L’AMORE PER LA CITTÀ DELLA MONTAGNA: GIUSEPPE SCIUTI

A cura di Mery Scalisi

Nato a Zafferana Etnea, paesino alle pendici dell’Etna, il 26 febbraio del 1834, Giuseppe Sciuti, con la vocazione per l’arte fin da bambino, che non amava il gioco, nè la scuola, intraprende gli studi artistici con il volere del padre farmacista.

Da Zafferana, si trasferisce in giovane età, nella vicina città di Catania, dove inizia a studiare con lo scenografo Giuseppe De Stefani, i pittori Giuseppe Gandolfo e Giuseppe Rapisardi, dal quale apprende ornato e prospettiva, e il decoratore Giuseppe Spina, artisti, che nella loro diversità, ebbero un notevole influsso nello sviluppo della personalità artistica dello Sciuti (fig. 1 e 2).

 

La carriera pittorica di Sciuti, dunque, parte dalla sua terra natia, Catania, dove inizia ad esporre anche i primi dipinti, che seppur ancora ci mostrano uno Sciuti immaturo nello stile, indicano una maestria nel disegno e nel colore. È a questo periodo che risalgono Eruzione dell’Etna, un angosciante olio caratterizzato dai toni rossastri tipici della lava, che illumina in maniera inquietante Zafferana Etnea, con davanti, in primo piano, la folla senza fisionomia, smarrita, immobile e schiacciata da quanto sta accadendo, documento del terribile evento di cui fu testimone all’epoca dei suoi esordi pittorici, e San Giuseppe col Bambino, pala d'altare della chiesa madre di Zafferana (fig. 3).

 

Le voci sulla bravura del pittore arrivano ben presto fino al comune, tanto da mettergli a disposizione una borsa di studio che gli consenta di perfezionarsi fuori dalla Sicilia e di conoscere città come Napoli, Roma e Firenze. Dallo stile verista, acquisito tramite il contatto con il Caffè Michelangelo a Firenze, alla fine degli anni Settanta inizia a preferire il genere storico e una tecnica realista, con opere come La vedova e La tradita, che mostrano un chiaro gusto per il realismo toscano.

Nel 1875 si trasferisce nella capitale, dove morirà nel 1911; qui inizia a ricevere diverse commissioni private, che ben presto arriveranno anche da Sicilia, Liguria e Svizzera.

Il periodo più maturo per Sciuti sarà negli anni trascorsi a Napoli, accanto al Morelli, col quale collaborerà per la realizzazione del sipario del Teatro Verdi di Salerno; da questo momento in poi il genere storico, trattato con il realismo morelliano, diventerà la sua firma.

 

La passione di Giuseppe Sciuti per le grandi ‘’tele’’: il sipario del Teatro Bellini di Catania

A seguito della collaborazione con Domenico Morelli, che lo vede impegnato, nel 1870, nella decorazione del sipario del Teatro Verdi di Salerno, arrivano le commissioni anche dai due importanti Teatri dell’isola, il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro Massimo Bellini di Catania.

Nonostante, da quello che si dice, fosse di bassa statura fisica (circa 1,50 m), amò paradossalmente dipingere tele di grandi dimensioni, solitamente non inferiori ai 5 × 8 m; tra i suoi più grandi dipinti abbiamo infatti il telone del Teatro Massimo di Catania con Il trionfo dei catanesi sui libici (12 × 14 m) e il telone per il Teatro Massimo di Palermo con Uscita di Ruggero I dal Palazzo Reale (14 m di base).

Per Sciuti, il sipario, in un Teatro, che da semplice cortina diventa vera e propria macchina scenica, non solo separa il pubblico dalla scena sul palcoscenico, ma lancia l’idea di un luogo, esso stesso, di rappresentazione, con storie, spesso tratte da avvenimenti dell’antichità.

Come già accennato, formatosi presso lo scenografo Giuseppe Di Stefano, Sciuti risultò avvezzo per i grandi formati e a causa delle importanti dimensioni del sipario pensato per Catania, la soluzione fu quella di realizzare l’enorme sipario in una sala di Palazzo Venezia, a Roma, messa a disposizione dall’ambasciatore austriaco presso la Santa Sede.

Catania, e la Sicilia in generale, rappresentano fin dall’antichità luoghi dai mille volti, ricchi di testimonianze artistiche e proprio per questo e per l’amore che Sciuti ha per le tematiche epiche, che per il Teatro di Catania, propone La battaglia di Himera, battaglia svoltasi nel 480 a.C. che contrapponeva l’esercito cartaginese di Amilcare, sbarcato in Sicilia con i suoi soldati di ventura, e quello siracusano di Gelone. Il comune, nelle vesti di una giuria composta da cinque rappresentanti del Consiglio comunale di Catania e due pittori, bocciò il bozzetto, oltre che per motivi strettamente politici, anche per la presenza di ragazze nude; tra l’altro, la battaglia riguardava i siracusani e non i catanesi.

L’orgoglioso Sciuti non digerì la bocciatura del primo bozzetto e per questo motivo inventò un episodio storico mai esistito, Trionfo dei Catanesi sui Libici, una tempera su tela del 1833, che racconta un episodio leggendario, mai avvenuto, inventato e narrato da Pietro Carrera nelle Memorie historiche della città di Catania, e accolto, però, dai grandi esperti con estremo entusiasmo

Parliamo di una tela di oltre 140 metri quadrati, esposta al pubblico sempre a palazzo Venezia nel febbraio del 1883, in cui si evidenzia il contrasto tra il centro, freddo ed accademico, e il gruppo di destra ricco di vita e di movimento, con protagonista l’Etna fumante e innevata, rovine e templi romani e la celebrazione durante il momento dei festeggiamenti, con gli elefanti catturati all’esercito avversario e a destra una folta schiera di sacerdoti.

Da questo momento in poi, dopo il successo ricevuto grazie alla realizzazione del sipario destinato al Teatro Bellini di Catania, per Sciuti arriveranno commissioni, una dietro l’altra, di opere private e pubbliche, destinate queste ultime anche al Municipio e al Castello Ursino nella città di Catania.

A proposito del Castello Ursino, la pinacoteca dell’oggi Museo Civico vede ampliare la propria collezione nel 1978 con l'acquisto di un'importante raccolta di dipinti, oli su tela, del pittore zafferanese, tra i quali: Paesaggio del 1862, La Verità scoperta dal Tempo del 1864, Peppa la cannoniera del 1865, già al Museo Civico del Castello Ursino di Catania, distrutto da un incendio nel 1944, Regalo di nozze, 1865 (datazione incerta), Madre del Barone Zappalà, opera, anch’essa del 1865, e il bozzetto La Carità (Visitare gli infermi) del 1867.

 

 

 

Bibliografia

Dato Toscano, Sulla scena della città, Catania, Le istituzioni culturali municipali

Ronsivalle, Cantare al Bellini era purissimo piacere, Catania. Le istituzioni culturali municipali.

Sciacca, Costa Chines, Danzuso, Il Teatro Massimo Bellini di Catania, Catania, Lions Club Catania Host, 1980

Calvesi, A. Corsi, Giuseppe Sciuti, Nuoro, Ilisso, 1980

Accademia degli Zelanti e dei Dafnici (a cura di), Giuseppe Sciuti, nel centenario della morte, Acireale, Galatea editrice, 2011


LA FONTANA PRETORIA, SIMBOLO DELLA CITTA’ DI PALERMO

A cura di Adriana d'Arma

 

 

A pochi passi dai Quattro Canti di Palermo, esattamente nel quartiere Kalsa, si trova una delle più belle e popolari piazze della città: Piazza Pretoria (Fig. 1), al centro della quale si colloca l’omonima fontana, così chiamata per via del principale ingresso del Palazzo municipale – già residenza del Pretore cittadino -  che si apre su di essa.

La Fontana Pretoria

La Fontana Pretoria si presenta circondata su tre lati da antichi edifici: il Palazzo Pretorio, la chiesa di Santa Caterina e due palazzi baronali, Palazzo Bonocore e Palazzo Bordonaro (quest’ultimo tristemente abbandonato). Il quarto lato, infine, si affaccia su via Maqueda.

Considerata uno dei monumenti più iconici della città, la fontana Pretoria narra al visitatore che si approccia ad essa una storia lunga ed appassionante, che tuttavia in pochi conoscono (Fig. 2).

 

La sua costruzione risale al 1554 ad opera del famoso architetto e scultore italiano Francesco Camilliani. Tuttavia tale fontana non è stata progettata per l’attuale piazza in cui si trova, bensì per decorare il giardino della villa fiorentina di don Luigi di Toledo, fratello della granduchessa Eleonora di Toledo. Per il progetto della fontana fu scelto un materiale di grande effetto scenico nel verde dei giardini: il marmo bianco di Carrara.

Spinto dai debiti, don Luigi fu costretto a vendere la fontana al Senato palermitano. L’idea del Senato era quella di collocare la fontana nel piano del Pretorio, abbattendo alcune case per recuperare spazio, arredandolo prestigiosamente in un periodo in cui si stavano effettuando degli interventi urbani migliorativi, che includevano tra l’altro l’ampliamento del Cassaro.

Quella per la fontana fu sicuramente una spesa non indifferente, e in un momento in cui la città versava in uno stato di miseria essa divenne il monumento simbolo della corruzione politica e civile della città acquisendo il non gradito appellativo di Fontana della Vergogna.

Tale epiteto si lega, tuttavia, anche ad altre dicerie: la “Vergogna” a cui ci si riferisce sarebbe anche quella delle suore di clausura dell’adiacente monastero di Santa Caterina, costrette a coprirsi ripetutamente il volto ogni volta che attraversavano la piazza per non osservare le nudità delle statue. Si narra infatti che che le stesse suore, una notte, uscirono dal convento per distruggere le parti intime maschili e per non dover più tollerare tale visuale.

 

Il complesso, trasportato su una nave, approdò nella città di Palermo, smembrato in 644 pezzi, nel 1573; tuttavia, il gruppo scultoreo che giunse in città era incompleto, mutilo di alcune statue che in parte vennero danneggiate durante il tragitto, in parte furono trattenute dal proprietario.

Il complesso monumentale è ricco, e conta ben trentasette statue in marmo di Carrara, alcune delle quali sono rappresentazioni di divinità (Fig. 3).

 

Tra le figurazioni scultoree umane trovano spazio anche delle figure animali (Fig.4), divinità pagane ed eroi mitologici (Orfeo con Cerbero, Ercole e l’Idra trifauce ecc.), mostri e ninfe del mare, creature per metà uomini e per metà pesci, come i Tritoni e le Nereidi, una ninfa d’acqua dolce con Pegaso. Completano la curiosa rassegna di animali fantastici cariatidi, satiri, pesci-cavalli emergenti dalle nicchie.

 

La fontana Pretoria presenta una pianta ellittica, con vasche d’acqua concentriche sul cui bordo giacciono statue allegoriche dei fiumi di Palermo: l’Oreto, il Papireto, il Gabriele e il Kemonia. Essa si sviluppa in più livelli ai quali si accede attraverso delle piccole scalinate, dove si possono ammirare teste di animali e mostri mitologici, dalla cui bocca sgorga acqua (Figg. 5-6) nonché altre figure mitologiche tra cui si riconoscono Venere, Adone, Ercole, Apollo, Diana e Pomona.

 

Probabilmente lo stesso architetto Camilliani fu fonte di ispirazione per Gianlorenzo Bernini il quale, circa cento anni dopo in Piazza Navona a Roma, realizzò la celeberrima Fontana dei Quattro Fiumi nella quale quattro statue raffigurano i principali corsi d’acqua di ogni continente: il Gange per l’Asia, il Rio della Plata per l’America, il Danubio per l’Europa, il Nilo per l’Africa.

 

Il giardino di don Luigi di Toledo costituisce un esempio eloquente di quel passaggio dal gusto rinascimentale – tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento - a quello più propriamente manierista, in cui l’arte e la natura si confrontavano, all’interno dei giardini, a creare uno scenario magico fatto di allegorie, giochi d’acqua e percorsi labirintici che avevano lo scopo di coinvolgere il visitatore tanto nella sua sfera emozionale quanto in quella intellettiva.

Ad oggi la fontana Pretoria è protetta da una cancellata in ferro battuto concepita e realizzata dall’architetto Giovanni Battista Filippo Basile nel 1858.

 

La fontana pretoria, uno dei simboli più rappresentativi di Palermo che ancora oggi si manifesta agli occhi dei visitatori in tutta la sua meravigliosa imponenza architettonica e decorativa (Fig. 7), venne celebrata, del resto, anche dallo stesso Giorgio Vasari nella Vita dell’architetto Camilliani:

 

“Fonte stupendissima che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia: e la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quegli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi, e per gran copia d’acque, che vi saranno abbondantissime d’ogni tempo”. (Vasari-Milanesi, IVV. P. 628).

 

 

Tutte le fotografie sono state scattate dalla redattrice dell'articolo.

 

 

 

Bibliografia

De Castro e M. R. Nobile, L’eroico e il meraviglioso. Le donne, i cavalier, l’arme…in Sicilia. Un mondo di immagini nel V centenario dell’Orlando Furioso, Palermo, Caracol, 2017.

La Monica, La Fontana pretoria di Palermo analisi stilistica e nuovo commento, Palermo, Pitti, 2006.


VILLA NISCEMI, PALERMO: DA BAGLIO AGRICOLO A DIMORA DI NOBILTÀ

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

«Ma il suo vero charme gli veniva dalla profusione di palme e alberi semitropicali, auricarie, ficus, magnolie grandiflora, ibiscus e agave piantati in una specie di amabile disordine.»

(Le Estati Felici, Fulco di Verdura)

 

Tra le mille dimore nobiliari che costellano la città di Palermo, quella che fu dei Valguarnera si rivela essere tutt’ora un prezioso gioiello nascosto in mezzo al verde. Immersa tra i suoni della natura e attorniata da un paesaggio bucolico, il palazzo è, ancora oggi, uno dei punti fermi d’attrazione per i cittadini palermitani.

La villa, oggi utilizzata come suggestiva cornice che ospita visite ed eventi di vario tipo, è un’assoluta punta di diamante nel patrimonio storico – artistico del Comune di Palermo, un bene di intramontabile bellezza, che profuma di storie di vita vissuta.

 

Villa Niscemi: brevi cenni storici e attuale condizione 

Oggi di proprietà del Comune di Palermo, che al suo interno ha stabilito la sua sede, Villa Niscemi venne costruita, intorno al ‘600: in origine essa ricopriva la funzione di baglio agricolo, ovvero una fattoria connotata dalla presenza di una struttura difensiva e da un ampio cortile interno. Ai tempi della sua edificazione, la fattoria prendeva il nome di Baglio Balata che, almeno fino alla seconda metà del 1600, era di proprietà di Carlo Santangelo il quale lo concesse in eredità alla figlia. Mentre ancora manteneva la funzione di masseria, la struttura venne acquistata da Tommaso Sanfilippo, il “Duca delle Grotte”. Solo successivamente, orientativamente tra il 1730 e il 1750, questa venne prelevata dai Valguarnera, famiglia originaria di Niscemi, e trasformata in dimora nobiliare fino a quando, nel 1987, Maria Immacolata Valguarnera e Margherita Valguarnera, ultime eredi dei beni di famiglia, concessero la loro proprietà al Comune di Palermo.

Allo stato attuale, la costruzione è tuttora egregiamente mantenuta: sono infatti ancora presenti tutti gli arredi, ed allo stesso modo anche tutti i dettagli e le finiture appaiono in condizioni di conservazione ottimali.

 

Esterno

La struttura è composta da tre elevazioni, attraversate verticalmente da lesene, il cui colore sabbia/ocra si pone in contrasto con il colore bianco della facciata. Anche i balconi e le finestre si caratterizzano per essere attorniati, come fossero quasi incorniciati, da sagome curvilinee che stilisticamente si rifanno a un gusto tipicamente settecentesco.

Dal momento che il vecchio Baglio venne costruito a partire da una torre di difesa, la presenza di quest’ultima è testimoniata dalla conservazione di quello che è il lato più antico dell’intera struttura, ovvero quello in direzione dell’ingresso. Ancora, dalla struttura fuoriescono due avancorpi terrazzati, le cui sporgenze si caratterizzano dall’utilizzo di una pavimentazione in maiolica a zig zag color blu lapislazzuli. Alla corte, poi, si accede tramite un varco; una volta entrati, all’interno di quest’ultima si possono ammirare le scuderie e una sala che oggi viene sfruttata per ospitare eventi di varia natura.

Sul finire del Settecento vennero apportate ulteriori modifiche alla Villa, e in occasione di tali aggiunte venne completata la realizzazione di un parco ottocentesco dall’atmosfera romantica.

 

Interno

Il piano nobile di Villa Niscemi, anche conosciuto come Galleria dei Re, deve il suo nome alla presenza, al suo interno, di una serie di opere d’arte che ritraggono i sovrani siciliani, dagli inizi – dinastia normanna degli Altavilla – fino ad arrivare ai Borbone. Ad esso si accede, contrariamente all’uso tipico dell’epoca – che prevedeva l’accesso dall’esterno – mediante una scalinata in marmo interna al palazzo realizzata dall’architetto Giovan Battista Palazzotto (responsabile del cantiere dal 1881 al 1896) verso la fine dell’Ottocento.

A caratterizzare la Galleria dei Re è anche il soffitto ligneo dipinto, sul quale trova posto un grande e prestigioso albero genealogico del casato. Degno di attenzione, per le sue decorazioni a rilievo, è anche l’imponente camino in pietra – concepito da Palazzotto e realizzato dallo scultore Vincenzo La Parola.

Nel salone principale, scendendo lungo le pareti laterali, si può notare la presenza di affreschi a trompe l’oeil. L’espressione, traducibile dal francese con “inganna l’occhio”, deriva dal lessico specialistico e viene utilizzata per definire un genere di pittura dall’accentuata dimensione illusionistica che “inganna” la percezione dello spettatore, convinto di scorgere, nelle rappresentazioni bidimensionali della pittura, elementi reali. Gli affreschi dipinti lungo le pareti laterali rappresentano le Quattro Stagioni, ad eccezione di quella di fondo, che è invece impegnata dalla scena dell’Incoronazione del principe di Valguarnera da parte di Carlo Magno. La decorazione del Salone è completata dall’Assunzione, dipinta sul soffitto.

 

Ala sinistra e ala destra

Dalla Sala d’ingresso è possibile, inoltre, accedere alle due ali del palazzo, quella di sinistra e quella di destra.

Quest’ultima ospita tutti gli ambienti destinati alla privata della famiglia Valguarnera, come ad esempio il salone da pranzo, una biblioteca ottocentesca e anche la saletta della musica.

L’ala sinistra della villa, invece, è occupata da una serie di sale collegate tra di loro:

il Salone di Santa Rosalia, il Salone delle Quattro Stagioni, la Sala Verde – che aveva la funzione di sala da ballo – ed infine la Stanza di Tobia che separa gli ambienti privati dei principi.

Ognuno di questi ambienti privati è a sua volta composto da una camera da letto, da uno studio e da un salotto.

Il secondo piano, infine, è composto da un paio di semplici sale, una nursery e due appartamenti.

 

…anche questa volta il Gattopardo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, noto autore de Il Gattopardo, si ispirò, per i personaggi di Tancredi e Angelica – anche per quanto riguarda alcuni dettagli e sfumature caratteriali – proprio a Corrado e Maria Valguarnera. Questi furono, infatti, due figure di grande spicco nell’ambiente dell’élite palermitana.

 

 

 

 

Bibliografia

Massimiliano Marafon Pecoraro, Bernard Aikema, et alii, Villa Niscemi, 40due Edizioni, 2018

 

Sitografia

https://turismo.comune.palermo.it/palermo-welcome-luogo-dettaglio.php?tp=68&det=19&id=139

https://www.palermoviva.it/villa-niscemi-ai-colli/

 

 

Figura 1 - Esterno

 

 

Figura 2 – Esterno

Figura 3 - Parco

Figura 4 - Camino in pietra e soffitto ligneo dipinto

 


L’ORATORIO DEL S.S. ROSARIO DI SANTA CITA A PALERMO

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

Gli oratori, edifici tra arte e fede

Sono numerosi gli antichi oratori che si celano tra le strade della città di Palermo, spesso i cittadini passano davanti ai loro accessi, inconsapevoli del tesoro contenuto al loro interno. Tra questi c’è l’oratorio del S.S. Rosario di Santa Cita.

 

In origine gli oratori venivano edificati attiguamente alle chiese, ed è per questo che vi è una differenza di significato tra l’oratorio di un tempo, inteso come luogo di culto destinato alla preghiera, che poteva essere privato o destinato ad una comunità, e il termine attuale. In tempi odierni il termine oratorio si riferisce infatti ad un edificio senza una struttura specifica, la cui destinazione è principalmente rivolta a comunità giovanili di una determinata parrocchia, in cui questi svolgono sia attività di preghiera, che di educazione cristiana, che attività di puro svago. Gli oratori in passato, invece, erano delle vere e proprie piccole chiese riccamente ornate, che prendevano il nome del santo a cui era devota la congregazione.

 

La presenza degli oratori si attesta sin dal principio del culto del cristianesimo, ma fu a partire dalla Riforma Cristiana che l’oratorio iniziò ad essere maggiormente in auge; il periodo del barocco fu probabilmente il momento più fertile per la costruzione degli oratori in Italia.

 

L’oratorio del S.S. Rosario di Santa Cita

L’oratorio del S.S. Rosario di Santa Cita si trova a Palermo in via Valverde, adiacente alla chiesa di Santa Cita. La sua costruzione, per volere della Compagnia del Rosario, avvenne nel 1590, un ventennio dopo la fondazione della Compagnia.

Esterno ed interno sono nettamente contrastanti nello stile: se da un lato, infatti, l’esterno è modesto, senza alcuna particolare decorazione sontuosa, l’interno rivela essere invece estremamente ricco.

Il portone d’accesso dell’oratorio è situato nella loggia superiore del chiostro della chiesa di Santa Cita.

L’aula oratoriale è preceduta da un antioratorio, il cui accesso è permesso da due portali marmorei realizzati da Giuseppe Giacalone. Tra i due portali è posto un mezzo busto di Giacomo Serpotta. Nell’antioratorio sono posizionati ritratti che raffigurano tutti quegli uomini che negli anni hanno rivestito il ruolo di superiore della congregazione. Sulla volta, invece, è posto lo stemma della Compagnia del Rosario. L’oratorio è molto semplice e di forma rettangolare, ma la sua semplicità strutturale si contrappone all’opera magistralmente creata dal Serpotta. Il pavimento, infine, è in marmo policromo a disegni.

 

Giacomo Serpotta si occupò di decorare a stucco l’intera aula tra il 1686 e il 1718. La particolarità di questi stucchi, oltre ai vari soggetti rappresentati che hanno un forte valore dimostrativo della fede cristiana, risiede nella volontà dell’artista di voler intervallare e decorare ulteriormente il tutto attraverso l’inserimento di putti che padroneggiano tutte le pareti. I putti, infatti, vengono rappresentati con un libero movimento, in molteplici posizioni, e si insinuano giocosamente tra le varie rappresentazioni.

 

L’aula è interamente dominata da una serie di grandi finestre, attorno a queste si articolano le decorazioni: i putti e le statue stazionano su mensole e timpani.

L’iconografia della parete della controfacciata, quindi in opposizione all’altare, racconta minuziosamente la battaglia di Lepanto, posta centralmente rispetto ad un grande panneggio che occupa l’intero tramezzo. Durante la battaglia si narra che fu proprio la Madonna del Rosario a proteggere la flotta cristiana dall’attacco dei Turchi. Ai piedi della scena della Battaglia di Lepanto sono raffigurati due putti con simboli iconografici che fanno riferimento alle sofferenze derivanti dalla guerra, e rimandi sia ai turchi vinti che ai cristiani vincitori: un putto sorregge infatti il turbante tipico turco, mentre un altro sorregge l’elmo di Carlo V.  La stessa parete è ancora decorata da ornamenti vegetali e piccoli putti.

 

I rilievi sono estremamente realistici, le sculture sono state lavorate in modo da bilanciare i chiaroscuri e in maniera tale da fornire una sensazione palpabile del grande panneggio e delle volute.

A circondare la scena della Battaglia di Lepanto sono cinque riquadri che rappresentato scene dei misteri gloriosi del S.S. Rosario.

Nella stessa controfacciata sono presenti, inoltre, le due porte d’accesso decorate con coppie di atlanti.

Le pareti di destra e di sinistra mantengono lo stesso registro decorativo con teatrini, allegorie, putti ed elementi vegetali; analogamente, in queste vengono rappresentati, in asse ad ogni finestra, i misteri del S.S. Rosario entro riquadri scultorei.

Sulla parete occidentale è presente la rappresentazione iconografica dei Misteri Gaudiosi, quindi l’Annunciazione, la visita di Maria ad Elisabetta, la nascita di Cristo, la presentazione di Gesù al tempio ed infine il ritrovamento di Gesù tra i Dottori nel tempio.

Nella parete orientale i Misteri Dolorosi: Gesù nell’orto degli ulivi, la flagellazione di Gesù, l’incoronazione di spine, la salita al calvario e la crocifissione.

Altra particolarità delle pareti occidentale ed orientale, sono i sedili in ebano intarsiato in madreperla che, un tempo, erano destinati ai confrati; anch’essi sono oggi ritenuti bene artistico.

 

Serpotta intervenne nuovamente nel 1717 circa nell’altare maggiore. In questo è presente la grande pala d’altare che realizzò Carlo Maratta nel 1695, raffigurante la Madonna del Rosario.

Serpotta realizzò ancora il catino presbiteriale, in perfetta armonia con l’intera decorazione realizzata precedentemente. In prossimità dell’arco d’accesso al presbiterio, creò ed inserì due statue: a destra Giuditta, mentre a sinistra Ester.

 

Come nota Pierfrancesco Palazzotto «Serpotta si mostra in definitiva culturalmente onnivoro, una “gazza ladra, come lo definisce Garstang, che assimila materia e la rigenera sotto nuova forma, frutto della sua “capacità di fondere immagini altrui in una nuova immagine che colpisce per vivacità e appropriatezza”»

 

 

 

 

Bibliografia

Garstang D., Giacomo Serpotta e serpottiani stuccatori a Palermo, Palermo, 2006, p.54

Grasso S., Mendola G., et alii, L’oratorio del Rosario in Santa Cita a Palermo, Euno Edizioni, Enna, 2015

Palazzotto F., Fonti, modelli e codici compositivi nell’opera di Giacomo Serpotta, in (a cura di) Favara G., Mauro E., Giacomo Serpotta e la sua scuola, Itinerari dei beni culturali, Grafil, 2009, Palermo

 

Sitografia

https://turismo.comune.palermo.it/palermo-welcome-luogo-dettaglio.php?tp=68&det=16&id=61


PURIFICATION, BILL VIOLA: PALERMO ACCOGLIE LA VIDEOARTE CHE HA FATTO LA STORIA

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

 

È il 10 luglio del 2021 e Palermo apre le porte del Palazzo Reale per mostrare un mondo che, in realtà, non tutti conoscono. È storia dell’arte a tutti gli effetti quella che si nasconde tra le mura di un bene, parte dell’itinerario arabo-normanno della città nonché patrimonio dell’UNESCO.

Il luogo, tutt’altro che contemporaneo, ha accolto una serie di opere d’arte facenti parte del fenomeno della videoarte, nato negli anni ’60. L’antico si sposa con l’innovazione, dunque, e passato e presente si fondono a creare un flusso d’arte travolgente che investe ed attraversa il pubblico che si accinge a visitare Purification, uno dei lavori più noti del videoartist statunitense Bill Viola.

E si potrebbe dire finalmente. Finalmente Bill Viola approda in una terra che tutt’ora, purtroppo, sembra prigioniera di una stasi che non vuole farla innalzare, che non vuole aprirla all’innovazione nel campo dei linguaggi artistici.

 

Bill Viola

Bill Viola, classe 1951, si configura oggi come uno dei pionieri della Videoarte. Dopo aver iniziato la sua carriera realizzando ed esponendo videotapes e installazioni video, egli arrivò gradualmente a cimentarsi sempre di più, anche con l’ausilio dello sviluppo di nuove apparecchiature tecnologiche, nella realizzazione di opere di videoarte.

 

I viaggi interiori di Viola: dal suo passato a Purification

Attraverso un lavoro sinergico e di squadra, la Fondazione Federico II, il Bill Viola studio e l’ARS, l’Assessorato ai Beni Culturali e all’identità siciliana, con la collaborazione di Enti ecclesiastici hanno dato vita ad uno spettacolo artistico che ha messo al centro il profondo tema della spiritualità curato da curare Kira Petov, direttore generale del Bill Viola Studio, e Patrizia Monterosso.

Spiega Kira Perov: «Il viaggio spirituale di Bill Viola è visibile nelle oltre 230 opere che ha creato nel corso di 45 anni di carriera.»

Quella della spiritualità è quindi una tematica indagata dall’artista in maniera reiterata, che si configura come una vera e propria ricerca i cui risultati si esplicano, e vengono proposti al pubblico, attraverso l’intero percorso delle sue opere.

Basti ricordare The Passion, l’esposizione personale tenutasi al J. Paul Getty Museum di Los Angeles nel 2003, il cui focus erano le emozioni umane; o ancora l’esposizione Visioni interiori, ancora a cura di Kira Perov, tenutasi nel 2008 al Palazzo delle esposizioni di Roma, presso il quale è stata presentata al pubblico una raccolta di sedici grandi opere, nelle quali il dolore, la gioia, la paura, la rabbia, gli elementi naturali e vita e morte si mescolano e si palesano davanti al pubblico.

Ciò che Viola ci mostra in Purification non è tanto il punto di arrivo di uno studio che si è perpetrato negli anni, quanto un ulteriore tassello di ciò che ha elaborato in seguito allo studio di scritti mistici cristiani (sottolinea ancora la Perov), e in seguito allo studio del sofismo e del Buddismo zen.

 

 

Purification a Palermo

L’esposizione, aperta al pubblico dal 10 luglio del 2021 al 28 febbraio del 2022, si svolge all’interno delle Sale Duca di Montalto del Palazzo Reale di Palermo.

I temi focali dell’esposizione sono il martirio e l’ascensione, rappresentati in cinque opere totali.

Nella fattispecie, l’Ascensione di Tristano (fig. 2), tra le cinque l’opera più grande, è tra l’altro posta in un punto isolato rispetto alle altre opere, e ciò permette all’opera di dispiegare tutto il suo potenziale comunicativo, e al pubblico di godere pienamente del messaggio che Viola ha voluto veicolare.

 

Il tema del martirio (fig.3 e 4), invece, viene rappresentato in relazione ai quattro elementi: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Il formato di queste quattro opere, pur nettamente inferiore rispetto all’Ascensione di Tristano, che fa quasi da protagonista, non toglie nulla alla loro immensa potenza comunicativa.

 

L’elemento acquatico, tuttavia, pare inserirsi anche all’interno dell’Ascensione di Tristano, sotto forma di una cascata che occupa quasi tutto lo spazio della tela multimediale e che porta il protagonista verso il cielo. Quella di Tristano è la rappresentazione della trascendenza, e mediante questo episodio Viola dimostra cosa potrebbe accadere nel viaggio di un’anima che, dal momento in cui lascia la vita terrena, giunge in un’altra dimensione al momento della morte.

L’esposizione di Viola si configura come un continuo dialogo tra passato e presente, tra corpo e spirito, tra arte e visitatore. Questo, infatti, risulta essere l’obiettivo fondamentale dell’artista, il cui desiderio è quello di «portare i visitatori ad immergersi in un mondo interiore, un mondo creato per loro, ma anche un mondo che, come se si stesse attraversando la soglia di un portale, lascia spazio per la scoperta e la riflessione.»

Lo spettatore si sente davvero catapultato all’interno di un mondo altro, di pura interiorità, in cui ci si ritrova da un lato in connessione con i confini terrestri, dall’altro con quelli spirituali. Egli si ritrova in balia di enigmi ai quali, attraverso le riflessioni che le opere di Viola sono magistralmente in grado di muovere, si possono trovare delle risposte che non diventano mai certezze assolute. Chi, d’altronde, è in grado di prevedere cosa accadrà quando cesseremo di vivere? Se una risposta certa è impossibile, è altrettanto vero che noi, uno scenario abbiamo modo di ipotizzarlo, di vederlo, e tutto questo grazie all’arte, che da sempre ci offre la possibilità di guardare ciò che noi, da soli, non avremmo modo di vedere.

Purification è certamente un’occasione per scoprire dimensioni spirituali, dimensioni artistiche, ma soprattutto per accettare e apprezzare la grande videoarte, con la speranza che, nell’immediato futuro, la città di Palermo possa ospitare sempre più spesso esposizioni così innovative, importanti, tese verso un’arte sempre in divenire ma che mai dimentica e rinnega le sue radici e i grandi maestri del passato.

 

 

 

Sitografia:
- Purification


PALAZZO ABATELLIS: DA DIMORA STORICA A GALLERIA REGIONALE DELLA SICILIA

A cura di Adriana D'Arma

 

 

 

La Via Alloro

Nel cuore del quartiere Kalsa di Palermo si colloca una delle vie più antiche e significative della città, la via Alloro. Si narra che quest’ultima prese il nome da un secolare albero di alloro, appunto, radicato all’interno di un’antica dimora storica, l’odierno Palazzo San Gabriele.

Tuttavia, le vicende di questa strada sono fortemente legate alla storia dell’antica nobiltà di quartiere. Infatti, viaggiando indietro nei secoli e ripercorrendo l’asse stradale, è qui che vi dimoravano le più alte e prestigiose cariche della città. Per tale motivo, lungo la via vennero costruiti numerosi altri palazzi ancora esistenti e in parte visibili.

Tra le dimore nobiliari vanno ricordate: il Palazzo Diana Cefalà, il Palazzo Bonagia (crollato nel 1982), il Palazzo Calvello, il già citato Palazzo San Gabriele e il Palazzo Abatellis.

Ancora in questa via emergono due importantissime chiese: Santa Maria dell’Itria, detta dei Cocchieri e la Chiesa di Santa Maria degli Angeli, più nota come Chiesa della Gancia, con l’annesso convento, oggi sede distaccata dell’Archivio di Stato di Palermo.

 

Palazzo Abatellis

Storia

Palazzo Abatellis, mirabile esempio di architettura gotico-catalana, conobbe nel corso dei secoli varie destinazioni d’uso a causa delle intrecciate e complesse vicende di coloro che l’abitarono.

La vicenda storica del Palazzo è in primis legata ad un uomo di origini toscane, Francesco Abatellis, personalità nota e popolare che, oltre a ricoprire la carica di pretore tra il 1477 ed il 1490, fu Mastro Portolano del Regno, ovvero colui che controllava il traffico mercantile del porto della città, nei pressi della via Alloro.

Allo scadere del 1400 venne affidata la costruzione dell’edificio, che divenne l’abitazione del pretore, al noto architetto Matteo Carnalivari.

I motivi per cui personalità come quella di Francesco Abatellis decidevano di far edificare questi palazzi erano strettamente personali e legati dunque al prestigio, all’affermazione della loro autorità e alla posizione raggiunta in quel periodo nell’Isola.

Tuttavia, la discendenza della famiglia Abatellis non fu certo longeva: né la prima e amata moglie Eleonora Soler, che venne a mancare nel fiore degli anni, e neppure la seconda, la palermitana Maria Tocco, riuscirono a dare a Francesco un erede.

Pertanto, alla morte di Francesco Abatellis e della moglie, la prestigiosa Domus Magna tardo - quattrocentesca venne ceduta alle suore del monastero benedettino di clausura, cosicché nei secoli successivi il palazzo subì molte aggiunte e rifacimenti per essere adattato all’uso monasteriale.

La grandiosa dimora cambiò radicalmente nel corso dei secoli fino a quando, durante i bombardamenti del 1943, venne colpita rovinosamente da un ordigno che provocò il crollo del prospetto laterale nonché il muro del torrione di destra.

Nel 1953 l’edificio nobiliare venne affidato alla Soprintendenza ai Monumenti che voleva farne un museo: è a partire dall’anno seguente, infatti, che il Palazzo Abatellis è la sede ufficiale della Galleria Regionale della Sicilia, che, contando su un vasto e ricco percorso museale, offre al visitatore i più svariati tesori dell’arte siciliana medievale e moderna.

Descrizione

L’accesso al palazzo sulla via Alloro è favorito dal maestoso portale d’ingresso (Fig. 1) sormontato da tre stemmi (il centrale identifica la famiglia Abatellis) e accoglie il visitatore consentendogli l’ingresso all’atrio sul quale si affaccia il piano loggiato.

La dimora-fortezza si presenta come un edificio compatto dal profilo quadrangolare, delimitato a destra e a sinistra da due torri coronate da merlature (Fig. 2). Uno dei due torrioni si conserva ancora oggi in ottimo stato grazie agli interventi di restauro ad opera di Carlo Scarpa.

La torre nord è stata gravemente distrutta dalle bombe americane e ricostruita ex novo grazie ad un intervento che cercò di restituirla il più possibile nel suo aspetto originario.

Dal cortile principale si colgono i tratti peculiari delle residenze quattrocentesche: le emblematiche trifore impreziosite da archetti traforati sormontati da esili colonnine, la scala “descubierta” che conduce al piano nobile e la particolare apertura con strombature (Figg. 3-4).

 

Le originarie stanze nobiliari, destinate alle residenze dei proprietari, oggi ospitano una cospicua collezione d’arte che suddivide i manufatti in base alla tipologia a cui afferiscono; si tratta di materiale proveniente dall’antico Museo Nazionale di Palermo, l’odierno Museo Archeologico Salinas.

A sinistra dell’atrio d’ingresso alcuni ambienti accolgono invece materiale lapideo e ceramiche arabe e medioevali; la restante collezione, infine, trova un’adeguata collocazione ai piani superiori. Di quest’ultima meritano menzione alcune delle opere più importanti: il Trionfo della Morte (Fig. 5) affresco murale di ragguardevoli dimensioni e tra gli esemplari più emblematici e controversi dell’arte siciliana, il ritratto marmoreo di Eleonora d’Aragona (Fig. 6), potente donna del quattrocento siciliano realizzato da Francesco Laurana e la celeberrima Annunciata di Antonello da Messina (Fig. 7), straordinaria prova pittorica nella quale il pittore seppe rappresentare la Vergine in un connubio di solennità e raffinatezza.

 

In occasione della XIII edizione del Festival “Le Vie Dei Tesori” (2019), la Galleria Regionale aprì le porte al Gabinetto di Disegni e Stampe, collocato all’interno della torre nord del Palazzo. Un percorso inedito, quest’ultimo, accessibile dalla Terrazza del Belvedere (solitamente chiusa al pubblico) che collega una torre con l’altra.

Sul lato posteriore dell’edificio è possibile ammirare il secondo cortile, edificato in epoca successiva (ovvero quando il palazzo venne adibito a monastero): è un giardino all’italiana, con siepi a motivi geometrici di varia forma (Fig. 8) e finestre in corrispondenza delle sale che oggi ospitano le collezioni della Galleria.

 

Arricchiscono inoltre la decorazione architettonica del palazzo alcuni caratteristici doccioni zoomorfi e splendidi esempi di gargoyles di stile gotico (Fig. 9).

 

Dalla terrazza di Palazzo Abatellis è inoltre possibile ammirare dall’alto i monumenti circostanti come l’Oratorio dei Bianchi, la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, la chiesa della Gancia, pezzi di storia che vive e splende mirabilmente nel cuore della città.

 

 

Le immagini dalla n. 2 alla n. 9 sono fotografie esclusivamente scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Chirco A., Breve guida di Palermo per itinerari storici, Flaccovio Dario, 2015;

Patera B., Il Rinascimento in Sicilia. Da Antonello da Messina ad Antonello Gagini, Edizioni d’arte Kalòs, 2008.


IL TEATRO MASSIMO DI PALERMO: UN TEMPIO MUSICALE CHE HA SCRITTO LA STORIA DELLA CITTÀ E DELL’ITALIA

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

A Palermo, nell’attuale Piazza Verdi che affaccia su via Maqueda, sorgevano tre chiese: la chiesa di San Francesco delle Stimmate con annesso monastero benedettino, conosciuto anche come Monastero delle Dame, la Chiesa e il Monastero di San Giuliano e la Chiesa di Sant’Agata. Più di due secoli dopo, nel 1875, questi tre gruppi di edifici vennero demoliti per far spazio al luogo che avrebbe scritto di lì in poi la storia della cultura musicale palermitana: il Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo.

Dimora del melodramma, del bel canto, di danza e sinistre leggende, il Teatro Massimo di Palermo si configura non solo come massimo tempio musicale dell’intera Sicilia, ma come il più grande edificio teatrale in Italia ed il terzo in Europa dopo l'Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna.

Prima di narrare la storia della sua costruzione e della sua vita, vale la pena porre attenzione, ancora una volta, al cenno fatto in incipit: il monastero delle Dame.

 

Leggenda

Viene da chiedersi cosa si prova nel veder demolito un luogo caro, dimora del proprio corpo ed in questo caso della propria fede, obbligati ancor prima a dover lasciare per sempre, quindi senza possibilità di ritorno, quelle mura che di notte e di giorno hanno ascoltato silenzi rispettosi e preghiere cariche di amore. Quelle mura che sono state fondamento e iniziazione di una nuova vita nelle mani di Cristo.

Con la distruzione di quel tempio sacro, non solo la vita mortale venne disturbata dall’idea di innovazione e di costruzione laica e mondana: allo smantellamento del monastero ne conseguì infatti anche quella del cimitero posto nei pressi dello stesso. Vennero così profanate le tombe delle monache che lì riposavano, e ne venne disturbato il loro sonno eterno.

E può uno spirito, ormai lontano dalle cose terrene, risvegliarsi e maledire coloro i quali sono artefici di atti non collimanti con tutto ciò che c’è di più sacro? Ebbene, proprio il Teatro Massimo, nella cultura popolare naturalmente, ne sembra essere la più viva testimonianza.

Si narra che ad essere risvegliata proprio dal sonno eterno fu una Badessa del monastero, che al suo risveglio, in collera per quanto stava accadendo, decise di maledire tutte le persone e gli eventi che si sarebbero verificati in futuro.

Ad alimentare la leggenda furono una serie di coincidenze che si verificarono e che, di rado, continuano a verificarsi ancora: l’eccessiva durata dei lavori relativi al Teatro con annesse interruzioni, incidenti durante spettacoli e prove liriche, varie cadute durante la salita o la discesa della grande scalinata di accesso al teatro.

Infine, si dice che proprio tra le mura del teatro Massimo si aggiri ancora il fantasma della suora: c’è chi giura di averla vista, chi di averne percepito la presenza, e chi ancora invece è ben cosciente che si tratta solamente di una storia che affonda le radici nella tradizione popolare della città.

 

 

L’Arte rinnova i popoli

 

«L’Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita.

Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire.»

 

Sono queste le parole riportate dal frontone del prospetto, sorvegliando Piazza Verdi e sovrastando i passanti. In merito all’autore di tale scritta, numerosi sono i dubbi e altrettanto le scarse certezze.

C’è chi dice essere Pirandello l’artefice, chi ancora Ernesto Basile, ma in realtà fonti più sicure lo attribuiscono a Camillo Finocchiaro Aprile.

 

Cenni storici

  

Nel settembre 1864 il Sindaco Antonio Starabba, marchese di Rudinì, si rese conto che la città di Palermo aveva una grande esigenza culturale da colmare: la mancanza di un teatro. Il Sindaco allora decise di bandire un concorso al quale potevano partecipare architetti di ogni nazionalità, al fine di «provvedere alla mancanza di un teatro che stesse in rapporto alla cresciuta civiltà ed a’ bisogni della popolazione».[1]

Nel settembre del 1868 la giuria, che si era occupata di scegliere gli architetti da inserire all’interno del progetto, altresì scelta affinchè non venissero fatti favoritismi, scelse i primi cinque architetti ritenuti più validi. Tra questi vi era Giovan Battista Filippo Basile (che vinse) seguito, qualche posto dopo, da Giuseppe Damiani Almeyda.

Come si legge dalla storia riportata dal Teatro Massimo di Palermo:

 

«La prima pietra fu posata il 12 gennaio 1875, anniversario della rivoluzione siciliana del 1848, in piazza Giuseppe Verdi, con la partecipazione di tutte le maggiori autorità cittadine e un discorso del barone Nicolò Turrisi Colonna.»[2]

 

Tra il 1878 e il 1890 i lavori vennero sospesi, e in questi anni Ernesto Basile prese il posto del padre, morto nel giugno del 1891. Il Teatro venne inaugurato il 16 maggio del 1897e nell’occasione venne rappresentato il Falstaff di Giuseppe Verdi.

 

L’esterno

Proprietari dell’impresa di costruzione che si occupò di realizzare il Teatro Massimo erano Giovanni Rutelli ed Alberto Machì: il primo in particolare era studioso delle costruzioni risalenti al periodo greco – romano. In riferimento a ciò, si decise l’impronta estetica che il teatro doveva avere, almeno all’esterno, tanto che l’architetto Basile si offrì di organizzare corsi che potessero formare le maestranze in ambito d’arte classica.

 

A caratterizzare la parte esterna dell’edificio è un pronao corinzio esastilo, con capitelli ispirati a quelli della cittadina ellenistica di Solunto. Il pronao è elevato su una magnifica scalinata, ai cui lati si ergono due grandi leoni di bronzo con le allegorie della Tragedia e della Lirica, opere rispettivamente di Benedetto Civiletti e Mario Rutelli.

Le forme riprendono ora i templi, ora gli antichi teatri. A sovrastare il magnificente edificio è una cupola di 28,73 metri che, coprendo la platea interna al teatro, è a sua volta sovrastata da un vaso su modello corinzio.

 

Interno: la Sala Grande

Dei sontuosi interni, che si articolano in sale svariate e numerosi corridoi che portano ai palchi, quella che più lascia senza fiato è di certo la Sala Grande.

Quest’ultimo ambiente riprende la forma di un ferro di cavallo, ed è composto da cinque ordini di trentuno palchi ciascuno, con l’aggiunta di una galleria, per una capienza totale di 3.000 spettatori.

Su progetto di Rocco Lentini, Luigi di Giovanni realizzò la ruota simbolica nel soffitto: essa è composta da undici elementi che rappresentano il Trionfo della Musica e che, aprendosi verso l’alto, sono capaci di permette la ventilazione all’interno della sala.

Tra gli altri ambienti che compongono il Teatro Massimo di Palermo vi sono il Palco reale, il Foyer, il Palco Bellini, la Sala degli Stemmi, la Sala pompeiana ed infine la Sala Onu.

Tra i velluti bordeaux e gli ori che costellano ogni parte degli ambienti, tra l’echeggiare di vocalizzi e di note d’orchestra che irrompono nel silenzio di quel luogo sacro alla musica, sembra di uscire fuori dal tempo, trovando conforto in una dimensione in cui non si può far altro che sentire il cuore riempirsi e palpitare, e sentirsi un po’ come Alfredo quando vide Violetta.

 

« Di quell’amor ch’è palpito
dell’universo intero,
misterioso, altero,
croce e delizia al cor.»

(La Traviata, Giuseppe Verdi)

 

 

 

Le foto 1 e 2 sono state realizzate dalla redattrice

 

 

Note

[1] https://www.teatromassimo.it/il-teatro/storia.html

[2] Ibidem

 

 

Bibliografia

Lomonte C., Il Teatro Massimo di Palermo, in “Theriaké”, Agrigento, A.gi. far. (Associazione giovani farmacisti di Agrigento), n. 12, dicembre 2018.

Sessa E., Ernesto Basile: dall’eclettismo classicista al modernismo, Palermo, Novecento, 2002.

 

Sitografia

https://www.teatromassimo.it/il-teatro/storia.html


UN GIOIELLO DI STRAORDINARIA BELLEZZA: LA CHIESA DI SANTA MARIA DELL’AMMIRAGLIO

A cura di Adriana D'Arma

 

 

La chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, facente parte dell’itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale, è un edificio di culto situato al centro storico della città di Palermo.

Il monumento, che appartiene alla diocesi di Piana degli Albanesi in cui si celebra il rito greco-bizantino, è adiacente alla chiesa di San Cataldo e la sua facciata si specchia su Piazza Bellini, fronteggiando l’imponente chiesa di Santa Caterina d’Alessandria.

Questa chiesa è dedicata a Santa Maria, ma la sua denominazione è legata al committente Giorgio di Antiochia, Grande Ammiraglio del Regno di Sicilia sotto re Ruggero II, che la fece edificare nel 1143, anno in cui la chiesa risultava già essere esistente, come si evince da un diploma arabo-greco dello stesso anno che si conserva nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo.

Un curioso aneddoto è relativo al nome con cui questo monumento è comunemente noto: la chiesa, conosciuta come la “Martorana”, deve il suo nome alla nobildonna cittadina Eloisa Martorana, fondatrice dell’omonimo monastero benedettino femminile al quale la chiesa venne concessa nel XV secolo. All’interno del monastero, si narra, le monache benedettine preparavano il tipico dolce di pasta reale che i siciliani tuttora usano consumare nel giorno dedicato ai morti, chiamato “frutta martorana”.

Fig. 1 - Esterno Chiesa Santa Maria dell’Ammiraglio.

La storia di questa chiesa è legata a numerose vicissitudini e a continui rimaneggiamenti, probabilmente dovuti ai cambi di indirizzo religioso che interessarono il monumento; difatti in origine la chiesa presentava una pianta a croce greca sulla quale si impiantava il corpo quadrato dell’edificio - tipico dell’arte bizantina - sormontato dalla cupoletta emisferica di derivazione orientale; transitata nelle mani dei fedeli cattolici, la chiesa venne modificata e riadattata secondo i canoni del rito latino.

Gli interventi sulla chiesa per secoli vennero indirizzati ad ampliarla, abbellirla ed infine a conferire ad essa le sue forme barocche. Fondamentali risultarono, in particolare, il rifacimento del prospetto, eseguito attorno alla metà del Settecento su direzione dell’architetto Nicolò Palma, e le rimozioni ottocentesche delle aggiunte posteriori, volute dall’architetto Giuseppe Patricolo, mosso dall’intento di restituire alla chiesa l’impostazione medievale originaria. Circa la facciata, l’intervento di Palma fu causato da motivazioni prevalentemente estetiche (rivaleggiare nei confronti della facciata ad essa opposta?), poiché la facciata non aveva – e non ha – una funzione pratica.

Fig. 2 - Esterno Chiesa Santa Maria dell’Ammiraglio e chiesa di San Cataldo.

Ricordando l’espressione usata dal noto geografo arabo Ibn Giubayr, vissuto a cavallo dei secoli XII e XIII, che, parlando della chiesa, la definì “una delle meraviglie del mondo”, essendo rimasto piacevolmente stupito dalla sua bellezza. A ben vedere Giubayr aveva ragione: la chiesa è un magnifico tesoro, semplice ed essenziale all’esterno e così ricca, sfavillante e splendente al suo interno. Il segreto della sua straordinaria bellezza è racchiuso nella molteplicità di stili e dettagli artistici, architettonici e culturali che la caratterizzano, dovute alla presenza dei vari popoli che si insediarono nell’isola.

Fig. 3 - Particolare torre campanaria.

L’edificio è accessibile dal suo campanile, a pianta quadrata, la cui parte inferiore – corrispondente al piano terra – è aperta da arcate con colonne angolari, sulla quale si elevano tre grandi ordini di grandi bifore.

Entrando nella chiesa si è colpiti dai colori e dalle splendide decorazioni dell’apparato musivo, in cui spiccano, sul corpo frontale originario, due pannelli in mosaico con la raffigurazione dell’Incoronazione di Ruggero II da parte di Cristo e il fondatore della chiesa Giorgio di Antiochia ai piedi della Vergine.

Fig. 4 - Mosaico raffigurazione re Ruggero II incoronato da Cristo.

Percorrendo la navata centrale ci si trova di fronte al cappellone absidale e al grande tabernacolo in lapislazzuli (sopra il quale è collocata l’Ascensione dipinta da Vincenzo degli Azani) circondato da festosi putti reggi drappo in marmo mischio.

È alzando gli occhi al cielo, tuttavia, che si viene rapiti dalla straordinaria cupola decorata con l’immagine del Cristo Pantocratore; l’Onnipotente, in tutta la sua magnifica bontà, è colto nell’atto di benedire con la mano destra tutti i suoi fedeli ed attorniato da quattro arcangeli prostrati a terra in adorazione.

Nelle nicchie dei pennacchi angolari si collocano invece i quattro Evangelisti - Marco, Matteo, Luca e Giovanni - e nel tamburo della cupola sono raffigurati gli otto Profeti.

Il modello iconografico del Cristo Pantocratore, tipico della tradizione bizantina e ortodossa (era consuetudine rappresentare l’Altissimo Cristo in sommità) è ravvisabile, in ambito siciliano, anche nella Cappella Palatina di Palermo, nel Duomo di Cefalù e nel Duomo di Monreale.

Fig. 7 - Cupola con la raffigurazione del Cristo Pantocratore.

All’interno dell’articolata rappresentazione musiva, nell’arco di passaggio tra la zona dei fedeli e la zona presbiteriale, particolare rilievo assume la rappresentazione dell’Annunciazione, emblema di nascita nonché del passaggio tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento.

Gli addobbi musivi delle maestranze bizantine e l’originario pavimento cosmatesco, tipica ornamentazione delle grandi chiese normanne del sud Italia, splendono tra gli squillanti colori delle volte affrescate da Guglielmo Borremans, Olivo Sozzo e Antonino Grano.

Fig. 8 - Decorazione musiva interna.

Quello della chiesa della Martorana è un episodio singolare nell’Occidente cristiano e nella chiesa siciliana: un prototipo unico nella storia dell’arte, un groviglio di storia, di stili differenti, in cui si svela la perfetta e armoniosa unione delle espressioni culturali bizantine, arabe, normanne, che per diversi secoli raggiunsero la Sicilia ed in particolare la città di Palermo.

 

Tutte le immagini sono fotografie esclusivamente scattate da chi scrive.

 

 

Bibliografia

Napoleone C., Enciclopedia della Sicilia, Ricci, Parma, 2006;

Severino N., Il pavimento musivo della Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, Collana Studies on Cosmatesque Pavements, n.5 dicembre, 2014.


IL TRIONFO DELLA MORTE: L’OPERA D’ARTE SIMBOLO DI PALERMO

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

 

Introduzione

Come la Gioconda di Leonardo Da Vinci riporta il pensiero a Parigi, la Venere di Botticelli a Firenze, o ancora la Deposizione di Caravaggio ricorda la città di Roma, tra le tante opere d’arte che Palermo conserva, una in particolare riveste grande importanza per la città: il Trionfo della Morte di un maestro rimasto anonimo.

 

Così, il luogo che la conserva diventa, per i turisti in soggiorno a Palermo, vera e propria meta di pellegrinaggio rivestita da una certa aura di sacralità.

Forse perché, come diceva Pablo Picasso, «L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni», ed è certo che, alla vista di questo tesoro, le parole di Picasso sembrano essere verità.

Davanti a quest’opera non ci si può esimere dalla contemplazione; è quasi automatico sostare lì, davanti all’arte e alla storia, a riflettere sull’atto della sua creazione e su tutto ciò che ne è stato tramandato in seguito. E con il succedersi dei giorni e con il passare dei secoli, il suo valore aumenta ogni giorno di più.

 

Il Trionfo della morte

Attorno al Trionfo della morte viene spontaneo interrogarsi, muovere riflessioni nate dalla curiosità. Forse a causa di un certo alone di mistero che aleggia attorno a questo affresco: mistero evidentemente dovuto a quelle poche informazioni che abbiamo a disposizione e soprattutto a causa del fatto che tuttora non se ne conosce l’autore.

Le informazioni sull’opera di cui siamo in possesso riguardano fondamentalmente la tipologia d’opera, le sue dimensioni, la datazione, il soggetto, il luogo di provenienza e l’ubicazione attuale.

L’opera è un affresco, precedentemente ubicato presso il cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani a Palermo.

Sulla sua datazione, le ipotesi avanzate a riguardo fanno presupporre che la sua realizzazione si concretizzò intorno al 1446, in seguito ad una commissione reale.

L’opera oggi è conservata presso la Galleria regionale di Palazzo Abatellis.

 

Le ipotesi sull’autore

I dati a nostra disposizione potrebbero essere sufficienti e soddisfacenti, dato che, fondamentalmente, si avrebbero tutte le informazioni essenziali per ricostruire brevemente un profilo storico artistico dell’opera in questione; tuttavia c’è un tassello mancante, un tassello di fondamentale importanza, che rende impossibile il completamento di questo grande puzzle, e quel tassello è l’autore.

Sul maestro dietro il Trionfo molte ipotesi sono state avanzate: alcuni storici e critici d’arte, sulla base dello stile e della rappresentazione del soggetto, hanno sostenuto essere stato realizzato da Guillaume Spicre, proponendo, in veste di aiutante, addirittura un giovane e ancora acerbo Antonello da Messina. Gioacchino Di Marzo fece il nome di Antonio Crescenzio, mentre altri ancora lo attribuirono a Tommaso De Vigilia o ancora a Gaspare Pesaro. Hubert Janitschek arrivò invece alla conclusione che si trattasse di un’opera d’arte realizzata a quattro mani, quindi da due pittori: un maestro principale dalla mano fiamminga coadiuvato da un pittore secondario di provenienza locale che lo storico ceco individuava in Riccardo Quartararo.

Al di là della molteplicità di nomi tirati in ballo, resta tuttavia difficile, al giorno d’oggi, individuare un nome che metta d’accordo la critica, ragion per cui la strada che si percorre è quella che conduce a un ignoto maestro, il cui rapporto con i macabri soggetti che abitano l’opera fa calare su di essa un grande alone di mistero che non può far altro che ammaliare i più curiosi.

 

L’iconografia dell’opera

Al centro dell’opera, attorniata da un giardino rigoglioso, predomina la Morte, cinta dalla sua spettrale veste di scheletro e spogliata da ogni virtù di vita, a cavallo del suo bianco cavallo a lei così somigliante, nell’atto di lanciare una freccia che colpisce un giovane posto nell’angolo destro inferiore dell’opera. Attorno alla Morte, che pare aprire un grottesco spettacolo, sta l’umanità, suddivisa in classi sociali e ancora in contatto con la realtà terrena.

Suddividendo in quattro porzioni l’opera, è possibile notare come ognuna di essa si caratterizzi per la presenza di determinati soggetti.

Nella parte inferiore dell’opera, ai piedi della Morte, si trovano, riversi a terra, corpi morti trafitti dalle frecce: essi sono i potenti, i papi, i frati, gli imperatori, i frati.  Nella parte superiore, da un lato una fontana dalla quale sgorga acqua (elemento il cui significato iconologico è identificabile con la purificazione dell’anima, come si evince dal rituale battesimale); dall’altro lato, un uomo che tiene al guinzaglio due cani.

Interessante è la contrapposizione tra i soggetti posti a destra e quelli sul lato opposto.

Sulla destra sono posizionati i giovani e le dame dell’aristocrazia, i detentori dell’arte, i poeti, i letterati e i musicisti. Questo gruppo viene rappresentato con quell’aria spensierata che sembra invitarci a godere di quanto la vita ha di bello da offrire. È la classe sociale che, grazie anche all’agiatezza e alla salute, è fortemente legata alla vita e sembra non temere e considerare la Signora dell’aldilà.

Infine, a sinistra si trovano gli emarginati, i poveri, i sofferenti nell’atto di pregare la Morte affinché essa ponga fine al loro dolore; tuttavia la Morte, di essi, non sembra volersi occupare.

All’interno del folto gruppo di uomini, ora disperati ora indifferenti, possiamo notare due personaggi che sembrano voler uscire da quel concerto macabro e che incrociano il nostro sguardo: due giovani che stringono tra le dita gli strumenti dell’arte. Si ipotizza che questi due giovani siano proprio i due autori che hanno realizzato l’opera. E se è vero che ancora non possiamo conoscere il reale nome dell’autore o degli autori, è altrettanto vero che possiamo, pur in una mera consolazione, osservarne i volti, con la consapevolezza che proprio quegli occhi hanno accarezzato la stessa misteriosa opera che noi oggi ci accingiamo a guardare con fame di sapere.

 

 

Bibliografia

Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, Macerata, Quodlibet, 2017

Sebastiano Giovanni Pedicone, Il Trionfo della Morte di Palermo: un memento mori dai mille colori

Leandro Ozzola, Il Trionfo della Morte nel Palazzo Sclafani di Palermo, in “Monatshefte fur Kunstwissenschaft”, vol. 2, no. 4, 1909, pp. 198-205.


LA CHIESA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO

A cura di Antonina Quartararo

UN ESEMPIO DI BAROCCO PALERMITANO

A pochi passi dall'entrata di Porta Carini nel quartiere del Capo a Palermo, a fine Cinquecento sorgeva un convento che era stato fortemente voluto da donna Laura Barbera Ventimiglia, la quale aveva concesso il suo palazzo con l’annessa chiesetta per tale scopo. Il convento, che sarebbe dovuto essere istituito sotto la Regola Francescana, venne affidato alle monache benedettine provenienti dal monastero dell’Origlione. Negli anni a seguire il convento fu trasformato in ospedale civico e mantenne questa destinazione d’uso fino al 1932, anno in cui venne demolito per far spazio alla costruzione dell’odierno Palazzo di Giustizia. Secondo le poche notizie note, l’attuale chiesa barocca fu edificata sulla preesistente chiesetta a partire dal 1604 dall'architetto regio Orazio del Nobile sotto il viceré Marcantonio Colonna. La chiesa dell'Immacolata Concezione al Capo fu consacrata nel 1612, ma i lavori di abbellimento si protrassero fino a metà del secolo successivo. La facciata d’ingresso è tipica del periodo, infatti mostra una certa severità architettonica. È presente un portale di pietra decorato da intagli incastonato tra una coppia di paraste binate che si ripetono anche nel secondo ordine. La finestra semicircolare è sicuramente frutto di un intervento architettonico di fine Seicento, che andò a sostituire una finestra più piccola di forma rettangolare, e l’intervento è stato attribuito a Paolo Amato (Fig.1).

Fig. 1 - Prospetto.

LA CHIESA DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE AL CAPO E I "MARMI MISCHI"

Alla semplicità della facciata è contrapposta la sfarzosa policromia dell’interno, simbolo della grandezza di Dio e della Chiesa, perfettamente in linea con i dettami del Concilio di Trento e della Controriforma, in cui l’immagine sacra assume in sé una potenzialità di didattica autonoma che doveva incitare alla conversione e alla devozione fungendo da strumento e ricettacolo. Per ottemperare a queste esigenze si diffuse in Sicilia a metà del Seicento la tecnica dei “marmi mischi” che consisteva nel decorare gli interni con delle tarsie marmoree di colori diversi. Fautrice e finanziatrice di tale opera fu la badessa Flavia Maria Aragona che rimase in carica dal 1625 al 1651.

La chiesa a navata unica è ornata da cappelle senza sfondo. La parte più antica è la zona presbiteriale, al cui progetto partecipò anche Pietro Novelli detto il “Monrealese”, al quale si deve il dipinto dell’Immacolata Concezione collocato sull'altare principale d’ispirazione vandyckiana (Fig.2).

Originariamente i muri laterali erano impreziositi da semplici stucchi, e solo dal 1685 iniziarono le opere di abbellimento sotto la direzione dell’architetto gesuita Lorenzo Ciprì e dal suo aiutante Girolamo Monti, che portarono alla realizzazione dell’addobbo marmoreo. L’iconografia dell’intera composizione presenta una fusione fra temi benedettini e gesuiti. Le sculture sono ricondotte agli artisti Giovan Battista Ferrara, Baldassarre Pampillonia e a Gerardo Scuto.

La  prima cappella a destra vicina all'entrata è dedicata a Santa Rosalia patrona della città ed è inserita all'interno di un elegante altare con colonne tortili. Ai lati due mensole su cui sono collocate le statue raffiguranti San Ildefonso e San Pier Damiani (Fig.3 a-b).

Segue una rientranza della superficie muraria chiamata “porta” che inquadra una grata dove è collocata la statua marmorea della Madonna della Mercede del 1623, presunta opera di Vincenzo Guercio. Sulla nicchia superiore sovrasta la statua di San Francesco Saverio fiancheggiato da putti che reggono i suoi attributi iconografici e i simboli della Compagnia di Gesù (Fig.4 a -b).

La seconda cappella ospita San Benedetto che ordina la distruzione degli idoli, realizzato nel 1775 da Giuseppe Velasco. Ai lati della cappella sono allocate le statue di San Bemba Re e di San Sergio (Fig.5).

Fig.5 - San Bemba Re.

Il presbiterio con arco trionfale è ornato da raffinati intarsi e affiancato da doppie colonne di marmo cotognino. Sulla trabeazione sono state collocate delle statue di San Gertrude, San Mauro, San Benedetto e la sorella Santa Scolastica. Un cupolino ottagonale stuccato sormonta l’altare principale. Gli otto pannelli affrescati con gli Evangelisti e gli angeli sono ricondotti a Pietro Novelli e datati 1635 (Fig.6).

Fig.6 - Trabeazione del presbiterio con statue di Santi.

La prima cappella a sinistra è decorata con la Madonna di Libera Inferni scolpita da Vincenzo Guercio nel 1635. Affiancano la cappella le statue di Sant’Anselmo e di Sant’Umberto (Fig.7).

Fig.7 - Cappella con Madonna di Libera Inferni.

Sulla stessa parete trova posto il sarcofago di donna Laura Barbera Ventimiglia con l’urna retta da cariatidi alate. La seconda cappella è decorata con un Crocifisso con cornice lignea a reliquiario di colore oro attribuito a Simone da Lentini. Ai lati le statue di San Agatone e San Lotario. Nella nicchia della porta è posta la statua di Sant’Ignazio di Loyola (Fig.8).

Fig.8 - Cappella con Crocifisso con cornice reliquiario.

Il coro marmoreo, sostenuto da colonne binate, fu progettato da Paolo Amato nel 1684. Nel sottocoro gli affreschi, che raffigurano Santi, simboli mariani e dello Spirito Santo traggono ispirazione dallo stile di Guglielmo Borremans. La volta è decorata con le seguenti raffigurazioni: la Vergine Immacolata che schiaccia il serpente, il Trionfo degli Ordini Religiosi e nei riquadri minori i Padri fondatori eseguiti da Olivio Sozzi (Fig.9 a-b).

Particolari e degni di menzione sono i quattro paliotti realizzati in marmo mischio con scenografie prospettiche come la Fuga in Egitto (Fig.10) e il pavimento a disegno geometrico decorato con motivi a nastro, ad onde e da intarsi di stelle e rose di venti.

Fig.10 - Part. Paliotto Prospettico, Fuga in Egitto, 1680-1670 ca.

Attualmente la chiesa è aperta al pubblico, però molto spesso non salta subito all'occhio in quanto la strada ove essa è situata ospita il mercato giornaliero; sovente, quindi, l'ingresso della chiesa viene fiancheggiato dalle bancarelle e dai tendoni dei venditori ambulanti, che lo coprono parzialmente pur donandogli maggior fascino.

 

Bibliografia

Bajamonte et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2017.