IL DUOMO DI LARINO

A  cura di Marco Bussoli

 

La cripta di sant’Adamo

Nel territorio molisano pochi monumenti, tra quelli più studiati, presentano una pluralità di caratteri tale da renderne così complessa e affascinante un’analisi anche solo superficiale come nel caso della Cattedrale di Larino.

La città di Larino, di fondazione romana, fu sin dai primi secoli dopo la nascita del cristianesimo uno dei centri dove questo trovava numerosi proseliti, come dimostra il martirio dei fratelli Primiano, Firmiano e Casto avvenuto nel 303 d.C. a seguito di un editto di Diocleziano. Questa presenza religiosa continuò ad essere forte nei secoli successivi, fino a quando nel 668 è documentata l’istituzione della Diocesi; questa, doveva quindi essere accompagnata dalla presenza di un edificio chiesastico, di cui non si conoscono però fondazione e collocazione, sebbene alcune ipotesi siano state avanzate.

 

Come documentato dall’iscrizione sul portale della cattedrale la sua costruzione fu ultimata nel 1319, quando era Re Roberto d’Angiò, papa Giovanni XXII e vescovo della città Raone.

SI PRAESENS SCRIPTUN PLANE VIDEBIS, TEMPORA NOSTRAE LOCATIONIS HABEBIS A.D. MCCCXIX ULTIMO IULII IN CHRISTO, PONTIFICATUS DOMINI NOSTRI IOANNIS P.P. XXII ANNO III. REGNORUM SERENISSIMI REGIS ROBERTI ANNO XI. SUB PRAESULATU RAONIS DE COMESTABULO HUIUS CIVITATIS OMNIBUS MEMORIA FUIT

Tutti questi riferimenti istituzionali, comuni a numerose iscrizioni medievali, non sono rari ed hanno il compito di rendere più concreta e importante la data, che in questo caso indica la fine del cantiere di costruzione, iniziato sicuramente durante il secolo precedente.

 

La chiesa e la sua struttura

Il duomo di Larino presenta caratteri ricorrenti nelle chiese molisane del basso medioevo, con una a tre navate, priva di transetto, come accade anche nel vicino duomo di Termoli. Ciò che, però, in questo caso cambia è la facciata, che non presenta più riferimenti alle chiese della vicina provincia di Foggia, come accade ad esempio a Termoli, in cui i richiami alle cattedrali pugliesi sono lampanti, ma si adopera un modello diverso, quello abruzzese della facciata quadrata. Il modello cui Ada Trombetta si riferisce per istituire dei confronti è quello della chiesa di Santa Maria Maggiore di Lanciano (CH) che presenta, a suo dire, una simile scansione della facciata, sebbene questa non sia così ravvisabile: se il confronto si basa solo sulla presenza di un portale fortemente strombato e su un grande oculo presente sopra di esso, questo può essere esteso a numerosissimi edifici. Il pannello rettilineo della facciata con la sua scansione orizzontale può invece confrontarsi con modelli abruzzesi più lontani, fortemente rielaborati in questa opera, in cui i lapicidi molisani hanno usato il loro linguaggio adattandolo a questa nuova sintassi.

 

Una volta entrati nell’edificio si ha da subito la sensazione che lo spazio non sia regolare e osservando la controfacciata si può notare come questa sia inclinata e non perpendicolare alle navate; prolungando l’osservazione si noterà che le campate ai lati della navata principale non sono simmetriche, questo in conseguenza al disassamento della facciata. I motivi di una tale soluzione possono ricercarsi nel possibile riutilizzo strutture di fondazione già presenti sul luogo, che hanno portato alla scelta di avere la facciata inclinata, in questo modo si riusciva a fare economia sul cantiere e riuscendo anche a risparmiare del tempo. Considerato questo è facile comprendere come le navate laterali siano essere coperte da volte a crociera, mentre quella principale sia chiusa dalle capriate, dato che non sarebbe stato possibile impostare delle volte regolari sulle campate non corrispondenti. Gli slanciati pilastri presentano tra di loro un’importante differenza: mentre i quattro pilastri più prossimi all’altare sono quadrati e ribattuti da parasta solo verso l’interno, i quattro successivi sono cruciformi, più elaborati e scolpiti, fino ad arrivare al pilastro dispari che sembra essere una fusione tra questi due. L’ipotesi più convincente, avanzata anche da Trombetta, è quella che la costruzione sia stata affrontata in due tempi diversi, con una prima fase del cantiere in cui è stata edificata l’area presbiteriale e l’inizio delle navate, in cui i pilastri sono ancora paralleli, e in un secondo momento, alla ripresa dei lavori, siano stati costruiti gli altri pilastri e si sia quindi ultimata la costruzione.

 

La facciata

Come già accennato, la facciata della Cattedrale di Larino prende a modello le facciate quadrate abruzzesi e le elabora con un linguaggio scultoreo molisano. Questa è divisa in due fasce da una cornice modanata che separa la parte bassa, caratterizzata dal portale, da quella alta in cui si aprono il rosone e le due finestre che lasciano intravedere il cielo retrostante.

 

La parte bassa del fronte è in piccoli blocchi di pietra squadrati ed è decorata solo dal grande portale. Questo riprende in modo fedele i corrispondenti portali abruzzesi, quello di Lanciano in particolar modo, seppure a tratti sia ben leggibile la diversa esecuzione. Lo pseudo-protiro, che poco viene fuori dalla facciata sebbene essa sia molto scavata, si apre con due fasce più ampie in cui delle esili colonnine scolpite sorreggono due leoni che sembrano poi, salendo, sorreggere l’intera struttura; andando verso il centro inizia il susseguirsi di fasce rientranti alternate a colonnine scolpite ed interrotte da pseudo-capitelli, delle cerchiature in pietra scolpite, che non solo ornano le parti verticali, ma continuano anche nell’ogiva dell’arco. In corrispondenza dei leoni, sopra il capitello, sono presenti due grifoni a sorreggere il coronamento dell’elemento d’ingresso, chiuso a tetto. La lunetta non è composta da un unico elemento lapideo decorato, ma è parte del paramento murario in cui si incastonano le tre figure della Crocifissione, meno dinamica delle decorazioni del protiro e più acerba stilisticamente.

 

La parte alta della facciata è invece caratterizzata da tre elementi: le due bifore e il rosone. Le bifore sono strombate, incavate, nella parete in modo simile all’ingresso, con tre fasce modanate che scavano nella muratura ed una raffinata decorazione negli elementi più interni; a chiudere queste aperture, esternamente, tornano gli elementi rettilinei, qui sorretti da delle teste, decorati con motivi floreali.

 

Il rosone è l’unico elemento profondamente pugliese nel fronte, molto decorato ma poco rilevato, come nelle cattedrali della Capitanata o in quella di Termoli, decorato anch’esso dalla chiusura rettilinea modanata, sorretta in questo caso da animali, sulla cui sommità si erge una scultura di San Pardo, titolare della chiesa e patrono del centro molisano, mentre al di sotto delle fasce floreali altre figure, tra cui l’agnello crucifero, sono presenti.

 

Il Campanile ed il portale secondario

Sulla destra della chiesa, eretto su di un grande arcone in blocchi di pietra, si erge il campanile, eretto, come riportato da un’iscrizione, nel 1451 dal maestro Giovanni da Casalbore. La torre campanaria, sprovvista dei fastosi apparati decorativi del fronte, è caratterizzata dalla divisione in tre fasce del suo corpo, che incorniciano un tamponamento in muratura finemente ordita a spinapesce.

 

Superato l’arcone sulla sinistra si può vedere il portale secondario dell’edificio, anche questo decorato, ma più severo di quello principale, mancando qui le numerose fasce decorate e la profondità della strombatura.

 

L’interno della chiesa

L’interno dell’edificio ha un carattere austero nella bicromia degli elementi architettonici in pietra e nel bianco dei paramenti murari, in cui si inseriscono una serie di pale con soggetti sacri, originariamente, però, il suo aspetto doveva essere totalmente diverso, come dimostrano le poche tracce superstiti.

 

Una serie di restauri tra ottocento e novecento hanno totalmente riconfigurato l’apparato decorativo della chiesa, eliminando tutte le coloriture e coprendo gli affreschi presenti. Durante i lavori del 1952 il fortunato ritrovamento di alcuni lacerti di affreschi nella navata destra ha permesso di immaginare come l’intero edificio potesse realmente essere nei secoli precedenti. La pittura ritrovata, seppure rovinata dalla copertura di intonaco che l’ha conservata raffigura Sant’Orsola con le vergini ed altri santi; sulla volta costolonata, invece, dei motivi vegetali incorniciano angeli e figure umane, sebbene i resti siano davvero di ridotte dimensioni. Altri lacerti di colore sono tuttora presenti sui paramenti in pietra e per quanto poco visibili possono dare indizi sull’originaria decorazione della chiesa.

 

 

 

Le foto sono state scattate dal redattore.

 

 

 

Biblioteca

Maria Stella Calò Mariani, Termoli e Larino, due cattedrali, Roma, 1979.

Luisa Mortari, Molise, appunti per una storia dell’arte, De Luca Editore, Roma, 1984;

Ada Trombetta, Arte nel Molise attraverso il medioevo, CARIMMO, Campobasso, 1984;


IL PARADISO SECONDO CORREGGIO. LA CUPOLA DEL DUOMO DI PARMA

A cura di Anna Storniello

 

 

Il contesto

La cattedrale di Parma, intitolata a Santa Maria Assunta, ospita innumerevoli gioielli artistici delle epoche più disparate, a partire dalla sua fondazione nel 1059 fino al XVI secolo inoltrato. Il duomo si innesta in un contesto architettonico stilisticamente omogeneo, costituito dalla cattedrale stessa, dal battistero e dal campanile (Figura 1), caratterizzandosi per uno stile a cavallo tra il romanico maturo e il nascente gotico. L’impianto strutturale della chiesa è il romanico lombardo, contraddistinto da una facciata a capanna che riflette l’interno a tre navate, di cui quella centrale del doppio dell’ampiezza delle minori, e dotato di transetto.

Fig. 1 - Piazza Duomo di Parma vista dall'alto. Credits: Di Carlo Ferrari. - Fotografia autoprodotta, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=185754.

 

L'opera

All’intersezione fra navate e transetto si erge la grande cupola, la cui decorazione interna può essere considerata la protagonista assoluta del duomo, il capolavoro fra i capolavori: l’Assunzione della Vergine del Correggio (Figura 2). Antonio Allegri (1489-1534) detto il Correggio, dal nome della sua città natale, rappresenta una delle personalità di spicco del panorama artistico emiliano del secondo quarto del Cinquecento, oltre che una fra le menti creative più indipendenti.

Fig. 2 - Ascensione della Vergine, Correggio, Cupola del Duomo di Parma. Credits: Di Clop - Opera propria (Own work by uploader), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6609675.

 

La vasta decorazione venne commissionata dai fabbricieri del duomo sul finire del 1522, ma i lavori non iniziarono prima del 1524 e si conclusero nel 1530. L’impresa avrebbe dovuto coinvolgere non soltanto l’interno della cupola, il tamburo e i pennacchi, effettivamente affrescati dal Correggio, bensì anche le mura e la volta verso l’altare maggiore insieme al catino absidale stesso. Pertanto, il progetto non venne portato a termine così come era stato ideato. Non esistono prove che giustifichino l’abbandono dei lavori a metà, ma si sospetta che ciò che l’artista aveva già dipinto avesse provocato non poche rimostranze da parte dei committenti. Lo proverebbe l’affermazione di uno dei fabbricieri del duomo, che definì l’affresco, con intento poco lusinghiero, “un bel guazzetto di rane”, riferendosi all’affastellarsi apparentemente caotico delle figure. Senza dubbio i canonici del duomo trovarono difficile accettare una delle opere probabilmente più rivoluzionarie del Cinquecento e non solo.

 

Descrizione

L’affresco rappresenta un complesso meccanismo scenografico grazie al quale la superficie della cupola ne risulta sfondata, oltre la quale si apre un cielo denso di nuvole vaporose e affollatissime di personaggi. La narrazione inizia alla base della cupola, all’altezza del tamburo, ultimo riferimento reale e architettonico dell’intera decorazione, dove gli apostoli assistono increduli al miracolo dell’ascesa al cielo di Maria, poco dopo aver celebrato il suo funerale, testimoniato dalle fiaccole cerimoniali sorrette dai putti. Assorti dalla contemplazione, sembrano quasi non far caso alla turba folleggiante di creature che si libra sopra le loro teste, al di sopra dell'illusionistica cornice del tamburo (Figura 3). Angeli, efebi e beati partecipano tutti insieme, in una danza vorticosa, all’assunzione della Vergine in cielo, che con sguardo estatico spalanca le braccia in direzione del Figlio, mentre il turbinio di figure e nuvole la sospingono verso l’alto (Figura 4). Attorno a lei si accalcano figure sbigottite ed gioiose che a loro volta spalancano le braccia e sembrano muoversi convulsamente. Intanto, al centro del cono di luce che apre all’Empireo, troviamo Gesù che si precipita, letteralmente, ad accogliere Maria, mentre plana sgambettando in una posa ardita. Si presenta privo di elementi iconografici che ne permettano un’immediata identificazione o il riconoscimento della Sua divinità, come l’aureola o le stigmate (Figura 5). Una rappresentazione di Cristo tanto disinibita non ha assolutamente precedenti in pittura, scorci tanto audaci non erano mai stati immaginati, e molto probabilmente fu causa di non poche perplessità fra i committenti.

 

Alla sinistra della Vergine, in un corteo tutto al femminile, si susseguono diverse eroine bibliche, prima fra tutte Eva, dalla nudità sensualissima, che con la sinistra offre la mela ad Adamo, situato al versante opposto. A seguire Giuditta, che riconosciamo grazie alla testa di Oloferne ai suoi piedi, con il braccio solennemente levato, che quasi ne nasconde i tratti ma che le conferisce grande impatto visivo rispetto alle altre beate. A destra di Maria si dispiega, invece, la schiera maschile, primo fra tutti il pendant di Eva, Adamo, ritratto meditabondo, affiancato da Abramo e Isacco, che stringe tra le braccia l’agnello sacrificale, poi Sansone che indossa l’elmo e infine, a stento individuabile, Noè.

I putti rappresentano senza dubbio l’elemento più dinamico della composizione: immersi nei loro giochi o impegnati con i più svariati strumenti musicali, svolazzano nelle pose più stravaganti o siedono penzoloni dalle nuvole, come fossero di stucco. I putti, molto cari al Correggio, sembrano quasi inconsapevoli dell’evento sacro e ridono spensieratamente cimentandosi in acrobazie e danze intricate che li vedono ritratti in scorci estremamente audaci, risolti con grande maestria come mai era stato possibile prima.

Fig. 6 - Dettaglio, Angeli e putti, Assunzione della Vergine, cupola. Credits: By Antonio da Correggio - Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15452514.

 

L’intero affresco della cupola rappresenta un unicum nella storia dell’arte: una rappresentazione priva di un impianto architettonico, ma ugualmente capace di rendere l’illusione di un cono prospettico verso l’altro, esclusivamente per mezzo delle nuvole, dei corpi e del ruolo fondamentale della luce. Attraverso il chiaroscuro la luce plasma i corpi che si muovono vorticosamente verso il cielo, e attraverso lo sfavillante Empireo dorato, la luce avvolge gradualmente le figure fino a farne perdere i tratti. Correggio riesce così in un doppio intento: restituire un vortice di figure umane che ascende illusionisticamente al cielo e il coinvolgimento emotivo, oltre che visivo, dello spettatore, che non può che sentirsi magneticamente attratto dalla visione del Paradiso che gli si apre davanti agli occhi.

 

Fama

A dispetto delle critiche dei canonici del duomo, la carica innovativa di quest’opera insieme alla sua altissima esecuzione, garantirono a Correggio grande fama tra i più grandi artisti dei secoli a venire, tra i quali Tiziano, che affermò “Capovolgete la cupola, riempitela d’oro, non sarà mai pagata a dovere”. L’insegnamento della cupola del duomo di Parma trovò terreno fertile nel Seicento, quando rappresentò il modello sublime e imprescindibile di ogni cupola o soffitto affrescato, con cui ogni artista inevitabilmente dovette fare i conti.

 

 

Bibliografia 

S.J. FREEDBERG, Painting in Italy 1500 to 1600, Penguin Books, Harmondsworth, Midlesex, England 1970.

C. CHIUSA, Gli affreschi di Correggio, Electa, Milano 2008.

SETTIS, T. MONTANARI, Arte. Una Storia Naturale e civile. Vol. 3 Dal Quattrocento alla Controriforma, Einaudi Scuola, Città di Castello 2019.

DE VECCHI, E. CERCHIARI, Arte nel tempo. Dal Gotico Internazionale alla Maniera Moderna. Tomo I, Rizzoli Libri, Città di Castello 2018.


IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

A cura di Giulia Pacini

STORIA DELL'EPISCOPIO

BREVI CENNI STORICI SULL'EDIFICAZIONE DEL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

Il complesso monumentale del duomo di Osimo, chiamato anche complesso dell’Episcopio, è stato creato nel corso del tempo dagli interventi dei vescovi osimani che ne hanno voluto la realizzazione, e che hanno dato vita alla attuale diocesi. Gli interventi che caratterizzano questo insieme sono vari, perché riflettono appunto le varie fasi storiche che ne hanno visto la graduale realizzazione. La documentazione che racchiude in sé la storia di questo edificio è stata raccolta e sistemata da Monsignor Carlo Grillantini, uomo di chiesa e storico, a cui si deve la più completa indagine storiografica riguardante la città di Osimo e la sua cattedrale. La residenza vescovile, edificata, si ipotizza, dal vescovo Leopardo e diventata poi dimora del vescovo Berardo (1283-1288), crollò, venne ricostruita e poi crollò nuovamente. Tra il 1295 ed il 1320, sotto Giovanni Ugoccione, vescovo al tempo di Bonifacio VIII, furono compiuti i lavori di rifacimento, in quanto alcune parti del palazzo vescovile erano andate distrutte in seguito a eventi naturali (si registrarono scosse di terremoto che distrussero tale area). Non abbiamo tuttavia alcuna notizia di restauri o di ampliamenti consistenti. I grandi lavori che invece portarono la struttura ad essere quella che oggi conosciamo sono dovuti a due vescovi della nota famiglia osimana Sinibaldi, ossia Antonio (1498-1515) e Giovan Battista (1515-1547): dopo la ribellione di Boccolino di Guzzone, nel 1484, e i danni all'Episcopio che ne seguirono, al loro servizio episcopale fu riservato il compito della ricostruzione della cattedrale in primo luogo, e successivamente dell’Episcopio. Tale impegno ed operosità fu riconosciuto affiggendo una lapide con lo stemma Sinibaldi all'esterno delle mura a nord, all'altezza del Presbiterio, dove tuttora si trova (fig. 1 e 2).

Giovan Battista Sinibaldi si occupò in special modo dei lavori dell’Episcopio, che consistettero nell'unione dei due corpi di fabbrica già costruiti da Berardo ed Ugoccione, e cioè quello caratterizzato dai grandi finestroni che anche oggi sono visibili da nord-est e quello che corrispondeva alla cucina ed al tinello dei vescovi finché vi ebbero la loro abitazione. Furono costruiti anche altri corpi di fabbrica facilmente individuabili per la presenza di scritte e di stemmi dei Sinibaldi: l’architrave di una finestra del cortile interno del duomo, altri architravi delle finestre rivolte verso il palazzo comunale e, all'interno del palazzo, stipiti in pietra del piano nobile. Il Cardinal Anton Maria Gallo (1591-1620) fece costruire la parte che unisce il fabbricato dei Sinibaldi alla cattedrale; costruì anche la sacrestia con balcone a nord. Il Cardinale Agostino Galamini (1620-1639) ingrandì a nord il palazzo vescovile, innalzò un torrione per venerare la Basilica della Santa Casa di Loreto, costruì la cancelleria: l’opera del Galamini riguarda il corpo di fabbrica addossato al battistero da ogni lato. Lo stemma del Cardinale, collocato nella lunetta di ferro battuto che sovrasta l’attuale portone di entrata dell’episcopio, testimonia che la sua opera ha riguardato, sia pur marginalmente, anche il corpo centrale del fabbricato. Opera del Vescovo Pompeo Compagnoni (1740-1774) è il portone in legno massiccio, come indicano i due stemmi in legno e l’anno (1770). Un documento di eccezionale importanza per comprendere meglio le fasi di costruzione e la storia del complesso Duomo-Episcopio-Battistero, è stato rintracciato a Jesi, presso la Biblioteca comunale. Si tratta di un disegno che mostra nel dettaglio la planimetria del Duomo, del Battistero e del Palazzo Episcopale di Osimo, così da farci notare le differenze e le modifiche che sono state apportate all'antico complesso al tempo del Cardinal Bichi (1656-1691). Sulla base degli studi effettuati da Claudia Barsanti, è possibile pensare che la planimetria della nuova ala fosse stata eseguita su richiesta dello stesso Cardinal Bichi e destinata forse a suo fratello, Vescovo di Todi, che, non a caso, ebbe come successore Mons. Giuseppe Painetti, di cui ampiamente trattano i documenti jesini. La datazione di questo intervento pertanto si propone intorno al 1680.

IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO: PRINCIPALI INTERVENTI ARCHITETTONICI

Da un confronto dei dati acquisiti attraverso l’attenta lettura del disegno e di quelli già noti, emergono significative novità, come ad esempio la collocazione dell’altare maggiore del Duomo in posizione sopraelevata di alcuni gradini all'interno dell’abside, una sistemazione questa tra l’altro inedita. Solo qualche decennio dopo il Cardinale Giacomo Lanfredini (1734-1740) lo farà spostare verso la fronte del Presbiterio sostituendo quello del Bichi con un sontuoso manufatto incrostato di marmi policromi. Si deve al Cardinal Bichi anche lo spostamento della cattedra-trono episcopale che nel disegno compare addossata all'angolo sud dell’abside. Va inoltre segnalata la presenza di sei altari addossati alle pareti delle navate laterali, rimossi alla fine del XIX secolo, e di una scala esterna, addossata al campanile ed in parte alla parete sud del Duomo, attribuibile con ogni probabilità agli interventi del Card. Galamini: si notino i due archetti “faccia a vista” della parete attuale della Curia verso il cortile dell’Episcopio che potrebbero denunciare una relazione con tali rifacimenti. Altre novità, ma non di natura architettonica, riguardano il disegno, fino ad oggi sconosciuto, del giardino, con la esatta ripartizione degli spazi, dall'altezza della costruzione sopra Porta S. Giacomo. Anche se in forma schematica, il disegno appare piuttosto accurato ed è accompagnato da legende esplicative, corrispondenti ai numeri arabi posti nella planimetria. Troviamo riscontro dei lavori, specie per quanto riguarda il Palazzo episcopale, grazie alle informazioni che ci lascia Flaminio Guarnieri (1604-1684), il quale descrive nel dettaglio i lavori fatti eseguire dal Cardinal Bichi, a completamento di quelli precedentemente realizzati dal Cardinal Galamini, al cui nome si deve infatti ricondurre l’erezione di tutto il corpo di fabbrica meridionale addossato al Battistero, destinato al Vicariato ed alla Cancelleria. Non è difficile, commenta Grillantini, individuare quel nuovo corpo di fabbrica: Bichi costruì infatti il piano superiore che sovrasta la vecchia sacrestia del Vescovo Gallo, dando nuovo assetto agli ambienti settentrionali dell’ Episcopio fatto costruire dal Sinibaldi, creando una serie di stanze sopra le mura castellane, corrispondenti agli ambienti a nord segnati nella pianta al n. 24. Per quanto riguarda i sotterranei Grillantini fa notare che in quei camminamenti vi era uno stemma dei Bichi su una colonna di tufo. Viene infine descritto tutto il corpo di fabbrica annesso all'Episcopio che guarda la piazza del Comune, cioè l’alto palazzo addossato a levante del giardino, dove ora hanno sede gli uffici e gli ambulatori dell’ Unità sanitaria locale e la Banca Popolare di Ancona. Sullo spigolo sud-orientale di quella sorta di sperone che fronteggia il lato occidentale del Palazzo Comunale, risalta un’iscrizione fatta porre proprio dal Bichi che così recita: PARTEM HANC ARCIS / IAM DIRUTAE NOVUM / REDEGIT IN OPUS / ANT(onius) BICHIUS / EP(iscop)US AUX(imanus) / 1668 (Antonio Bichi Vescovo di Osimo ha trasformato in una nuova costruzione questa parte della Rocca già demolita Anno 1668). Un’altra iscrizione, posta in passato verso l’interno del giardino ed ora nell'androne della Curia, recita: D(eo) O(ptimo) M(aximo) / AD SUCCESSORUM COMMODA / HORREA CRIPTAS EQUILIA CARCERES / NOVAE MOLIS ACCESSIONE CONSTRUXIT / / ANTONIUS CARD BICHIUS EP(iscop)US / ANNO MDCLXX (A Dio Ottimo Massimo. Il Vescovo Antonio Cardinal Bichi costruì, con l’aggiunta di nuovi grandi edifici, i magazzini, le cantine, le scuderie, le carceri, per utilità dei Successori Anno 1670). Dopo il Bichi non furono realizzate altre grandi costruzioni: l’intervento dei vari Vescovi riguardò solo lavori complementari, tra i quali ricordiamo alcuni interventi significativi: il Cardinal Guido Calcagnini (1776-1807) abbellì l’interno dell’ Episcopio e fece costruire la loggia che dal giardino guarda la Piazza del Comune; Michele Seri-Molini (1871-1888) destinò il piano superiore dell’Episcopio a sede di un piccolo seminario da lui direttamente curato; Egidio Mauri (1888-1893) trasformò il piano superiore dei magazzini del Bichi in teatro. Qualche intervento lo fece anche Monalduzio Leopardi (1926-1944); si devono al Vescovo Domenico Brizi (1954-1964) un completo restauro, la ristrutturazione interna della parte dell’edificio vicina all'ingresso e la nuova sistemazione del cortile interno del Duomo, abbassato con il ripristino della vera da pozzo.

Fig. 4 - Pianta del Duomo di Osimo ritrovata a Jesi, nella biblioteca comunale. Archivio Pianetti, Fondo piante e disegni, 3/2
1. scale e loggia del Domo; 2. Chiesa del Domo; 3. Choro;
4. Sedia trono episcopale; 5. Stallo sedie de canonici; 6. Sedie de benefitiati;
7. Sedie de Magistrati; 8. Loco da far Credenza 9. Per li coristi – Scala di mezzo per andar al presbiterio, scale laterali per andare al medesimo e per di sotto di una chiesa sotterranea devota;
10. Ingresso al palazzo; 11. Cortile dove gira la muta; 12. Sala de staffieri;
13. Anticamera; 14. Cappella; 15. Camera d’udienza;
16. Retrocamera; 17. Screteria; 18. Camerini d’estate e d’inverno;
19. Appartamento da levante bono in ogni tempo per dormire nell’ultima camera verso il giardino; 20. Studiolo secreto; 21. Camera per la guardia;
22. Camera per robba da vestir; 23. Libraria senza libri; 24. Anticamera forestaria;
25. Corritore vicino alla sacrestia dove si va in chiesa nei tempi cattivi, e di dove si cala segretamente di sotto alle officine 26. Sacrestia della chiesa; 27. Stanza del capitolo;
28. Cortile; 29. Cimiterio; 30. Cancelleria del piano;
31. Di sopra appartamento per il vicario; 32. Galleria sopra vi sono tre camerini da sole; 33. Chisa di San Giovanni con un battistero di bronzo singolare;
34. Campanile; 35. Salone da passeggio, e per comedie, e per granaro; 36. Porta della città di San Jacopo. Dalla detta porta e strada sarà alto il detto piano delli detti appartamenti , circa quattro picche per esser nel colle. Sopra il numero 12, 14, 19 sino al 24 verso il cortile vi è commodo per tutti li cortigiani, di sotto le officine. Il giardino al piano nobile, come si è detto è attorniato di pergole di ferro;
37. Cortile basso; 38. Archivio secreto; 39. Pollaro e gallinaro;
40. Granari e per le biade; 41, Stalle capaci, e sopra pagliare e fenile; 42. Cortile della stalla. Sotto il numero 35, 38, 39 vi è un magazzeno detto de pilastri e più sotto habitat ione per li sbirri e carcere civili, e più sotto altre carcere e secreti al pian del cortile della stalla, dal quale per una scaletta è commodo pubblico si va al cortile del n. 11;
43. Altre rimesse per le carrozze. Sotto il palazzo vi è una grotta riguardevole, è con la cantina vi era circa cento botti. Stanze solide appararsi sono del numero 15, 16, 19, 24.

LO STATO ATTUALE DELLA STRUTTURA: IL MUSEO DIOCESANO

Nel 1978-79 furono rinnovati tutti i tetti; qualche anno dopo, nel piano superiore furono ricavati alcuni piccoli appartamenti per il Clero, usati poi per finalità di solidarietà e di carità, mentre nei primi anni ’90 alcuni importanti interventi hanno trasformato i piani seminterrati in accogliente sede per l’esperienza scoutistica, giovanile ed adulta; negli anni 1995-98 il piano nobile fu totalmente restaurato e dotato degli impianti a norma di legge per ricavarne la sede del Museo Diocesano, inaugurato il 24 ottobre 1998: sono 15 sale più un atrio ed un salone per il Museo e per gli usi pastorali della Parrocchia. La finalità museale degli ambienti recuperati ha guidato fin dall'inizio la progettazione del restauro, l’inserimento degli impianti negli ambienti e la predisposizione dei percorsi e dei servizi nel modo più funzionale possibile alle problematiche espositive delle opere del Museo, evitando le relazioni di conflittualità tra contenuto e contenitore tipiche di questo genere di realizzazioni in edifici storici a forte caratterizzazione architettonica. L’intervento architettonico progettato per l’ex sede vescovile, luogo naturale per la storia della Chiesa osimana e dei suoi vescovi, è stato intrapreso quindi dopo uno studio attento della collezione, avendo già stabilito percorsi, organizzazione degli spazi, ed una sufficiente definizione di quello che sarebbe stato l’allestimento, permettendo una precisa e corretta realizzazione del restauro. La situazione delle sale prima di tale intervento era quella di ambienti disomogenei e fortemente compromessi da precedenti modifiche ed alterazioni negli anni settanta, soprattutto nei pavimenti, con materiali diversi ed incongrui su tutta la superficie. Nel progetto di recupero, quindi, oltre al restauro conservativo delle decorazioni, pittoriche dei soffitti delle sale è stato introdotto, con l’applicazione di un pavimento di legno posato a secco dalle coloriture neutre a calce delle pareti, quell'elemento ulteriore che potesse costruire un contesto di continuità il più possibile omogeneo per lo svolgersi dell’esposizione. Per l’allestimento, il lavoro di ricerca storica e di selezione dei materiali svolto dalla committenza osimana è stato la base per la prima fase del progetto, svolto insieme ai progettisti con la precisa volontà di rendere comunicativa la nuova organizzazione delle opere da esporre, con le caratteristiche dimensionali ed architettoniche degli spazi, con l’unico obiettivo di rendere armonica la presenza dei materiali storici ed artistici all'interno degli ambienti recuperati. Un certo principio di mimesi sembrava essere, in questo caso, l’unico modo per poter superare l’innaturalità della raccolta museale in stanze di palazzo, e chiave di accesso alla relazione simbolica tra i materiali della storia religiosa osimana e la sede vescovile che li ospita. L’esposizione è organizzata in modo da indurre il visitatore a muoversi, da opera in opera, lungo lo sviluppo del racconto storico e gli spazi che furono della sede vescovile. Lungo il percorso compaiono i ritratti dei principali vescovi osimani, esposti con un pannello – cornice per contraddistinguerli dalle altre opere, contestualizzando la fruizione estetica con un ulteriore spunto di analisi in relazione alle figure della committenza. Tutte le strutture espositive e le vetrine sono state eseguite su misura e disegnate in modo da costituire un fondo neutro per il maggior risalto delle opere e, al tempo stesso, per una loro armoniosa presenza all'interno del museo, così fortemente caratterizzati dal punto di vista architettonico. Il coordinamento in fase di progettazione e realizzazione delle strutture espositive ha permesso di ottenere una perfetta omogeneità degli elementi che vi sono contenuti al suo interno.

Bibliografia

M. Massa, E. Carnevali Opere d' Arte nella città di Osimo, Ancona, 1999.
C. Grillantini Storia di Osimo, Recanati, 1985.


MILANO TRA LEONARDO E LUCIO FONTANA

Milano: la metropoli degli estremi

La metropolitana Milano, città di frontiera e del futuro, fu da sempre patria di possibilità e polo d’attrazione per giovani menti in cerca d’affermazione. La città svolse questo ruolo culturale fin dal Quattrocento, per poi continuare ad avere un ruolo preponderante per le nuove frontiere della contestazione, ricerca e sperimentazione artistica nel Novecento.

Leonardo

Giunse a Milano nel 1482 all'età di trent'anni, dopo essersi lasciato Firenze alle spalle, stabilendosi presso la corte di Ludovico Sforza, detto Il Moro, con l’idea di realizzare progetti ambiziosi. Prima della partenza sondò il terreno inviando una lettera di presentazione in cui elencò tutte le sue abilità in dieci punti, nove dei quali riguardanti le armi e le macchine da guerra al fine di farsi ben volere dal Moro, ed il decimo destinato all'illustrazione delle sue qualità in quanto artista. Nella lettera, rinvenuta nel Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, Leonardo si propose per la realizzazione del monumento a Francesco Sforza, di cui qui tratteremo in seguito, e si presentò artisticamente dichiarando:

In tempo di pace, sono in grado di soddisfare ogni richiesta nel campo dell'architettura, nell'edilizia pubblica e privata e nel progettare opere di canalizzazione delle acque. So realizzare opere scultoree in marmo, bronzo e terracotta, e opere pittoriche di qualsiasi tipo.

Potrò eseguire il monumento equestre in bronzo che in eterno celebrerà la memoria di Vostro padre e della nobile casata degli Sforza.Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando.

Quasi cinquecento anni dopo di lui, in una Milano più industrializzata e moderna, arrivò il giovane Lucio Fontana, fondatore del movimento spazialista che si propose di andare oltre la bidimensionalità della tela.

L’artista, nato in Argentina a Santa Fé nel 1899, giunse per la prima volta a Milano negli anni Venti per poi tornarvi e stabilirvisi nel 1927. In quell'anno si iscrisse all'Accademia di Brera dove si diplomò nel 1930, qui subì l’influsso del suo maestro Adolfo Wildt che vide in lui il continuatore della sua arte, ma che ne restò deluso non appena l’allievo decise di percorrere una nuova strada lontana dalla tradizione. A Milano ebbe un proprio atelier, attualmente lo studio Casoli, che prevedeva al piano terra uno spazio per la pittura e riservava i piani superiori al disegno e all'archivio.

Entrambi gli artisti furono collegati al grande cantiere del Duomo

Secondo Leonardo infatti il “malato duomo” aveva bisogno di un “medico architetto” che potesse curarlo, per questa ragione egli decise di farsi avanti per proporre un’idea più innovativa. Consegnò il modellino del tiburio

per poi ritirarlo subito dopo, in quanto non parve convinto di aver trovato una soluzione ottimale ed anche i committenti non ne furono entusiasti.

Anche Fontana prese parte al grande cantiere entrando nell'elenco degli scultori nel 1935 e realizzando dei bozzetti per il concorso della V Porta

ora conservati al Museo del Duomo nella diciassettesima sala. Qui è possibile ammirare i due bozzetti della porta intera del concorso di primo grado del 1951 e uno del concorso di secondo grado del 1952. L’artista vinse a pari merito con un altro concorrente a cui cedette il progetto.

Proseguendo nella trattazione è opportuno ricordare come Leonardo fu ampiamente studiato nel Novecento proprio per la sua utilità nei confronti del tempo presente, infatti il culto dei grandi del passato costituì un punto di partenza per migliorarsi, stando a quanto dichiarò il noto artista Carlo Carrà. Fu così che diversi studi evidenziarono la possibilità di tracciare dei parallelismi tra i due artisti incentrati sui concetti di semplicità e forza, ma anche su intuizione e azione mentale. In entrambi il concetto della semplicità, data da necessità e rigore, è inteso come la via più breve e necessaria, ovvero trovare il modo più efficace per quel singolo problema stilistico o tematico. Fontana richiama dunque all'intuizione leonardesca per cui ogni cosa in natura si fa per la sua linea più breve. Altro valore aggiunto da parte di entrambi è l’idea di un esercizio continuo di ricercare e incuriosirsi, muoversi e riequilibrarsi, sperimentare e verificare ogni problema e soluzione.

Inoltre per Leonardo e Fontana il disegno ha un ruolo fondamentale di palestra parallela d’esercizio quotidiano.

Tutti e due nel loro operato artistico si occuparono del tema della battaglia con cavalli,cavalieri e guerrieri, tema che comparì per Fontana nei disegni tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta. In particolare “Battaglia” del 1936 di Fontana

sembra essere una chiara rivisitazione moderna degli studi leonardeschi per la “Battaglia di Anghiari”, rispettivamente dei fogli 215 A

(“Due mischie tra cavalieri e pedoni”) da cui riprende l’espediente dei fanti o cavalieri accoppiati in lotta tra di loro nell'atto di colpire con la lancia, 215

(“Mischia tra combattenti a cavallo e studi di pedoni”) con una scena di lotta per lo stendardo e 216

(“Mischia tra cavalieri e pedoni, un ponte, due figure isolate”)custoditi presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. La differenza risiede nella scelta di Leonardo di non rappresentare lotte tra cavalli nella sua battaglia, nel suo disegno gli animali assumono forme saettanti a spire mentre in Fontana i cavalli si limitano a mantenere una presenza maestosa e monumentale. Quest’ultimo nel suo disegno conserva l’impostazione compatta ma dinamica leonardesca. In Leonardo l’effetto è quello di masse aggrovigliate in un movimento vorticoso, mentre Lucio concepisce una composizione in senso panoramico come in Anghiari ma che resta priva di dinamismo complessivo e movimento rotatorio che aggrega i gruppi. Per di più le linee grafiche di ambedue vogliono suggerire l’immediatezza dell’idea,la semplicità,e la dinamicità.

Entrambi si dedicarono con dedizione al tema del cavallo, solo o montato da un cavaliere, in posizione di quiete o preso da un vortice di battaglia che costituisce uno dei soggetti più diffusi e affrontati dagli artisti dall'antichità classica al Novecento.

Il cavallo fu affrontato da Fontana nelle varianti di accovacciato o in piedi, rampante o volante, e della coppia cavallo-cavaliere pensata per concorsi per monumenti equestri.

Negli anni Trenta del Novecento il cavallo nell'impeto dell’azione divenne simbolo dell’energia del movimento e del progresso, proprio secondo lo spirito futurista. Nei cavalli di Lucio si sovrapposero più suggestioni: dalle personali da gaucho della pampa, a quelle boccioniane e espressioniste fino ai modelli del passato come Leonardo che si pensava avesse scritto un trattato sull'anatomia del cavallo andato perduto.

Come ricordato precedentemente, Leonardo si propose a Ludovico il Moro per la realizzazione del monumento equestre per il padre Francesco Sforza

Tale progetto di dimensioni colossali vide un susseguirsi di diverse versioni, fino ad arrivare nel 1491 alla fase finale della messa in opera del modello definitivo, in cera e poi in terracotta, che attendeva la successiva fusione a cera persa del bronzo. L’impresa risultò estremamente difficile per la grande necessità di bronzo fuso da versare, per questo l’artista si dedicò a calcoli minuziosi in fase progettuale.Verso la fine del 1493, quando ormai il modello in creta era pronto e si doveva procedere alla fusione, l’opera fu ancora bloccata a causa della mancanza di metallo richiesto per la fabbricazione di armi dovuta all'imminente invasione di Carlo VIII di Francia in Italia, per la guerra contro il Regno di Napoli degli Aragonesi.

Egli svolse un lavoro meticoloso, si preparò infatti studiando le parti anatomiche più belle di ciascun cavallo col fine di assemblarle per pervenire alla costruzione di un cavallo ideale. Di quest’opera mai realizzata si possono osservare gli studi preparatori conservati al castello di Windsor. Secoli dopo il collezionista d’arte Charles Dent volle portare a termine il progetto leonardesco finanziandone una ricostruzione colossale

ma morì prima di vedere ultimato il progetto che fu portato a termine da Nina Akamu per poi essere collocato all’ Ippodromo di Milano.

Fu proprio a Milano che il giorno 22 ottobre 1939 si tenne presso il Palazzo dell’Arte, edificio sede della Triennale, la grande Mostra Leonardesca inaugurata il giorno del terzo anniversario della proclamazione dell’Impero fascista, suggerendo un’equivalenza tra quest’ultimo e l’impero del genio leonardesco. Qui fu posto all'ingresso della mostra il “Cavallo rampante dorato” di Lucio Fontana

per cui prese spunto da due disegni leonardeschi di cavalli impennati realizzati per la “Battaglia di Anghiari”, appartenenti alla Collezione Windsor. In questa scultura l’artista usa il colore oro per riprodurre l’indeterminatezza visiva tipica dello schizzo leonardesco, in generale il colore è da lui utilizzato in modo funzionale e complementare alla plastica lontano da ogni possibilità di naturalismo e volgendo l’immagine in una condizione di artificialità.

L’opera di Fontana è stata completamente dimenticata perché raramente divulgata già allora, ne rimane traccia in una didascalia e fotografia nella guida della mostra e in un articolo di Guido Piovene sul Corriere della Sera intitolato “Uomo che disegna” dove fornisce una descrizione in anteprima della mostra, scrivendo:

Nellatrio Bramante Buffoni, sovrapponendo figure fotografate in quadri di grandi maestri a uno sfondo dipinto, ha rappresentato uno spirito universale e conciliatore del nostro Rinascimento; e Lucio Fontana ha tratto da un disegno leonardesco un cavallo doro impennato, di eccellente fattura,  con le diverse prove e pentimenti della matita leonardesca, le gambe cresciute di numero nella foga del moto. Sulla parete laterale delle quattro sale seguenti un fregio di architetture e paesaggi dipinti con figure fotografate e sovrapposte, eseguito con gusto dal pittore Segota.

Fu dunque grazie a questa mostra che i due artisti entrano in contatto tra di loro, dando prova del già forte interesse per il genio di Leonardo e dimostrando, al tempo stesso, come l’arte non sia nient’altro che una somma del passato abitante nella memoria e del presente edificabile nel quotidiano per protendersi ad un orientamento verso il futuro.

Come scrisse lo stesso Leonardo: A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s'accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.

 

 

Bibliografia:

  • “Itinerari di Lucio Fontana a Milano e dintorni”, Paolo Campiglio
  • “Lucio Fontana e Leonardo da Vinci”, Davide Colombo

 

Sitografia:

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