la popolazione ormai allo stremo, visti gli infruttuosi tentativi umani di arginare l'epidemia, si rivolse a Dio. Si narra che un devoto, che pregava dinanzi all'antica icona della Vergine Maria posta all'interno del Duomo cittadino, si accorse che sul viso della Madonna si era formato un bubbone di peste. Fu allertato il Vicario generale dell'epoca, si sparse immediatamente la notizia, e una grande folla si recò ad ammirare coi propri occhi lo strano evento, che venne interpretato come volontà della Vergine di accollarsi la malattia per liberare la popolazione. La regressione della peste nella città, che avvenne nei mesi successivi, venne interpretata come un vero e proprio miracolo. A seguito dell'evento, la Madonna del Pilerio venne eletta a Patrona Protettrice di Cosenza. La notizia del segno prodigioso non tardò a divulgarsi, e dai paesi vicini iniziò un crescente accorrere di devoti.
I pellegrinaggi continuarono nel tempo e crebbero di numero, tanto che nel 1603 l'Arcivescovo Mons. Giovan Battista Costanzo, per meglio favorire l'afflusso dei pellegrini, tolse l'icona dal luogo dove si trovava e lo collocò prima su uno dei pilastri della navata centrale del Duomo, poi sull'altare maggiore, e infine, nel 1607, nella cappella appositamente costruita e dedicata alla Vergine, dove ancora oggi si venera. Il 17 aprile 1607, su richiesta unanime dei cosentini, l'Arc. Mons. Costanzo incoronò la Vergine del Pilerio come Regina e Patrona della città. Nel 1783 un violento terremoto si abbatté su Cosenza. In quell'occasione si constatò un altro segno sul viso dell'immagine della Madonna: furono infatti notate delle screpolature, che poi scomparvero ma non del tutto, una volta passato il pericolo. Il 6 luglio 1798 si stabilì la celebrazione della sua festa, il giorno 8 settembre di ogni anno, per la sua Natività. Il 12 giugno 1836 l'Arc. Mons. Lorenzo Puntillo (1833-1873) fece una seconda incoronazione con corone d'oro e gemme di grande valore. In seguito al terribile terremoto del 12 febbraio 1854 i cosentini chiesero e, l'11 gennaio 1855 ottennero, dall'autorità ecclesiastica l'istituzione di una seconda festa, detta "del patrocinio", in onore della Vergine da celebrarsi ogni anno, il 12 febbraio. Nel 1922 avvenne una terza incoronazione, autorizzata dal capitolo Vaticano e celebrata dall'Arc. Mons. Trussoni (1912-1933). Durante la seconda guerra mondiale si ebbero a Cosenza due spaventosi bombardamenti che decimarono quasi la città: il 12 aprile e il 28 agosto 1943. Per iniziativa dell'Arc. Aniello Calcara (1941-1961) il 6 settembre 1943 il quadro della Madonna fu temporaneamente trasferito nel Convento dei Padri Minori di Pietrafitta con l'intento di proteggerlo. L'anno 1948 fu caratterizzato dalla "Peregrinatio Mariae" voluta da Calcara come preparazione al Congresso Mariano programmato per il 1951. Il 20 febbraio nuovamente ci fu a Cosenza un violento terremoto. Anche in questa occasione i cosentini si affidarono alla protezione della Madonna del Pilerio, e chiesero e ottennero da Achille Lauro (amministratore apostolico dell'Arcidiocesi) una processione. Il 10 maggio 1981 l'Arc. Dino Trabalzini elevò a Santuario della Vergine SS. del Pilerio il monumentale Duomo di Cosenza. Il 6 ottobre 1984 avvenne la storica visita alla Madonna del Pilerio e al Duomo da parte di Sua Santità Papa Giovanni Paolo II, la cui devozione filiale alla Madonna contraddistinse il suo intero pontificato. Il 10 ottobre 1988 Mons. Dino Trabalzini, in chiusura dei festeggiamenti per l'anno Mariano, proclamò la Madonna del Pilerio Patrona Principale dell'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano e ne confermò il titolo di "Patrona della Città di Cosenza".
L'icona della Madonna del Pilerio: descrizione
L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall'arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi” L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.
La figura della Vergine
Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all'allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all'icona.
Il titolo di Pilerio, chiaramente postumo alla sua realizzazione, offre diverse interpretazioni, alcune anche apparentemente contrastanti, ma tutte permettono di cogliere la ricchezza delle interpretazioni di tipo teologico, devozionale e pastorale date all'icona. La più tradizionale interpretazione del titolo è quella di Pilastro. Essa fa letteralmente riferimento alla collocazione originaria dell'icona, che si trovava collocata su una colonna all'interno della chiesa Cattedrale. Questo titolo potrebbe risalire proprio al periodo di dominazione spagnola o comunque all'epoca del miracolo della peste nel 1576, epoca nella quale l’influenza della pietas spagnola potrebbe aver portato a Cosenza la devozione per la Vergine del Pilar, anch'essa collocata su di una colonna. Testimonianze di questa influenza sono ancora presenti, ad esempio, nell'America latina, dove forte fu la dominazione spagnola. Un altro dato di cui tener conto è la certa influenza bizantina dovuta all'appartenenza della Città all’Eparchia greca fin dal IV secolo e della vicinanza con Rossano. Nella tradizione e nella liturgia bizantina è uso collocare la Vergine proprio alla porta del Tempio e nei punti strategici delle Città come atto di affidamento alla “Custode” del popolo di Dio (dal greco puloròs = custode della porta).
L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall'oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazaret e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall'alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa, Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.
Bibliografia
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