IL DUOMO DI LECCE E I PROPILEI

A cura di Rossana Vitale

LE FORME DEL BAROCCO: I PROPILEI

Tra il XVII e il XVIII secolo la città di Lecce parlava un’unica lingua artistica: quella del Barocco, che con le sue decorazioni piene, le sue esuberanze e i profondi significati simbolici nascosti nei suoi ornamenti aveva dato un’impronta omogenea alla città. Nonostante il Barocco, secondo Benedetto Croce, dovesse essere relegato alla periferia, in quanto “fenomeno di degradazione, non essendo né uno stile né un movimento, ma al massimo una categoria del brutto o un pervertimento”, questo fiorì velocemente nella città salentina, barocca al pari di Roma, che negli stessi anni vide la magnificenza delle opere di Borromini e Bernini, solo per citare due importanti artisti.

Una tra le “scene” artistiche a dover essere migliorate dall'arte barocca in quegli anni era la Piazza Duomo, che ospitava appunto il Duomo di Lecce e che necessitava di un nuovo ingresso degno dell’alto livello di tecnica e di raffinatezza raggiunto dagli altri edifici, simbolo del potere ecclesiastico. Il vescovo Alfonso Sozi Carafa, grande ispiratore di opere come il suo predecessore - il vescovo Pappacoda - decise di affidare al suo architetto di fiducia, Emanuele Manieri, la sistemazione del prospetto di ingresso alla piazza del Duomo e all'adiacente Palazzo Vescovile, eliminando l’antico portale d’accesso sormontato da una meridiana e dall'orologio.

L’architetto non era nuovo ai lavori in questa piazza, avendo dato già prova di grande ingegno nella sistemazione dello stesso Palazzo Vescovile.

La scelta progettuale del Manieri non fu semplice, e piuttosto che optare per un nuovo portale o per un arco di trionfo celebrativo, decise di sfruttare al meglio l’esiguo spazio che aveva a disposizione, dando vita ai “Propilei”.

Dall'elaborato profilo planimetrico, i Propilei non sono autonomi dalla scena che introducono: sono invisibili finché non vi si arrivi davanti, ma la loro presenza prospettica dà il benvenuto e invita ad entrare nella piazza, raccordando tutti gli elementi qui presenti in una specie di grande cerchio, di cui essi sono l’ingresso e l’uscita, e in cui si susseguono a partire da sinistra il Campanile, il Duomo, il Palazzo Vescovile e il Palazzo del Seminario. È come se rappresentassero un confine netto tra la strada del corso, viva e chiassosa, e la piazza, silenziosa e raccolta. Una volta che si oltrepassa questo varco si rimane senza fiato per la bellezza che ci si trova davanti.

Le costruzioni nella piazza hanno altezze e misure molto diverse tra loro: per ovviare a questo problema visivo i Propilei, vere e proprie quinte di pietra, mantengono un unico asse prospettico non simmetrico che determina la cosiddetta “struttura a cannocchiale”, e che permette di dare allo spettatore un unico punto di traguardo.

Nel cerchio rosso si vede la planimetria dei propilei, mentre nel rettangolo il punto di fuga prospettico, cosi come anche quello dello spettatore, sulla facciata laterale del duomo.

Entrambi i Propilei hanno un profilo mistilineo e sono dotati di balaustra su cui si imposta la loggia con le statue dei Santi Oronzo, Irene e Venera da una parte e di tre Padri della Chiesa dall'altra, ognuno con un orientamento spaziale differente: i due personaggi adiacenti alla strada sono rivolti in quella stessa direzione, i due centrali guardano all'interno del varco e i due prossimi alla piazza sono girati verso di essa. Accompagnano il percorso del visitatore, accogliendolo, e proseguono con lui. Subito al di sotto della balaustra, centralmente, si presenta lo stemma del vescovo.

La parte superiore, oltre la balaustra e le statue, si configura come una porzione trapezoidale irregolare, con il lato maggiore prominente verso l’esterno al fine di indirizzare un’apertura prospettica al di fuori della piazza.

Le due strutture sono connesse tra di loro mediante svasature e raccordi, così da determinare una dilatazione visuale sulla piazza: entrambe suddivise da un sistema di tre paraste, una disposta centralmente e le altre due ruotate alle estremità, risultano solo apparentemente speculari tra loro.

IL DUOMO DI LECCE: L'ESTERNO

Appena oltre questo benvenuto scultoreo si apre al visitatore, con il numero civico “13”, la bellezza della fastosità barocca rappresentata dalla facciata laterale del Duomo di Lecce, ricostruito tra il 1659 e il 1670 laddove sorgeva un’altra chiesa, demolita nel 1658, per conto del vescovo Pappacoda e per mano di Giuseppe Zimbalo.

Presenta due prospetti: quello principale è adiacente al Vescovado, poco visibile pur essendo il punto di fuga dei propilei, ed è anche la proiezione esterna della divisione interna della fabbrica.

Con un sistema di paraste scanalate la facciata, così come l’interno, è divisa in tre sezioni verticali - quindi tre navate - e due ordini orizzontali, popolati dalle statue di San Pietro e San Paolo, San Gennaro e San Ludovico, riconoscibili dalle iscrizioni lapidarie poste al di sopra. Sul timpano che chiude in alto questa prima facciata si trova un finestrone rotondo decorato con motivi curvilinei. È stata concepita pulita e sobria, proprio perché non è la facciata che accoglie il visitatore, quindi non deve stupire. Vi si apre il portone d’ingresso rifatto dallo scultore Armando Marrocco nel 2000, anno del Giubileo, per volere di Monsignor Ruppi: raffigura in alto Cristo che in una nuvola risorge tra Padre e due scene separate tra loro. La chiesa universale che incontra la chiesa locale in basso e l’Assunzione della Vergine e la visita di San Giovanni Paolo II a Lecce nel 1994, in alto.

L’attenzione quindi viene totalmente catturata dalla magnificenza barocca del prospetto laterale, che risulta diviso anch’esso in tre sezioni verticali, con il portale inquadrato da due colonne sfarzose, con capitelli corinzi in alto e due corone a tre quarti della lunghezza, abitate queste da due grandi putti coperti da un drappo. Tuttavia la ripartizione in due ordini orizzontali è quella più interessante da un punto di vista artistico: la decorazione nei minimi particolari è una delle rappresentazioni di punta del Barocco Leccese.

Ai lati del portale i compatroni della città, i Santi Giusto e Fortunato, occupano due nicchie, mentre sulla lunetta del portale tre putti si appoggiano su di un festone composto da melograni e altri frutti e piante intrecciati tra loro. Questa rappresentazione si ripete anche sulla base dell’architrave, abitata da tanti piccoli putti che mantengono tra di loro piccoli festoni, simili a quello più grande al di sopra.

Sulla ricca balaustra svetta un arco - la cui cornice è piena anch’essa di melograni, simbolo di ricchezza e fecondità - in cui campeggia maestosa la statua di Sant’Oronzo, accompagnato da due putti ai suoi lati: con ricchi paramenti vescovili, mitra e bastone del comando, con la mano in segno benedicente. In alto lo stemma del vescovo Pappacoda chiude la facciata.

IL DUOMO DI LECCE: L'INTERNO

All'interno la struttura del Duomo di Lecce è a croce latina, con tre navate divise da pilastri con semi-colonne addossate, ed ogni navata ospita quattro cappelle:

  1. cappella di San Giovanni Battista;
  2. cappella dell’Annunziata;
  3. cappella di San Fortunato;
  4. cappella di Sant’Antonio da Padova.

Il soffitto è ligneo a lacunari dorati e tele incastonate, realizzate per mano di Giuseppe da Brindisi e Carlo Rosa.

Il primo ha composto: 1. la predicazione di Sant’Oronzo, in cui il santo è raffigurato mentre mostra ad una folla di adoranti ai suoi piedi la croce sulla quale è morto Gesù; 2. la protezione dalla peste, in cui Sant’Oronzo scende dal cielo, e con l’aiuto di tre angeli che mantengono il bastone del potere vescovile, la palma simbolo del martirio ed una spada simbolo della decapitazione, difendono la città rappresentata sullo sfondo dalla peste, raffigurata come un uomo dalle sembianze demoniache; 3. martirio di Sant’Oronzo, che attende prono l’esecuzione della decapitazione, mentre un putto sopra di lui lo attende con l’aureola della santità e la palma del martirio.

Mentre per mano di Carlo Rosa abbiamo: 1. l’Assunzione della Vergine; 2. l’Ultima Cena, all’incrocio del transetto con la navata, si presenta come una scena affollata, in cui però è subito riconoscibile Giuda, seduto in primo piano su di uno sgabello con in mano un sacchetto blu con le monete ricevute per il tradimento.

Per tutti gli elementi che caratterizzano l’interno del Duomo di Lecce, per la loro bellezza e fastosità, è necessaria una trattazione specifica a parte, che sarà oggetto del prossimo articolo.

 

Bibliografia

Cazzato e M. Cazzato, a cura di, “Atlante del barocco in Italia. Lecce e il Salento. Vol.1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco.” ed. De Luca, 2015

Fagiolo, M.L. Madonna, a cura di, “Il Barocco romano e l’Europa. Centri e periferie del Barocco. Vol.1”, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992

Cazzato “Puglia Barocca”, ed. Capone, 2013

Cazzato “Il Barocco Leccese”, ed. Laterza, 2003

 

Sitografia

www.brundarte.it

www.puglia.com


LA BASILICA DI SAN GIOVANNI O DEL ROSARIO

LA BASILICA MINORE DI SAN GIOVANNI BATTISTA O DEL ROSARIO A LECCE

Sul sito di una precedente costruzione risalente al 1348 - anno di arrivo dei domenicani  a Lecce- nel 1691 iniziano i lavori della basilica di San Giovanni Battista o del Rosario, in una città in cui si stava vivendo il pieno sviluppo dei canoni dell’arte Barocca, di cui ne è fortemente investita partendo dal modello romano. Barocco come fenomeno artistico che si afferma in maniera totalitaria nel territorio salentino grazie all'assimilazione e alla reinterpretazione delle forme medievali, all'autonomia delle forme rispetto ad altre zone e soprattutto all'utilizzo della pietra calcarea leccese, duttile sotto le mani degli artisti, che rendeva possibile la decorazione di tutti gli elementi architettonici: colonne, fregi e capitelli con festoni, ghirlande, angeli e putti.

I lavori della Chiesa furono affidati ad un ormai anziano Giuseppe Zimbalo, che contribuì tra l’altro al finanziamento e che qui richiese ed ottenne sepoltura, quando nel 1710 muore. Alla sua morte i lavori passarono nelle sapienti mani di Giulio Cesare Penna il giovane e Leonardo Protopapa, fino al completamento nel 1728.

Il prospetto esterno si presenta esuberante e movimentato, diviso in tre ordini come da richiamo ad altre opere dello Zimbalo - una su tutte la Basilica di Santa Croce - da due lunghe balaustre che seguono l’andamento dell’intera struttura. Il registro inferiore si presenta diviso in cinque volumi scanditi da numerose paraste e da due voluminose colonne con scanalature a spirale a maglia stretta, con due corone di fiori e piccole pigne - più o meno ad un terzo dell’altezza - che ne spezzano l’andamento. Le colonne incorniciano il portale sormontato dal simbolo dei domenicani e dalla statua di San Domenico Guzman.

Ai lati del portale ci sono due nicchie con San Giovanni Battista e beato Francesco dell’Ordine dei Predicatori, caratterizzate dalle decorazioni a punte lanceolate, anche queste tipiche delle decorazioni di Zimbalo.

Le due possenti colonne poggiano su una base di forma rettangolare che ritroviamo nella forma dei due alti plinti che ai lati dell’intero prospetto chiudono la facciata ed ospitano due statue: al momento ne è presente solo una, ed è quella di San Tommaso d’Aquino. Caratterizzanti sono i capitelli corinzi in cui terminano: tra i classici motivi floreali trovano spazio anche cavalli alati e una sirena bicaudata.

Quest’ultima è uno degli elementi che il Barocco leccese ripete molte volte nelle sue decorazioni, ma è uno di quegli elementi di chiara provenienza medievale, in cui risiede una simbologia dicotomica tra pagano e cristiano, tra peccato e fertilità.

Una trabeazione alta e liscia, sormontata da una cornice fortemente aggettante, divide il registro inferiore da quello superiore, caratterizzato da una lunga balaustra che segue l’andamento della facciata, ed è decorata da grandi trionfi floreali e dieci statue di piccoli putti posti su dei piedistalli sferici, rappresentanti le visioni del profeta Ezechiele.

Al centro di questa balaustra si trova la statua della Vergine, in corrispondenza del finestrone, che funge, quindi, da elegante e profonda nicchia. Ai suoi lati altre due nicchie con statue di santi e i trionfi floreali sulle volute: queste nicchie collegano, visivamente, i due registri della facciata.

Nel terzo registro più in alto, una balaustra più bassa chiude la facciata separando questa sezione dal timpano mistilineo in cui altri trionfi floreali, più piccoli rispetto ai precedenti, scandiscono lo spazio insieme a candelieri e due statue ai lati, di cui adesso ne è presente una.

L’interno della Basilica, a croce greca, presenta un grande vano ottagonale coperto da capriate lignee: in origine infatti il progetto prevedeva una copertura con una cupola, mai realizzata data l’ampiezza prevista da Zimbalo e la sua morte arrivata prima dell’inizio dei lavori di questa struttura. Tutto il perimetro della fabbrica è segnato da numerose nicchie con statue di santi e dodici cappelle con altrettanti ricchi altari barocchi sei-settecenteschi: dall'ingresso troviamo posizionati gli altari di Santa Caterina da Siena e del Battesimo di Gesù, entrambi della prima metà del XVII secolo su disegno di Manieri.

Proseguendo verso sinistra si susseguono gli altari della Natività di Gesù, della Madonna del Rosario e della Natività di Maria. Il presbiterio accoglie l’altare maggiore in pietra leccese e diversi dipinti tra qui quello più importante con la tela raffigurante la Predicazione del Battista (forse di Oronzo Letizia, artista di Alessano) di patronato dei Montefusco.

Continuando, trovano posto gli altari dell’Assunta, del Crocifisso e di Santa Rosa da Lima, in cui trova spazio una tela del 1735 di Serafino Elmo.

Tutte le ricche colonne degli altari sono di tipo salomonico, modello che si afferma dapprima negli altari della chiesa di Sant’Irene: funge da quinta scenica per le rappresentazioni sacre. Sul fusto tortile si avvolgono tralci di vite e grappoli di uva, simboli del sangue di Cristo che si trasformano in vino tramite la celebrazione dell’Eucarestia. La decorazione a tutto tondo diventa sempre più elaborata e l’andamento ascensionale , curvilineo, sensuale, permette di rispondere ai bisogni di chiaroscuro del barocco, insieme ai bisogni di movimento, di esuberanza artistica e di significati. Le varietas di tutti questi bisogni si manifestano nel numero di spire e nei cambiamenti delle decorazioni man mano che si sale dalla base al capitello, che, prevalentemente corinzio, sembra essere avere la forma di una corona.

Un’ulteriore differenziazione sta anche nella disposizione numerica delle colonne in diversi ordini: singole, binate o trine, in cui la terza colonna è di rinforzo alle altre due e presenta un forte gioco di dimensioni tale da permettere un’integrità di visuale prospettica - esempio è l’altare del Crocifisso -.

Nelle cappelle dell’ottagono ci sono altri quattro altari dedicati a San Tommaso d’Aquino, San Vincenzo Ferrer, San Domenico e San Pietro martire.

Il pulpito cesellato, proprio vicino all'altare di San Domenico, anch'esso in pietra leccese, rappresenta la scena della visione dell’Apocalisse, l’unico delle chiese leccesi ad essere realizzato in pietra.

Lungo il perimetro dell’intera struttura trovano spazio gli stemmi scolpiti delle famiglie aristocratiche di Lecce che contribuirono alla realizzazione della chiesa, mentre sulla contro-facciata si conserva il cenotafio di Antonio De Ferrariis, chiamato anche “il Galateo”, con ritratti ed epigrafi marmoree del 1651 e 1788.

Adiacente alla Basilica di San Giovanni o del Rosario si trova il convento dei Domenicani, ricostruito dal priore Contegresco, che realizza le stanze superiori e il chiostro su due pilastri, il cui prospetto, attribuito ad Emanuele Manieri, è scandito da sei paraste di ordine gigante e delimitato alle estremità dai due portali raccordati mediate volute ai balconi sovrastanti. Attualmente è sede dell’Accademia delle Belle Arti.


IL CASTELLO DI COPERTINO IN PROVINCIA DI LECCE

Le origini e l'edificazione: il Castello di Copertino.

Compreso tra la via vecchia di Leverano e i confini di Arnesano e Monteroni di Lecce, popolato gradualmente nei secoli e coperto a tutt'oggi da vigneti ed uliveti rigogliosi, è il paese di Copertino. Della sua nascita viene riportata notizia in una cronaca del 1552 conservata nell'archivio Vescovile di Nardò e che cita testualmente:

“...che vedendo esser nell’anno 560 distrutte dai Goti li castelli e le terre di Casole, San Vito, Mollone, Cigliano e San Nicolò si diedero a credere che l’abitatori di detti luoghi si fussero uniti a fabbricarsi una nuova terra che dalla diversità dalle genti indi convenute, la chiamano Cupertino".

La sua cinta muraria era di forma ovoidale, racchiudeva un dedalo di strade e piccole cappelle, su cui dominava - e domina - la mole della Torre Angioina; il Castello di Copertino si erge possente, infatti da qualunque strada si arrivi al paese si scorge subito questa costruzione, nata a difesa dei casali circostanti.

E’ difficile ricostruire i diversi momenti dell’edificazione: il nucleo originario può essere ricondotto al programma di riorganizzazione militare di Carlo I d’Angiò, che nominò il paese sede amministrativa di contea. Nel ‘500 il marchese Alfonso Castriota, generale di Carlo I avviò i lavori di rammodernamento del Castello affidando i lavori ad Evangelista Menga: inglobò le strutture preesistenti in un impianto quadrangolare coronato da quattro poderosi bastioni angolari e circondato da un ampio fossato.

Negli anni la costruzione è passata attraverso diverse famiglie, dagli Squarciafico ai Pinelli, dai Pignatelli ai Belmonte.

Trascurato per anni, il Castello di Copertino ha rischiato il degrado, adibito com'era a presidi militari o a usi ignobili fino a che nel 1875 è stato dichiarato Monumento Nazionale e quindi sottoposto ai vincoli per la conservazione e la tutela.

L’edificio, come detto prima, con i quattro bastioni angolari lanceolati, racchiude elementi antichi, tra cui svetta il mastio angioino, circondato da un profondo fossato lungo tutto il perimetro. Dinanzi ad esso, quello che colpisce immediatamente è la profonda diversità delle costruzioni che si sovrappongono le une alle altre, difformi nella concezione e nello stile, specchio delle esigenze e dei capricci dei diversi signori che lo hanno abitato e che lo adibirono ad usi differenti.

Evangelista Menga raccolse nel magnifico portale rinascimentale tutte le numerose Signorie: sui 20 medaglioni scolpiti, si identificano i ritratti di imperatori e conti, in ordine cronologico, come fossimo in una narrazione delle vite che hanno abitato il Castello fino al 1540.

L’arco che sovrasta l’architrave, ad esempio, è stato scolpito in chiave fortemente allegorica, con la rappresentazione delle armi (cannoni, frecce, corazze) vinte dagli Aragonesi nella battaglia contro gli Angioini.

Al di là del portale, ci si ritrova in un atrio coperto da volte a botte, in cui si affacciano strutture di epoche differenti, tra cui la piccola cappella di San Marco al cui interno sono collocati i sarcofagi degli Squarciafico, detentori del Castello dal 1557 e committenti anche del ciclo di affreschi che decora l’ambiente, opera del pittore copertinese Gianserio Strafella.

Le piccole dimensioni hanno influito sull'inusuale disposizione del portale rispetto al rosone, spostato sulla destra rispetto al prospetto della porta: l’altare all'interno, spoglio, è accompagnato ai lati dai due sarcofagi di Umberto e Stefano Squarciafico, in pietra leccese opere di Lupo Antonio Russo. Delle pareti e della volta affrescate e restaurate rimangono per i visitatori le immagini di San Sebastiano, Santa Caterina d’Alessandria e San Giacomo di Compostela, i quattro Evangelisti e alcuni episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Tornando al portale del Menga, visto dall'interno, vi sono alle due estremità due teste coronate, Carlo I d’Angiò e Maria d’Enghien, e al centro un cavaliere armato che viene raffigurato nell'atto di uccidere il nemico.

Attraversando l’atrio coperto, ci si ritrova nell'atrio interno scoperto a sinistra del quale vi sono due grandi archi sfalsati, che attraverso un ulteriore portico immettono in due gallerie sud sovrapposte e comunicanti tra loro attraverso strette scale interne.

Qui troviamo il Palazzo Pignatelli, sotto il cui intonaco ancora campeggiano elementi architettonici in stile romanico, gotico e normanno; stessi elementi riscontrabili all'interno, con doppie pareti e archi a sesto acuto che sorreggono le mura perimetrali. In condizioni accettabili è la ghera del pozzo, antistante a questa sezione di palazzo.

A destra invece sono presenti più ingressi che portano alle gallerie del piano terra: il più grande tra questi ingressi dà accesso all'antica costruzione di origine normanna, in parte interrata e adibita, originariamente, a scuderia: i pilastri e gli archi imponenti hanno consentito la costruzione dei tre piani sovrapposti, senza che la volta a botte e le pareti laterali subissero danni strutturali.

Una scalinata scoperta conduce al piano superiore in cui gli ambienti quattro-cinquecenteschi caratterizzano il cosiddetto Palazzo Vecchio; a metà rampa si apre la Cappella della Maddalena con i resti del suo ciclo pittorico affrescato risalente alla prima metà del 1400. Una parte di questi sono conservati presso il centro restauro della Sovrintendenza a Bari, mentre altri sono stati staccati e ricomposti in una sala del Castello. Altre sinopie sono ancora visibili e raffigurano Caterina d’Enghien e la regina Isabella, nell'atto di pregare.

Negli anni, tutti i diversi feudatari hanno più volte modificato questo palazzo, come già detto in precedenza, secondo il gusto e l’arte del proprio tempo: gli archetti che sostengono ed ornano il cornicione sono tutti diversi, simboli intatti delle maestranze che li hanno realizzati. Colonne e capitelli, così come anche le pareti interne sono state indegnamente cancellate, intonacate e trasformate in epoche differenti.

La torre - o mastio - angioina campeggia e domina dall'alto l’intera costruzione, costituita da tre piani sovrapposti con volta a botte e grande camino di stile gotico. L’ingente spessore delle murature è stato, e lo è ancora, un aspetto provvidenziale per la sua stabilità, salvandola dalla rovina. Ed è in questo spessore che sono state ricavate le scale che mettono in comunicazione i diversi piani sino al terrazzo.

Infine, a circondare tutto il Castello di Copertino troviamo 600 metri di fossato: scavato nella roccia, presenta, davanti al portale di ingresso, un ponte in pietra di tufo a 2 arcate. Il livello inferiore è aumentato rispetto al passato per via dei detriti e del terriccio depositato nei secoli: per questo motivo alcune feritoie, le più basse, risultano interrate.

Sotto il primo bastione corre un’ampia galleria scavata nella roccia, che dai sotterranei della torre termina direttamente nel fossato. Il secondo bastione, a sud-ovest, presenta la cosiddetta Porta Falsa, in posizione opposta rispetto al portale principale, che serviva per l’intervento dei difensori al di là delle mura in caso di assedio.

Sullo spigolo del bastione a nord-ovest, invece, un tufo più sporgente reca i segni di un altorilievo diventato indecifrabile, oggetto di credenza popolare: si ipotizza che l’altorilievo  raffigurasse un drago, al quale si attribuisce la colpa di aver ingerito tutta l’acqua del fossato, lasciandolo a secco.

Al lato nord, ad est del fossato, trova spazio una piccola casa di tufo quadrata, chiamata Casa delle Decime, che un tempo ospitava i gabellieri; attraverso una scala si scendeva al trappeto sotterraneo del Castello di Copertino, oggi adibito, durante le festività natalizie, a luogo per il Presepe.

Percorrendola e proseguendo più avanti, si arriva al Posto di Guardia a ridosso dell’arco di San Giuseppe, antica porta di accesso al centro abitato.

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