LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DI ANAGNI

A cura di Vanessa Viti

La Cattedrale di Santa Maria si trova ad Anagni, comune della regione Lazio denominato "Città dei Papi" poiché diede i natali a quattro pontefici: Innocenzo III, Alessandro IV, Gregorio IX, Bonifacio VIII, inoltre per lungo tempo è stata sede papale. La cittadina di Anagni è altresì famosa per il celebre "schiaffo di Anagni", episodio avvenuto l'8 settembre del 1303 ai danni del papa Bonifacio VIII, un oltraggio morale più che un vero e proprio schiaffo

La Cattedrale di Anagni: esterno

I lavori di costruzione iniziarono intorno al 1072 e terminarono nel 1104 circa, la chiese venne eretta per volere del Vescovo Pietro da Salerno. La mole dell'edificio domina con la sua presenza la cittadina dall'alto del colle su cui è stata costruita. Esternamente possiede le caratteristiche dello stile romanico emiliano-lombardo. La possente facciata in pietra tartara si erge maestosamente sul sagrato insieme al poderoso campanile con aperture a monofore, bifore e trifore che svetta arrivando 30 metri di altezza. A sud-ovest la cattedrale è di grande impatto visivo e troneggia piazza Innocenzo III con la Loggia delle Benedizioni, l’esterno della Cappella Caetani e la scenografica scalinata che curva dietro le absidi. Un numero molto limitato di aperture ed una serie di archetti in pietra bianca sono gli unici elementi architettonici che ne alleggeriscono la struttura. Più movimentati sono i cilindri absidali scanditi da lesene unite tra loro da coppie di archetti. L'abside maggiore è coronato da una loggetta la cui decorazione marmorea risalta sul colore ocra del paramento murario. Una serie di colonne eterogenee sorreggono gli archetti pensili che in maniera alternata si appoggiano su delle mensole figurate. Il cilindro dell'abside maggiore è aperto da un'unica monofora con archivolto a doppio rincasso e con colonnine laterali. Dal fianco destro della chiesa si intravede un'alta cappella laterale ed una terrazza sostenuta da una loggia su arcate, al di sopra della terrazza sporge un'edicola contenente la statua di Bonifacio VIII. Le volte inferiori della loggia si intersecano con una sequenza di archetti pensili risalenti a costruzioni precedenti, i cui peducci appaiono rozzamente scolpiti. Queste teste di lupo, leone, montone rappresentano uno dei pochi esempi di scultura figurata che si può trovare nell'edificio. La facciata ha una struttura tripartita con tre portali di tipo campano. Le navate laterali sono illuminate da due semplici monofore, altre finestre uguali sono allineate nella parte superiore. Le semi-colonne addossate sono la testimonianza dell'esistenza di un portico probabilmente mai costruito. Il portale ha un archivolto con la ghiera esterna sporgente, due stretti capitelli poggiano su un'architrave costituita da elementi di spoglio. Interessante è l'espressione volutamente caricaturale degli animali che costituiscono l'ornamentazione del portale. Di fronte alla facciata sorge isolato il bellissimo campanile, risalente al XII secolo, di stile lombardo la cui base è aperta sui quattro lati da alte arcate a tutto sesto.

La Cattedrale di Anagni: interno

All'interno i caratteri romanici, come l’alternanza di pilastri e colonne di separazione tra le navate, incontrano elementi architettonici tipicamente gotici frutto dei restauri commissionati dai vescovi Alberto e Pandolfo che si conclusero nel 1250: costoro fecero sostituire le capriate in legno della navata centrale con archi a sesto acuto a sostegno del nuovo tetto e fecero realizzare la nuova copertura a volte ogivali costolonate su pilastri a fascio nel transetto. Gli archi della navata centrale furono decorati con immagini di pavoni e draghi. Le navate conservano il pavimento eseguito da Cosma tra il 1224 ed il 1227. Nella navata il percorso verso l'altare è definito da una serie continua di figure circolari unite da nastri. La zona presbiteriale, rialzata su un basso gradino, è decorata da due serie di tre dischi allineati separati da una composizione in cui il cerchio centrale è racchiuso da un quadrato. Ai lati del percorso centrale si allineano elementi di forma rettangolare, i "tappeti di preghiera", che nelle navate laterali sono intercalati dagli elementi circolari. Nel presbiterio si conservano gli arredi che furono eseguiti intorno al 1250. Lo spazio sacro è isolato da transenne marmoree con intarsi cosmateschi. All'interno di una struttura marmorea trovano spazio riquadri in marmi pregiati bordati con tarsie eseguite con paste vitree, pietre e lamine d'oro. Sull'altare si trova il ciborio, di tipo romano con multiple loggette su colonnine sovrapposte, alla bottega del Vassalletto possono essere attribuite il candelabro pasquale e la sede vescovile. Il candelabro consta di una colonna tortile ricoperta con tarsie, che poggia su una base sorretta da sfingi e da un telamone che sorregge il basamento del cero. Sulla sinistra della navata si apre la cappella Cajetani, costruita alla fine del XIII secolo per ospitare i resti di autorevoli membri della famiglia cui apparteneva Bonifacio VIII. Si tratta di una struttura cuspidata su colonnine e pinnacoli che ricopre due sarcofaghi decorati con lo stemma dei Cajetani e con altri disegni cosmateschi.

Pochi sono i resti di pittura medievale superstiti nella basilica: una Vergine con il Bambino affiancata da san Magno e santa Secondina nella lunetta sopra il portale maggiore appartenente al XIV secolo, una Vergine con il Bambino e la testa di san Pietro sul pilastro sinistro vicino al presbiterio risalente a circa metà del XIII secolo e una Madonna in trono col Bambino tra santa Caterina d’Alessandria e sant'Antonio abate all'esterno, dietro una grata sul muro sinistro dei primi anni del XV secolo. Di epoca moderna sono invece le pitture presenti nelle tre absidi: nelle due laterali,  a sinistra troviamo la Cena in Emmaus, a destra la Morte di San Giuseppe.  Nel XIX secolo i pittori Pietro e Giovanni Gagliardi realizzarono le opere pittoriche presenti all'interno della chiesa, sempre a loro sono attribuiti i lavori pittorici che si trovano  nella calotta dell’abside maggiore: l’Annunciazione e i Santi venerati dalla Chiesa anagnina. I Santi Apostoli con san Giovanni Battista su fondo scuro nell’emiciclo absidale è stato invece realizzato nel 1837 (tecnica dell’olio su muro).

 

Sitografia

https://www.cattedraledianagni.it/cattedrale

 

Bibliografia

La Cattedrale di Anagni-I Edizione-Orvieto.


IL CIMITERO MONUMENTALE DI STAGLIENO

I linguaggi stilistici del cimitero monumentale di Staglieno

Tra i cimiteri più importanti d’Europa figura il Cimitero Monumentale di Staglieno per estensione ed opere d’arte, che ne fanno un museo a cielo aperto. Il camposanto, luogo di addio e di incontri, nel caso di Genova, diviene anche manifestazione dello stato sociale e di esaltazione delle virtù delle famiglie borghesi; in un ambiente spesso boschivo, dove prendono corpo figure allegoriche e simboli che richiamano alla vita. L’esigenza di realizzare un cimitero pubblico nasce, come per altre città, tra Sette-Ottocento, con l’esigenza di ovviare alle gravi conseguenze igieniche che comportava la sepoltura nelle chiese e nei luoghi non adeguatamente regolamentati. Sotto la spinta illuminista si cerca di eguagliare tutti di fronte alla morte.

Nel Cimitero Monumentale di Genova, sono molti i monumenti che ricordano personaggi importanti o rappresentativi come Giuseppe Mazzini, Aldo Gastaldi, Fabrizio de Andrè, Mary C. Wilde e recentemente è diventato un laboratorio didattico permanente. In collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova, si è dato avvio ad un progetto che prevede che gli studenti delle scuole di diagnosi, conservazione e restauro di opere lapidee-bronzee possano svolgere corsi teorici e pratici sulle opere presenti nel cimitero monumentale.

Aperto ufficialmente al pubblico il primo gennaio del 1851, il progetto di realizzazione segue in parte il progetto di Carlo Barabino, architetto che da il volto Neoclassico alla Genova ottocentesca e Giovanni Battista Resasco. Considerato un museo a cielo aperto, pur mantenendo un impianto Neoclassico, vede il susseguirsi di stili artistici che coprono due secoli, dal Neoclassicismo al Realismo, fino al Simbolismo, Liberty e Decò. Ciò che caratterizza il complesso monumentale è senza dubbio la scultura che fa da protagonista e diventa testimone delle trasformazioni artistiche.

Di seguito una breve selezione delle sculture-simbolo che caratterizzano alcuni dei linguaggi artistici presenti nel Cimitero Monumentale.

Realismo Borghese

Negli anni 70-80 dell’Ottocento si afferma nel cantiere di Staglieno uno stile realista poi rinominato Realismo Borghese che si esprime con una tecnica che riporta i più minimi dettagli in uno spazio concreto dove con cura e minuzia vengono rappresentati abiti, acconciature ed espressioni di dolore.

Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

Ancora adesso, un monumento dove sono sempre presenti fiori, esemplifica il tema della morte che eguaglia tutti gli uomini di ogni ceto sociale. Caterina, venditrice ambulante di noccioline, come ricorda l’epigrafe di G.B.Vigo, posta sulla base della scultura, impiegò tutto il denaro guadagnato per farsi erigere ancora in vita il proprio  monumento funebre dallo scultore più richiesto dalla borghesia: Lorenzo Orengo. Descritti minuziosamente, senza alcuna idealizzazione, i merletti e frange della veste, le rughe e lo sguardo duro e fiero di una donna che mostra con orgoglio la propria merce: noccioline e ciambelle.

Simbolismo

Negli anni 80-90 dell’Ottocento lentamente il Realismo e la sicurezza positivista lasciano il posto ad una scultura che raccoglie in se tutte le insicurezze e le incertezze di fine secolo in clima simbolista.

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Giulio Monteverde, in anticipo sui tempi, nel 1882, realizza la tomba Oneto. La fortuna iconografica del suo angelo si diffonde non solo in Europa ma giunge addirittura in America. Quello che rappresenta lo scultore è un angelo androgino, dove traspare nello sguardo e nella compostezza scultorea tutto il dramma del crollo della visione positivista della morte. Non c’è nell’angelo nessun aspetto consolatorio nella visione dell’aldilà, ma solo dubbi e incertezze verso il mistero di quello che ci attende. Un’immagine che perde la connotazione cristiana di guida verso il paradiso per una visione decadente della morte.

Liberty

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Tra gli artisti presenti nel panorama Liberty, sicuramente merita di essere menzionato lo scultore Leonardo Bistolfi, famoso per un linguaggio morbido ed elegante, si dedicò prevalentemente alla scultura funeraria creando opere di netto gusto floreale. La scultura, di cui gli fa sfondo il verde naturale, rappresenta figure femminili pervase di malinconia e sensualità. Prevale il ritmo pacato dei gesti e le linee ondulate dei corpi e delle vesti tipiche del linguaggio liberty. Una scultura che è stata definita come l’immagine della Bella Morte, in cui si intrecciano sensualismo e mistero. L’opera che fu presentata da Bistolfi alla Biennale di Venezia nel 1905, fu accolta con molto favore tanto da dare allo scultore il soprannome di poeta della morte.

 

Nel 2013 molte opere del Cimitero Monumentale sono state restaurate  grazie al contributo dello scultore americano Walter Arnold e alla sua associazione American Friends of Italian Monumental Sculpture (AFIMS) organizzazione no profit. Tale organizzazione, in collaborazione con il Comune di Genova e la Soprintendenza Ligure, ha permesso di portare all’antico splendore 15 monumenti. Tra le opere restaurate ci sono anche quella di Lorenzo Orengo e Leonardo Bistolfi sopra citate.

 

 

 

 

Franco Cambi, Formarsi nel luoghi dell’anima. Itinerari e riflessioni in studi sulla formazione, Firenze, 2016, pag. 155-169

Il Cimitero Monumentale di Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Barcelona, Electa, 2003

Percorsi d’arte a Staglieno, a cura del Comune di Genova, Servizi Civici Assessorato Valorizzazione e Promozione del Patrimonio Storico Artistico Culturale del Cimitero Monumentale di Staglieno, Genova, Sagep, 2004

 

www.staglieno.comune.genova.it

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Tomba Caterina Campodonico, 1881, dello scultore Lorenzo Orengo

 

Tomba Oneto, 1882, dello scultore Giulio Monteverde

Tomba Bauer, 1904, scultore Leonardo Bistolfi

Prima e dopo il restauro sulla Tomba Bauer

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PALAIA. ESSENZA ED ARTE TOSCANA

A cura di Luisa Generali

Per chi volesse assaporare la tranquillità di un tipico borgo toscano incontaminato, deve inevitabilmente concedersi una sosta a Palaia. Questo piccolo paese in piena campagna, isolato rispetto ai centri cittadini più vicini, si trova in Valdera, circondato da numerose e incantevoli frazioni che ne costituiscono il territorio. La storia antica di Palaia è evocata da importanti architetture religiose e civili di epoca medievale, come le mura e la porta di Santa Maria, che tutt'oggi introduce nel castello arrivando dal versante fiorentino. Addentrandosi nel nucleo più interno del paese, una serie di vicoli salgono fra gli orti e le abitazioni verso la sommità del colle su cui si ergeva la roccaforte: oggi qui è possibile salire fin sulla cima e godere della splendida visuale sopra i tetti dell’abitato, che in lontananza lasciano spazio al paesaggio. Terra di confine sia per questioni politiche che religiose, Palaia è stata un comune autonomo legato a Pisa fino al 1406 ed in seguito passato sotto la dominazione fiorentina, così come è avvenuto per la giurisdizione diocesana, prima legata al territorio lucchese (fino al 1622), ed in seguito confluita sotto il controllo di San Miniato: proprio a causa di queste motivazioni storiche è possibile spiegare il passaggio a Palaia di artisti provenienti da varie zone della Toscana. Fa parte integrante della storia del borgo anche il celebre modo di dire “Peggio Palaia”: legato ad eventi storici spiacevoli del passato, oggi questa espressione ha assunto per contro parte, una connotazione simpatica e spiritosa, per esprimere una situazione che va di male in peggio, o che proprio peggio di così non può andare.

La ricchezza artistica del borgo si unisce inevitabilmente a quella paesaggistica, creando un piacevole commistione di colori, fra il verde della natura e il rosso intenso del laterizio, molto impiegato nelle costruzioni storiche del territorio: il concreto legame fra ambiente e architettura si realizza nella pieve di San Martino, fuori le mura del paese (fig.1).

Fig. 1: Pieve di S. Martino, Palaia

La struttura si trova nell'elenco ufficiale dei Monumenti Nazionali d’Italia già dal 1874, dopo la conclusione di importanti lavori di restauro che salvarono la pieve dal suo progressivo decadimento. Oggi la fabbrica si presenta esternamente rivestita lungo i fianchi di un paramento murario in laterizi, mentre la facciata è composta in prevalenza da pietra calcarea.  L’unitarietà e la compostezza del mattone e delle pietre è dovuta ai restauri ottocenteschi che hanno uniformato il rivestimento dell’antico impianto. L’anno di fondazione è attestato nel 1279, quando il vescovo di Lucca, Paganello, concesse di spostare la pieve battesimale da San Gervasio a Palaia per rispondere alla richiesta dei paesani: si dette così avvio alla ricostruzione di una precedente chiesa già intitolata a San Martino di Tours, nelle forme monumentali del romanico toscano che ammiriamo oggi. I lavori continuati fino all'inizio del XIV secolo, hanno apportato delle modifiche in itinere che risentono anche di influenze goticizzanti: la tradizione vuole che la fabbrica sia stata ultimata da Andrea da Pontedera, più noto come Andrea Pisano (1290 c.-1348 c.), identificato con l’Andrea operaius che ha lasciato la sua firma incisa ben due volte insieme alla datazione, in alcuni elementi strutturali all'interno dell’edificio (precisamente sul bordo superiore del capitello della seconda colonna della navata sinistra con data 1283 e sulla chiave di volta  della cappella terminale della stessa navata sinistra datata 1300). Tuttavia, l’intervento di Andrea Pisano oggi si tende a screditare, in quanto la cronologia delle due iscrizioni non coincide con l’operatività dell’artista, che ancora non era nato in questi anni. Piuttosto Andrea sarebbe da identificare con un altro costruttore, forse il capocantiere o l’architetto, che con orgoglio volle ricordare qui il suo intervento.

All'interno l’aula è divisa in tre navate terminanti nelle rispettive absidi, di cui quella centrale, più alta rispetto alle due laterali minori, è scandita da costoloni che ne accentuano lo slancio verticale (fig.2).

Fig. 2: interno della pieve di San Martino, Palaia.

Si rimane colpiti dalla severità disadorna che evoca i tempi di un antico passato, frutto in parte, del restauro diretto dall'ingegnere Luigi Filippeschi fra il 1873 il 1874: soprattutto l’interno fu oggetto di un importante rimaneggiamento, spogliando la chiesa di tutte le decorazioni che si erano stratificate nei secoli, a favore di un ritorno integro alle origini romaniche. Filippeschi collocò nella parte absidale tre altari in stile arcaico, insieme a un fonte battesimale a pianta esagonale e il pulpito, in linea con la sobrietà della struttura. Queste imitazioni in stile si affiancano ad alcuni elementi originali, come il monolite battesimale (proveniente dalla chiesa di Santa Maria in Ripezzano, andata distrutta) e una piccola vasca marmorea oggi usata come acquasantiera, creando quindi un effetto complessivo di uniformità pur non essendo completamente veritiero. A proposito della vasca in pietra di piccole dimensioni, un’iscrizione indica come il bacile in origine fosse usato per la misura del vino che gli abitanti dovevano pagare al pievano (qui è ricordato il primo pievano di San Martino, Ubaldo), responsabile non solo delle funzioni religiose, ma anche di pratiche civili e amministrative (fig.3).

Fig. 3: antica misura per il vino, in seguito acquasantiera, Palaia, Pieve di San Martino

È invece originale e conservato ottimamente lo scheletro della struttura nei suoi elementi portanti, come le colonne che dividono l’interno, con i rispettivi capitelli scultorei e le decorazioni perimetrali ad archetti pensili che scandiscono la sommità della chiesa. I laterizi vengono utilizzati per disegnare la sagoma dei portali laterali, creando degli archivolti in cui si alternano ornamenti ad incisioni geometriche di vario tipo per movimentarne la superficie: inoltre l’alternanza fra il mattone e la pietra viene utilizzata a scopo decorativo per enfatizzare alcuni elementi strutturali come i capitelli, gli architravi e i peducci pensili. Proprio sulle fiancate laterali una serie di peducci compositi, conclusi da un cono in laterizio, accolgono delle protomi scolpite nella pietra, dalle forme umane e zoomorfe (fig.4).

Fig. 4: fiancata e portale laterale della Pieve di San Martino, Palaia

Gli elementi scultorei sono realizzati in modo sommario e veloce, senza un vero intento programmatico, ma piuttosto attingendo a un repertorio figurativo ormai consolidato, in cui diverse commistioni classiche e rurali si uniscono a formare un universo di immagini eterogeneo:  a queste figure spesso ferine e dai connotati primitivi, sono attribuite  diverse peculiarità, come custodi del luogo sacro, con intento apotropaico, ma anche simboli di riconoscimento della popolazione nella cultura agreste. La posizione di sospensione in cui spesso venivano disposti tali dettagli plastici (come nel nostro caso a San Martino), “a mezz'aria” fra la sfera del divino e il mondo terreno, era la sede migliore per collocare quelle creature fantastiche, animalesche e ibride, di cui ancora la tradizione si nutriva e che rientravano nell'ambito dell’occulto.

Prima di lasciare questo paragrafo dedicato a San Martino, vogliamo riportare l’attenzione sul pericolo che minaccia la pieve di Palaia e che recentemente è stata oggetto anche di un articolo da parte del quotidiano “Il Tirreno”, ovvero le condizioni critiche del crinale su cui è costruito il monumento; l’azione erosiva dell’acqua ha infatti da tempo reso instabile il terreno tufaceo del colle, provocando frane e indebolendo l’area circostante la pieve. Pur sottolineando che la struttura non è al momento a rischio, ci uniamo qui alla richiesta del parroco affinché le autorità preposte si mobilitino in tempo per tutelare e difendere questa autentica opera architettonica.

Proseguendo verso la strada che porta dentro le mura di Palaia, s’incontra la chiesa di Santa Maria da cui prende il nome la stessa porta. La fabbrica di dimensioni modeste, ricordata fin dal XIII secolo, presenta un tetto a capanna e un corredo decorativo esterno molto essenziale, movimentato ritmicamente da lesene. Fa parte della chiesa anche il campanile costruito sopra l’entrata della porta, in quanto riadattato sulle forme di una originaria torre di guardia (fig.5).

Fig. 5: chiesa di Santa Maria e il campanile sopra le antiche mura, Palaia. 

Lungo la direttrice principale, oltrepassando un edificio coperto, sormontato dalla torre civica dell’orologio, (in precedenza torre campanaria a uso civico), si trova la chiesa duecentesca di Sant'Andrea, capolavoro del romanico e contenitore di altrettanti capolavori di arte sacra (fig.6).

Fig. 6: chiesa di Sant'Andrea, Palaia

Nel paramento murario della chiesa ritroviamo lo stesso leitmotiv del rivestimento in laterizi che contraddistingue San Martino e Santa Maria, decorato lungo il perimetro del tetto da archetti pensili terminanti con motivi ornamentali riferibili a simboli ed emblemi araldici: questa componente laica che differenzia Sant'Andrea dalla pieve, denota l’importanza rivestita dalla chiesa situata nel cuore del castello, polo di riferimento per la vita comunale e mostra di prestigio per le nobili famiglie.

La chiesa presenta una rarità nella costruzione del campanile “pensile”, alzato sopra il corpo della fabbrica, per metà sostenuto dalla costruzione stessa e all'interno sorretto da una grande colonna, che costituisce uno spazio coperto percorribile: l’unica campata all'interno dell’edificio ad aula unica (fig.7).

Fig. 7: colonna interna di sostegno al campanile, Palaia, chiesa di Sant'Andrea

L’eccezionalità di questo progetto è stata evidenziata dalla critica, che lega il campanile di Sant'Andrea all'esempio duecentesco della chiesa conventuale di San Francesco a Pisa, in cui si trova una torre campanaria pensile, affine a quella di Palaia per l’audacia del progetto (il campanile di San Francesco a Pisa, realizzato nel XIII secolo e considerato capolavoro dell’ingegneria medievale, è assegnato all’opera di Giovanni di Simone).

Entrando in Sant'Andrea, ai lati dell’altare maggiore, sono collocati due gruppi statuari, entrambi raffiguranti la Madonna col Bambino: nell'edicola di destra si trova la scultura in legno policromo, firmata e datata da Francesco Valdambrino (1363-1435) nel 1403 (fig.8): il restauro del 1982 riportò alla luce sul basamento della statua l’iscrizione col nome dell’artista e quello della committenza, la compagnia di Santa Maria dei Bianchi.

Fig. 8: Francesco Valdambrino, Madonna col bambino, 1403, Palaia, chiesa Sant'Andrea

L’inconsueta veste candida che copre la Vergine e la raffinata tunica del medesimo colore che indossa il Bambino, sono da ricollegare agli abiti distintivi della congregazione dei Bianchi, che in Sant'Andrea possedeva un altare. L’accuratezza nei dettagli dell’opera, come la distesa di stelle dorate sul manto di Maria, e i drappeggi delle vesti che ricadono naturalmente, rivelano una grande qualità artistica pur essendo questa un’opera giovanile del Valdambrino: secondo la critica lo scultore di provenienza senese si fermò a Palaia e nei dintorni di Pisa, negli anni precedenti al suo soggiorno a Lucca, documentato nel 1406, confermando un’influenza stilistica vicina ai modi gotici di Nino Pisano (1315 c.-1370), sebbene mitigata da una morbidezza  dei volumi che trova la sua origine a Siena.

Nell'edicola sinistra si trova un’altra statua di medesimo soggetto, in terracotta dipinta e conferita per via stilistica a Luca della Robbia, datata al 1435 circa (fig.9).

Fig. 9: Luca della Robbia, Madonna col bambino, 1435 c., Palaia, Chiesa di Sant'Andrea.

L’opera proveniente dall'altare della compagnia dei Bianchi nella chiesa di Santa Maria è stata spostata in un’epoca imprecisata nella chiesa di Sant’Andrea: la committenza da parte della medesima confraternita che affidò l’incarico al Valdambrino spiega i punti in comune che contraddistinguono le due sculture, a partire dall'iconografia e il medesimo manto bianco cosparso di stelle dorate che copre Maria. L’assegnazione della scultura a Luca della Robbia deriva dal confronto della Vergine con alcune figure femminili scolpite dallo stesso Luca negli anni ’30 del Quattrocento, per la cantoria del Duomo fiorentino, in cui si riscontra la stessa cifra stilistica dell’opera palaiese, improntata su un calibrato classicismo: l’uso vivido del colore, conservato perfettamente, restituisce soprattutto nella resa degli incarnati e nei volti rosei un’intensa vitalità al gruppo scultoreo, già presente nell'atteggiamento spontaneo e giocondo del Bambino.

Fra le due edicole dietro l’altare maggiore si trova un Crocifisso ligneo, attribuito alla bottega di Andrea Pisano, da datare intorno agli anni ‘30 del Trecento. Proveniente probabilmente dalla pieve di San Martino, dove la confraternita dei Neri (altra compagnia laicale presente a Palaia) possedeva un altare dedicato al crocifisso, l’opera è realizzata sulla scia della tradizione duecentesca raffigurante Christus patiens, in cui il lato drammatico della sofferenza è esaltato da alcune caratteristiche fisiche del corpo, come avviene per la resa naturalistica del costato (fig.10).

Fig. 10: bottega di Andrea Pisano (?), Crocifisso, 1330 c., Palaia, Chiesa di Sant’Andrea

Un altro Crocifisso probabilmente commissionato dalla stessa compagnia dei Neri e fin dall'origine pensato per essere collocato in Sant'Andrea, si trova nella cappella laterale della navata sinistra (fig.11).

Fig. 11: bottega senese, Crocifisso, 1335-1340 c., Palaia, Chiesa di Sant’Andrea

Per la similitudine con alcune croci di ambito senese, la critica recente sostiene che l’opera sia da collocare in questo contesto, per mano di un anonimo intagliatore negli anni fra il 1335 e il 1340. La figura emaciata di Gesù, con la testa inclinata e contornata da un rivolo di sangue, suscita nel fedele un intenso impatto emotivo.

Nella stessa parete sinistra dell’aula si trovano anche dodici formelle in terracotta invetriata, assegnate ad Andrea della Robbia (1435-1525) e datate al 1490 circa. Anche queste provengono dalla pieve di San Martino, forse appartenute al rivestimento di un ciborio in seguito smembrato e in parte perduto. Oggi le formelle a sfondo blu e figure bianche si presentano collocate orizzontalmente, divise su due registri: quello inferiore è il più esteso e presenta una serie di nove personaggi che ritraggono a partire da sinistra, Santa Caterina e San Francesco, al centro Cristo porta croce affiancato da quattro virtù, Carità, Speranza, Fede (virtù teologali) e Prudenza (virtù cardinale), ed infine San Martino e Santa Maria Maddalena. Nel registro superiore sono rappresentati San SebastianoSant'Antonio da Padova, e Santa Lucia. Fra le formelle notiamo che quelle centrali del registro inferiore presentano delle nicchie che inquadrano i cinque personaggi a figura intera, mentre i rimanenti Santi sono tagliati poco sopra il ginocchio. Cristo e le Virtù sono collocati in nicchie rifinite ai lati da piccoli clipei colorati: parti policrome sono visibili anche in alcuni attributi che caratterizzano le figure, come la cornucopia esibita dalla Carità e il serpente, simbolo della Prudenza (fig.12).

Fig. 12: Andrea della Robbia, particolare della Prudenza, 1490 c., Palaia, Chiesa di Sant'Andrea.

L’opera è riferita per via stilistica ad Andrea della Robbia, nipote di Luca, che si differenzierà da quest’ultimo per conferire ai suoi soggetti un’inclinazione affettuosa e sentimentale più spiccata, guardando anche alle novità apportate della pittura contemporanea.

Concludendo questo itinerario in Sant'Andrea, ci spostiamo sulla parte destra dell’aula, dove si trova un monumentale altare che incornicia una tela settecentesca, uniche testimonianze degli arredi barocchi della chiesa, già dipendente in questo periodo dalla diocesi di San Miniato (fig.13).

Fig. 13: Ridolfo Frullani e Anton Domenico Bamberini, Altare dell’Immacolata Concezione, 1728-1730, Palaia, Chiesa di Sant'Andrea.

I lavori per la cappella furono voluti dalla compagnia della Concezione e documentati a partire dal 1728, quando il maestro ticinese Ridolfo Frullani, venne pagato per la realizzazione dell’altare in stucco. L’artista, che si inserisce in quel filone molto prolifico di stuccatori ticinesi presenti in Toscana nel Settecento, realizzò un’edicola sorretta da colonne tortili (dipinte imitando le venature del marmo e impreziosite da tralci di vite dorate), culminante in un architrave spezzato e una cornice mistilinea, dove è modellato in stucco il Peccato originale, di rimandano all'iconografia del dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione. Anton Domenico Bamberini (1666-1740) pittore di formazione fiorentina e molto attivo nella diocesi di San Miniato, fu chiamato a realizzare la tela nel 1730, ritraendo Maria Immacolata stante con i piedi sul globo terracqueo (sembra appena percettibile anche una mezza luna nascosta per metà dalla Terra), affiancata dai Santi Pietro e Agostino, mentre schiaccia il serpente, simbolo del peccato originale che opprime gli uomini e da cui la Vergine è immune: l’iconografia dell’Immacolata fa anche riferimento alla “donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”, descritta nell’Apocalisse. Nell'opera palaiese il cielo dorato e rischiarato dalle nubi contrasta con le intense ombre proiettate sui personaggi, creando un’atmosfera mistica, conforme alla bellezza solenne di Maria.

 

Bibliografia

  1. Ducci, L. Badalassi, I Tesori medievali nel territorio di San Miniato, Ospedaletto 1998.
  2. Malacarne, La pieve di San Martino a Palaia, in Palaia e il suo territorio fra antichità e medioevo, Atti del convegno di studi (9 gennaio 1999) a cura di Paolo Morelli, Pontedera 1999, pp. 181-198.
  3. Padoa Rizzo, “Due statue per una Confraternita di Palaia: Francesco di Valdambrino e Luca della Robbia”, in Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato, 79.2000, 67, pp. 55-68.
  4. Tigler, Scheda n.63 (Intagliatore senese, Crocifisso), Scheda n.65 (Bottega di Andrea Pisano, Crocifisso), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2001, Vol II, pp. 160-161, 163-165.
  5. Campigli, Scheda n.67 (Francesco Valdambrino, Madonna col Bambino), Scheda n.68 (Luca della Robbia, Madonna col Bambino), Scheda n.69 (Andrea della Robbia, Madonna col Bambino) in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2001, Vol II, pp. 165-173.
  6. Bitossi, Scheda n.70 (Anton Domenico Bamberini, Immacolata concezione con i Santi Pietro e Paolo), in Visibile pregare: arte sacra nella diocesi di San Miniato, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Ospedaletto 2001, Vol II, pp. 174-176.

Michele Gotti, “Scultura architettonica medievale in Valdera: i capitelli delle pievi di San Gervasio, Montignoso, Palaia e Peccioli”, in Erba d’Arno, N. 155/156, 2019, pp. 58-79.

  1. Falconi,Lo strapiombo fa sempre più paura: la frana minaccia la pieve di San Martino”, Il Tirreno- Pontedera, 10 maggio 2019.

L'ARTE A FERRARA NEL XV SECOLO

A cura di Mirco Guarnieri

 

 

Questo ciclo di articoli vedrà come protagonista l’arte tra XV e XVI secolo delle signorie emiliano-romagnole.

 

Gli Estensi furono una famiglia che si insediò a Ferrara dal 1240 divenendo prima duchi, poi signori della città. Sotto Niccolò III d’Este (1384-1441) Ferrara divenne un grande centro culturale rinascimentale, raggiungendo ulteriore splendore sotto Leonello d’Este (1407-1450). Con Borso d’Este (1413-1471) la Scuola ferrarese, meglio nota come Officina ferrarese, divenne molto importante per la presenza di artisti come Cosmé Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti. Successivamente, con Ercole I d’Este, la città raggiunse il massimo splendore con la costruzione dell’Addizione Erculea da parte di Biagio Rossetti nel 1492. Si raggiunge l'apice del Rinascimento a Ferrara nel XV secolo.

 

L'arte a Ferrara nel XV secolo: L'Officina ferrarese

L’Officina ferrarese fu fondata da Cosmè Tura presso la corte estense a Ferrara, al quale si affiancarono Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti. Lo stile della scuola muterà nel tempo, dovuto alle influenze di artisti e delle città vicine, come Mantova, Venezia, Firenze e Bologna, ospitando artisti come Andrea Mantegna, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Roger Van Der Weyden. Altri artisti che faranno parte dell’Officina ferrarese nel Quattrocento saranno Galasso Galassi, Angelo Maccagnino, Michele Pannonio, Lorenzo Costa il Vecchio, Boccaccio Boccaccino, Domenico Panetti, L’Ortolano Ferrarese, Ercole Grandi, Ludovico Mazzolino e Michele Coltellini.

 

Cosmé Tura

Pittore della corte estense, nonché rappresentante di spicco dell’Officina ferrarese, nasce nel 1433, e i primi documenti dove troviamo il suo nome risalgono al 1451-52, quando per la corte estense decorò oggetti di uso quotidiano. Tramite studi, pare che il pittore, tra il 1452 e 1456, non si trovasse a Ferrara. Da qui l’ipotesi che sia stato mandato dagli Estensi in viaggio di apprendistato a Padova dove venne influenzato dalla pittura rinascimentale padovana (segno netto e tagliente, esuberanza decorativa con citazioni dell'antico, portato poi ad estremi livelli). Tornato a Ferrara, conobbe direttamente Piero della Francesca attorno al 1458-59, suo grande maestro dal quale mutò il senso della costruzione spaziale geometrica, lo spirito monumentale e la luce che si fece più nitida e tersa usata negli sfondi. Altro stimolo che Tura ricevette fu quello proveniente dalla pittura fiamminga, da cui apprese l’osservazione minuta dei dettagli e la resa delle varie consistenze dei materiali tramite l’uso della pittura ad olio. Sotto la corte estense di Borso d’Este, Cosmé Tura dipinse opere come la Madonna con Bambino in un giardino (fig. 1), 1452; Madonna con Bambino in trono tra San Girolamo e una Santa martire (forse la Maddalena), 1455. Nel 1458 concluse le opere del Ciclo delle Muse iniziate da Angelo Maccagnino presso lo Studiolo di Belfiore dell’omonima Delizia, quali Calliope e Tersicore (figg. 2,3). Verso la fine degli anni '60 del 400 dipinse le ante dell’organo del Duomo di Ferrara raffiguranti da un lato L’Annunciazione (fig. 4) e dall’altro San Giorgio e la principessa (fig. 5). Con la successione al potere di Ercole I d’Este, Cosmé Tura divenne ritrattista di corte, ruolo che ricoprì fino al 1486 quando venne sostituito da Ercole de Roberti. Nel 1470 concluse il Polittico Roverella (fig. 6), fatto in onore di Lorenzo Roverella, allora vescovo di Ferrara (una delle opere più importanti del pittore).

Prima della morte che lo colpirà nel 1490, il pittore ferrarese realizzò un’ultima opera tra il 1484 e il 1490 chiamata Sant’Antonio da Padova (fig. 7).

Opere Cosmé Tura

 

Francesco del Cossa

Di questo pittore si hanno poche notizie in merito alla sua vita e alla sua formazione. L’anno della sua nascita (1436) si ottiene per via dello scambio di fonti epistolari tra due letterati bolognesi che commemoravano la sua prematura morte all'età di 42 anni, mentre la sua formazione pare sia avvenuta al fianco di Cosmé Tura, con influenze del rinascimento padovano legate a Donatello e Mantegna, ma anche alle novità di Piero della Francesca, da cui prenderà maggior spunto per la compostezza e la solennità delle figure. Il suo nome viene menzionato per la prima volta in un documento del 1456, quando sotto la tutela del padre ricevette un pagamento per la realizzazione della Deposizione con tre figure (opera distrutta con il rifacimento dell’abside verso fine 400) vicino all'altare maggiore della Cattedrale di Ferrara. Nel 1460 verrà menzionato in due atti notarili, venendo chiamato “pictore”. Sempre lo stesso anno gli si attribuisce l’opera Polimnia per il Ciclo delle Muse presso lo Studiolo di Belfiore, poi successivamente assegnato ad Angelo Maccagnino. Nel 1463 morirà il padre e fino all’11 Dicembre del 1467 (giorno dove risultò essere a Ferrara) non si ebbero più documenti sul pittore. Molto probabilmente fece un viaggio formativo verso Firenze. Qualche anno dopo gli venne affidata la collaborazione agli affreschi del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia, dove portò a termine i mesi Marzo, Aprile e Maggio  (figg. 8,9,10) portando un colore luminoso e un’attenta cura nella costruzione prospettica, contrapponendo una più naturale rappresentazione umana rispetto a quella di Tura. Dopo la fine degli affreschi a Palazzo Schifanoia, Francesco del Cossa si trasferì a Bologna, probabilmente deluso dai bassi compensi che il duca Borso gli dava. Della vita del pittore a Bologna ne parleremo successivamente quando tratteremo del Rinascimento bolognese sotto la corte dei Bentivoglio.

Opere Francesco del Cossa

Ercole de Roberti

Nato tra il 1451 e il 1456, fu apprendista di Gherardo da Vicenza, Francesco del Cossa e Cosmé Tura, ossia il pantheon dell'arte ferrarese nel XV secolo. A circa 17 anni lavorò agli affreschi di Palazzo Schifanoia, compiendo il mese di Settembre (fig. 11), dove possiamo notare che le forme subiscono una stilizzazione geometrica e le figure, grazie ai contorni tesi e spigolosi, assumono dinamismo da rendere il tutto anti-naturalistico con grande violenza espressiva.

Ci sarà un periodo dove assieme a del Cossa lavorerà a Bologna (1470-1478), per poi fare ritorno a Ferrara intorno al 1479 aprendo una bottega con il fratello Polidoro e l’orafo Giovanni di Giuliano da Piacenza. Il punto di arrivo stilistico del pittore lo abbiamo con la Pala Portuense (fig. 12) per la Chiesa di Santa Maria in Porto vicino Ravenna del 1479-81, mentre tra il 1486 e il 1493 vengono documentati dipinti di donne dell’antichità commissionati da Eleonora d’Aragona, tali Bruto e Porzia (fig. 13), 1486-90; Moglie di Asdrubale con figli (fig. 14), 1490-93 (1490-93) e un piccolo dipinto per il cardinale Ippolito d’Este del 1486.

Ercole de Roberti continuò a dipingere oltre che a Ferrara in altre città dell’Emilia-Romagna, influenzando i vari artisti locali. Nel 1487 divenne ritrattista di corte prendendo il posto di Cosmé Tura, mentre nel 1489 venne inviato da Eleonora d’Aragona a Venezia per acquistare oro per poter eseguire le dorature dei forzieri della figlia Isabella d’Este, che si apprestava a diventare moglie di Francesco II Gonzaga a Mantova. Nel 1492 assieme al duca Alfonso d’Este si dirigerà a Roma per rendere omaggio a Papa Alessandro VI Borgia, nonché suo futuro suocero. L’anno successivo de Roberti lavorerà a dei cartoni per la delizia di Belriguardo. Il pittore poi morirà nel 1496 venendo sepolto nella Chiesa di San Domenico.

Opere Ercole de Roberti

 

Con questo articolo si conclude la prima parte sull'arte a Ferrara nel XV secolo. Nel prossimo termineremo l’argomento trattando alcuni artisti del panorama artistico ferrarese del XVI secolo come Dosso Dossi, Bastianino, Scarsellino e Carlo Bononi.

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/roberti-ercole-de-detto-anche-ercole-da-ferrara_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-del-cossa_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.treccani.it/enciclopedia/cosme-tura_%28Enciclopedia-Italiana%29/