CREDI RELIGIOSI E PAGANI NEL CUORE DI NAPOLI

Credi religiosi e pagani di Napoli: da Piazzetta Nilo al "Corpo di Napoli"

Passeggiando lungo il Corso Umberto I, meglio noto come “Rettifilo”, salendo via Mezzocannone, sede storica di diverse facoltà dell’Università di Napoli, ci si imbatte in una cappella storica, le cui forme architettoniche fanno da angolo di strada tra via Mezzocannone e Piazzetta Nilo. Più che di chiesa, sarebbe però corretto parlare di Cappella; la Chiesa di Sant’Angelo a Nilo, infatti è la Cappella Brancacci, tempio di origine medievale, ampiamente rimaneggiato agli inizi del Settecento, fino ad assumere le forme tardobarocche come lo vediamo oggi. Un tempio che fa cominciare questo viaggio fra i credi religiosi e pagani di Napoli.

Fig. 1 - copyright : wikipedia

La facciata della Chiesa si presenta su Via Mezzocannone, mentre sulla citata piazzetta, si apre un varco laterale.

L’ingresso principale è dotato di un architrave con figure in mezzorilievo di angeli e santi con l’affresco nella lunetta soprastante che raffigura la Vergine e i Santi Michele e Baculo che presentano il cardinale Brancaccio, databile al secolo XV che per via delle scarse condizioni di conservazione in cui ha versato, fu per un periodo staccato e conservato in sacrestia, per poi esser ripristinato nella sua ubicazione originale. Alla stessa datazione risale inoltre il portone ligneo con sei figure intagliate in altrettanti riquadri (tre per lato) di San PietroSan LorenzoSant'Antonio da PadovaSan PaoloSan Giovanni Evangelista e San Domenico; mentre il portale laterale presentava invece nella lunetta una raffigurazione scultorea di San Michele, poi trasferita all'interno della chiesa.

La chiesa è a navata unica, di forma rettangolare, senza transetto e con due sole cappelle e una sacrestia, tutte sul lato destro.

L'interno presenta un arredo marmoreo databile tra il  Seicento ed il Settecento, non presenta panche al centro della navata, ma semplici sedie di legno.

Immediatamente sul lato destro della navata, invece, si apre la cappella di Santa Candida iuniore delimitata da una bella cancellata settecentesca di ottone e ferro battuto, dove sono conservate le reliquie della matrona Candida "la Giovane", risalenti al VI secolo, che è stata erroneamente venerata come santa sino agli ultimi decenni del Novecento.

Fig. 2 - copyright : wikipedia

Alla destra dell'altare vi è la cappella che custodisce nella parete frontale il sepolcro del cardinale Rinaldo Brancacci,  una delle più importanti opere scultoree presenti nella città di Napoli.

Fig. 3 - copyright : wikipedia

Il Monumento Brancacci è opera di Michelozzo  e di Donatello. E’ in marmo di Carrara, alto 11 m, fu scolpita a Pisa tra l 1426 ed il 1428 e giunse in città via mare. Donatello di certo  scolpì una Assunzione della Vergine sul rilievo del sarcofano, mentre il resto dell’opera scultorea è di Michelozzo; sue sono anche le Virtù che reggono il sarcofago stesso, rappresentate da tre figure femminili, che fanno da cariatidi, è inoltre decorata con gli stemmi del cardinale.

L’impianto è di ordine rinascimentale con un grande arco su colonne che urtano  con le pendenti cortine, tipiche dei sepolcri gotici e che pende dall’alto,  che interrompono il giro dell’arcata; La struttura è completata da un alto frontone mistilineo a cuspide, al centro del quale osserviamo la raffigurazione del Padreterno affiancato da due conchiglie, e ai cui lati troviamo due angeli che suonano la tromba.

Nella restante ornamentazione plastica, ben si manifesta lo stile di Michelozzo, caratterizzato dalla fermezza e dalla solidità dell’impianto strutturale delle figure e dal largo modellato plastico, in cui si esplica la semplificazione e quasi la geometrizzazione degli elementi.

l’Assunzione non sarebbe, però, l’unica opera di Donatello presente a Napoli, infatti esiste una testa di cavallo destinata, con ogni probabilità, a un (incompiuto) monumento ad Alfonso V d’Aragona e che attualmente si trova al Museo Archeologico Nazionale della città.

Quello che è certo, è che il monumento è il primo dell’età rinascimentale realizzato in città.

Fig. 4 - copyright : wikipedia

Altra opera degna di nota, è sicuramente la tela raffigurante “San Michele Arcangelo “ di Marco Pino.

Uscendo dalla chiesa, volgendo lo sguardo verso l’alto, come se si volesse dare un’ultima fugace veduta ad un piccolo scrigno, sulla controfacciata, lo sguardo, inevitabilmente cade sull’organo…racchiuso entro una cassa lignea riccamente intagliata e decorata, è a canne barocco, costruito nel XVIII secolo da un organaro ignoto.

Lasciata la chiesa, un piccolo scrigno di arte e di silenzio, il visitatore si ritrova immerso, suo malgrado, non solo nel  pullulare di vita colorata e bancarelle della Napoli dei giorni nostri, facendo un (quasi violento!) salto nel tempo e nello spazio, ma a pochissimi metri dall’Egitto…Si passa, così, dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli.

Esatto! Proprio in Egitto…eppure è a Napoli…nel “largo Corpo di Napoli”, all'ingresso di Spaccanapoli, nel cuore della città, dove, fiera, troneggia la Statua marmorea del Dio Nilo….

Fig. 5 - copyright : wikipedia

Ai tempi della Napoli greco – romana, infatti, qui si stabilirono numerosi egiziani provenienti da Alessandria d’Egitto,i quali decisero di erigere una statua che ricordasse  il fiume Nilo, elevato ai ranghi di divinità portatrice di prosperità e ricchezza.

La statua è in marmo e risale al II / III sec. d.C., ma nei secoli successivi, visse momenti e secoli  di abbandono, tanto da cadere in un vero e proprio oblio, fu quindi ritrovata acefala verso la metà del XII secolo.

La scultura raffigura il Dio Nilo come un vecchio barbuto e seminudo disteso sulle onde del fiume, con i piedi posti vicino alla testa (non più visibile) di un coccodrillo, simbolo dell'Egitto, e che si appoggia col braccio sinistro su una sfinge, mantenendo con la mano destra una cornucopia.

Al petto cerca di arrampicarsi invece l'unico putto superstite dell'originaria composizione, probabilmente raffigurante un affluente del fiume.

Il putto che si arrampica ha portato a diverse interpretazioni, come ad una mamma che allatta il suo bambino e da qui la denominazione di “corpo di Napoli” o meglio “cuorp ‘e Napul”, denominazione che tutt’oggi mantiene  e che è stata data anche allo slargo che ospita il gruppo scultoreo.

La statua poggia su un basamento in piperno realizzato nel 1657. Su lato principale del basamento è posta una targa in marmo fatta per i lavori di restauro del 1734. Sulla targa è incisa in latino la storia e le peripezie della plurimillenaria scultura, che fedelmente, riporto per intero:

Vetustissimam Nili Statuam Ab Alexandrinis Olim Ut Fama Est In Proximo Habitantibus Velut Patrio Numini Positam Deinde Temporum Injuria Corruptam Capiteque Truncatam Aediles Quidem Anni MDCLXVII Ne Quae Huic Regioni Celebre Nomen Fecit Sine Honore Jaceret Restituendam Conlocandamque Aediles Vero Anni MDCCXXXIV Fulciendam Novoque Pigrammate Ornandum Curavere Placido Princ. Dentice Praef. Ferdinandus Sanfelicius Marcellus Caracciolus Petrus Princeps De Cardanas Princ. Cassan. Dux Carinar. Augustinus Viventius Antonius Gratiosus. Agnell. Vassallus Sec.»

Ovvero:

Gli edili dell'anno 1667 provvidero a restaurare e ad installare l'antichissima statua del Nilo, già eretta (secondo la tradizione) dagli Alessandrini residenti nel circondario come ad onorare una divinità patria, poi successivamente rovinata dalle ingiurie del tempo e decapitata, affinché non restasse nell'abbandono una statua che ha dato la fama a questo quartiere. Gli edili dell'anno 1734 provvidero invece a consolidarla e a corredarla di una nuova epigrafe, sotto il patronato del principe Placido Dentice».

La statua del Dio Nilo è una scultura che ha attraversato per intero la storia della città, anche nel momento in cui è caduta nell'oblio e poi è stata successivamente recuperata; sembra quasi portare su di se tutte le vicende della città di Partenope…dalle origini gloriose, alle cadute, ma soprattutto al suo rialzarsi…

Dai credi religiosi ai credi pagani di Napoli...che salto!

Il “Corpo di Napoli” è proprio il corpo della città che, vive, batte e pulsa…perché..

Napul’è…mill culur…(P.Daniele).

 

Sitografia

Wikipedia.it

Italianways.com

Napolibandb.it

Bibliografia

F.NegriArnoldi “Storia dell’arte” Vol II – Fabbri ed.

Gennaro Ruggiero, Le piazze di Napoli, Roma, Tascabili Economici Newton, 1998


TARQUINIA CITTÀ ETRUSCA

“… Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso…”

Vincenzo Cardarelli,

Profughi, Viaggi nel Tempo

Tarquinia: una città etrusca

Tarquinia, un'antica città etrusca, è rinomata per la necropoli con le sue tombe dipinte, dichiarate dall'Unesco “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, e per il Museo Archeologico Nazionale (allestito nel rinascimentale Palazzo Vitelleschi), che annovera nelle sue sale una straordinaria raccolta di reperti. Le origini mitiche della città sono da ricondurre alla leggenda di Tirreno, figlio del re della Lidia: egli guidò metà della popolazione del regno di suo padre sulla costa italica compresa tra la foce dell’Arno e quella del Tevere per fondarvi una nuova nazione: l’Etruria. Tarquinia e le dodici città dello stato sarebbero poi state fondate da Tarconte, principe della Lidia, figlio (o fratello?) di Tirreno.

Il comprensorio archeologico di Tarquinia, con la città posta in posizione panoramica su un piccolo altipiano in prossimità del mare, sorge sul così detto Colle della Civita, un ampio pianoro isolato e battuto dai venti. Qui si trovano evidenze archeologiche molto importanti dell’area sacra della città; vi sono stati ritrovati moltissimi dei reperti oggi conservati al Museo di Palazzo Vitelleschi, compresi i famosi Cavalli Alati, simbolo di Tarquinia in tutto il mondo.

Si tratta di un gruppo fittile databile tra il IV e il III sec. a.C., che raffigura due cavalli scalpitanti e pronti a spiccare il volo: quest’opera decorava il frontone del grande tempio chiamato Ara della Regina, un grandioso edificio dedicato ad una divinità sconosciuta, ubicato nell'area sacra della Civita.

 

Nel museo sono esposti tre straordinari oggetti in bronzo, risalenti al VII sec. a.C., rinvenuti nella nuda terra dell’area sacra: un’ascia, una tromba di liuto e uno scudo decorato a sbalzo.

La cura nella deposizione degli oggetti ha fatto sin da subito pensare che appartenessero a qualcuno che aveva esercitato un potere sacro ed eccezionale. Tuttora non si sa chi fosse il possessore, forse un condottiero che aveva conquistato con la forza l’apice della gerarchia politico-militare della città; forse il rappresentante più ricco di un gruppo di famiglie potenti; forse un sacerdote dotato di capacità divinatorie non comuni. Come che sia, i Tarquiniesi lo chiamavano Lauchma, Lucumone: a Roma un personaggio di questa levatura avrebbe avuto l’appellativo di Rex.

Altro eccezionale reperto conservato all’interno del museo è il sarcofago marmoreo di Laris Pulena, il Magistrato, membro di una aristocrazia tarquiniese gelosissima dei suoi privilegi. Oggi egli continua a scrutare i visitatori con lo sguardo severo e le sopracciglia aggrottate, semidisteso a copertura del suo stesso sarcofago. Con la molle mano inanellata indica, nel volumen che tiene srotolato davanti a sé, la storia della propria famiglia.

 

Altri celebri reperti esposti all’interno del museo sono il Ryton, vaso a forma di testa femminile dallo sguardo enigmatico e dalla sottile ironia, del ceramista Charinos, e la Coppa di Oltos, dalle dimensioni eccezionali prodotta nell’officina di Euxiteos, raffigurante un’assemblea divina.

Al secondo piano sono conservati gli affreschi staccati di due tombe, che non si sarebbero altrimenti salvati dalla distruzione a causa delle pessime condizioni ambientali in situ. Una di queste è la tomba del Triclinio (470 a.C. ca.), che restituisce un’idea assai dettagliata delle fastose celebrazioni in onore del defunto, durante le quali il connubio tra cibo, musica e danza, era inscindibile. Sulla parete di fondo tre coppie di commensali banchettano serviti da un giovane coppiere, mentre un suonatore di diaulos (il flauto a doppia canna) allieta il simposio. Sulle pareti laterali si svolge una danza con giovani di ambo i sessi.

Se servisse un’ulteriore nota di colore, questa è fornita dalla presenza, sia nei reperti conservati al museo che nei dipinti delle tombe, di un esplicito riferimento al sesso: simboli fallici, rapporti sessuali consumati durante cacce o banchetti sono rappresentati in funzione apotropaica. Tanto espliciti e tanto numerosi che il museo ha dedicato loro un’intera sala espositiva!

Tuttavia, per sapere cosa rendesse gli Etruschi un popolo tanto facilmente identificabile tra le popolazioni del mediterraneo, così raffinato, non è sufficiente osservarli attraverso i sarcofagi di pietra o di terracotta: bisogna addentrarsi nelle loro abitudini, nella forte impronta che esse hanno lasciato fino a noi. Nelle tombe, che gli Etruschi vollero somiglianti alle loro case e riempirono di oggetti amati e significativi. E per fare una scorpacciata di usi e costumi la necropoli di Monterozzi è il posto perfetto; situata a sud dell’odierno abitato, si estende per circa 6 km in lunghezza e conta circa duecento tombe dipinte, le quali vengono aperte al pubblico con un criterio di rotazione per motivi conservativi.

Nelle tombe arcaiche è tutto piccolo, ilare e spontaneo; donne, uomini, servi, danzatori e musici, atleti ci appaiono bruni e spavaldi, con i volti vividi e i lineamenti accomunati da una calda consapevolezza sessuale e da una condivisa dedizione ai piaceri della vita, mentre nei sepolcri di epoca tarda i ritratti sono più realistici.

Volendo esemplificare il tipo di pittura che vi si può ritrovare, è curioso notare che gioiose raffigurazioni di banchetti, musica e danza decorano le pareti delle tombe tarquiniesi regalando all’osservatore moderno alcune tra le più vivaci rappresentazioni di questo tipo: la tomba dei Leopardi (470 a.C. ca.) presenta sulla parete di fondo la tradizionale scena di simposio con tre coppie semisdraiate su letti riccamente addobbati e due servi nudi; in alto due leopardi si affrontano con le fauci spalancate. Particolarmente interessanti sono le pareti laterali, sulle quali si dispiega un vasto campionario di musici, danzatori e offerenti.  Sulla parete destra, un giovane con indosso una corta clamide bruna e recante un piatto, è seguito da un suonatore di diaulos e da uno di lira, mentre a sinistra un gruppo di quattro giovani avanza verso il banchetto, preceduto da due suonatori.

 

Bibliografia:

Alfieri A., Valdi A. (a cura di), Tarchna, Edizione Comune di Tarquinia 2002

Menichino G., Escursionismo d’autore nella Terra degli Etruschi, Laurum Editrice, Pitigliano (GR) 2007

Sitografia:

Sito del Mibact al link: https://www.beniculturali.it/mibac/opencms/MiBAC/sito-MiBAC/Luogo/MibacUnif/Luoghi-della-Cultura/visualizza_asset.html?id=151564&pagename=57 (ultima consultazione 28/03/2020)

Sito Avvenire.it al link: https://www.avvenire.it/agora/pagine/cardarelli- (ultima consultazione 29/03/2020)

Sito dedicato a Tarquinia e Cerveteri patrimonio Unesco al link: https://www.tarquinia-cerveteri.it/tarquinia/necropoli-di-tarquinia/ (ultima consultazione 28/03/2020)


IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO

Nel territorio comunale di Modugno (BA), lungo la strada provinciale che collega quest'ultima a Bitritto,  sorge l'immenso complesso rurale di Balsignano, che comprende il Castello, la chiesa di S. Maria e la chiesa di S. Felice.

E' possibile ricavare le prime notizie riguardanti questo insediamento da alcuni documenti risalenti al X secolo che riferiscono la presenza di un castrum fortificato con alcune abitazioni, finché non fu  devastato dai Saraceni nel 988.

Verso la fine dell'XI secolo finì tra le mani dei monaci dell'ordine benedettino del monastero di San Lorenzo di Aversa, raggiungendo grande prestigio politico grazie alle numerose concessioni fatte da duchi normanni e dallo stesso Federico II.

Nel 1282, anno dei celebri Vespri Siciliani, i monaci benedettini affittarono il casale a Ruggero della Marra e, verso la metà del XIV secolo, a Francesco de Carofilio.

Durante il conflitto tra filoangioni, sostenitori di Giovanna d'Angiò, e filoungheresi, truppe del re d'Ungheria Luigi I il Grande, per la successione al trono del Regno di Napoli dopo la morte di Roberto d'Angiò, l'insediamento fortificato fu testimone di alcuni episodi bellici. Durante il XVI secolo, fu vittima di ulteriori attacchi nel periodo della guerra franco-spagnola.

Nel  '600 la gestione passò alla nobile famiglia modugnese dei Faenza, che durò fino alla fine del '700, ed infine nel 2000 fu venduto al comune di Modugno.

IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO: LE MURA

 

 

Il casale è circondato da un duplice sistema murario, attribuile al XIV e XV secolo : la prima cinta muraria, lunga 500 m, attornia l'intero insediamento, incorporando la seconda cinta muraria che difende il Catello, la chiesa di S. Maria e il cenobio benedettino.

Nella zona orientale era collocata una porta monumentale, di cui oggi ci sono giunti pochi resti che ci testimoniano la sua imponenza: infatti doveva essere fiancheggiata da due possenti torri. Però nel tratto meridionale erano collocate due torrette dotate di saettiere fortemente strombate. Il lato meridionale si unisce alla cinta muraria interna. Inoltre su quella esterna era possibile effettuare il camminamento di ronda, presumibile dalla presenza di alcune scale in pietra ricavate all'interno della muraglia.

Nei pressi di una torretta, è stata rinvenuta una tomba che custodiva lo scheletro di una donna, risalente al XV secolo, di 35-45 anni che aveva avuto molte gravidanze ed era morta di sifilide.

IL CASTELLO

 

Attraversando il portale della cinta muraria interna, è possibile ammirare la preziosa decorazione in bassorilievo che orna l'andamento del portale.

Il primo edificio che colpisce il visitatore è il grande castello, posto sulla destra. Questi è il risultato di una serie di interventi avvenuti nel corso dei secoli. Già durante il Medioevo, esso doveva essere costituito da due torri quadrangolari, innalzate successivamente, collegate tra loro da un possente corpo a due piani, svolgendo una funzione difensiva. Nel corso del XVII secolo, il castello divenne una sorta di dimora signorile, dotata di alloggi, cucine, una cisterna e colombiera.

Gran parte della struttura a noi oggi visibile, è frutto di una serie di restauri che hanno tentato di ridare al castello la sua immagine originaria, dal momento che era in situazioni critiche.

 

IL COMPLESSO RURALE DI BALSIGNANO: LA CHIESA DI SANTA MARIA

 

 

 

La chiesa di S. Maria è composta da due ambienti. Il primo vano fu costruito intorno al XIII secolo, con un impianto ad aula e una copertura lignea, ma nel XV secolo l'edificio subì degli interventi, come l'aggiunta di pilastri per sostenere l'attuale volta a crociera . In facciata, sopra il portale, è collocata una lunetta, all'interno della quale affiorano i resti di un affresco rappresentante una Madonna con il Bambino. All'interno troviamo una serie di affreschi sopravvissuti in maniera lacunosa. Sul muro settentrionale è possibile ammirare le figure di Santa Lucia, riconoscibile dal piatto su cui poggiano due occhi, un Santo Vescovo, ancora oggi si discute se attribuire questa immagine a San Ludovico da Tolosa o a San Donato, seguono due Vergini in trono ( probabilmente una Vergine della Tenerezza e una Vergine di Odeghitria) e due immagini fortemente danneggiate che raffiguravano una santa e un santo. Nella zona presbiteriale sono collocate le immagini di un San Michele Sauroctonos e di un Sant'Antonio Abate, riconoscibile dai suoi attributi iconografici, ovvero la campanella e il maialino, di cui sopravvive solo la coda riccioluta.

Anche il secondo ambiente presenta una serie di affreschi in grave stato, databili intorno al 1300. Nel catino dell'abside compare un Cristo in trono in un'ellisse ornamentale sorretta da serafini, nei due registri sottostanti invece abbiamo in uno la Madonna in trono, nell'altro i ritratti degli Apostoli. Di particolare risalto è il clipeo, posto sull'arcone, che inquadra la figura a mezzobusto di un profeta ebreo, riconoscibile dal tipico cappello a punta. Dagli ultimi restauri inoltre sono emerse una Crocifissione profondamente danneggiata e una seria di figure di santi difficilmente identificabili. Le campagne di scavo hanno riportato alla luce un'area cimiteriale caratterizzata da tombe a fossa e del tipo a cassa litica, prive di corredo, da collocare tra il XII e il XV secolo.

Del cenobio benedettino, invece, antistante la chiesa di S. Maria, ci è giunta solo una struttura, la cui precisa funzione non ci è nota, a pianta longitudinale con impianto ad aula, dotata di una sequenza di quattro arcate cieche, dentro le quali emergono tracce di affreschi.

 

LA CHIESA DI SAN FELICE

 

L'edificio è il risultato dell'unione di due chiese: la più antica, risalente al X-XI secolo, è costituita da un'unica navata dotata di due cupole ellittiche e una pavimentazione bizantina, mentre la seconda databile al XIII secolo, presenta una pianta a croce greca contratta, due campate sormontate da una volta a botte e una da una cupola con tamburo ottagonale. La chiave di volta della cupola centrale è scolpita con una Stella di David sulla quale poggia una manina ornata da un bracciale in perle, simboli dell'Ebraismo. Inoltre con molta probabilità l'interno della chiesa doveva essere interamente affrescato. La facciata è scandita e movimentata da una serie di archetti pensili e lesene. Durante il restauro del 1989, furono rinvenuti i resti di una necropoli e una preesistente chiesa d'epoca altomedievale.

 

Bibliografia

R. Caggianelli, “Balsignano. Un insediamento fortificato”, Mario Adda Editore, Bari, 2015.


LONGIANO, IL VILLAGGIO IDEALE

Longiano è una piccola città situata su di un colle che sovrasta le pianure verso Cesena e Rimini. L’appellativo villaggio ideale si collega al 1992, quando la città di Longiano vinse il concorso organizzato dalla Comunità Europea e dalla rivista “Airone”. Nonostante si trovi ai margini della Via Emilia, Longiano non possiede testimonianze di civiltà romana, come per altre città romagnole; ciò è dovuto al frequente passaggio di eserciti barbarici e delle loro conseguenti spoliazioni. A partire dal Medioevo, Longiano ebbe uno sviluppo molto fiorente: sebbene si trovasse geograficamente più vicina a Cesena rispetto a Rimini, la città fu sempre fedele alla città rivierasca. Lo sviluppo di Longiano ebbe un forte incremento durante la signoria dei Malatesta, i quali governarono la città dal 1295 al 1463. Il castello di Longiano, divenuto Castello Malatestiano durante la signoria dei Malatesta era adibita, non solo a baluardo di difesa del territorio, ma anche a residenza estiva.

Longiano non fu mai teatro di cronache storiche di particolare rilievo, e le poche cronache registrano episodi delle battaglie, prima tra Rimini e Cesena, poi tra i Malatesta e gli eserciti della Chiesa e infine tra i Malatesta e i potenti vicini. Nel Marzo del 1198 i cesenati distrussero Longiano, la quale fu ricostruita l’anno successivo dai riminesi. La città, alleatasi con l’esercito di Rimini, si vendicò di questo atto il 14 giugno 1216 quando sconfisse l’esercito di Cesena al Monte delle Forche. Dopo questa data non si registrarono più fatti particolari fino al 13 dicembre 1295, quando ci fu la piena affermazione del potere dei Malatesta su Rimini. Nel 1297 Longiano fu data alle fiamme dai cesenati, alleati con i forlivesi, i faentini e gli imolesi, e in seguito gli fu dato il nome di borgo bruciato. Nel 1429 il condottiero Carlo Malatesta, fratello di Pandolfo e tra i più illuminati della signoria dei Malatesta, morì nel castello di Longiano. La città ripassò sotto il dominio dello Stato Pontificio nel 1463 per rimanervi fino al 1859.

 

IL CASTELLO MALATESTIANO

Il Castello Malatestiano di Longiano si trova sulla sommità del colle su cui si adagia il borgo, ed è circondata da una doppia cinta muraria perfettamente conservata. Non si hanno notizie certe sulla data di edificazione del castello, però una pergamena del 1059 indica che nella zona di Longiano fu edificato un castello a scopo difensivo contro l’esercito di Cesena. Dal 1290 al 1463 il castello vide il suo massimo splendore quando divenne la residenza della famiglia Malatesta, i quali lo ampliarono e lo resero più fortificato. Il castello fu sede del Municipio fino al 1989 e oggi è sede della Fondazione Tito Balestra, che gestisce una delle raccolte d’arte moderna e contemporanea più ricche dell’Emilia-Romagna.

Oggi si accede al Castello Malatestiano attraverso un cortile esterno dove a destra si trova la Torre Civica, la torre più alta di tutto il complesso e al centro una vasca veneziana dove si trova una targhetta che recita: “Corte Carlo Malatesta - N. Rimini 5-6-1368 - M. Longiano 14-9-1429”.

 

SANTUARIO DEL SANTISSIMO CROCIFISSO

Il Santuario del Santissimo Crocifisso è una chiesa che divenne in seguito un santuario francescano ed è il più importante luogo di culto del villaggio ideale di Longiano. Non esistono fonti certe sulla data di costruzione e dunque si ipotizza che la data più probabile possa essere il 1357, che è la data incisa sulla campana minore. La chiesa e il convento furono costruiti fuori dalle mura del castrum Longiani attraverso i canoni tipici dell’Ordine francescano, semplicità e povertà. Particolarmente importante nella storia del Santuario fu il 6 maggio 1493: i paesani di Gambettola donarono una vitella che s’inginocchiò “in forma di profonda venerazione” di fronte ad una immagine del crocifisso. Il giorno seguente questa immagine fu portata in processione per le vie del paese “con molta solennità, devozione e pompa”. In seguito l’immagine del crocifisso fu spostato dal chiostro all'interno della chiesa e collocato su un altare costruito appositamente. Nel 1697 fu istituita la Confraternita laicale intitolata al SS. Crocifisso, su iniziativa del dottor Baldassarre Manzi.

Il Crocifisso del Santuario, oggetto di culto da almeno cinque secoli, è un dipinto a tempera su tela sottile applicata su una tavola di rovere risalente al XIII secolo. La figura del Crocifisso si trova al centro, su un tabellone decorato a rombi, la cui matrice stilistica si rifà alla pittura di Giunta Pisano (1200-1260), mentre ai margini del braccio trasversale del Crocifisso si trovano le figure di Maria e Giovanni. La cornice che ospita il Crocifisso è datata 1781, quando si decise di dotarsi di una “macchina” adatta a portare il Crocifisso in processione.

 

MUSEO D’ARTE SACRA

Il Museo d’arte sacra del villaggio ideale di Longiano è stato inaugurato il 18 marzo 1989 dal Comune di Longiano e dalla Diocesi di Cesena e Sarsina. Il museo si trova all'interno dell’Oratorio di S. Giuseppe, un edificio tardobarocco che si trova sotto i bastioni del Castello Malatestiano.

All’interno del museo sono custodite importanti opere d'arte, insieme a preziosi e innumerevoli oggetti sacri come arredi, paramenti, reliquie ed ex-voto. Tra i dipinti più importanti si possono citare “l’Assunta e i Santi Antonio Abate e Girolamo”, attribuito a Giovanni Battista Barbiani (1593-1650) e il “San Valerio Martire” di Giuseppe Rosi (1750). Dentro delle bacheche in vetro sono conservati preziosi oggetti, tra cui un tabernacolo, calici e altri oggetti rituali, un piviale in seta rossa e oro, e una pisside in argento sbalzato utilizzato da papa Giovanni Paolo II in occasione della visita in Romagna nel 1986.

Parte dei dipinti esposti sono stati restaurati col contributo di privati cittadini, tra cui alcuni ex-voto, madonne e santi votivi.

 

MUSEO DEL TERRITORIO

Il Museo del Territorio di Longiano è un museo nato nel 1986 dove sono raccolti gli strumenti che raccontano gli usi e costumi del territorio longianese e, più in generale, dell’intera Romagna. Attualmente sono presenti circa tremila oggetti, donati e depositati da collezionisti e ricercatori locali. La raccolta è ordinata in undici ambienti espositivi, seguendo lo schema dei mestieri e dei lavori delle donne. Al piano terreno sono proposti strumenti e materiali legati a figure artigianali tradizionali: il falegname, il fabbro, il meccanico, il calzolaio, il muratore, il barbiere. Al piano superiore sono ricostruite la cucina tipica romagnola e la camera da letto in stile anni Trenta, in aggiunta si trovano due sale dove sono custoditi gli strumenti per la lavorazione della tela e per i lavori della campagna. Lungo le scale sono appese fotografie originali riferite anche agli antichi castelli malatestiani. Infine nel giardino accanto al museo si possono ammirare degli attrezzi per la semina, l'aratura ed altri lavori agricoli.

 

TEATRO PETRELLA

A fianco di quello che rimane del convento di San Girolamo sorge il maestoso Teatro Petrella, edificato nel 1865 dall’ ing. Giulio Turchi e dedicato al compositore palermitano Errico Petrella, personaggio allora famoso che partecipò all’inaugurazione. Nel dopoguerra il teatro andò in disuso ma nel 1980 il Comune di Longiano decise di restaurarlo e nel 1986 fu reinaugurato. Da allora ha ospitato primari artisti che qui spesso hanno presentato le loro opere in anteprima nazionale, quali: Gino Paoli, Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè Anna Oxa, Ornella Vanoni, Francesco De Gregori e tanti artisti di Teatro.

Longiano, il villaggio ideale ricco di storia, arte e cultura.

Bibliografia essenziale:

P. GINO ZANOTTI, Longiano, il paese – il santuario, appunti di storia e di arte, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1965

ADAMO BRIGIDI, Memorie cronologiche di Longiano, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1988

CLAUDIO RIVA (a cura di), Il Crocifisso di Longiano, fulcro di Fede e di Arte, Stilgraf, Cesena, 1992

GIORGIO MAGNANI con la collaborazione di Ezio Lorenzini, Longiano, storia personaggi, pro-loco e cultura, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2004

Sitografia:

https://www.beniculturali.it/mibac


IL TEMPIO E DI SELINUNTE: IL CULTO DI HERA

L'antica colonia greca di Selinunte in Sicilia è una delle zone archeologiche tra le più importanti d’Europa per estensione ed imponenza. Selinunte venne fondata dai megaresi di Iblea tra il 627 e il 628 a.C., e il suo nome è legato a quello del fiume che scorre ad Ovest della città antica, il Selinon (oggi Modione), il quale, a sua volta, deriva dal prezzemolo selvatico (in greco, Σελινοῦς) che cresce abbondante in queste terre. Ancora visibile è la sua acropoli, la parte più alta della città costituita dalla zona residenziale, dalla zona sacra, dalla zona pubblica e da quella commerciale. La città si affaccia sul porto, aveva una propria necropoli e la chora, luogo in cui venivano amministrati i beni. Selinunte era una bellissima città marittima e di frontiera, aperta agli influssi punici, elimi, sicani. Perfettamente conservato rimane l'assetto urbanistico, realizzato tra il 409 e il 250 a.C., con la cinta muraria e numerosi templi, tra i più significativi del mondo greco per dimensioni e purezza di forme per la continuità di testimonianze scultoree. Situato all’interno dell’acropoli Selinuntina, precisamente sulla collina orientale, è il tempio E, dedicato alla dea Hera (Fig.1). Il tempio è di ordine dorico, realizzato all'incirca nella metà del VI secolo a.C. e fu rimesso in piedi nel 1959 dall’archeologa Aldina Cutroni Tusa che assemblò il tempio con pezzi di colonne di altri templi distrutti, oltre che quelli originali. Inoltre, alcune colonne furono restaurate con parti in cemento per evitare il crollo del tempio. Ben distinguibili sono le colonne originali che presentano sfumature di colore più chiare, invece le colonne in cui è stato utilizzato il cemento presentano sfumature più scure. Il tempio è un periptero esastilo (70,18 x 27,65 m) composto da sei colonne sui fronti e quindici sui lati lunghi (Fig.2-3). Il tempio fu costruito con il materiale proveniente dalle vicine Cave di Cusa, tutt’ora visitabili. Il lavoro di estrazione del materiale grezzo per le colonne era assai faticoso, infatti gli operai scavavano nella roccia circolarmente fino ad ottenere un cilindro di pietra calcarea. Veniva inserita una trave di legno bagnata che, aumentando di volume grazie all’acqua, serviva a far staccare il blocco, poi trasportato a Selinunte, dove veniva lavorato per la costruzione delle colonne dei templi. Le colonne del tempio poggiano direttamente sullo stilobate e l'interno, che un tempo che poteva essere visto soltanto dai sacerdoti, era costituito dal pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti), dalla cella e dalla statua della divinità, ormai andata perduta (Fig.4). Sulla parte alta della colonna si trovavano i triglifi (elemento di pietra decorato con tre scanalature verticali) che scandivano le metope (formella di pietra scolpita a rilievi raffiguranti le imprese di Eracle). Le metope erano decorate da figure divine o mitologiche in atteggiamento ieratico, esse furono realizzate in stile Severo, nel momento della sua massima maturità. Furono totalmente realizzate in calcarenite locale, ma per le parti nude femminili fu utilizzato il marmo. Un tempo le metope erano colorate vivacemente, purtroppo il colore è andato perso, anche se a volte è possibile riscontrare delle tracce. Tra le metope ricordiamo: Eracle in lotta con l’Amazzone, il matrimonio sacro di Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani di Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado, esse sono tutte conservate ed esposte presso il museo Archeologico Regionale Antonio Salinas di Palermo (Fig. 5). Davanti al tempio era presente un altare su cui venivano sacrificate gli animali in onore della dea. Il tempio E di Selinunte costituisce uno degli esempi più interessanti tra quelli prodotti dalla colonia megarese poiché fonde nella sua struttura elementi provenienti dalla madrepatria greca con persistenze locali, producendo un risultato notevole; del resto, la colonia fu uno dei centri più importanti dell’Isola e come tale fu molto aperta alle diverse tendenze artistiche che si diffusero tra le varie colonie.

Fig. 1 - Tempio E, detto anche di Era.
Fig. 2 - Piantina tempio E.
Fig. 3 - Vista laterale tempio E.
Fig. 5 - Interno e parte del Naos.
Fig. 5 - Metope tempio E, conservate oggi al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” di Palermo.

IL CASTELLO DI COPERTINO IN PROVINCIA DI LECCE

Le origini e l'edificazione: il Castello di Copertino.

Compreso tra la via vecchia di Leverano e i confini di Arnesano e Monteroni di Lecce, popolato gradualmente nei secoli e coperto a tutt'oggi da vigneti ed uliveti rigogliosi, è il paese di Copertino. Della sua nascita viene riportata notizia in una cronaca del 1552 conservata nell'archivio Vescovile di Nardò e che cita testualmente:

“...che vedendo esser nell’anno 560 distrutte dai Goti li castelli e le terre di Casole, San Vito, Mollone, Cigliano e San Nicolò si diedero a credere che l’abitatori di detti luoghi si fussero uniti a fabbricarsi una nuova terra che dalla diversità dalle genti indi convenute, la chiamano Cupertino".

La sua cinta muraria era di forma ovoidale, racchiudeva un dedalo di strade e piccole cappelle, su cui dominava - e domina - la mole della Torre Angioina; il Castello di Copertino si erge possente, infatti da qualunque strada si arrivi al paese si scorge subito questa costruzione, nata a difesa dei casali circostanti.

E’ difficile ricostruire i diversi momenti dell’edificazione: il nucleo originario può essere ricondotto al programma di riorganizzazione militare di Carlo I d’Angiò, che nominò il paese sede amministrativa di contea. Nel ‘500 il marchese Alfonso Castriota, generale di Carlo I avviò i lavori di rammodernamento del Castello affidando i lavori ad Evangelista Menga: inglobò le strutture preesistenti in un impianto quadrangolare coronato da quattro poderosi bastioni angolari e circondato da un ampio fossato.

Negli anni la costruzione è passata attraverso diverse famiglie, dagli Squarciafico ai Pinelli, dai Pignatelli ai Belmonte.

Trascurato per anni, il Castello di Copertino ha rischiato il degrado, adibito com'era a presidi militari o a usi ignobili fino a che nel 1875 è stato dichiarato Monumento Nazionale e quindi sottoposto ai vincoli per la conservazione e la tutela.

L’edificio, come detto prima, con i quattro bastioni angolari lanceolati, racchiude elementi antichi, tra cui svetta il mastio angioino, circondato da un profondo fossato lungo tutto il perimetro. Dinanzi ad esso, quello che colpisce immediatamente è la profonda diversità delle costruzioni che si sovrappongono le une alle altre, difformi nella concezione e nello stile, specchio delle esigenze e dei capricci dei diversi signori che lo hanno abitato e che lo adibirono ad usi differenti.

Evangelista Menga raccolse nel magnifico portale rinascimentale tutte le numerose Signorie: sui 20 medaglioni scolpiti, si identificano i ritratti di imperatori e conti, in ordine cronologico, come fossimo in una narrazione delle vite che hanno abitato il Castello fino al 1540.

L’arco che sovrasta l’architrave, ad esempio, è stato scolpito in chiave fortemente allegorica, con la rappresentazione delle armi (cannoni, frecce, corazze) vinte dagli Aragonesi nella battaglia contro gli Angioini.

Al di là del portale, ci si ritrova in un atrio coperto da volte a botte, in cui si affacciano strutture di epoche differenti, tra cui la piccola cappella di San Marco al cui interno sono collocati i sarcofagi degli Squarciafico, detentori del Castello dal 1557 e committenti anche del ciclo di affreschi che decora l’ambiente, opera del pittore copertinese Gianserio Strafella.

Le piccole dimensioni hanno influito sull'inusuale disposizione del portale rispetto al rosone, spostato sulla destra rispetto al prospetto della porta: l’altare all'interno, spoglio, è accompagnato ai lati dai due sarcofagi di Umberto e Stefano Squarciafico, in pietra leccese opere di Lupo Antonio Russo. Delle pareti e della volta affrescate e restaurate rimangono per i visitatori le immagini di San Sebastiano, Santa Caterina d’Alessandria e San Giacomo di Compostela, i quattro Evangelisti e alcuni episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Tornando al portale del Menga, visto dall'interno, vi sono alle due estremità due teste coronate, Carlo I d’Angiò e Maria d’Enghien, e al centro un cavaliere armato che viene raffigurato nell'atto di uccidere il nemico.

Attraversando l’atrio coperto, ci si ritrova nell'atrio interno scoperto a sinistra del quale vi sono due grandi archi sfalsati, che attraverso un ulteriore portico immettono in due gallerie sud sovrapposte e comunicanti tra loro attraverso strette scale interne.

Qui troviamo il Palazzo Pignatelli, sotto il cui intonaco ancora campeggiano elementi architettonici in stile romanico, gotico e normanno; stessi elementi riscontrabili all'interno, con doppie pareti e archi a sesto acuto che sorreggono le mura perimetrali. In condizioni accettabili è la ghera del pozzo, antistante a questa sezione di palazzo.

A destra invece sono presenti più ingressi che portano alle gallerie del piano terra: il più grande tra questi ingressi dà accesso all'antica costruzione di origine normanna, in parte interrata e adibita, originariamente, a scuderia: i pilastri e gli archi imponenti hanno consentito la costruzione dei tre piani sovrapposti, senza che la volta a botte e le pareti laterali subissero danni strutturali.

Una scalinata scoperta conduce al piano superiore in cui gli ambienti quattro-cinquecenteschi caratterizzano il cosiddetto Palazzo Vecchio; a metà rampa si apre la Cappella della Maddalena con i resti del suo ciclo pittorico affrescato risalente alla prima metà del 1400. Una parte di questi sono conservati presso il centro restauro della Sovrintendenza a Bari, mentre altri sono stati staccati e ricomposti in una sala del Castello. Altre sinopie sono ancora visibili e raffigurano Caterina d’Enghien e la regina Isabella, nell'atto di pregare.

Negli anni, tutti i diversi feudatari hanno più volte modificato questo palazzo, come già detto in precedenza, secondo il gusto e l’arte del proprio tempo: gli archetti che sostengono ed ornano il cornicione sono tutti diversi, simboli intatti delle maestranze che li hanno realizzati. Colonne e capitelli, così come anche le pareti interne sono state indegnamente cancellate, intonacate e trasformate in epoche differenti.

La torre - o mastio - angioina campeggia e domina dall'alto l’intera costruzione, costituita da tre piani sovrapposti con volta a botte e grande camino di stile gotico. L’ingente spessore delle murature è stato, e lo è ancora, un aspetto provvidenziale per la sua stabilità, salvandola dalla rovina. Ed è in questo spessore che sono state ricavate le scale che mettono in comunicazione i diversi piani sino al terrazzo.

Infine, a circondare tutto il Castello di Copertino troviamo 600 metri di fossato: scavato nella roccia, presenta, davanti al portale di ingresso, un ponte in pietra di tufo a 2 arcate. Il livello inferiore è aumentato rispetto al passato per via dei detriti e del terriccio depositato nei secoli: per questo motivo alcune feritoie, le più basse, risultano interrate.

Sotto il primo bastione corre un’ampia galleria scavata nella roccia, che dai sotterranei della torre termina direttamente nel fossato. Il secondo bastione, a sud-ovest, presenta la cosiddetta Porta Falsa, in posizione opposta rispetto al portale principale, che serviva per l’intervento dei difensori al di là delle mura in caso di assedio.

Sullo spigolo del bastione a nord-ovest, invece, un tufo più sporgente reca i segni di un altorilievo diventato indecifrabile, oggetto di credenza popolare: si ipotizza che l’altorilievo  raffigurasse un drago, al quale si attribuisce la colpa di aver ingerito tutta l’acqua del fossato, lasciandolo a secco.

Al lato nord, ad est del fossato, trova spazio una piccola casa di tufo quadrata, chiamata Casa delle Decime, che un tempo ospitava i gabellieri; attraverso una scala si scendeva al trappeto sotterraneo del Castello di Copertino, oggi adibito, durante le festività natalizie, a luogo per il Presepe.

Percorrendola e proseguendo più avanti, si arriva al Posto di Guardia a ridosso dell’arco di San Giuseppe, antica porta di accesso al centro abitato.

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GUIDO RENI

Guido Reni nacque a Bologna il 4 Novembre 1575 da una famiglia di musicisti, Daniele Reni e Ginevra Pozzi. Il suo talento pittorico lo portò a resistere alle ambizioni musicali del padre, entrando nel 1584 nella bottega del pittore fiammingo manierista Denijs Calvaert, aggiungendosi ad altri allievi come il Domenichino e Francesco Albani. La permanenza di Guido Reni nella bottega del pittore fiammingo durò fino a poco dopo la morte del padre (1594), aderendo successivamente all’Accademia dei Carracci dove approfondì lo studio della pittura ad olio e dell’incisione a bulino. Un dipinto che ricalca quanto appreso nella bottega di Calvaert e in quella dei Carracci è l’Incoronazione della Vergine con i Santi Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Bernardo e Santa Caterina d’Alessandria1 datata tra il 1595 e 1598. Dopo varie collaborazioni con l’Accademia, il Reni se ne allontanò entrando in contrasto con Ludovico Carracci. Altre opere della fine 500 sono il San Domenico e i Misteri del Rosario2 (1598) e l’Assunzione della Vergine3 (1599-1600) per la parrocchiale di Pieve di Cento. Con l’inizio del nuovo secolo troveremo il pittore felsineo dirigersi più volte verso la capitale della cristianità, dove convocato dal cardinale Sfondrato portò a termine alcuni lavori come il Martirio di Santa Cecilia, Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano per la Basilica di Santa Cecilia a Trastevere e l’Estasi di Santa Cecilia con quattro santi (quest’ultimo dipinto copia intera del dipinto bolognese di Raffaello), ora collocata in San Luigi dei Francesi).Nel 1602 il pittore tornò nella città natale per il funerale di Agostino Carracci. Da Bologna passò a Loreto dove il cardinale Antonio Maria Galli gli commissionò Cristo in Pietà adorato dai santi Vittore e Corona, da Santa Tecla e San Diego d'Alcalà ora nella cappella della Sacra Spina del Duomo di Osimo e la Trinità con la Madonna di Loreto4 del 1604, per la chiesa della Trinità della stessa cittadina.

Tornato poi a Roma finì sotto la protezione del Cavalier d’Arpino, portando a termine nel 1605 La Crocifissione di San Pietro5 commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini per la chiesa di San Paolo alle tre fontane, mettendosi così a confronto con Caravaggio come avvenne per altre opere: il Davide con la testa di Golia6 del 1606 (Louvre), il Martirio di Santa Caterina d’Alessandria7 del 1607 (Museo diocesano di Albenga), L’incoronazione della Vergine8 del 1605-10 (National Gallery di Londra). Questo portò all’unione e alla reinterpretazione dello stile caravaggesco secondo la sua poetica artistica. La fama del pittore crebbe a tal punto da essere chiamato nel 1608 da Papa Paolo V per affrescare la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame nei Palazzi Vaticani. Venne chiamato anche dal cardinale Borgherini per gli affreschi di San Gregorio e Andrea al Celio con il Martirio di Sant’Andrea e l’Eterno in Gloria9 nel 1609. Con l’aiuto di Francesco Albani, Antonio Carracci, Jacopo Cavedone, Tommaso Campana e Giovanni Lanfranco il Reni portò a termine la decorazione della cappella dell’Annunciata10 nel Palazzo del Quirinale portando a termine i lavori nel 1610. Sempre lo stesso anno interruppe gli affreschi per la cappella Paolina in Santa Maria Maggiore per dei contrasti  avuti con il tesoriere, facendolo tornare a Bologna dove nel 1611 portò a termine per la cappella Berò (poi Ghisiglieri) in San Domenico a Bologna la Strage degli Innocenti11 e il Sansone vittorioso12 per Palazzo Zambeccari (entrambi ora alla Pinacoteca di Bologna). Tornato a Roma nel 1612 portò a termine gli affreschi di Santa Maria Maggiore per poi ricevere nel 1613 da Scipione Borghese l’incarico di affrescare l’Aurora13 per un Casino nel parco del suo Palazzo (ora Palazzo Pallavicini) concluso nel 1614.

Fig. 9
Fig. 10e

Dopo un breve soggiorno a Napoli, Reni tornò nella sua città natale dove si affermò come il maggiore artista del tempo. Portò a termine opere per la chiesa di San Domenico, come il San Domenico in Gloria14 nel 1615 e la Pietà della Pala dei Mendicanti15 del 1616 (Pinacoteca di Bologna) per la chiesa dei Mendicanti, la Crocifissione16 per la chiesa dei Cappuccini, l’Assunzione17 di Genova per la chiesa di Sant’Ambrogio, entrambe del 1617.Sempre in quell’anno dopo un primo rifiuto del Reni per la decorazione del Palazzo Ducale di Mantova (mandò i suoi discepoli Giovanni Giacomo Sementi e Francesco Gessi), il pittore giunse a Mantova realizzando quattro tele raffiguranti le Fatiche di Ercole (tutte datate tra il 1617 e 1620 ed ora esposte al Louvre): da alcune lettere possiamo dedurre che il primo dipinto fosse l’Ercole sul rogo18 e a seguire l’Ercole e Acheloo19, l’Ercole e l’Idra20 e Nesso e Dejanira21. Oltre alle Fatiche di Ercole ci furono altre opere di scene mitologiche realizzate per committenti privati come la Toeletta di Venere22 del 1621 (National Gallery di Londra), Atalanta e Ippomene di Napoli23 (1620-25, Museo di Capodimonte) e Madrid24 (1618-19, Museo del Prado), i due Bacchi fanciulli di Firenze25 (1615-20, Palazzo Pitti) e Dresda26 (1623, Gemäldegalerie) e Apollo e Marsia di Tolosa27 (1625, Musée des Augustins) e Monaco di Baviera28 (1633, Alte Pinakothek, Bayerische Staatsgemäldesammlungen).

 

Fig. 14
Fig. 22

Nel 1622 Reni si diresse nuovamente a Napoli per affrescare la cappella del Tesoro di San Gennaro, non raggiungendo però l’accordo economico. Prima di partire per Roma portò a termine tre tele per la chiesa dei Girolamini (inizialmente destinati alla chiesa di San Filippo Neri): Gesù incontra San Giovanni Battista29, San Francesco in Estasi30 e la Fuga in Egitto31. Arrivato a Roma portò a termine nel 1625 il ritratto del cardinale Roberto Ubaldini32(collezione privata) del 1631 e la Trinità33 per la chiesa dei Pellegrini, commissionata dal cardinal Ludovico Ludovisi e molte pale d’altare destinate a sedi più o meno importanti nella penisola come l’immacolata34 della chiesa di San Biagio a Forlì (1627) o l’Annunciazione35 del 1621 (Pinacoteca Civica di Fano) e il Cristo che consegna le chiavi a San Pietro36 del 1625 (Louvre) per la chiesa di San Pietro in Valle a Fano.

Fig. 32

 

Verso l’inizio del terzo decennio vi fu un cambiamento nello stile del Reni: introdusse nei suoi dipinti l’uso di una luce argentea e di toni chiari e preziosi come è possibile vedere nell’Annunciazione37 di Ascoli Piceno (Pinacoteca Civica Ascoli Piceno) del 1629 e nella Pala della Peste38 (Pinacoteca di Bologna) del 1630 commissionata dal Senato bolognese dopo la fine della pestilenza che colpì tutta l’Italia. Altre opere completate nell’ultimo periodo della sua vita furono il San Michele arcangelo39 (1635-36) per la chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma commissionato dal cardinale Onofrio, nonché fratello del papa Urbano VIII, le Adorazioni dei pastori di Londra40 (1640 ca, National Gallery) e Napoli41 (1642 ca Certosa di San Martino), la Flagellazione di Cristo42 del 1640-42 (Pinacoteca di Bologna) e per ultimo il San Pietro penitente43(collezione privata M).

Pare accertato che il pittore negli ultimi anni soffrisse di depressione, portandolo ad eseguire pennellate veloci e sommarie riconosciute dalla critica del 1900 come una consapevole scelta estetica. Morì il 18 Agosto del 1642 all’età di 67 anni venendo sepolto nella basilica di San Domenico per volontà di Saulo Guidotti, suo amico facente parte del Senato bolognese.

Fig. 39

 

 

Sitografia :
Treccani Online
http://www.treccani.it/enciclopedia/guido-reni_%28Dizionario-Biografico%29/


LA DIMORA DEI CHIGI:VILLA FARNESINA A ROMA

A cura di Federica Comito

Villa Farnesina. La committenza.

Agostino Chigi, ricco e colto banchiere senese, intorno al 1505 commissiona all'architetto Baldassarre Peruzzi un palazzo suburbano, che potesse riflettere la ricchezza e lo sfarzo del committente. Villa Farnesina diventa così l’immagine, in termini culturali, di un uomo a cui le grandi capacità e un destino favorevole avevano riservato un ruolo di primo piano e il palazzo, con la sua immensa decorazione, contribuisce a mantenere in continuo rapporto la forma dell’architettura e la natura.

A un interno tanto innovativo quanto magistrale, corrisponde un esterno armonioso a ferro di cavallo che concretizza l’idea di continuum tra le stanze della villa e il cortile. Oltrepassato il muro di cinta ci si trovava nel giardino caratterizzato da architetture di verzura, alberi tagliati secondo le regole dell’ars topiaria e sculture disseminate ad arte.

Si tratta di uno dei maggiori esempi architettonici del Rinascimento Italiano a Roma: la sua fama deriva non solo dai materiali impiegati, ma anche dalle tonalità bronzee della decorazione a graffito che, in origine, era distesa su tutta la superficie del muro. Seguendo la testimonianza di Vasari, tale decorazione fu realizzata da Peruzzi, così come gli zoccoli delle finestre del piano superiore fiancheggiate da fauni e sovrastate da scene mitologiche.

L’alzato si articola su due piani con mezzanino e piano delle soffitte, unificato da due ordini di lesene tuscaniche, dal basamento e dai due fregi.

La villa fu affrescata da personaggi del calibro di Raffaello, Sebastiano del Piombo, il Sodoma e dallo stesso Peruzzi.

 

Villa Farnesina: il piano terra.

 

La Loggia di Galatea

Baldassarre Peruzzi nel 1511 affrescò l'oroscopo di Agostino Chigi sulla volta ripartita da finte cornici geometriche a imitazione dei soffitti in stucco, realizzate in prospettiva così da creare un effetto illusionistico.Tale opera deve aver preceduto le altre opere del Peruzzi (Saletta del Fregio e Salone delle Prospettive). Nell'inverno 1511-1512 Sebastiano del Piombo dipinse le scene mitologiche delle lunette e il Polifemo che si trova accanto alla Galatea di Raffaello (1512 ca). Gli altri riquadri della sala raffigurano invece paesaggi seicenteschi di scuola romana. Le pareti della loggia vennero ripartite da lesene con candelabri in monocromo e da un alto zoccolo dipinto in stoffa rossa drappeggiata.

 

La Loggia di Amore e Psiche

La Loggia prende il nome dalla decorazione ad affresco dipinta nel 1518 da Raffaello e bottega, i quali raffigurarono episodi della favola di Psiche ispirati all' “Asino d'oro” di Apuleio. Festoni vegetali a opera di Giovanni da Udine incorniciano le varie scene. Sulla volta gli episodi del Concilio degli Dei e del Banchetto nuziale, separate dallo stemma dei Chigi. Dieci pennacchi con scene della favola e quattordici vele con amorini raccordano la volta alle pareti scandite da lesene con 5 archi sui lati lunghi e 3 sui lati brevi.

La Stanza del Fregio

La sala è così denominata dal fregio che percorre in alto le pareti, realizzato da Peruzzi intorno al 1508 ispirandosi alle favole di Ovidio e con uno sguardo al Pollaiolo e a Mantegna nei nudi.

Primo piano

La Sala delle Prospettive

La vasta aula prende il nome dalla decorazione di Baldassarre Peruzzi che nel 1519 affrescò sulle pareti vedute prospettiche urbane e campestri trafinte colonne. Sotto il soffitto a cassettoni corre un fregio con scene mitologiche, realizzate dal Peruzzi e bottega, e sulla parete nord campeggia un grande camino con la fucina di Vulcano.

 

La Stanza delle nozze di Alessandro Magno e Roxane

Così denominata dall'affresco principale che occupa tutta la parete nord,era in origine la camera da letto di Agostino Chigi, il quale ne affidò nel 1519 la decorazione al Sodoma. Il soffitto cinquecentesco a cassettoni reca decorazioni a grottesche e soggetti mitologici.

 

In origine oltre alla villa e alle scuderie, era presente un terzo edificio: una loggia sul Tevere destinata ai banchetti collegata al giardino da una gradinata. La piccola fabbrica doveva estendersi parallelamente al fiume; probabilmente la sua forma venne riprodotta nella ricostruzione settecentesca dopo che l’originale venne distrutta nel 1531 da un’inondazione. Fu definitivamente abbattuta tra il 1884 e il 1886 per i lavori di arginatura del fiume. Nel suo suburbanum Agostino Chigi ospitò i papi Giulio II e Leone X, nonché i letterati più illustri di Roma. Una curiosità è legata ad un banchetto in particolare che il Chigi organizzò in onore di Papa Leone X: gli invitati trovarono le loro insegne incise su piatti d’oro e d’argento che venivano, a fine pasto, gettati nel Tevere. Il gesto voleva dimostrare la ricchezza del banchiere ma,in realtà, delle reti provvedevano a recuperare gli oggetti.

Dopo la morte di Agostino nel 1520, la struttura dal 1526 rimane abbandonata e, dopo aver subito le ingiurie dei Lanzichenecchi durante il sacco di Roma e le devastanti piene del Tevere, viene acquistata dai Farnese nel 1577 che sostituiscono tutti gli stemmi famigliari dei Chigi con i gigli Farnesiani. Nel 1731 la Farnesina passa ai Borbone di Napoli. Nella seconda metà dell’800 la villa fu interessata da un programma di intensi restauri che servivano a rallentare il cedimento dell’abitazione e che videro l’apertura dell’attuale ingresso. Nel 1932 la villa viene affittata al principe Chigi che fa realizzare l’impianto elettrico. L’edificio storico è oggi sede nazionale dell’Accademia del Lincei, una delle istituzioni scientifiche più antiche d’Europa che annovera tra i primi membri Galileo Galilei.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Isa Belli Barsali, Ville di Roma,1970, SISAR, Milano.

C.L.Frommel, Architettura del Rinascimento Italiano, 2009, Skira.

  1. Bruschi, Storia dell’architettura italiana - il primo Cinquecento, “Roma, le diverse maniere” F.P. Fiore, 2002, Electa, Milano.

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SEGUENDO GIAMBOLOGNA AL BARGELLO

Tra i grandi artisti che popolano con le loro sculture gli spazi espositivi del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, il fiammingo Jean de Boulogne, detto Giambologna (1529-1608), spicca come uno dei principali capisaldi del maturo Cinquecento toscano.

Dopo un primo soggiorno a Roma, la svolta decisiva per la carriera di Giambolgna ebbe inizio con il suo trasferimento a Firenze nel 1552, quando entrò sotto la protezione del mercante e intellettuale, Bernardo Vecchietti, che divenne anche suo mecenate: l’amicizia con il nobile fiorentino fu decisiva per introdurre l’artista alla corte medicea che vide nello stile virtuosistico delle sue opere la chiave di rappresentazione ideale per la celebrazione della casata.

È proprio al Bargello che è confluita una collezione considerevole di sculture in marmo e bronzo realizzate da Giambologna e bottega per la committenza medicea.

Iniziando dal cortile di quello era anticamente il Palazzo del Podestà di Firenze, si trova il grandioso Oceano (1570 circa), signore delle acque, uno dei personaggi mitici più raffigurati del XVI secolo, solitamente al centro di magnifiche fontane da giardino.

Anche l’opera di Giambologna fu infatti realizzata per la fontana dell’Isolotto di Boboli, detta appunto dell’Oceano, dove oggi per motivi conservativi è stata trasferita al Bargello e sostituita da una copia.

Il corpo della divinità, segnato da una poderosa muscolatura, restituisce un’impressione di grandiosa forza in potenza, congiunta all’intensa espressione dello sguardo catturato altrove. È invece ancora conservato a Boboli il piedistallo originale della statua, dove sono rappresentate le allegorie dei fiumi Nilo, Gange ed Eufrate, metaforicamente interpretate come le tre età dell’uomo e ispirate agli ignudi michelangioleschi, a cui si intervallano alcuni rilievi a tema marino raffiguranti la Nascita di Venere, il Trionfo di Nettuno e il Ratto d’Europa.

Procedendo sulle tracce del Giambologna al Bargello, nella prima sala al piano terra dell’edificio, fra una selva di gambe e braccia articolate in equilibristiche pose, troviamo il gruppo marmoreo raffigurante Firenze trionfante su Pisa.

Commissionato allo scultore nel 1565 in occasione del matrimonio tra Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria, fu immaginato per fare da pendant alla statua michelangiolesca della Vittoria nel salone dei Cinquecento. Al tempo della realizzazione di quest’opera era già attivo insieme al maestro, uno dei suoi allievi più promettenti, Pierre de Francqueville o Pietro Francavilla (1548-1615 c.), qui in veste di assistente.

Si trova in questo’operala cifra stilistica di Giambologna nel tipico movimento “serpentinato” dell’allegoria femminile di Firenze, nuda e sinuosa, nell’atto di soggiogare Pisa, rappresentata invece come un uomo barbuto in catene, sotto cui giace a sua volta una volpe, simbolo di astuzia e inganno per eccellenza.

Nelle caratteristiche fisiche del corpo pingue della donna e nel movimento tortile del bacino si ritrovano i modelli celebri della Venere al bagno reinterpretati dalla classicità in chiave manieristica dallo stesso artista: un esempio su tutti si conserva nella fontana della Grotta Grande di Boboli detta anche del Buontalenti (1531-1608), dove nella terza stanza sopra la vasca si erge il nudo armonioso della dea.

Anche nell’impianto strutturale l’opera ripropone lo schema dinamico-spiraliforme che negli stessi anni sarà portato al massimo del virtuosismo tecnico nel Ratto della Sabina, gruppo scultoreo realizzato nel 1582 e scelto da Francesco I per dimorare nella Loggia della Signoria: qui le tre figure, tratte da un unico blocco in marmo, si alzano in maniera ascensionale ruotando su loro stesse come in un vortice, dove ogni punto di osservazione si presta a uno scorcio suggestivo della scena.

Oltre alla lavorazione del marmo Giambologna fu anche un bronzista, sia di grandiose sculture che di bronzetti, oggetti preziosissimi di piccolo formato e da collezione che si ispiravano alla tradizione classica: una raccolta di questi è conservata anche al Bargello, dove si riscontrano principalmente soggetti mitici “all’antica”, figure femminili e di genere bucolico.

Poco distante dalla Firenze trionfante su Pisa, si conserva il Bacco ebbro, uno dei primi bronzi monumentali realizzati dallo scultore fiammingo per il nobile Lattanzio Cortesi, in seguito utilizzato come fontana nella nicchia alla base della Torre dei Rossi Cerchi, vicino a Ponte Vecchio, in borgo San Iacopo, dove oggi si trova una copia.

Bacco, notoriamente famoso per essere la divinità dell’ebbrezza e dell’estasi, è raffigurato in un momento di festosità, mentre incede con passo tentennante provocato dagli effetti inebrianti del vino,di cui giocosamente si compiace mostrando la coppetta vuota.

La figura elastica e longilinea del dio deriva chiaramente dal Perseo di Benvenuto Cellini (1554), con cui Giambologna si confronta abilmente nella resa perfetta dei dettagli plastici-anatomici, così come nella lavorazione del bronzo minuziosamente cesellata.

A fianco del Baccosi libra quasi come sospeso il Mercurio volante.

E’ l’opera forse più famosa e rappresentativa del repertorio artistico giambolognesco. Il corpo snello e atletico del messaggero degli dei è colto in equilibro su uno sbuffo di vento soffiato da Zefiro, l’attimo prima di spiccare il volo: la scultura divenne un vero e proprio archetipo da cui trarre copie e reinterpretazioni, riscuotendo un enorme successo anche nelle epoche successive. La commissione avvenne per Villa Medici a Roma, la residenza del cardinale Ferdinando de Medici, come ornamento della fontana all’ingresso del giardino.

Leggera e lieve è la sensazione che permea quest’opera dove la divinità si eleva con graziosa destrezza rimanendo in equilibrio su una gamba mentre tutto il corpo è già proteso verso l’alto, indicato dal gesto della mano e lo sguardo alzato.

Caratterizza Mercurio,in qualità di messo dell’Olimpo, l’attributo delle ali come mezzo fondamentale per volare e spostarsi celermente: anche nel suo bronzo Giambologna ha voluto riconoscere le qualità distintive del dio secondo l’immaginario collettivo, con le ali ai piedi e sul petaso, il copricapo diffuso nella Grecia antica tipico dei viaggiatori: due ali spiegate si trovano anche alla sommità del caduceo, il bastone della pace con i due serpenti incrociati, che divenne attributo del dio come domatore di discordie.

Attraversando la loggia esterna al primo piano dell’edificio incontriamo l’Architettura.

Riferita alla produzione di Giambologna intorno al 1565 circa, l’opera fu realizzata presumibilmente per la villa Medicea di Pratolino e poi spostata a Boboliper volontà di Pietro Leopoldo nella seconda metà del XVIII secolo, quando vennero portati a termine numerosi interventi di riqualificazione intorno all’Isolotto e al Prato delle Colonne.

La tipologia di figura femminile seduta, che trae ispirazione dalle allegorie delle Arti realizzate per la Tomba di Michelangelo a Santa Croce, riporta i tratti distintivi della maniera giambolognesca nella modellazione soave del nudo accompagnata dalla squisita finitezza del marmo.

Dipendente da prototipi greci e reinterpretati modernamente, la donna coronata da un diadema, è identificata con la personificazione dell’Architettura o Geometria, ed è contraddistinta da una serie di attributi tipici del mestiere, come il regolo, il compasso a punte fisse, la tavoletta da disegno tenuta dietro la schiena e il piombo (impiegato per stabilire la direttrice di una linea perfettamente verticale), qui usato come ciondolo della collana.

A fianco si trova la statua di Giasone e il Vello d’oro

commissionata a Pietro Francavilla nel 1589 circa, da Giuseppe Zanchini, priore dei Cavalieri di Santo Stefano, braccio operativo della marineria granducale a Livorno, molto attivo sotto il regno di Ferdinando I contro le infiltrazioni nel Mediterraneo di Ottomani e pirati.

Giasone, condottiero mitologico noto per essere stato a capo della spedizione degli Argonauti,è qui assunto come archetipo e prefigurazione delle fortune nautiche intraprese dai Cavalieri di Santo Stefano: l’eroe si presenta in atteggiamento vittorioso mostrando fieramente il vello d’oro (il manto di ariete prodigioso obiettivo delle peripezie di Giasone e qui omaggio al segno astrale di Cosimo I, il capricorno),  mentre la mano sinistra, posata sul fianco, tiene le erbe soporifere procurategli dalla moglie Medea, servite per rubare il vello alla custodia del drago.

La vicinanza fra le opere di Giambologna e Francavilla porta a rintracciare l’influenza artistica esercitata dal maestro sull’allievo e dell’altro lato induce a una riflessione sull’evoluzione stilistica del più giovane scultore.

Rimangono dell’insegnamento giambolognesco le linee morbide e flessuose del corpo, così come la ponderatezza dei movimenti e la lavorazione minuziosa della superficie marmorea: nella posa c’è un recupero delle forme quattrocentesche di Donatello, evidenti nella posa del braccio appoggiato al fianco come nei due David, e la fisicità atletica e asciutta del Perseo di Cellini.

Nel Giasone lo scultore appare inoltre particolarmente virtuoso nella realizzazione della testa, con una attenzione particolare al dettaglio nei capelli e in certe sottigliezze come i sottilissimi baffi e il manto arricciato del vello.

Sebbene la ripresa di alcuni topoi figurativi passati, l’opera di Francavilla abbandona gli ideali eroici del rinascimento e diventa esempio di riflessione e consapevolezza in un’ottica più tipicamente moderna.

Nel 1587, al vertice del successo e quando ormai la sua maniera stava facendo scuola fra i più giovani artisti, Giambologna acquistò dall’Ospedale degli Innocenti un palazzo in Borgo Pinti (all’attuale n. 26), dove realizzò la sua personale bottega.

Il palazzo venne suddiviso in diversi spazi fra cui la “bottega”, coincidente con gli ambienti di lavoro veri e propri (come lo stanzone destinato alle grandi sculture e la fornace), e lo studio del maestro, adibito invece a luogo di riflessione, dove disegnare, creare bozzetti, e accogliere gli ospiti.

Prerogativa dell’atelier del Giamblogna fu la fornace personale, progettata appositamente per la fusione di grandi opere d’arte e finanziata dagli stessi Medici, che beneficiarono in questi anni di molte creazioni dell’artista. Sebbene la potenziale pericolosità di tali strutture fra le abitazioni (famoso è l’incendio del tetto della casa di Cellini durante la fusione del Perseo), l’esigenza di avere una fornace consentiva al maestro un controllo personale e diretto di tutte le fasi del lavoro.

Perché la bottega funzionasse al meglio e speditamente, Giambologna si affiancò di validi aiuti locali e stranieri, fra i quali scelse in base alla specializzazione del materiale lavorato, il già citato Pietro Francavilla, come primo assistente ai marmi, e Antonio Susini (1558-1624), primo assistente ai bronzi.

Alla morte del Giambologna, un altro valente allievo, Pietro Tacca (1577-1640) ne ereditò la bottega continuando a vivere e lavorare in Borgo Pinti, sotto l’autorità medicea: la grande richiesta di committenti internazionali sollecitò le nuove generazioni a riprodurre assiduamente le opere più note del maestro che nel frattempo avevano assunto il ruolo di modelli universali.

 

Bibliografia

  1. Pizzorusso, Il Ratto del secolo. Da Bandinelli a Giambologna, in La storia delle arti in toscana: il Cinquecento, a cura di Mina Gregori e Roberto Paolo Ciardi, Firenze 2000, pp. 211-230.
  2. Ferretti, La casa studio di Giambologna in Borgo Pinti, in Giambologna: gli dei, gli eroi, a cura di B. Paolozzi Strozzi e DimitriosZicos, Firenze2006, pp. 315-318.
  3. Francini-F Vassilla, Il Giambologna, pubblicato dal Comune di Firenze, 2015.


LE CASTELLA A ISOLA DI CAPO RIZZUTO

Le fortezze medievali calabresi: le Castella

Posizionato su un isolotto in provincia di Crotone, ad Isola Capo Rizzuto, il complesso de “le Castella” rappresenta una chicca del panorama di fortezze medievali calabresi.

Le origini di Castella sono antichissime, notizie che si confondono con il mito e che rimandano alla presenza di due o tre isolotti non lontane dalla terra ferma, una delle quali dimora, con molta probabilità, di Calipso, la quale avrebbe trattenuto Odisseo per molto tempo nella sua abitazione, così come ce lo tramandano gli scritti di Omero.

Per quanto riguarda l’origine del nome “Le Castella”, usato al plurale, si rimanda alla tradizione locale secondo cui fossero presenti più edifici militari sui suddetti isolotti, sprofondati col tempo negli abissi, così come dimostrano i resti ritrovati su due secche sottomarine. La definizione più importante è quella di Torre o Mura di Annibale, così come ci tramanda Plinio nella sua opera “Naturalis Historia”, secondo cui durante la prima guerra punica venne costruita la prima torre a difesa dei romani.

La posizione storica, geografia e strategica

Il trattato di amicizia tra Roma e Taranto del 304 a.C. prevedeva il divieto di navigazione ad oriente di Capo Lacinio, inducendo Taranto a creare una vedetta sull'isolotto per sorprendere le navi romane che giungevano da Tirreno e puntavano verso Taranto stessa; da qui si capiscee l'importanza di Punta Castella. Poco più tardi, circa un secolo dopo, le fonti vogliono che agli sgoccioli della seconda guerra punica, tra il 208 ed il 202 a.C., Annibale, inseguito dall’esercito romano, fece costruire nel luogo dove oggi sorge il castello aragonese un accampamento o una torre di vedetta. Quando Annibale lasciò il territorio, i Romani istituirono un Castra, da cui deriva l’attuale denominazione.

Con l’occupazione degli Arabi tra il IX e il secolo XI, che già controllavano la vicina Squillace, si impone la dominazione sull’intero golfo. Superata questa dominazione sorgono le prime chiese, una dedicata a Santa Maria e l’altra a San Nicola. Inoltre, diversi documenti testimoniano la presenza di pubblici ufficiali, da cui deriva una florida attività commerciale oltre che sociale.

La pace del borgo fu turbata da un feroce scontro tra Angioini e Aragonesi, che portò al saccheggio di Le Castella da parte dell'ammiraglio Ruggiero di Loria nel 1290; la resistenza degli abitanti del borgo fu di 8 giorni prima di cedere all'assalto.

Gli scontri non finirono qui: qualche tempo più tardi il capitano angioino Guglielmo Estendard volle riconquistare i territori persi appostandosi lì dove le navi nemiche facevano scalo nel golfo e tendendo loro una trappola, ma invece di prendere di sorpresa il nemico, ne fu sopraffatto. Ruggero vinse costringendo Guglielmo alla resa, che ferito cadde prigioniero.

Nel 1459 continuarono gli scontri, che videro contrapposti da una parte  il re Ferdinando d'Aragona, dall'altra il nobile feudatario Antonio Centelles. I conflitti porteranno al dominio sul territorio della famiglia napoletana Carafa, nella persona del nobile Andrea Carafa.

Nel 500 i territori rientrano così nel feudo di Santa Severina segnandone il lento declino, e soprattutto a causa della presenza ottomana si registra una diminuzione degli abitanti, con conseguente riduzione del commercio e dell’attività produttiva delle campagne circostanti.

È nel 1553 che iniziano gli attacchi al borgo, tre anni più tardi le navi turche bombardano la costa sotto il comando del temibile Ariadeno Barbarossa, il terrore dei mari. Tra i prigionieri dovuti alle loro spietate azioni abbiamo un giovane pescatore di nome Giovan Dionigi Galeni, destinato a diventare il famoso Kiligi Alì meglio noto come Uccjalì.

Una leggenda aleggia sulla sua vicenda, tanto da dedicargli un busto nella città e una serie di appellativi dovuti ad una patologia che lo accompagnava dalla nascita, la tigna. Da promesso prete a sostenitore dell’Islam, indosserà il copricapo tipico della pirateria e, sposata la figlia di Chiafer Rais, otterrà il grado di nostromo in una nave corsara.

Le Castella: l'interno

Da un punto di vista architettonico, l’impianto originale è databile alla seconda metà del XIII secolo, così come testimonia la torre merlata circolare al cui interno presenta una scala a chiocciola in pietra che si sviluppa su tre piani.

La struttura presenta un maschio con finestre dette ‘a bocca di lupo’, strette all’esterno e larghe all’interno utili per fare gli avvistamenti senza essere notati, sicuramente collegato alle altre torri di difesa dislocate sul territorio.

Quando Federico d’Aragona consegna la fortezza ad Andrea Carafa, esso la restaura dotandolo di ulteriori bastioni. Con i lavori di restauro terminati ormai venti anni fa, sono stati portati alla luce ulteriori fasi costruttive del castello, che hanno confermato l’ipotesi di una sua costruzione molto più antica rispetto a quella definita in precedenza; all’interno infatti si possono vedere i resti di mura greche, un porto dello stesso periodo, mura romane, una cappella e un antico borgo del XVI secolo.

Lo stabile rientra all’interno dell’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto, tanto è vero che una delle sale del castello ospita una mostra ad essa relativa oltre all’attrezzatura necessaria per la visita virtuale dei fondali. La fortezza diviene un Museo statale, come da DM 23 dicembre 2014 secondo la volontà del Ministro Franceschini, il quale indica l’attività dei musei statali diretta alla tutela del patrimonio culturale. Il passaggio sotto la direzione del Polo Museale di Cosenza viene, però, ufficialmente formalizzato solo nel 2019, vestendosi di una nuova identità, facendolo rientrare nel circuito museale di tutta la Calabria.

 

Sitografia e bibliografia

www.prolocolecastella.it

www.lecastella.info

www.beniculturale.it

  1. Valente, Le Castelle (Isola Capo Rizzuto): una storia millenaria, Catanzaro 1993.

R, Mango, Le Castella: arcaica, archeologica, medievale, Catanzaro 1999.

 

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