LA “PIETÀ RONDANINI”, UNA GENESI DEL DOLORE

A cura di Silvia Piffaretti

Michelangelo, un genio immortale

Nell'elegante sede dell’antico ospedale spagnolo del Castello Sforzesco di Milano, eretto sotto il dominio visconteo e nei secoli a venire dominato da francesi e spagnoli, si trova il Museo della “Pietà Rondanini” di Michelangelo che, odiato ed amato dai suoi contemporanei, ebbe il merito di vedere riconosciuta la propria fama quand'era ancora in vita. Tra coloro che tesserono le sue lodi ci fu il conterraneo Giorgio Vasari che, nella sua opera Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori, celebrò Michelangelo come genio indiscusso, tant'è che nella seconda edizione del suo scritto del 1568, nonostante si iniziasse a prediligere l’eleganza e la licenza di Raffaello a seguito dello scandalo dei nudi della Cappella Sistina, continuò ad innalzarlo come artista supremo.

Michelangelo, nato nel 1475 a Caprese in Toscana, fu avviato dal padre agli studi umanistici ma fu subito evidente la sua predilezione per gli studi artistici che lo condusse alla bottega di Domenico Ghirlandaio e successivamente alla scuola del Giardino di San Marco di Lorenzo il Magnifico.

Nella sua vita ricevette importanti commissioni da papi e principi per cui realizzò capolavori pittorici, architettonici e scultorei; di fatto Vasari dichiarò che Dio avendo visto in terra tanta vanità e presunzione e studi senza frutto mandò in terra uno spirito che fosse abile in ogni arte. Ne “Le vite” infatti Michelangelo fu l’unico ad avere nel suo frontespizio, dove per ogni artista erano rappresentate le allegorie delle arti padroneggiate, le tre arti di pittura, scultura ed architettura. A detta del Vasari egli condusse le cose sue così col pennello come con lo scarpello e donò tanta arte, grazia et una certa vivacità alle cose sue da vincere gli antichi avendo saputo cavare della dificultà tanto facilmente le cose, che non paion fatte con fatica.

Fig. 1 - Il Castello Sforzesco di Milano.

La Pietà Rondanini, una genesi del dolore

L’iconografia della Pietà, pur non trovando fondamento evangelico, rappresenta nelle storie della Passione il momento che segue la deposizione dalla Croce, quando Maria insieme alle pie donne ed ai discepoli piange il Figlio prima di deporlo nella tomba. Il gruppo, caro alla mistica tedesca del XIV secolo e giunto successivamente in Italia, a partire dal Trecento si ridusse alle sole figure della Vergine e del figlio. Anche Michelangelo ne diede una personale interpretazione e, ritiratosi nella sua solitudine per creare indisturbato da compagnie e fastidi, iniziò la sua riflessione attorno a tale tema. Fu così che per prima realizzò la Pietà di San Pietro in Vaticano (1498-99) rappresentante un Cristo adagiato sulle ginocchia di una giovane Vergine, e successivamente la Pietà Bandini (1547-55) dove la madre ed il figlio erano accompagnati da Nicodemo e Maddalena.

L’ultima, dalla lunga e tormentata genesi, fu la Pietà Rondanini, realizzata da Michelangelo unicamente per se stesso in differenti fasi della sua vita. La prima fase è collocabile tra il 1552 e il 1555, la seconda dopo il 1555 quando ne riprese il lavoro, dopo la distruzione della “Pietà Bandini”, iniziando a scalpellare un pezzo di marmo su cui aveva già abbozzato unaltra Pietà, varia da quella, molto minore; ed infine l’ultima risale alla fine della sua vita come testimoniano le due lettere dell’allievo Daniele da Volterra, scritte dopo la morte di Michelangelo, indirizzate a Vasari e al nipote dell’artista Leonardo. Qui si racconta di come l’artista continuò a scalpellare l’opera fino a poco prima della morte, infatti nella lettera a Vasari del 17 marzo 1564 si legge: “Egli lavorò tutto il sabato, che fu inanti a lunedì che ci si amalò; e la domenica, non ricordandosi che fussi domenica, voleva ire a lavorar. Il gruppo scultoreo, che adotta uno schema compositivo diverso dalle precedenti pietà, rappresenta probabilmente la deposizione nel sepolcro di cui protagonisti sono le due sole figure di Cristo e della Vergine. Quest’ultima si trova in posizione elevata rispetto al corpo del figlio che, privo di vita, pare lasciarsi scivolare verso la madre stretta nel suo dolore.

Di tale dolore ne lascia un’interpretazione la poetessa milanese Alda Merini, la quale rimase colpita dalla vita straziata dal male fisico e morale dell’artista, da cui nacquero però cose grandiose. La poetessa individuò nella scultura due tempi del dolore, il dolore fisico del Cristo caduto dalla croce, morto ed ormai senza dolore, ed il dolore morale di Maria. Nella vita infatti è possibile distinguere tra dolore fisico e del sentimento, talvolta più incisivo del primo, e la Madonna costituisce l’emblema della totalità del dolore poiché il suo legame col figlio è tale da farle provare il medesimo dolore carnale, oltre che sentimentale. Cristo, per la Merini, avrà sentito il dolore come uomo ma come Dio avrà provato una grossa svalutazione di quello che era la sua grandezza sentendosi ferito a morte, perché è difficile [] per un essere che in sé aveva lidea del divino fare una morte così ignominiosa. In questo modo alla pietà, oltre al dolore straziante, si aggiunge il sentimento della vergogna di un Cristo spogliato e depauperato di tutto.

La Merini poi sottolinea come in ogni espressione artistica vi fosse qualcosa di divino, così come nel lavoro manuale, poiché l’operosità dell’uomo costituisce un segno della decadenza di quest’ultimo ma, al tempo stesso, della condanna e della presenza divina. Inoltre alla domanda che cosa fosse la materia, la poetessa dichiara che è quella di questi corpi marmorei che portano in se stessi il mistero della vita, infatti utilizzando la materia stessa è possibile farla urlare ed è così che qui compare un urlo segreto che non si sente. Ma, come Alda Merini conclude, a volte non è la voce che è sintomo di dolore ma spesso anche il silenzio, in questa pietà vi è un silenzio mostruoso che si configura come morte della parola, infatti a morire è Cristo che è il Verbo fattosi carne e venuto ad abitare in mezzo a noi.

Fig. 10 - Alda Merini che ammira la “Pietà Rondanini”.

L’opera si carica così di un forte carattere emozionale, nonostante l’incompiutezza dettata dalla morte che prese l’artista il 18 febbraio 1564 nella sua casa di Roma. Si dice che morì accompagnato dalla lettura del passo della Passione di Cristo, dopo aver redatto testamento affidando lanima sua nelle mani de Iddio; il corpo alla terra, e la roba a parenti più prossimi. Il corpo fu poi trafugato a Firenze dove, una volta svoltesi le esequie, fu seppellito nella Basilica di Santa Croce. Inutile dire che gli elogi postumi per il suo genio furono molteplici, ma tra i tanti emerse quello dello stesso Vasari che ebbe da lodare Dio d’infinite felicità poiché ebbe la grazia di esser nato al tempo di Michelangelo e di averlo avuto come amico, così egli poté dire di lui cose amorevoli e vere che altri non ebbero la fortuna di scrivere.

Bibliografia

Michelangelo, Art dossier, Giulio C. Argan, Bruno Contardi, Giunti, 1999.

Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Giorgio Vasari, edizione 1568.

Vuoto d’amore, Alda Merini, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1991.

Sitografia

treccani.it

lombardiabeniculturali.it

milanocastello.it

casabuonarroti.it

youtube.com/watch?time_continue=384&v=hwfGBRB-eLo&feature=emb_title

Immagini:

Fig. 1) https://www.lorenzotaccioli.it/castello-sforzesco-di-milano-cosa-vedere/

Fig. 2) https://it.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Buonarroti

Fig. 3) https://www.nationalgallery.org.uk/exhibitions/past/michelangelo-sebastiano-the-credit-suisse-exhibition/michelangelo-sebastiano-in-focus

Fig. 4) https://cultura.biografieonline.it/la-pieta-di-michelangelo/

Fig. 5) https://it.wikipedia.org/wiki/Pietà_Bandini

Fig. 6) https://one.listonegiordano.com/architettura/museo-pieta-rondanini/

Fig. 7) https://www.chiesadimilano.it/wp-content/uploads/2020/03/Pietà-Rondanini.jpg

Fig. 8) https://www.artwave.it/wp/wp-content/uploads/2017/12/30199-rondanini.jpg

Fig. 9.1) https://cbccoop.it/app/uploads/2017/04/060_041.jpg

Fig. 9.2) https://cbccoop.it/app/uploads/2017/04/062_047.jpg

Fig. 10) www.youtube.com/watch?time_continue=384&v=hwfGBRB-eLo&feature=emb_title


LA CERTOSA DI SAN LORENZO A PADULA

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Fondata nel 1306 da Tommaso Sanseverino conte di Marsico, la Certosa di San Lorenzo è chiamata così in onore del santo martirizzato sulla graticola, e la tradizione orale vuole che essa stessa sia stata costruita a forma di graticola; sorge in un’area a sud della provincia di Salerno, Padula, vicinissima alla Basilicata e alla Calabria. È frutto di continui rimaneggiamenti che ne hanno notevolmente ampliato e arricchito la struttura originale; il suo chiostro centrale, che copre un’estensione pari a due campi di calcio, è il più grande d’Europa. Nel 1998 l’UNESCO l’ha inserita tra i 55 siti italiani Patrimonio dell’Umanità.

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L’articolo che segue è il primo di una serie dedicata a questo splendido monumento: in particolare, in esso si tratteggerà il contesto in cui la Certosa di San Lorenzo fu immaginata e posizionata e il primo ambiente che si incontra entrando, ossia la cosiddetta casa bassa o domus inferior.

Il contesto

La Certosa di San Lorenzo a Padula è ubicata nel Vallo di Diano, un piccolo altopiano campano situato ai piedi del monte Cervati che funge da zona di transizione fra la Campania e la Basilicata; in epoca preistorica tale conca era in realtà un mare, come dimostrano i sedimenti marini ritrovati sulle alture circostanti. Successivamente, nel Pleistocene, il mare divenne un lago per poi prosciugarsi completamente, facendo emergere le colline su cui sono stati fondati i 15 paesi che lo compongono. Il Vallo, per la sua posizione strategica, è stato inglobato al centro di un complesso sistema di vie di comunicazione: già in epoca romana, infatti, la zona era attraversata da un’importante via consolare, la “Regio-Capua”, che collegava appunto Capua con Reggio Calabria. Su questa strada, in pratica una diramazione dell’Appia, transitarono molte personalità illustri, come ad esempio Cicerone, che aveva una villa nei dintorni. Dall’epoca romana si succedettero poi una serie di dominazioni ed invasioni fino ad arrivare al 1100, quando sul luogo dove poi sarebbe sorta la Certosa fu costruito dai monaci benedettini un piccolo cenobio dedicato a San Lorenzo. Il motivo è semplice: così come succedeva in altre parti della Campania, anche qui si tentava di porre un argine alla diffusione dei monaci basiliani attraverso la costruzione di chiese e monasteri di rito latino, che si opponeva al rito greco praticato dai basiliani. Questi ultimi erano malvisti dai benedettini che, invece, potevano contare sul sostegno della casata francese dei D’Angiò, che favorì anche la nascita e la diffusione di altri ordini monastici come ad esempio i certosini, maestri nel bonificare zone paludose come all’epoca era Padula. Questo intreccio religioso si rispecchiava nella politica: i Sanseverino, ossia i maggiori feudatari del territorio valdianese, scelsero di fondare la Certosa di San Lorenzo proprio per ingraziarsi gli Angioini, approfittando di varie condizioni favorevoli quali, ad esempio, l’acquisto o la proprietà di vasti latifondi nei pressi del sito prescelto per la costruzione, che potessero garantire quindi il sostentamento dei monaci.

Nel 1306 Tommaso Sanseverino, conte di Marsico, diede avvio ai lavori di costruzione della Certosa. Due anni dopo fu nominato Gran Contestabile del Regno da Carlo lo Zoppo; la lungimiranza politica aveva dato i suoi frutti.

La Certosa di San Lorenzo: l'impianto

Tutte le Certose hanno il medesimo impianto compositivo: sono divise infatti in casa bassa o domus inferior, l’ambiente ove possono accedere anche i laici, e la casa alta o domus superior, riservata ai religiosi. Può essere vieppiù suddivisa in altre tre zone:

  • la prima zona che si incontra, ossia la corte esterna, ove avvenivano gli scambi commerciali con il mondo circostante e che si presenta ruotata rispetto all’asse principale che collega prospetticamente tutti gli ingressi del monumento;
  • una zona “di transizione”, che fungeva da cuscinetto fra il mondo esterno e la zona eremitica e che comprende sia gli ambienti ove i monaci potevano incontrarsi, come la chiesa o il refettorio, sia alcune zone ove anche i laici erano ammessi, come ad esempio la foresteria;
  • la zona eremitica vera e propria, ove potevano accedere solo i monaci e che era consacrata al silenzio, alla solitudine e alla meditazione personale.
1-chiostro della foresteria; 2-chiesa di San Lorenzo; 3-chiostro dei procuratori;4-chiostro del cimitero antico; 5-cella del priore; 6-giardino del priore;7-cella con giardino; 8-scala ellittica; 9-cucina; 10-refettorio; 11-sacrestia. https://www.latanahotelmaratea.it/index.php/it/maratea/certosa-di-padula

Le tre corti esterne (della spezieria, centrale e dei mulini, situate a destra nella pianta in alto) rappresentano il primo ambiente che si incontra appena varcato il sontuoso portone d’ingresso, che dà accesso ad una piccola galleria voltata a botte con lacerti di grottesche.

https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fpadulafoto.it%2Fcertosa-san-lorenzo%2F&psig=AOvVaw3KJSHQgvDRPLB_Y8S5a8Yy&ust=1598101960059000&source=images&cd=vfe&ved=0CAMQjB1qFwoTCKDHqYKwrOsCFQAAAAAdAAAAABAf
Lacerti di affreschi

Questa sorta di corridoio, da cui poi si spalanca l’immensità della corte esterna chiusa in fondo dalla facciata barocca della Certosa a guisa di quinta scenica, presenta due ambienti ben distinti, ossia la spezieria (a sinistra) e l’alloggio per il custode (a destra). Un enorme portone veniva chiuso ogni sera dai padri certosini (un particolare del chiavistello è raffigurato nell'immagine sottostante), e gli armigeri lo sorvegliavano da una vicina torre.

La Spezieria

Oltrepassando la lunga facciata della Certosa in cui si apre il succitato portone e la facciata della piccola chiesa di San Lorenzo,

il primo ambiente che si incontra è la Spezieria, ossia il luogo ove i monaci della Certosa preparavano medicine ed unguenti che potevano essere somministrati, dietro modesta elemosina, anche a coloro che non facevano parte dell’ordine monastico, come ad esempio fornitori, esterni o ospiti. Una sorta di farmacia ante litteram. L’ambiente si compone di una stanza a pianterreno, oggigiorno adibita a bookshop, introdotto da un’anticamera stretta e lunga con un bell’affresco sul soffitto, probabilmente raffigurante Cristo che guarisce gli infermi. Ai due lati dell’affresco vi sono due scene in bianco e nero di attribuzione e soggetti ignoti, inseriti in un sistema di decorazioni a giragli fitomorfi.

La Spezieria vera e propria presenta invece, lungo tutte le pareti, delle scaffalature ove un tempo si sarebbero potuti osservare vasi di varie dimensioni (ne sono stati calcolati circa 45) contenenti medicamenti e unguenti, alcuni più semplici altri più complessi; il soffitto conserva tracce di affreschi con paesaggi.

Dalla stanza in questione si accede ad una loggia esterna con un piccolo porticato, ove spicca una fontana a conchiglia appoggiata ad una tartaruga, simbolo di longevità; una scala laterale conduce nell’appartamento dello speziale al piano superiore, purtroppo non visitabile, che dovrebbe conservare ancora tracce di decorazioni originali. Recentemente sono stati inoltre recuperati gli archivi contenenti l’inventario degli “ingredienti” utilizzati per comporre le medicine. Si trova di tutto, sia ingredienti tradizionali sia ingredienti “mitici”, come la polvere di smeraldo per curare gli occhi o la canfora usata come anafrodisiaco, ossia per tenere lontane le tentazioni della carne. Negli ingredienti tradizionali vi sono invece le piante e le essenze naturali, coltivate dai monaci stessi nel cosiddetto “Orto dei Semplici”: al momento della raccolta, tramite vari procedimenti, venivano poi estratti i principi attivi utilizzati nella preparazione di decotti e medicamenti, utili per curare patologie come l’artrite, la gotta etc.

Dalla Spezieria si accede ad una piccola corte esterna a forma di rettangolo, parallela alla principale.

Qui si trovavano i fienili e, disposte ad angolo retto, le stalle per gli animali da soma, la cui particolarità è il pavimento zigrinato per impedire che gli zoccoli degli animali scivolassero.

Al centro di questo ambiente è possibile notare come il pavimento sia lievemente riabbassato di pochi cm formando una sorta di piccola vasca. Una ipotesi sul suo scopo è che in tale “vaschetta” scorresse un piccolo rivolo d’acqua corrente che lavasse via gli escrementi degli animali, quasi “parcheggiati” sui lati dell’ambiente e intenti a mangiare. Tale supposizione è suffragata dalla presenza da una parte di una sorta di imbocco per un tubo e, dalla parte opposta, di quello che sembra un foro di scarico. Proseguendo oltre, nella piccola corte rettangolare si affacciano anche la fonderia delle campane e la peschiera, ossia uno spazio riempito di acqua dolce destinato ad allevare i pesci che poi finivano sulla tavola dei monaci.

Il secondo ambiente, situato esattamente difronte alla Spezieria, era l’alloggio per il custode; l’impianto attuale purtroppo non permette di capire quale fosse la sua disposizione originaria.

La corte centrale

Parallela a questa prima corte è la cosiddetta corte esterna, ossia un rettangolo fiancheggiato da corpi di fabbrica ai due lati lunghi, di cui quello di destra aggiunto successivamente rispetto all'altro. Sulla parte sinistra vi erano gli alloggi dei conversi, mentre sulla parte destra altri ambienti commerciali quali magazzini e fienili.

La corte è attraversata dall’acciottolato originale, scandito al centro da una sorta di viale che visivamente collega il portale l’ingresso alla corte esterna alla porta d’accesso al monumento vero e proprio e che indirizza l’occhio di chi guarda verso un ideale punto di fuga, costituito dalla porta d’ingresso al monumento. Solo di recente la pavimentazione originale è stata ripristinata, in quanto fino agli anni ’90 i detriti provenienti dalle ripetute inondazioni del torrente Fabbricato che scorre lì vicino avevano raggiunto un’altezza di due metri, coprendo completamente il pavimento della corte esterna e parzialmente gli edifici che in essa affacciano. Grazie ad un intervento sull’alveo del fiume si è inoltre scongiurato il pericolo di ulteriori tracimazioni di un torrente non particolarmente grande, ma che durante le piogge veniva ingrossato dalle acque e dai rivoli che scendevano dal paese soprastante.

Sul lato destro della corte esterna si trova una straordinaria fontana: non si sa chi sia l’autore, ma sicuramente era perfettamente a conoscenza della tipologia della grotta artificiale di cui l’espressione massima si trova nel Giardino di Boboli a Firenze.

Si tratta infatti di una complessa macchina scenografica: la fontana in questione si sviluppa in altezza ed è costituita da una cassa rettangolare chiusa da una spalliera e sormontata da una sorta di struttura a pigna, metà in pietra e metà in breccia, inserita in una nicchia profonda anch’essa in brecciolino dove ancora sono evidenti tracce di decorazione ottenuta con i gusci vuoti di molluschi quali le cozze.

La fontana si trova inserita in un arco a tutto sesto ai cui lati vi è una coppia di paraste lisce affiancate che si riuniscono alla base in un piedistallo da cui emergono due fontanelle con mascheroni. L’arco è inserito in una struttura coronata da una balaustra lapidea con ai lati esterni due pinnacoli conici, la raffigurazione di due conversi, altri due pinnacoli e San Lorenzo al centro, come dimostra l’attributo della graticola presente al suo fianco.

Sulla spalliera vi è la raffigurazione di due leoni posti dorso a dorso intenti a sbranare l’uno un vitello, l’altro un toro, iconografia molto diffusa (i leoni) anche se inconsueta (non si capisce bene il motivo della presenza del toro);

vicino al leone di destra vi sono due serpenti di fronte, probabile riferimento all'arte medica di cui i certosini erano maestri. Un’ipotesi sulla loro presenza riguarda infatti l’allusione ai due serpenti che si intrecciano sul caduceo, il bastone che è il simbolo di Esculapio, dio greco della medicina.

Al centro della spalliera vi è una formella piuttosto abrasa, che indica la presenza di una decorazione fitomorfa, forse un fiore.

L’ultima corte, quella più a destra, era la cosiddetta corte dei mulini, su cui affacciavano altre attività produttive. Attualmente non è visitabile in quanto ospita parte degli uffici della Comunità Montana, ma ricalca in pieno le altre due corti. L’unica differenza è che dalla pianta si evince che sia quadrata anziché rettangolare.

 

Nelle prossime uscite si tratteranno gli ambienti interni che conducono alla zona eremitica vera e propria.

 

BIBLIOGRAFIA

Terre Lucane. Frammenti di storia e di civiltà lucana osservati nel più ampio quadro storico meridionale e nazionale, Booksprint edizioni, 2016

G. Alliegro, La reggia del silenziocenni storici ed artistici della Certosa di San Lorenzo in Padula, A.G.A.R., 1963

SITOGRAFIA

https://cartusialover.wordpress.com/tag/spezieria/

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula

 

 


LA VILLA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA

A cura di Antonina Quartararo

La scoperta di Villa del Casale

Le prime notizie storiche sulla bellissima villa tardo-romana di contrada Casale a Piazza Armerina (in provincia di Enna) si devono all'archeologo Gino Vinicio Gentili, che negli anni ’50 del Novecento cominciò ad indagare la zona dopo aver ricevuto varie segnalazioni da parte degli abitanti del luogo. Fin dal primo momento ci furono degli accesi dibattiti sull'identificazione del proprietario di questa meravigliosa villa costruita nell'entroterra siciliano. La sua insolita posizione all'interno dell’isola e non lungo la fascia costiera si riconnette alla situazione sociale ed economica dell’epoca: infatti, dopo una grave crisi e il conseguente spopolamento delle campagne, la Sicilia a partire dal IV secolo iniziò a godere, sotto la dominazione romana, di un periodo di prosperità grazie a nuovi insediamenti commerciali e al suo ruolo di ponte di collegamento tra la capitale dell’Impero romano e l’Africa proconsolare. I domini stanziati sull’isola cominciarono ad investire nella costruzione di confortevoli e lussuose dimore extraurbane, ed è proprio in questo periodo che si colloca la costruzione di Villa del Casale.

Secondo gli studi, la villa fu costruita in piena età costantiniana su una precedente fattoria e si daterebbe tra il 320 e il 325 circa. Le proposte di identificazione del proprietario sono diverse, come ad esempio l’attribuzione al tetrarca Massimiano dopo la sua abdicazione, o al figlio Massenzio. Un’altra tesi sostiene che il proprietario sia stato L. Aradius Valerius Proculus Popolonius, governatore della Sicilia tra il 327 e il 331 d.C., oppure Ceionus Lampadius figlio di Ceionius Philosophus, prefetto sotto Costanzo II.

L’architettura

La villa del Casale di Piazza Armerina ha un’estensione di 4000 m2 ed è possibile individuare quattro nuclei principali (Fig.1): l’ingresso monumentale a tre arcate con cortile a ferro di cavallo pavimentato con un prezioso opus sectile e con porfido (1-2), il corpo centrale, organizzato intorno ad un cortile con giardino e vasca al centro (8-39), il grande triconco, la sala adibita ai banchetti (47-55) e altri vani, infine il sontuoso complesso termale (40-46). La villa è divisa in due parti, una adibita a destinazione pubblica e l’altra a destinazione privata. Si presume che i lavori di costruzione siano durati dieci anni.

La villa del Casale, oltre alla sua struttura monumentale, è nota per i suoi grandi e splendidi mosaici.

Fig. 1 - Pianta della Villa del Casale di Piazza Armerina.

La Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona pubblica

La zona pubblica, destinata all'udienza degli ospiti e dei visitatori, era la zona di rappresentanza per eccellenza. Dall'ingresso principale (1-2) si accedeva ad un grande giardino centrale decorato con un pavimento geometrico con scena di adventus su due registri. Nel registro superiore un uomo con una corona di foglie sul capo reca un candelabro sulla mano destra (Fig.2); l’uomo si trova in compagnia di due giovani con ramoscelli in mano e sembrano attendere l’arrivo di un ospite importante. Nel registro inferiore alcuni giovanetti recitano o cantano tenendo dei dittici aperti tra le mani. Non è chiaro se sia una scena religiosa o un solenne benvenuto per l’arrivo del proprietario.

Il peristilio di Villa del Casale (8), che circonda il grande giardino, è decorato con un mosaico raffigurante ghirlande d’alloro con al centro teste di felini, arieti, tori, capre, cavalli, cervi, uno struzzo e un elefante (Fig.3). Vicino alla vasca sta un piccolo vano con il Sacello dei Lari, ovvero gli dei protettori della casa (9). Opposto a questo vano vi è il corridoio della Grande Caccia (lungo 65,93 m e largo 5 m), famoso per il suo apparato musivo (Fig.4-5-6-7) che narra la cattura di bestie selvatiche che venivano sfruttate per i giochi all’interno dell’anfiteatro di Roma. Una prima scena raffigura i soldati che catturano una pantera in Mauretania con l’aiuto di una trappola. Seguono la caccia all’antilope in Bumidia e la cattura del cinghiale selvatico in Bizacena. Si noti che ogni scena è ambientata in una diversa provincia dell’Africa (fatta eccezione per la Tripolitania).

La seconda scena si svolge in un porto (è possibile si tratti di quello di Cartagine, all’epoca grande scalo occidentale) con un lussuoso edificio sullo sfondo, forse una villa marittima.

Un cavaliere sorveglia il trasporto di un pesante carico, probabilmente il servizio della posta imperiale. Altri uomini caricano sulle spalle animali legati o in enormi casse, un ufficiale frusta un prigioniero e altri trascinano su una nave antilopi e struzzi (Fig.8).

Fig. 8 - Mosaico della Grande Caccia e particolari.

La terza scena raffigura un lembo di terra fra due mari (forse l’Italia o il porto di Ostia); dei personaggi osservano lo sbarco degli animali da due navi provenienti da est e da ovest. Si ipotizza che siano i tetrarchi, oppure Massenzio con due ufficiali. La scena, molto sintetica, è tipica dell’arte tardoantica, e dai modelli utilizzati si deduce che i mosaicisti provenissero dall'Africa settentrionale.

Dalla quarta alla settima scena del corridoio i mosaici seguono modelli diversi, forse occidentali, e si connotano per una differente resa plastica e naturalistica. La quarta scena raffigura un imbarco di animali, ambientato probabilmente in Egitto per la presenza di un dromedario, un elefante e una tigre. Nella quinta scena è descritta la cattura di alcuni rinoceronti in una palude, forse in un paesaggio nilotico, con fiorellini rossi ed edifici a pagoda. La sesta scena rappresenta la lotta tra un leone e un uomo ferito, e un uomo dall'aspetto autorevole è affiancato da due soldati che attendono insieme l’arrivo di una cassa misteriosa, contenente forse un grifone. La settima scena raffigura la cattura della tigre in India con l’aiuto di una sfera di cristallo, dall'effetto riflettente, che viene lanciata verso l’animale per distrarlo e intrappolarlo facilmente. L’ultimo episodio mostra la cattura di un grifone con un’esca umana dentro una cassa di legno. Alla fine del lungo corridoio nelle due absidi, che si presentano molto lacunose, si trovano rappresentate a mosaico due figure femminili. A nord, una donna reca in mano una lancia con accanto un leone e un leopardo, forse personificazione della Mauretania o dell’Africa (Fig.9). A sud, invece, la presenza dell’elefante, della tigre e della fenice suggeriscono che la figura femminile sia la personificazione dell’India (Fig.10).

In conclusione, le raffigurazioni di scene di caccia o cattura di animali simboleggiano il valore e il prestigio di un sovrano, mettendo in evidenza la conoscenza dei territori dell’Impero e degli animali già noti ai quei tempi sia in Occidente che in Oriente. Questi mosaici alludono ad una sorta di carta geografica, ed infatti non era raro nell'antica Roma che i governatori ricevessero una cartina geografica, di buon auspicio per l’accrescimento del proprio potere.

Villa del Casale di Piazza Armerina: i mosaici della zona privata

La zona privata della villa si estende lungo il lato settentrionale del peristilio (8). Molti sono i vani riccamente decorati: ad esempio, nel vano 16 vi sono sei coppie di personaggi sfarzosamente abbigliati e ingioiellati che rappresentano forse il ratto delle Sabine o le danze campestri in onore della dea Cerere che avvenivano durante le festività primaverili. Il vano 18 è ornato da Eroti, tema molto a cuore al proprietario della villa; gli Eroti pescatori all’interno di barche mostrano il segno “V” sulla fronte, il cui significato non è stato ancora del tutto spiegato.

È chiaro che si tratti di mosaici nordafricani. In una villa marittima, un Erote rovescia un paniere pieno di pesci mentre un altro sta per colpire un pesce con un tridente (Fig.11).

Gli Eroti pescatori sono presenti anche nei vani 51 e 52, nelle raffigurazioni del thiasos marino nella sala absidata 35 e nel frigidarium delle terme 43, dove una composizione fatta da Nereidi, Tritoni e cavalli marini decora la vasca a forma ottagonale. Nel vano 55 due Eroti portano ceste piene di grappoli ai loro compagni intenti alla pigiatura dell’uva. Il pavimento dell’ambiente 54 è interamente ricoperto da girali di tralci, grappoli, figure di Eroti con al centro un medaglione con un busto maschile, forse la personificazione dell’Autunno.

Nella sala 19 si trova il mosaico con la Piccola Caccia (Fig.12), formato da dodici scene disposte su quattro registri con cacciatori e i loro cani che inseguono una lepre, due uomini portano sulle spalle un cinghiale legato e un sacrificio alla dea Diana, rito che veniva fatto per garantire il buon esito della caccia. Altri uomini guardano alcuni volatili su un albero nell'attesa di catturarli; seguono un banchetto del dominus attorniato dai suoi attendenti in mezzo ad un bosco, la cattura di tre cervi e l’abbattimento di un cinghiale che ha ferito un uomo. Due servi nascosti dietro una roccia provano a colpire la bestia con un sasso, un altro, impaurito, si tocca la fronte. A differenza della Grande Caccia questo mosaico raffigura la vita quotidiana del dominus.

Fig. 12 - Mosaico raffigurante Piccola caccia.

Gli appartamenti del dominus (A) e della domina (B)

L’appartamento a nord della grande aula absidata è dedicato alla domina e ai suoi bambini e ha delle dimensioni inferiori rispetto all’appartamento B del dominus. La stanza 28, che funge da anticamera, è decorata con l’episodio di Ulisse che sconfigge il gigante Polifemo porgendogli il kantharos contenente del vino (Fig.13). Comunicante a questa stanza vi è una sala absidata con un mosaico raffigurante Stagioni e ceste di frutta all’interno di tondi. Il pavimento del cubiculum 30 è ornato da tondi con elementi geometrici, stelle e Stagioni che circondano un medaglione con una coppia di amanti: per questo si è attribuita inizialmente l’ala alla sala del dominus, perché il soggetto erotico non era consono alla stanza di una donna (Fig.14).

L’appartamento del dominus (B) presenta pavimenti molto più elaborati, dove ritorna il tema degli Eroti pescatori con veduta di un porto. Segue il mito del poeta Arione che incanta le belve marine, Tritoni, Nereidi e cavalli marini con la sua arte poetica e musicale (Fig.15 -16). Nell’abside è raffigurata la testa del dio Oceano circondata da pesci diversi. Nella sala absidata 22 si trova Orfeo attorniato da diversi animali. Le scene di Arione e di Orfeo simboleggiano il dominio sulle forze brute attraverso le arti della poesia e del canto, invece le bestie alludono alle passioni umane e alla vittoria dell’uomo su queste ultime. Identico significato hanno i mosaici della Grande Caccia e della Piccola Caccia, che illustrano il trionfo dell’uomo sulle bestie grazie alla forza e all'astuzia. Nell'anticamera, ossia l’ambiente 36, si trova il mosaico di Pan dalle sembianze caprine che combatte Eros: a questa scena assistono fanciulli e giovani, forse i familiari del proprietario, e sul tavolo sono poggiate delle corone - premio per il vincitore (Fig.17). Dall'anticamera si passa al cubiculum 37, la cui pavimentazione a mosaico mostra bambini cacciatori, dei quali uno viene morso al polpaccio da un grosso topo e un altro fugge davanti a un gallo (Fig.18-19-20). Nell'anticamera 38, invece, vi è un circo di bambini che gareggiano con quattro bighe trainate da volatili ed un fanciullo attende di incoronare il vincitore con la palma che tiene in mano. Sembra essere un’allegoria delle Stagioni con un richiamo al trascorrere inesorabile del tempo (Fig.21). Il cubiculum 39 è decorato con un agone musicale in cui i fanciulli sono intenti alla recitazione e al canto e con delle fanciulle che intrecciano ghirlande di fiori e foglie (Fig.22).

Fig. 17 - Mosaico raffigurante Eros contro Pan – Appartamento B.

La Villa del Casale di Piazza Armerina: la sala dei banchetti

Nella Villa del Casale di Piazza Armerina vi è una sala la cui decorazione è di grande effetto: si tratta della sala adibita ai banchetti, ove vengono mostrate le Dodici Fatiche di Ercole, con l’eroe trionfante e gli avversari sconfitti, quasi morenti o privi di vita. Tra le scene sono presenti i cavalieri sulle cavalle antropofaghe di Diomede, il leone Nemeo, l’idra di Lerna, Gerione con tre corpi, Cerbero, la cerva di Cerinea, il toro di Maratona, il cinghiale di Erimanto, il serpente delle Esperidi, la palude degli uccelli stinfalidi. Nell’abside nord, Eracle vittorioso viene assunto fra gli dei immortali e incoronato di alloro da due figure maschili, delle quali uno dovrebbe essere Dionisio e l’altro Giove. Alla scena assistono un giovane Fauno e una divinità fluviale. La piccola soglia all’ingresso dell’abside nord presenta due famose metamorfosi: Dafne trasformata da Apollo in pianta di alloro (simbolo del valore) e Ciparisso mutato in cipresso (simbolo dell’immortalità). Nell’abside est viene mostrata la fine dei Giganti uccisi da Eracle e dalle sue frecce. Il mosaico della soglia è legato allo stesso tema: vi è sono Andromeda e Endimione, due mortali trasformati in stelle per il loro valore, mentre Eracle viene accolto tra gli dei sull’Olimpo. Nell’abside sud trova luogo la rappresentazione del mito di Licurgo, re trace ostile a Dioniso. Il re tenta di colpire la ninfa Ambrosia con l’ascia, ma le gambe di lei si trasformano in tralci che la immobilizzano. Una baccante affiancata da due seguaci di Dioniso colpisce alla spalla il re con la propria lancia. Un giovane aizza una tigre contro Licurgo mentre Dionisio vince sui suoi nemici, enfatizzato dal gesto della menade. Tutto il programma musivo allude alla punizione di coloro che osano opporsi e ribellarsi agli Dei.

Le terme

Nel primo vano delle terme di Villa del Casale di Piazza Armerina (40) è raffigurata la domina con i suoi due figli. La donna ha un’acconciatura ad elmo, indossa un ricco abito ed è affiancata da due giovinetti con lunghi capelli. All’estremità le ancelle recano una cassetta con abiti e un’altra con manici contenente forse oggetti per il bagno. L’ambiente 42 è la palestra con annesso frigidarium.: qui viene raffigurata una corsa di quadrighe nel circo di Roma. A destra i dodici carcere,s ossia dei giovani addetti alla partenza dei cavalli, il tribunal con l’organizzatore dei giochi nell’atto di dare il via alla gara agitando un drappo bianco. Le statue di dodici dei, fra cui Mercurio, Fortuna, Ercole a destra, Giove a sinistra, due aurighi che si preparano alla corsa e tre templi. A sinistra, un arco a tre fornici con ai lati tribune piene di spettatori, e un piccolo edificio davanti alle tribune identificato con quello di Venere Murcia. L’arena è separata in due parti e sulla spina si trova la “meta prima” costituita da tre colonne coniche, un edificio dal doppio portico e l’overia con le sette uova che servivano a contare i numeri di giri già effettuati, la statua della Magna Mater sul leone, sullo sfondo un obelisco egiziano (Fig.23).

Fig. 23 - Mosaico con scene di circo – Palestra delle terme.

La parte terminale della spina presenta una grossa lacuna, oltre la quale si scorgono le tre colonne della “meta seconda” e le statue di discoboli e vari animali. Nella parte ovest dell’arena un suonatore segna la fine della gara, accanto l’editor ludi consegna la palma della vittoria al vincitore.

Dalla palestra si passa alla sala ottagona 43, forse coperta da una cupola, individuata come frigidarium, ovvero la sala con la vasca di acqua fredda (Fig.24). Nel frigidarium si trova rappresentato il thiasos marino con Tritoni, Nereidi ed Eroti pescatori che si dispongono intorno alla vasca. Quattro sono gli spogliatoi ornati con scene di mutatio vestis, ossia di figure che si vestono o si spogliano dei loro abiti. Le due piscine servivano una a contenere l’acqua fredda e l’altra per nuotare. Il campo presenta barche disposte a cerchio con due Eroti intenti alla pesca. Il passaggio 45 è da interpretare come stanza per i massaggi annessa alla sala del bagno caldo (calidarium) e mostra una scena di palestra. La sala 46 aveva la funzione di tepidarium come attestano i tre praefurnia e l’assenza di vasche. Nel mosaico sono raffigurate scene di gare allo stadio, tra i quali è identificabile la lampadedromia, ovvero la corsa con scudo e fiaccola.

Fig. 24 - Frigidarium.

Il più sorprendente mosaico (e forse il più famoso) si trova nell'ambiente 24, dove sono raffigurate varie attività sportive con il famoso mosaico delle “fanciulle in bikini”, che raffigura dieci atlete che si cimentano nel lancio dei pesi e del disco, nel gioco della palla, nella corsa; in onore della dea del mare Teti, due di esse sono premiate con la palma e con una corona di fiori (Fig.25-26-27-28).

Fig. 25 - Mosaico con le fanciulle in bikini.

Si ringrazia Giuseppina Dolce per aver concesso alcune foto presenti in questo articolo.

Bibliografia

Cipriano (a cura di), Archeologia Cristiana, Palermo 2007, pp.299-339.


VILLA DELLA REGINA A TORINO II PARTE

A cura di Francesco Surfaro

INTRODUZIONE PARTE SECONDA

Dopo aver delineato il contesto storico che ha visto l'edificazione di Villa della Regina e ricostruito le trasformazioni che essa ha subito nel corso dei secoli, in questo nuovo articolo si tratterà degli appartamenti reali e delle architetture del giardino interno rivolto verso la collina.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DEL RE

L'appartamento di Sua Maestà è suddiviso in stanze private affacciate verso la città e sale preposte all'intrattenimento che si aprono verso i giardini e la collina. A partire dal 1868, le sue favolose camere accolsero le allieve più diligenti dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari e furono riconvertite in aule scolastiche.

In foto: Daniel Seiter, “Il Trionfo di Davide”, ultimo quinquennio del XVII secolo, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Così denominata per la presenza in antico di un tavolo da biliardo per la pratica di un gioco simile a quello delle boccette, il "trucco" per l'appunto, la Camera verso Levante detta "del Trucco" è la prima delle sale dell'appartamento regio che dà sulla collina. Al centro del soffitto campeggia un dipinto ad olio di forma ovale collocato entro una cornice in stucco bianco intitolato "Il Trionfo di Davide", opera del Primo Pittore di Sua Maestà Claudio Francesco Beaumont, riferita in passato a Daniel Seiter. La scena veterotestamentaria, costruita con un'ardita prospettiva da sottinsu e giocata sui toni drammatici del rosso, mostra il giovane Davide trionfante che, mentre viene acclamato dagli israeliti, ostenta con fierezza il suo macabro trofeo: la testa mozzata, ancora sanguinante, del gigante Golia. La scelta di questo tema è verosimilmente tutt'altro che casuale: vi si può leggere una neanche tanto velata celebrazione encomiastica di Vittorio Amedeo II il quale, nel 1706, dopo aver respinto le truppe franco-spagnole che avevano assediato Torino per centodiciassette giorni, assunse il titolo regio nel 1713 con la firma del Trattato di Utrecht. Il sovrano, secondo le interpretazioni formulate dagli studiosi, verrebbe qui paragonato al patriarca biblico, divenuto re d'Israele dopo aver sconfitto il temuto comandante dell'esercito filisteo.

In foto: Interno della Camera del Trucco - All'estrema sinistra: Étienne Allegrain (attribuito a), Veduta del Castello di Saint-Cloud, 1675-77, olio su tela. A destra: Paolo Emilio Morgari: “Ritratto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II di Savoia, re d'Italia”, 1874, olio su tela. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Sulla parete ovest è collocata una tela ad olio di grandi dimensioni raffigurante una veduta del Castello di Saint-Cloud, residenza non lontana da Parigi dove la regina Anna Maria di Borbone-Orléans, figlia del Duca d'Orléans e nipote di Luigi XIV, era nata e cresciuta. Attribuita ad Étienne Allegrain e databile tra il 1675 e il 1677, è una replica desunta da un originale custodito a Versailles che, con molta probabilità, era parte del corredo matrimoniale della prima monarca sabauda, come dimostrato dalla rappresentazione di un corteo nuziale in primo piano assente nel prototipo. La parete est ospita i ritratti di Maurizio di Savoia, della già citata Anna Maria d'Orléans e di Vittorio Amedeo III. Sulle pareti nord e sud sono appesi, uno difronte all'altro, due quadri del 1874 di Paolo Emilio Morgari, ritraenti Vittorio
Emanuele II, primo re d'Italia, che reca in mano l'atto di cessione di Villa della Regina all'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, e la sua consorte scomparsa anzitempo, Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena. Della mano di Giovanni Battista Crosato sono le sovrapporte e le soprafinestre decorate con scene tratte dalle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, due delle quali sono state oggetto di furto nel 1979. Risalgono agli interventi juvarriani le consolles e le specchiere in stile rocaille, dorate a foglia ed ornate con girali di foglie d'acanto e chinoiserie.

La Regina Adelaide, Villa della Regina

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interno.

L'Anticamera verso Levante, adibita nel Settecento a sala giochi, custodisce una nutrita raccolta di ritratti familiari e tre nature morte floreali di ambito fiammingo. Tra le personalità sabaude effigiate è possibile riconoscere Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo III e Maria Clotilde di Borbone-Francia, sposa di Carlo Emanuele IV e sorella di Luigi XVI. Primeggia fra tutti per le sue imponenti dimensioni il ritratto di Umberto I, realizzato da Costantino Sereno nel 1878. Si segnala in questa sala la presenza di una targa bronzea commemorativa, su cui è inciso il bollettino militare con cui il generale italiano Armando Diaz annunciò, nel 1918, il termine della Grande Guerra. Un tempo, al centro della volta ornata con stucchi di maestranze luganesi, era collocato un olio su tela di argomento biblico realizzato da Claudio Francesco Beaumont, "Il Sacrificio di Jefte", che oggi risulta disperso. Uniche superstiti dei trafugamenti del 1979, durante i quali furono portate via tutte le sovrapporte di questo ambiente, sono le due soprafinestre di Giovanni Battista Crosato raffiguranti burle e giochi di putti.

GABINETTO VERSO LEVANTE "ALLA CHINA"

L'inventario del 1755 descrive questo raffinatissimo cabinet come interamente rivestito da tappezzerie in taffetas chiné à la branche, tacendo sulla presenza della pregevole boiserie impreziosita da pannelli simulanti carte cinesi, realizzata - forse non per questo ambiente - da Pietro Massa in collaborazione con la sua bottega tra 1732 e 1735. Nel 1868 la boiserie venne smontata dalla sede per cui era stata concepita nei progetti juvarriani e messa in deposito al Castello di Moncalieri. Nel 1888 i vari pannelli furono inviati al Quirinale ed installati nell'appartamento destinato ad ospitare il kaiser Guglielmo II. Il soffitto presenta motivi ispirati alle porcellane cinesi e la pavimentazione si compone di pregiate tarsie lignee. L'originale rivestimento con papiers-peint delle pareti è oggi riproposto grazie a sottili teli ignifughi in garza stampata.

BIBLIOTECA DEL PIFFETTI

In foto: Pietro Piffetti, Biblioteca, 1735-40, legno di pioppo con intarsi in palissandro, ulivo, bosso, tasso, avorio, tartaruga e inserì in foglia d'oro. Roma, Palazzo del Quirinale – Presidenza della Repubblica Italiana (già a Villa della Regina). Copyright fotografico: Archivio della Presidenza della Repubblica Italiana.

Ultima stanza rivolta verso la collina, nel XVIII secolo la biblioteca detta "del Piffetti" era, a dispetto delle sue esigue dimensioni, una delle sale più sfarzose di tutto l'appartamento di Sua Maestà. Risalente agli anni 1735-40, questo fulgido esempio di ebanistica rococò venne trasferito, nel 1879, alla Presidenza del Quirinale - dove si trova tutt'oggi - per ornare una delle camere dell'appartamento della regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I. L'autore di questo prezioso ambiente fu Pietro Piffetti, "ebanista del re e re degli ebanisti" attivo alla corte sabauda dal 1731 all'anno della sua morte, avvenuta nel 1777. La biblioteca presenta un corpo in legno di pioppo con alta zoccolatura e scansie per contenere i libri, rivestito nella sua interezza in palissandro, ulivo, bosso e tasso. La struttura è arricchita da elaborati intarsi in avorio. Le scaffalature sono coronate da otto vasi in maiolica all'orientale e da quattro sculture lignee dorate a foglia raffiguranti le quattro stagioni. Accompagnano l'arredo fisso due piccole consolles foderate in testuggine con tarsie eburnee a trompe-l'oeil simulanti fogli e stampe. Sopra uno di questi fogli d'avorio Piffetti volle apporre la propria firma. In origine, erano parte dell'arredo anche sei sgabelli e due sputacchiere alla cinese. In loco sono rimasti soltanto lo splendido pavimento ligneo piffettiano con decorazioni floreali e gli affreschi sommitali. Sulla volta, sono riferibili a Giovanni Francesco Fariano (attivo anche a Rivoli e a Stupinigi) le grottesche blu e oro su fondo bianco avorio che emulano i motivi delle porcellane cinesi, riprese dal Piffetti sullo zoccolo della libreria e sulla fascia di raccordo fra gli scaffali e il soffitto. Il medaglione centrale vede come protagonista Atena-Minerva, dea della Sapienza nel pantheon greco-romano, colta nell'atto di scacciare i Giganti dall'Olimpo, allegoria facilmente interpretabile come il trionfo della cultura sulla violenza e sull'istinto bruto. Il capolavoro dell'ebanista torinese è rievocato sulle nude pareti della saletta grazie ad una scenografica ricostruzione virtuale voluta dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto di Sua Maestà – interno. Fonte: consultaditorino.it

In affaccio sulla città, la camera da letto del re di Villa della Regina si distingue da tutte le altre sale per il suo strepitoso apparato decorativo realizzato in più fasi. Sul soffitto, la grande tela da plafond (1718-1719), posizionata al centro di un'elaborata cornice in stucco di maestranze luganesi, è opera di Claudio Francesco Beaumont ma, fino a tempi recenti, è stata impropriamente attribuita a Daniel Seiter. In essa il protagonista è Apollo che, alla guida del carro solare trainato da due cavalli bianchi, solca la volta celeste introdotto da Aurora, raffigurata mentre sparge delle rose aiutata da un putto in volo (allusione erudita al celebre verso formulare omerico "ῥοδοδάκτυλος Ἠώς", ossia "Aurora (Eos) dita di rosa"). Nella sezione inferiore, in primo piano, si trova - accanto a figure dormienti - un simpatico puttino sorpreso nell'atto di sbadigliare. Secondo uno schema molto caro ai monarchi europei, in questa composizione pittorica Vittorio Amedeo II viene accostato ad Apollo, divinità inscindibilmente legata al disco solare. Nella concezione assolutistica dell'Ancien Régime, infatti, il sovrano - al pari del Sole con i pianeti - veniva considerato il centro nevralgico dello Stato attorno a cui ruotano tutti i poteri, siano essi legislativo, esecutivo o giudiziario.

In foto: Volta della Camera da letto di Sua Maestà, pitture murali di Daniel Seiter e Claudio Francesco Beaumont, stucchi e dorature di maestranze luganesi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Le quattro specchiature laterali, dipinte ad olio sull'intonaco secco, ospitano le rappresentazioni allegoriche delle Stagioni sia dell'anno solare che della vita umana, dovute anch'esse al Beaumont, e le figure di Bacco, Cerere e dell'Allegoria dei Venti eseguite, tra 1694 e 1695, da Daniel Seiter nell'ambito di una precedente impresa pittorica. Agli angoli, entro quattro scudi dorati sostenuti da putti in candido stucco, vi sono le personificazioni delle quattro Virtù Cardinali con i rispettivi attributi iconografici: la Fortezza abbracciata ad una colonna, la Giustizia appoggiata ad una spada, la Prudenza che si guarda allo specchio e la Temperanza intenta a versare dell'acqua in un bacile.

Le soprafinestre e le sovrapporte (queste ultime sono presenti solo in copia fotografica dal momento che, nel tardo Ottocento, le originali furono installate al Quirinale), attribuibili a Corrado Giaquinto o alla sua scuola e databili attorno al 1735, raffigurano con rara grazia le vicende del pius Enea, rese celebri presso la corte torinese dal dramma di Pietro Metastasio intitolato "Didone Abbandonata", accolto con grande successo e replicato per ben quattro volte al Teatro Regio nel 1727. A ridosso della parete, dove ora è presente il ritratto giovanile di una pensosa regina Margherita di Savoia fasciata da un abito rosa, realizzato da Luigi Biagi nel 1879, era collocato, con ogni probabilità, il letto a baldacchino. La stanza presenta attualmente un rivestimento in taffetas chiné à la branche che differisce da quello descritto nell'inventario del 1755. L'originaria tappezzeria in seta bianca bordata di verde presentava dei paesaggi cinesi idealizzati con palmizi, sinuosi corsi d'acqua solcati da imbarcazioni in giunco e padiglioni popolati da personaggi indaffarati nelle proprie attività quotidiane.

GABINETTO DEL RE VERSO MEZZANOTTE E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto del Re verso Mezzanotte e Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

Tutti gli inventari settecenteschi non riportano alcuna informazione riguardante gli ornamenti parietali di questo splendido salottino privato. La prima menzione della boiserie, evidentemente non destinata in origine a tale ambiente, risale al 1812, anno in cui all'interno della villa venne fatta una ricognizione e stilato un catalogo dei vari complementi d'arredo mobile e fisso. Sia in questa data che nel 1845 furono qui censite tre consolles oggi mancanti, descritte come «finemente intagliate e dorate col piano superiore dipinto alla Chinese a colori diversi avente caduna di esse un piccolo tiratojo con serratura e chiave (...) e medaglioni al centro». Il rivestimento ligneo della parete, che porta le iniziali di Pietro Massa, è composto da otto pannelli a fondo giallo inseriti all'interno di montanti bianco avorio con ramages blu e da tre specchiere. Il tutto è impreziosito con delicate cornici dorate. I vari riquadri sono arricchiti da rilievi variopinti raffiguranti soggetti molto cari alla produzione artistica cinese, quali paesaggi idealizzati con abitazioni, alberi, animali esotici, uccelli e cortei di improbabili figure orientali dai fantasiosi abiti multicolore. Sullo zoccolo sono dipinte diverse specie di volatili acquatici e fiori esotici. I motivi della boiserie sono puntualmente riproposti negli stucchi sulla volta, riferiti negli inventari ottocenteschi ad un tale Pierre Wartz ed attualmente attribuiti al maestro luganese Giovanni Maria Andreoli.

In foto: particolare della boiserie di Pietro Massa e bottega. Copyright: Beppe - vbs50.com

IL GUARDAROBA

Il guardaroba del re è un ambiente di servizio dalle dimensioni piuttosto esigue attiguo al gabinetto cinese. Custodisce degli armadi in legno di noce impiallacciato con radica di olmo, destinati a contenere gli abiti del sovrano. A causa di infiltrazioni d'acqua gli affreschi a "grotteschi" che decoravano la volta sono completamente andati perduti.

ANTICAMERA VERSO PONENTE

Gli inventari stilati nel XVIII secolo attestano sulle pareti di questa anticamera, prima stanza a sinistra rispetto al Salone d’Onore, la presenza di oltre ottanta dipinti tra scene di genere, nature morte, ritratti, tele storiche e mitologiche, oggi quasi totalmente perduti. Fino al 1943 sulla volta, ornata da cornici in stucco bianco su fondo azzurro dell'atelier di Pietro Somasso, campeggiava una tela da plafond raffigurante Diana ed Endimione, andata distrutta nel corso dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale. Si ammirano tuttora in loco le sovrapporte di ambito del Giaquinto, apprezzabili per il modellato delle figure associato ad una ricca varietà di vibranti cromie; e la pregevole tappezzeria settecentesca in taffetas chiné à la branche di manifattura francese.

VILLA DELLA REGINA: L'APPARTAMENTO DELLA REGINA

Speculare a quello regio, l'appartamento di Sua Maestà la Regina è diviso in camere private affacciate su Torino e stanze rivolte verso la collina dedicate a momenti di intrattenimento e convivialità. Le sue sale, trasformate – come quelle dell'appartamento del re - nella seconda metà dell'Ottocento in aule scolastiche o in ambienti al servizio della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, furono quelle che sortirono maggiormente i devastanti effetti dei bombardamenti aerei del Secondo Conflitto Mondiale.

In foto: Anticamera verso Ponente – interno. Copyright: Beppe - vbs50.com

L'assetto ornamentale dell'Anticamera verso Ponente fu realizzato in più fasi e per diversi committenti. Risalgono al primo ciclo di lavori voluti, tra 1694 e 1698, da Anna Maria di Borbone-Orléans le variopinte grottesche “alla Bérain” con inserti dorati del soffitto, riprese negli anni ’30 del Settecento da Minei o, più probabilmente, da Giovanni Francesco Fariano, e la tela centrale di Daniel Seiter, sulla quale è effigiato un tema allegorico molto caro ai sovrani assoluti d'Europa: “Il Tempo e la Fama”. Sono frutto dei progetti juvarriani per Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg la zoccolatura lignea, il copricamino, le specchiere con le cornici intagliate e dorate in stile rocaille e le sovrapporte ovali di Giovanni Domenico Gambone rappresentanti fantasiose rovine architettoniche. Infine, sono di epoca napoleonica le pitture parietali con «arabesques, et figures uniformes à la peinture de la voute y existante sur le gout d'Erculan, et chinois», eseguite a tempera sull'intonaco secco dal pittore genovese Carlo Pagani nell'agosto del 1811. Così come nell'omonima stanza dell'appartamento del re, anche in questa anticamera nel Settecento risultavano censiti alle pareti oltre ottanta dipinti di vario soggetto e formato, ora mancanti.

In foto: Daniel Seiter, “Il Tempo e la Fama”, ultimo quinquennio del secolo XVII secolo, olio su tela. Copyright: Beppe - vbs50.com

CAMERA DA LETTO

In foto: Camera da letto della regina – interni. Copyright: Beppe - vbs50.com

Nel corso del bombardamento alleato che funestò quest’area del piano nobile l'8 agosto del 1943, andò distrutta la quasi totalità degli arredi mobili e fissi posti all'interno della camera da letto della regina. Originariamente la volta era dominata da un grande affresco di Corrado Giaquinto, “il Trionfo degli dei”, dipinto tra 1736 e 1737; e alle pareti era posizionata una tappezzeria di manifattura francese in seta blu con ramages e motivi floreali. Buona parte dell'arredamento fisso progettato da Juvarra negli anni '30 del XVIII secolo è oggi riproposto da copie degli anni '50 del Novecento, che si distinguono dai complementi originali superstiti per l'assenza di dorature. Quando la villa ospitava la sezione umanistica per le alunne meritevoli dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari, la stanza fu adibita ad aula di musica, come testimoniato dalla presenza del pianoforte verticale tardo-ottocentesco.

In foto: Camera da letto della regina – interni. A destra: pianoforte verticale della fine del XIX secolo. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interno con boiserie e specchiera.

Differente per il suo arredamento fisso dagli altri cabinet “alla China” presenti alla villa, il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente presenta una bassa zoccolatura con scene di genere orientaleggianti e porte con medaglione centrale istoriato sul modello degli acquerelli cinesi, eseguite dall’atelier di Pietro Massa su progetto di Filippo Juvarra e Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano nel terzo decennio del Settecento. Agli angoli, tra le porte e nelle sovrapporte, sono inseriti, entro elaborate cornici lignee dorate a foglia con i monogrammi di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, degli specchi di varie forme e dimensioni. Inquadrato da un fregio in stucco dorato a volute e ghirlande, il soffitto è caratterizzato da lacerti di pitture a fresco - risultanti perdute in gran parte già dagli anni '30 del XX secolo - con grottesche, ornati vegetali, uccelli, scimmie e figure maschili in foggia orientale, che rispondono allo stile di Filippo Minei. Del raffinato mobilio (tavolini, sgabelli e una consolle in stile rocaille) e delle preziose suppellettili (porcellane cinesi, argenteria e servizi da tè, caffè e cioccolata) storicamente documentati in questo salottino privato di gusto spiccatamente esotico, rimane soltanto un piccolo doppio corpo ligneo in “lacca povera”, ornato ad imitazione delle costose lacche orientali con una tecnica non dissimile dal découpage. Le bombe sganciate su quest’ala della villa nel 1942 non diedero alcuno scampo al rivestimento parietale settecentesco in taffetà, che rimase carbonizzato. Quest'ultimo è attualmente riproposto in copia.

IL GUARDAROBA

Gli inventari redatti nel Settecento documentano all'interno del guardaroba della regina due armadiate in radica di olmo con tarsie in noce, dietro le quali erano celati – fra le altre cose – una “cadrega di servizio” e un montavivande che consentiva di trasportare le pietanze dalle cucine al piano nobile. “Botti” in maiolica con decori blu e bianchi in armonia con i variopinti arabeschi sulla volta impreziositi da venature dorate fungevano da coronamento per i mobili. In un vano nascosto dietro le ante di un armadio sono ancora visibili le tracce dell'impianto idraulico realizzato per trasformare questo luogo nella toilette della direttrice dell’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari.

ANTICAMERA VERSO LEVANTE

In foto: Anticamera verso Levante – interni. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Ripetutamente danneggiata fino alla quasi totale distruzione durante le incursioni aeree avvenute tra l'8 e il 9 dicembre del 1942 e l'8 agosto del 1943, l’Anticamera verso Levante è – per come possiamo ammirarla oggi – quasi interamente frutto del ripristino architettonico del secondo dopoguerra posto in essere nel 1952. Anticamente, prima che nella seconda metà del XIX secolo fosse trasferita al Quirinale nel Salone d'Onore dell’Appartamento Imperiale, era possibile ammirare al centro del soffitto una tela di un anonimo pittore di scuola bolognese del Seicento raffigurante Re Salomone che riceve la Regina di Saba. Sia le pareti che le superfici concave della volta erano state completamente affrescate probabilmente da Filippo Minei in stile pompeiano con colori vivaci impreziositi da tocchi di foglia d'oro. Un documento datato luglio 1811 attesta che il pittore Giovanni Battista Pozzo fu pagato 1200 franchi dal governo francese per aver ridecorato «les murs [...] en figures, animaux, fleurs, et autres ornemens sur le gout de Raphael uniformes a la peinture de la Voute y existante». I dipinti novecenteschi che attualmente decorano la sala, compiuti imitando in maniera fedele gli originali, si devono a Francesco Chiapasco. La sovrapporta in carta dipinta a fiori e uccelli attribuita a Francesco Rebaudengo, unica superstite di una serie che fu oggetto di furto nel 1979, costituisce una preziosa testimonianza della fase tardo-settecentesca di Villa della Regina, quando era la dimora settembrina di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna. Le poltrone, le sedie e il divano in stile Impero furono realizzate appositamente per questo palazzo dall'ebanista Francesco Bolgi nel 1812. L'inventario del 1755 attesta in questa stanza la presenza di ben 43 ritratti di esponenti delle famiglie Savoia, Borbone-Francia, Asburgo-Lorena, Stuart e Assia-Rheinfels-Rotenburg.

GABINETTO VERSO LEVANTE DETTO "DELLE VENTAGLYNE"

In foto: Volta del Gabinetto delle Ventaglyne. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Passaggio obbligato fra l'Anticamera verso Levante affacciata sul giardino e il Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China”, il Gabinetto detto “delle Ventaglyne” deve il suo nome all'antica presenza di una ricca collezione di preziosi ventagli in carta dipinta montati sui tavolati della boiserie e inquadrati da cornici intagliate e dorate secondo un preciso progetto ornamentale, ancora intuibile grazie alle impronte dei riquadri rinvenute sulle pareti nel corso dei restauri. Alle sopracitate “ventaglyne”, si alternavano 26 piccole effigi di personalità di stirpe regale legate ai Savoia da vincoli di parentela. La volta, rifatta in gesso nella sua parte plastica e ridipinta ad olio nel 1952, riproduce fedelmente gli articolati partiti in stucco dorato e avorio nonché i fortunati motivi bianchi e blu “a graticcio” che circondano padiglioni abitati da figurine prese in prestito dai repertori della grottesca e della commedia dell'arte; presenti nell’originario progetto realizzato sotto la regia juvarriana. Mancante è il tondo centrale con “Amore che suona la cetra”.

In foto: Gabinetto delle Ventaglyne – interni. Fonte: rocaille.it

GABINETTO VERSO MEZZOGIORNO E PONENTE "ALLA CHINA"

In foto: Gabinetto verso Mezzogiorno e Ponente “alla China” – interni.

Tra gli ambienti più raffinati e fastosi dell'appartamento della regina, se non addirittura dell'intera villa, questo gabinetto cinese è lo strepitoso risultato di un progetto unitario per la boiserie e la volta, disegnato probabilmente da Baroni di Tavigliano (anche se non si possono escludere degli accorgimenti apportati da Juvarra) ed eseguito materialmente da Pietro Massa e dai suoi collaboratori tra 1733 e 1736. All'interno di un'articolata struttura in legno di pioppo massello a fondo nero, ornata da decori policromi ad olio con vasi di fiori, fenici e figure in vesti esotiche, sono inserite delle tavolette a fondo rosso e arancio in materiali preziosi (argento, ottone, stagno, legno di melo) di varia natura e provenienza lavorati con tecniche differenti, che mostrano motivi floreali, paesaggi fluviali puntellati di casette e popolati da pescatori indaffarati in attività ittiche o in ozioso colloquio, uccelli, personaggi stanti o seduti comodamente su cuscini con ventagli e aquiloni. Fra queste numerose figurine all'orientale una, posizionata sulla parete sud, mostra una ventaglina ricamata con le iniziali “PM”, interpretabili come uno sfraghís di Pietro Massa. Arricchiscono ulteriormente la boiserie tre grandi specchiere. Agli angoli sono collocate, al di sopra di mensole, quattro figure femminili chiné con teste e mani separabili dal corpo rivestito con un lungo abito pieghettato, scolpite in scagliola da maestranze piemontesi del XVIII secolo e dipinte in modo tale da riprodurre perfettamente la lucentezza della porcellana cinese. L'effetto ottenuto è tanto credibile che nell'inventario del 1755, dove vengono definite «grosse pagode bianche con berretta negra in capo», le si considera realmente in porcellana. Sotto queste curiose statue trovano posto quattro piccole consolles angolari terminanti a zoccolo di capra. Il repertorio iconografico delle specchiature a fondo rosso sulle pareti è ripreso pari pari nelle variopinte pitture del soffitto. Il grave furto che si registrò alla villa nel 1979 fu la causa della perdita di alcune preziose tavolette rosse e nere.

IL GIARDINO VERSO LA COLLINA E IL TEATRO D'ACQUE

In foto: Il Teatro d'Acque. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

La creazione dello scenografico impianto del Teatro d'Acque comportò laboriose e costanti operazioni di sbancamento, rimodellazione e contenimento della bassa collina su cui sorge la villa, protrattesi per buona parte del Seicento e per tutto il Settecento. Sul retro del palazzo, uscendo dal Salone d'Onore, si estende un giardino ad anfiteatro impostato su tre livelli scanditi da filari di siepi di bosso e coronato dal Bosco dei Camillini. Il primo livello è costituito dal Cortile d'Onore in forma di esedra, caratterizzato al centro da una piccola vasca marmorea quadrilobata animata da piccolo gioco d'acqua e delimitato da due pareti concave segnate da una successione di 20 nicchie con piedistalli ora orfani, ora sovrastati da sculture. Per mezzo di una scalinata introdotta da due obelischi laterali, una volta superato il Giardino dei Fiori - collegato alla villa tramite terrazze con sottarchi - si raggiunge un’ulteriore vasca di dimensioni maggiori in confronto a quella precedentemente descritta, collocata in posizione frontale rispetto alla Grotta del Re Selvaggio.

Grotta del Re Selvaggio — particolare della nicchia centrale. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

Questa finta spelonca - che deve la sua denominazione alla singolare scultura posta entro la nicchia centrale - altro non è che un parallelepipedo marmoreo tripartito, rivestito all'interno da specchiature e rilievi musivi in ciottoli di fiume, conchiglie e mursi. Salendo al livello successivo, tre terrazze emicicliche concentriche delineano il profilo del Giardino en forme de théâtre, cuore pulsante del Teatro d’Acque. In mezzo ad esso scorre la Cascatella della Naiade, una cascata a dodici gradoni paralleli in pietra dominata da un gruppo scultoreo in marmo raffigurante una naiade (ninfa d’acqua dolce) e un fauno distesi.

Cinta lateralmente da una scala a tenaglia che conduce al punto più alto della villa, la Vasca del Mascherone alimenta, grazie alle acque di una sorgente che sgorga dalla collina, tutte le fontane e i giochi d'acqua sottostanti con l'ausilio di un complesso sistema di canalizzazioni. Il Belvedere superiore juvarriano, quinta scenografica e culmine dell'intero complesso, presenta una facciata curvilinea definita da un'elegante bicromia giocata sul contrasto tra il grigio tenue della finitura degli intonaci e il colore naturale dei rustici bugnati in pietra calcarea. Nella fascia inferiore si aprono tre nicchie abitate da statue in marmo bianco dovute allo scalpello del regio scultore Giovanni Battista Bernero. All'estrema sinistra e all'estrema destra trovano posto aperture ovali foderate in murso nobilitate dalla presenza di mezzibusti. Sul fastigio, coronato da balaustre scandite da urne, troneggia lo stemma di Anna Maria di Borbone-Orléans.

IL PADIGLIONE DEI SOLINGHI

In asse con il corpo centrale della dimora, alla destra del giardino per chi guarda la collina e in posizione laterale rispetto al Teatro d'Acque sorge il Padiglione dei Solinghi, un edificio alto e stretto ripartito in due livelli architettonici, frutto dei disegni di Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano. Nella sezione inferiore è situata una terrazza semicircolare concava decorata da balaustre in marmo all'apice, specchiature in murso e una grande nicchia centrale contenente una scultura marmorea del dio Bacco attribuibile al Bernero. Percorrendo una scalinata laterale affiancata da un fondale leggermente curvo rivestito in pietra calcarea si raggiunge il secondo livello, un costruito a due piani i cui prospetti principale e laterali ripropongono il gioco cromatico a fasce orizzontali visibile nelle testate del Belvedere. Fungono da inusuali capitelli per le lesene laterali due mascheroni, ricostruiti nel 1836 ad opera di Giuseppe Corsaro. All'interno del padiglione – detto “dei Solinghi” in memoria dell'accademia di dotti fondata dal Cardinal Maurizio di Savoia, primo possessore del compendio, nel Seicento – il frammentario impianto idraulico, vittima delle pesanti manomissioni postume subite dal fabbricato, suggerisce la presenza di giochi d'acqua interni di cui, attualmente, rimane solo una conchiglia bivalve in stucco inserita nell'elaborato repertorio ornamentale musivo della nicchia centrale, articolato in tre ripartizioni separate da cornici ad ovuli, nastri intrecciati e lacunari con fiori molto aggettanti.

In foto: Il Padiglione dei Solinghi – esterno. Copyright fotografico: Beppe - vbs50.com

LA ROTONDA

In foto: La Rotonda vista dal Cortile d'Onore in forma di esedra.

Agli antipodi del Padiglione dei Solinghi (di cui peraltro riprende le fattezze), la Rotonda è figlia di un progetto rimasto incompiuto difficile da ricondurre ad una piena autografia juvarriana. Questa terrazza offre un punto di vista privilegiato sulla città di Torino e sulle aree produttive dell'area DOC del Freisa di Chieri.

 

Bibliografia:
Paolo Coneglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra, architetto dei Savoia, architetto in Europa. Vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.
Cristina Mossetti: Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.
Lucia Caterina, Villa della Regina: il riflesso dell'Oriente nel Piemonte del Settecento, Torino, Allemandi, 2005.
Cristina Mossetti, Paola Manchinu, Maria Carla Visconti: Juvarra a Villa della Regina, Roma, Campisano Editore, 2014.

Sitografia:
http://www.cultorweb.com/VR/VilladellaRegina.html
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-grottesche-con-figure-uccelli-e-architetture-pozzo-giovanni-battista-notizie-dal-1811-01-00206489/316489
https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-ritratto-di-cristina-polissena-d-assia-rheinfels--01-00197787/316739
https://www.academia.edu/42720796/Juvarra_a_Villa_della_Regina
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28007
http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/
http://www.culturaitalia.it/opencms/museid/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_28008
http://palazzo.quirinale.it/luoghi/pdf/it/piffetti.pdf


SAN GIOVANNI GEROSOLIMITANO A TARQUINIA

A cura di Maria Anna Chiatti

[Ce ne sono di chiese e di chiesuole,

al mio paese, quante se ne vuole!

E santi che dai loro tabernacoli

son sempre fuori a compiere miracoli…]

Vincenzo Cardarelli, Santi del mio paese

INTRODUZIONE

La chiesa di San Giovanni si trova nel centro storico di Tarquinia, in una zona denominata Terzeria di Castro Novo: questo grande quartiere assunse una forma consistente e ordinata a partire dal XIII secolo, grazie alle costruzioni volute dagli ordini religiosi mendicanti e predicatori quali Francescani e Agostiniani. La committenza di tipo religioso, prevalentemente di regola poverista, spiega la scarsa varietà delle tipologie architettoniche in questa zona (ma non solo) della città; le chiese sono per la maggior parte di impronta romanica in cui spesso si inseriscono elementi gotici, generalmente a una o tre navate, con le facciate a spioventi in vista per creare il semplice disegno del fronte a capanna.

Il San Giovanni non fa eccezione (fig. 1).

Fig. 1

STORIA

La chiesa di San Giovanni Gerosolimitano è databile tra la seconda metà del XII e il XIII secolo e la fase conclusiva della costruzione può essere convalidata da un’epigrafe sull'altare maggiore dove si legge, a lettere gotiche, l’anno 1235 che allude al priore committente dell’opera[1].

San Giovanni apparteneva all'ordine dei Cavalieri di Malta e possedeva rendite che venivano utilizzate per la gestione di un piccolo ospedale esistente nei paraggi della chiesa, riservato ai pellegrini infermi; nelle prossimità erano anche tre cimiteri dove, pare, i cornetani[2] gradivano essere sepolti[3].

Nel 1592 un violento incendio distrusse la navata centrale e parte di quella destra, e la chiesa continuò ad essere attiva e officiare nonostante i gravi danni fino al 1609, quando furono operati un restauro delle parti incidentate e una risistemazione organica dell’edificio. Tuttavia i lavori stravolsero l’aspetto originario della chiesa, che assunse sembianze più consone al gusto barocco dell’epoca per via di alcune opere posticce. Le navate laterali furono chiuse e trasformate in cappelle, mentre quella centrale venne coperta con strutture sommarie fino al 1872, quando per volere del vescovo Francesco Gandolfi (1810 - 1892) fu costruita la volta a botte a sesto ribassato che si può vedere oggi. Infine, nel 1965 la Soprintendenza promosse una vasta campagna di restauro che interessò il consolidamento dell’intera fabbrica e consentì la rimozione di molti degli interventi seicenteschi, donando all'interno della chiesa un aspetto più prossimo a quello originario.

SAN GIOVANNI GEROSOLIMITANO: L'ESTERNO

La facciata, nella semplicità del disegno a capanna, reca ancora molte caratteristiche dell’architettura romanica; ad arricchire questa essenzialità di linee si inseriscono tuttavia alcuni elementi gotici individuabili sia nell'impostazione figurativa del rosone, sia dal coronamento dei tre portali con archi a sesto acuto (dei quali quello centrale è il più ardito - fig. 2).

Fig. 2

Il prospetto anticipa la tripartizione interna, risultando otticamente diviso in tre parti dal discreto aggetto del campo centrale; è qui che si apre il rosone, delicatissimo, circoscritto da una bella cornice fitomorfa e costituito da una serie di modanature concentriche. All’interno, dodici colonnine tortili raccordano altrettanti archetti all’oculus centrale. Immediatamente sopra il rosone corre una teoria di arcatelle pensili ogivali (fig. 3).

Fig. 3

In basso, in corrispondenza dell’asse mediano della navata centrale, si apre il portale principale (fig. 4): gli stipiti sono delimitati da tre spigoli rientranti coronati da capitelli fogliformi, e sui più interni poggia l’architrave, costituita dal fusto di una parasta romana riutilizzata.

Fig. 4

Sui capitelli di mezzo e quelli esterni poggiano due archi a sesto acuto, a formare una lunetta nella quale si può riscontrare oggi un lacerto di affresco che raffigura il Redentore. Sopra il portale campeggia lo stemma dei Cavalieri di Malta.

Anche i portali laterali sono coronati da archi ogivali, seppure più modesti; tuttavia è molto interessante notare la chiara rivendicazione di una identità culturale attraverso il riutilizzo di due fronti di sarcofago murati come architravi. Dei due, quello di destra è in nenfro e di fattura etrusco – romana (figg. 5 - 6), mentre quello di sinistra è in marmo, baccellato e con figure scolpite di una donna e due pastori (una rappresentazione diffusa nell’iconografia cristiana - figg. 7 - 8), databile tra III e IV secolo dopo Cristo.

Se risulta evidente il richiamo alle origini paleocristiane e alla tradizione della Roma cristiana caput mundi nell'immissione in facciata del sarcofago in marmo, non altrettanto palese sembra essere la presenza di quello etrusco, di soggetto pagano. È possibile che si tratti di un richiamo all'identità culturale delle origini (confermato anche da una serie di rinvenimenti archeologici nelle necropoli in loco)[4].

I fianchi dell’edificio non presentano caratteristiche particolari: su entrambi i lati si aprono tre finestre a feritoia che danno luce alle navate laterali, i prospetti sono lisci e non decorati. Il corpo absidale è invece molto bello (fig. 9), caratterizzato da sei speroni cuspidati con funzione di contrafforti perché situati in corrispondenza, all'interno, dei punti di scarico del peso della calotta di copertura. Negli spazi tra gli speroni si aprono sette monofore arcuate.

Fig. 9

SAN GIOVANNI GEROSOLIMITANO: L'INTERNO

L’interno è suddiviso in tre navate equivalenti, composte da tre campate ognuna. Quelle laterali terminano in due cappelle a pianta poligonale, coperte da volte costolonate: la cappella di destra ospita il fonte battesimale (fig. 10), mentre quella di sinistra è dedicata al Santissimo Sacramento (fig. 11).

Il presbiterio (fig. 12) è rialzato e consiste in uno spazio quadrato che rappresenta idealmente una quarta campata della navata centrale: questo si apre con un arco trionfale a sesto acuto, montato su due snelle colonne che emergono da una struttura a fascio, ed è coperto da una bella volta a costoloni. Alle spalle del presbiterio un altro arco ogivale immette nel catino absidale. Lo spazio risulta molto elegante, suddiviso in sette partiture ritmate da semicolonne, e coperto a volta. Tutta questa zona della chiesa conserva ancora le strutture originarie.

Fig. 12

La navata destra è quasi totalmente di costruzione seicentesca, risultato dei lavori di ristrutturazione dopo l’incendio, e il brutto effetto della volta della navata centrale si deve agli interventi ottocenteschi. Tuttavia la navata sinistra (fig. 13), liberata dagli orpelli barocchi mantiene pressoché inalterate le intenzioni originali della chiesa: i restauri degli anni ’60 infatti hanno riportato alla luce un affresco in una lunetta, attribuibile ad Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura (1450 - ante 1516), raffigurante una Pietà (fig. 14).

Fig. 13
Fig. 14

Ulteriori evidenze pittoriche si trovano sul pilastro vicino, su cui è rappresentato - forse - San Bartolomeo (fig. 15), e sulla parete di fondo della navata, dove sono visibili due affreschi sovrapposti, purtroppo poco leggibili e molto rovinati ma databili al XV o XVI secolo (fig. 16).

Fig. 15
Fig. 16

Bibliografia

Cicerchia P., Tarquinia Borgo Medioevale, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990

Daga L. (a cura di), Daga P., Tarquinia, la città degli Etruschi, delle torri e delle chiese. Una storia lunga tremila anni, Newton Compton Editori, Roma 1999

De Minicis E., Gli spolia. Esempi di riutilizzo nelle tecniche costruttive (Roma e alto Lazio), in Daidalos. Studi e ricerche del Dipartimento di Scienze del Mondo Antico, n°9, Viterbo 2008, pp. 57 - 74

Raspi Serra J., La Tuscia romana, Banco di Santo Spirito, Roma 1972

 

Sitografia

Dizionario Biografico degli Italiani, alla voce Antonio del Massaro da Viterbo, detto il Pastura al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-del-massaro-da-viterbo-detto-il-pastura_(Dizionario-Biografico (ultima consultazione 30/07/2020)

[1] J. Raspi Serra, La Tuscia romana, Banco di Santo Spirito, Roma 1972, p. 163 note 125, 136

[2] Il primo nome dell’odierno centro urbano di Tarquinia, dal momento della sua formazione e fino al 1872, era Corneto; poi Corneto - Tarquinia, e infine, dal 1922, Tarquinia. Di qui il nome degli abitanti “cornetani”.

[3] P. Cicerchia, Tarquinia Borgo Medioevale, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990, p. 150.

[4] E. De Minicis, Gli spolia. Esempi di riutilizzo nelle tecniche costruttive (Roma e alto Lazio), in Daidalos. Studi e ricerche del Dipartimento di Scienze del Mondo Antico, n°9, Viterbo 2008, p. 68

 


IL GIARDINO VESCOVILE DI ASCOLI PICENO

A cura di Matilde Lanciani
Fig. 1

Il Giardino Vescovile, o Giardino dei Palazzi Vescovili ad Ascoli Piceno (fig.1) occupa una vasta area della parte più rappresentativa del suo centro storico e delimita verso Sud il complesso monumentale di edifici religiosi e politici che si affacciano su Piazza Arringo. Questo spazio rappresenta uno dei pochi esempi superstiti di grande giardino storico di impianto rinascimentale rimasto oggi all'interno del perimetro della città antica. Il Palazzo Roverella, che ne costituisce la principale quinta scenica, fu fatto costruire nel 1532 dal vescovo Filos Roverella (1518-1550).

Il giardino presenta un elegante loggiato a tre arcate poggianti su quattro massicce colonne in travertino con capitelli compositi. Originariamente il loggiato si sviluppava su due livelli e, mentre quello al piano terra nel corso dei secoli è rimasto inalterato, di quello che si apriva al secondo livello si vedono oggi solo le tre arcate murate. Questa loggia, in forma di filtro tra ambiente interno ed esterno e di galleria aperta verso il paesaggio collinare del Colle San Marco, fu chiusa durante gli interventi di restauro e di adeguamento funzionale dell’Episcopio condotti nel 1735 dal vescovo Paolo Tommaso Marana (1728-1755). Come si può osservare nella veduta prospettica della città di Ascoli incisa da Emidio Ferretti (fig.2) nel 1646, con qualche variante ripresa nel 1663 da Joan Blaeu e nel 1704 da Pierre Mortier, il giardino era in parte progettato all'italiana e in parte coltivato a frutteti e ad orti irrigui che digradavano verso il crinale del fiume Castellano.

Fig. 2

Il giardino avvolgeva sul lato Est la parte absidale della Cattedrale con gli edifici annessi del Capitolo che vennero in parte demoliti nel 1891 ed era delimitato da un alto muro di cinta che fronteggiava le mura urbiche erette a difesa della città sul lato Sud, dalle quali era separato tramite una strada ricalcata in parte dall'attuale Lungo Castellano Sisto V. Per esigenze idriche il Palazzo ed il Giardino vescovile erano serviti da un monumentale pozzo (fig.3) fatto realizzare nel 1484 dal vescovo Prospero Caffarelli (1464-1500) amico di Papa Pio II Piccolomini, il quale lo aveva nominato vescovo di Ascoli. Il pozzo è composto da una raffinata vera in travertino con otto facce rettangolari inquadrate da colonnine ugualmente ottagonali con base e cornice superiore modanate. Sui lati Est ed Ovest sono scolpiti due stemmi del vescovo Caffarelli e su quello Ovest è possibile leggere: “GENTILIBUS SUIS CAFARELLIS”.

Fig. 3

La vera è affiancata da due pilastri rettangolari definiti in alto da capitelli compositi che sorreggono un architrave modanato sulle due facce del quale è incisa la seguente iscrizione:

“HORTUS UT IRRIGUA FIERET CELEBRATIOR UNDA

GRATIOR ET GELIDAE POTUS UT ESSET AQUAE

PROSPER ROMANUS CAFARELLO SANGUINE PRINCEPS

ASCULEUS PUTEO SURGERE IUSSIT AQUAS MCCCCLXXXIIII”.

(“Caffarelli volle che l’acqua d’irrigazione divenisse più utile, gradite e disponibile come acqua fresca da bere. Il Vescovo, di stirpe romana, principe di Ascoli, volle che sgorgasse acqua dal pozzo”).

Al vescovo Caffarelli si devono anche la costruzione del Palazzo Caffarelli, che collega il Duomo all'Episcopio e che oggi ospita il Museo Diocesano, la ricostruzione della Cattedrale nelle forme attuali e, tra le varie committenze, quella del Polittico della Cattedrale realizzato da Carlo Crivelli e della Libertas Ecclesiastica dipinta dallo stesso artista per la chiesa della SS. Annunziata e oggi conservata alla National Gallery di Londra. Oltre alle già citate mappe antiche, possiamo avere qualche ulteriore informazione storica sulla consistenza del pozzo in alcuni acquerelli realizzati alla fine del XIX secolo da Giulio Gabrielli, nel paesaggio che fa da sfondo alla Madonna Assunta, dipinta nel 1889 da Cesare Mariani sull'arco trionfale della Cattedrale, ed infine grazie al Catasto Gregoriano, che fornisce ottime fonti per la forma originaria di questo pozzo, desunta in particolare dalle mappe catastali del 1866, 1895 e 1905.

Sappiamo che parte dell’estensione originaria del giardino fu perduta a causa delle trasformazioni urbanistiche avvenute nel XX secolo, precisamente con la costruzione del Cinema Piceno e della Casa Regina Apostolorum e, inoltre, con la creazione di un nuovo isolato che si sviluppò alle spalle della Cattedrale delimitato dalle vie Dante Alighieri, Candido Augusto Vecchi, Viale De Gasperi e Viale Vittorio Emanuele.

Attualmente il Giardino Vescovile, in seguito agli ultimi interventi di restauro ad opera di Michele Picciolo, Adriana Cipollini e Simona Massari nel 2016, voluto da Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo della Diocesi di Ascoli Piceno, si sviluppa su una superficie di 2700 metri quadrati e confina sul lato Sud con il Cinema Piceno e le sue pertinenze, sul lato Ovest con il giardino del Palazzo dell’Arengo dal quale è diviso da un antico e alto muro, sul lato Est con Largo Manzoni di pertinenza della Cattedrale e sul lato Nord con il palazzo Roverella e con l’Episcopio.

Come testimoniato dal pozzo del 1484, il giardino e l’orto (fig.4) erano già esistenti in pieno periodo rinascimentale, infatti nel XVI secolo l’anonimo progettista che ne eseguì il disegno lo fece seguendo un ideale tipicamente rinascimentale e, da quanto si può desumere dalla cartografia antica giunta fino a noi, anche se in forma ridotta e meno scenografica rispetto ai grandi giardini all'italiana delle ville e dei palazzi a cui si era ispirato, il giardino riuscì ad ottenere risultati lusinghieri nella sua esecuzione nonostante la difficile morfologia del sito.

Fig. 4

Nella pianta di Emidio Ferretti  si distinguono infatti sia l’area coltivata ad ortivo e a frutteto, sia il perimetro del giardino murato in cui ognuna delle ripartizioni delle aiuole segue rigorosamente la regola di un disegno geometrico diverso in ogni settore, alternato e simmetrico, con un sapiente uso dell’ars topiaria. Come scrive Adriana Cipollini: “La logica della geometria che regola la natura e il suo assoggettamento alla razionalità e artificio tipici del Rinascimento allude espressamente ad un ordine superiore e al primato dell’uomo sulla natura scelto da Dio per comprenderla, secondo una visione prettamente neoplatonica che segue criteri di simmetria, ordine, proporzione e varietas che proiettano sull'idea di giardino una profonda valenza simbolica in cui sono essenziali la presenza dell’acqua, gli elementi lapidei usati come ornamento e quelli appositamente realizzati. Il modello di sentieri che si incrociano al centro verso la fontana, il pozzo o un grande albero derivano dal modello claustrale, alludono alla geografia edenica e ad un’immagine cosmologica di perfezione che richiama la Gerusalemme Celeste (fig.13). Lo stesso assoggettamento della natura a regole e proporzioni stabilite vede nell’hortus conclusus il topos di luogo dello spirito in un rapporto privilegiato con il paesaggio” (fig.5 e 6).

I disegni dei giardini all'italiana circolanti nel Rinascimento si diffusero a cominciare dalla seconda metà del secolo XV sul modello di quello realizzato per Palazzo Piccolomini a Pienza con la loggia che si affaccia sul parterre, del giardino di Palazzo Costabili di Ferrara, del giardino pensile del Palazzo Ducale di Urbino o di quelli della Villa Imperiale di Pesaro, sviluppandosi poi più tardi nei riferimenti a Palazzo Farnese a Caprarola o Villa Lante della Rovere a Bagnaia. Il Giardino Vescovile ascolano ha subito nel tempo notevoli ed incisive trasformazioni, soprattutto nel secolo scorso, sia per ragioni urbanistiche sia per l’uso meramente utilitaristico assunto durante i conflitti mondiali: sino ai restauri del 2015-2016 esso si presentava infatti nelle forme acquisite negli anni ’60.

Le sezioni del Giardino Vescovile

L’area è divisa in due sezioni giacenti su quote leggermente diverse con basso muro recintato; quella superiore assume la funzione di giardino e di luogo privilegiato per la riflessione e la meditazione ove troviamo sulla sinistra, posta su un grande rocchio di colonna romana, un’acquasantiera barocca a forma di conchiglia (fig.11) che funge da fontana. La sezione  inferiore invece è usata come immediata pertinenza privata del Palazzo, in questo settore sono ubicati il già citato pozzo Caffarelli e lo stemma (fig.7) del vescovo Giovanni D’Ercole, circondato da quattro colonne di recupero di epoca romana e realizzato dall'artista ascolano Dario Di Flavio, che ha utilizzato elementi in grés e marmi policromi, ciottoli di fiume, travertino, gemme vitree e quattro ammoniti fossili per i capitelli delle colonnine.

Fig. 7

A Ovest è collocata un’imponente colonna di granito grigio di epoca romana sormontata da croce in ferro e tradizionalmente conosciuta come “Colonna della flagellazione di Gesù”, a Sud è invece posizionata una grande campana bronzea proveniente dalla demolita  chiesa di San Pietro Apostolo di Appignano del Tronto, realizzata dalla Fonderia Pasqualini di Fermo in occasione della Festa della Madonna della Pace del 1926. Sul corpo di quest’ultima, tra le immagini del Crocifisso, dell’Agnus Dei e della Madonna col Bambino e San Giovannino, troviamo l’iscrizione:
“A FULGURE ET TEMPESTATE LIBERA NOS DOMINE A.D.MDCLXIX”.

(“Dal fiume e dalla tempesta liberaci Signore A.D. 1669”)

Vicino alla campana sei antichi contenitori in travertino provenienti dalle cantine del Palazzo, e utilizzati come fioriere, delimitano il bordo del prato impreziosendolo.

I due settori del giardino sono messi in relazione attraverso un portale in mattoni definito da un architrave in travertino sul quale è incisa l’epigrafe: “PETRUS CAMAIANUS EPISCOPIUS”. Una seconda epigrafe dello stesso Vescovo Pietro Camaiani (1566-1579) è collocata nelle immediate vicinanze e, capovolta, un tempo fungeva da scalino.

Il meticoloso restauro del giardino nel 2016 si è basato sullo studio dei modelli geometrici tratti dalla cartografia antica ed è consistito in due interventi: il primo è stato un intervento di manutenzione conservativa delle essenze vegetali già esistenti in loco (cedri del Libano, ligustro, cipressi, olivi, agrumi, allori), mentre il secondo si è configurato come un intervento di recupero dell’antico impianto con la pianta centrica e radiale della vegetazione e di ripristino delle zone a prato e dei percorsi riconducibili alla conformazione originaria che nel tempo erano stati ricoperti da terreno e altro. Sono stati recuperati in loco e riposizionati i cordoli in pezzame di travertino che costituiscono i bordi dei vialetti, le pianelle in cotto posizionate in diagonale che scandiscono il disegno delle aiuole ed è stata restaurata la fontana con al centro un putto in marmo bianco del sec. XVII, proveniente da un altare smembrato della Cattedrale realizzato dalla bottega dei Giosafatti (fig.8).

Fig. 8

Nel Giardino Vescovile sono stati collocati elementi scultorei erratici appartenenti all'antica cattedrale come cornici, fusti, basi e capitelli di colonne di epoca romana e medievale. In particolare sulla parete Sud dell’edificio troviamo un plinto in travertino scolpito con la figura di un Vescovo rappresentato in posizione frontale, stante e ieratica, con bassa mitra sul capo, pastorale a spirale nella mano destra e libro nella sinistra. La figura, fortemente stilizzata, è incassata nello spessore del pilastro che presenta sul lato sinistro e per tutta la sua altezza una decorazione a foglie d’acanto e sul lato destro una gola modanata che permette di individuarlo come lo stipite di un portale. Sia la resa plastica della figura che gli elementi decorativi fitomorfi suggeriscono una datazione intorno al XII secolo ed un immediato riferimento agli stipiti con le figure di profeti entro nicchie del portale centrale della chiesa abbaziale di San Clemente a Casauria, fatto realizzare dall’abate Leonate nel 1176.

I Profeti di Casauria sembrano a loro volta prendere a modello il pulpito della cattedrale di Fano, i Profeti del portale maggiore della cattedrale di Cremona ed i portali di Sant’Antonino a Piacenza e della cattedrale di Lodi, tutti risalenti al sec. XII. Data l’omogeneità cronologica con l’assetto romanico della cattedrale di Ascoli ed i caratteri iconografici che lo possono far identificare con sant’Emidio, si può avanzare l’ipotesi che lo stipite superstite possa appartenere all'antica facies architettonica della cattedrale ascolana.

Nello stesso giardino sono presenti nove conci in travertino facenti parte della ghiera di un portale monumentale, decorati nella fascia centrale da putti che giocano con grappoli d’uva tra i tralci di una vite che si sviluppa ad intreccio e incorniciati da due bande scolpite con foglie trilobate. I conci sono i superstiti di un arco del sec. XIV che per completare la sua forma ne doveva contenere almeno quattordici. La ghiera doveva essere parte integrante di un portale articolato su diversi piani e poggiante su pilastri o colonnine come negli esempi cittadini di San Francesco, SS. Vincenzo e Anastasio e S. Giacomo.

Un riferimento stilistico immediato per la ghiera è riscontrabile nel portale centrale della basilica di S.Maria di Collemaggio dell’Aquila (seconda metà XXIV sec.), dove la ghiera decorativa superiore presenta delle analogie stilistiche più che evidenti sia per dimensione che per valore estetico. Un portale di tale impegno doveva certamente segnare l’accesso ad un edificio sacro di grande importanza. In città effettivamente numerose sono state le chiese demolite tra il XIX e il XX  secolo tra le quali San Martino, Sant’Onofrio, Santa Maria delle Vergini e Santa Caterina, ma allo stato attuale non sussiste documentazione adeguata per riferirlo ad una di esse. In epoca precedente l’unica trasformazione architettonica sostanziale che può aver determinato lo smontaggio di un simile rilievo architettonico è avvenuta nel 1481, in occasione degli interventi di demolizione dell’antica facciata della Cattedrale. Questo dato storico potrebbe far ipotizzare che la ghiera decorativa potesse appartenere ad uno dei portali smontati in tale circostanza.

Nel giardino è anche conservato un grande leone mutilo delle zampe, anch'esso di provenienza incerta e avente caratteristiche  stilistiche tali da poterlo riferire ad un protiro con funzione stilofora (fig.9).

Fig. 9

Per concludere, con i restauri del 2016 che hanno riportato il Giardino Vescovile in vita, sono state ampliate anche le varietà vegetali all'interno del sito come aranci, melograni, limoni, mandarini, ulivi e le bordure delle aiuole sono state realizzate con siepi di mirto e rose antiche rosse, gialle e bianche, mentre sul lato Ovest è stato creato il settore delle piante officinali come salvia, alloro, menta, lavanda (fig.10) e rosmarino. A Sud si estende il pergolato in legno di castagno (fig.11) su cui si arrampicano piante di vite, glicine, gelsomino e rose e infine ad Est, versante particolarmente ombroso, è stata integrata una vasta macchia di ortensie di diverso colore.

BIBLIOGRAFIA

Bellanca, Calogero. "Palazzo Roverella di Ascoli Piceno: prime riflessioni attraverso lo studio e l'intervento di restauro delle superfici". Recuperare l'edilizia 4.17 (2000): 56-62.

Cirelli, Enrico. "La ridefinizione degli spazi urbani nelle città dell’Adriatico centrale tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo". Hortus Artium Medievalium 20.1 (2014): 39-47.

Mariano, Fabio, and Stefano Papetti. Le ville del Piceno: architettura, giardini, paesaggio. Silvana, 2001.

Mariotti, Cesare. Ascoli Piceno. No. 69. Istituto italiano d'arti grafiche, 1913.

Petrucci, Enrica. "Antichi edifici religiosi e nuovi usi Un difficile processo di trasformazione nella città contemporanea". Old religious buildings and new uses A difficult transformation process in the contemporary city.

Picciolo, Michele, ed. Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno, citta di travertino. 2007.

Pizzimenti, Francesco. "The Urban Archaeology Project in Asculum: the case of Piazza Arringo". Groma. Documenting archaeology (2018).

 

(Le immagini utilizzate nell’artcolo sono tratte dal sito del FAI di Ascoli Piceno)pèa


LA SALA DEL FREGIO

A cura di Federica Comito

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di Villa Farnesina. Ci troviamo ancora al pian terreno e, oltrepassando la porta sotto il pennacchio con Mercurio nella Loggia di Psiche, si giunge alla Sala o Stanza del Fregio che prende il nome dal fregio che corre lungo tutto il perimetro della stanza e la decora. Si tratta di un ambiente molto più piccolo rispetto alle stanze precedenti e, presumibilmente riservato a trattare affari privati, fungeva da studiolo privato di Agostino. È la sala in cui sono state lette le ultime volontà di Agostino dopo la sua morte, avvenuta l’11 aprile 1520. È stato il primo ambiente ad essere decorato nella Villa ed è anche una delle prime opere pittoriche di Baldassarre Peruzzi a Roma, per questo motivo lo stile risente ancora delle esperienze senesi del pittore.

Fig. 1 - Sala del Fregio.

La decorazione

La stanza presenta un soffitto a cassettoni suddiviso in forme geometriche con all’interno motivi floreali e vegetali a rilievo, dipinti d’oro su fondo blu o rosso. Sono presenti due iscrizioni in latino con lettere dorate su fondo blu rispettivamente sul lato nord e sul lato sud; volute da Salvator Bermudez de Castro duca di Ripalda e ambasciatore di Spagna alla corte di Francesco II di Napoli, in cui dichiara ti aver effettuato dei restauri alla Villa nell’anno domini 1863. Alle pareti invece, erano forse appesi degli arazzi.

Una cornice dorata raccorda il soffitto alle pareti, sotto di essa il fregio dove vengono ripresi motivi mitologici affrescati dallo stesso architetto della villa Baldassarre Peruzzi e allievi intorno al 1508- 1509. Qui colpisce l’ampio uso del giallo e del dorato tra le pareti e il soffitto, il fregio è in forte contrasto con il resto per l’uso abbondante del nero che narra, dal lato nord al lato est, le gesta eroiche di Ercole e altri miti tratti da ‘’Le Metamorfosi’’ di Ovidio. I fondi scuri sul quale si stagliano i personaggi sono realizzati dall’applicazione a secco dell’azzurrite su base scura, questa tecnica permette di dare massimo risalto alla preziosità delle figure.

Nel fregio sulla parete ovest sono raffigurate le seguenti scene:

  • una ninfa con dei satiri.
  • Bacco e baccanti.
  • il satiro Marsia sconfitto con l’inganno da Apollo in una gara musicale mentre viene scorticato vivo per punirlo della sua superbia.
  • il mito di Meleagro: la caccia a un cinghiale spaventoso inviato da Atena arrabbiata per le mancate offerte. Alla caccia partecipa anche una ragazza di nome Atalanta non sopportata dagli altri cacciatori, mentre Meleagro se ne innamora. Una volta abbattuto il cinghiale le dona pelle e zanne come trofei, questo scatena l’ira degli zii. Meleagro li uccide dando inizio a una faida famigliare con altri omicidi. Le Parche, che avevano assistito alla nascita di Meleagro, ne avevano predetto la morte quando il tizzone che bruciava in quel momento sul fuoco fosse stato consumato. Allora Altea, madre del ragazzo, nasconde il tizzone per tenere al sicuro il figlio. Le Parche fanno visita a quest’ultima e la invitano a gettare il tizzone nel fuoco cosa che Altea, incollerita per l’uccisione dei fratelli, esegue per poi pentirsene quando Meleagro muore.
  • Il mito di Orfeo: Orfeo con uno strumento simile ad una viola, probabilmente la lira del mito, incanta gli animali grazie al meraviglioso suono che produce. Orfeo andato a riprendere Euridice negli Inferi, si volta a guardarla e, quest’ultima, viene quindi ritrascinata nell’ade a causa dell’impazienza dell’amato. Orfeo decidendo di non unirsi mai più ad altre donne, e forse preferendo i fanciulli come suggerisce Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi, viene picchiato a morte da un gruppo di Menadi. Anche se non è presente nell’illustrazione, il mito narra che la testa di Orfeo abbia continuato a cantare, dopo essere stata separata dal corpo e gettata nel fiume Ebro.
Fig. 2 - Fregio parete ovest. da sinistra Ninfa e satiri, Bacco e Baccanti, Apollo che scortica Marsia.

Nel fregio della parete nord sono affrescate dieci delle “dodici fatiche di Ercole” separate da tronchi d’albero:

  • Ercole e il leone di Nemea;
  • Ercole e i centauri;
  • L’uccisione degli uccelli Stinfalidi;
  • Ercole e l’Echidna, metà donna e metà serpente, madre del leone di Nemea, di Cerbero, dell’Idra di Lerna e altre mostruosità;
  • Ercole e Cerbero;
  • Ercole che combatte contro l’Idra;
  • Il re Diomede che lo dà in pasto alle sue cavalle;
  • Ercole contro il toro di Creta;
  • Ercole contro Anteo il gigante che, essendo figlio di Gea (la terra) da cui traeva la forza, dovette essere ucciso sollevandolo dal suolo;
  • La lotta con Gerione, al quale Ercole ha rubato i buoi.
Fig. 3 - Fregio parete nord, particolare con Ercole e i centauri, Ercole e il Leone di Nemea.

Nel fregio della parete est troviamo ancora, a completare il ciclo, le ultime due fatiche di Ercole:

  • Ercole che sostituisce Atlante per sostenere la volta del cielo;
  • Ercole e il cinghiale di Erimanto.

Una statua femminile chiude la saga Eraclea. Agostino Chigi fa rappresentare in diverse occasioni la figura di Ercole all’interno della loggia, probabilmente appassionato dai miti che lo vedono come protagonista. Baldassarre Peruzzi riesce proprio nell’intento di glorificare il padrone di casa attraverso le fatiche di Ercole.

Continuando le scene affrescate sul fregio troviamo:

  • Il ratto di Europa. Dall’unione tra Europa e Giove nascerà Minosse;
  • Danae adagiata sul letto accoglie Giove sotto forma di pioggia dorata, dall’unione nascerà Perseo;
  • Il mito di Semele: Semele, altra fanciulla amata da Giove che gli generò Dioniso, convinta da Giunone che aveva preso le sembianze della nutrice di far apparire Giove sotto le sembianze di Dio, muore colpita dal fulmine divino;
  • Il mito di Atteone, trasformato in un cervo da Atena e sbranato dai suoi cani da caccia.

Altri episodi riguardano Re Mida, che vanno letti da destra verso sinistra, concludono la parete:

  • Dioniso, mosso da pietà per il Re stolto che aveva chiesto di poter trasformare tutto ciò che toccava in oro, gli svela come liberarsi dall’incantesimo bagnandosi alla sorgente di un fiume;
  • L’episodio in cui Re Mida assiste alla gara musicale tra Apollo e Pan e mette bocca nella contesa che vedeva vincitore Apollo, tanto che il dio permalosissimo gli fa crescere due orecchie d’asino. Anche qui la cetra di Apollo ha piuttosto l’aspetto di una viola;
  • Un corteo marino con Poseidone, la moglie Anfitrite e il figlio Tritone su un carro che seguono il corteo che si snoda per l’ultima parete.
Fig. 4 - Fregio parete est. da sinistra Diana e Atteone trasformato in cervo, Re Mida con orecchie asinine, gara musicale tra Apollo e Pan.

Nell’ultima parete, quella a sud, è affrescato un corteo marino: amorini che si divertono a pescare o si trovano sul dorso di delfini, altri personaggi che portano anfore, gruppi di famiglie di tritoni. Suscita qualche dubbio la presenza di una divinità fluviale che ha fatto pensare che il corteo si svolgesse in un fiume piuttosto che a mare.

Fig. 5 - Fregio parete sud, particolare del corteo marino.

Le scene allegoriche raffigurate, probabilmente fanno riferimento ad alcuni aspetti del carattere del padrone di casa Agostino Chigi. Sono raffigurate nell’intero fregio oltre 150 figure, questo dimostra la capacità sintetica e pittorica di Baldassarre Peruzzi nell’illustrare le scene importanti e rappresentarle fornendo una linearità alle storie. L'interpretazione complessiva è generalmente riferita al contrasto tra ragione e passione, tra sfera apollinea e sfera dionisiaca.

Questi cicli pittorici sono stati di grande ispirazione per altre Ville Romane, pensiamo al fregio di Palazzo Leopardi a Trastevere in cui è raffigurato un fregio mitologico fluviale che ripercorre gli stessi modelli e, in qualche modo, accentua la dimensione plastica e dinamica di quello di Baldassarre Peruzzi. Ci sono alcune figure quasi identiche ma c’è un cambiamento di linguaggio, di cromia, quasi un’accentuazione grottesca, mentre Peruzzi è più legato ad un equilibrio classico e ad una ricerca di raffinatezza.

Il restauro della Sala del Fregio

Tra il 2003 e il 2011 si svolge un restauro ad opera dell’Istituto Centrale per il Restauro nella Sala del Fregio. Prima dell’intervento di restauro, nella sala era presente un tessuto monocromo fissato con una sorta di punti metallici alle pareti. Il tessuto che tappezzava l’intera sala era riconducibile circa agli anni 1950-60. Grazie però alla documentazione fotografica antecedente e a saggi effettuati all’inizio dell’intervento, è stato possibile recuperare l’immagine complessiva dell’ambiente di come questo appariva alla fine dell’800. Le pareti erano caratterizzate dalla presenza di una decorazione a finti drappi, dipinti su carta applicata al muro che, agganciati alla cornice dipinta sotto il fregio figurato, ricadevano a coprire quasi interamente le pareti per 150 cm da terra. Lo stato conservativo si presentava critico, in particolare nell’angolo nord-est della parete a causa di pregresse infiltrazioni d’acqua e per le ampie lacune della decorazione a finti drappeggi, dovute ad ampi rifacimenti delle murature. Dopo il restauro del fregio con le storie mitologiche è stato affrontato il completo recupero delle superfici dipinte della sala, ossia il soffitto e le pareti. Si è poi giunti, attraverso il lavoro interdisciplinare di un’equipe di specialisti (architetti, storici dell’arte, restauratori, chimici e fisici) a una riproposizione organica dell’aspetto della sala così come si presentava alla fine dell’‘800. All’epoca infatti, la decorazione a drappeggi con i parati in tessuto rendeva le quattro pareti monocrome solo in funzione di un’esaltazione e di un ‘isolamento’ del fregio cinquecentesco, in quanto brado decorativo più importante. L’intervento particolarmente delicato e complesso, perché tiene conto delle tecniche esecutive utilizzate in origine e del pessimo stato di conservazione delle superfici dipinte, ha richiesto la messa a punto di un procedimento tecnico sperimentale appositamente progettato e realizzato dopo numerosi studi e test.

La “Saletta pompeiana”

Accanto alla Sala del Fregio si trova un ambiente più piccolo che mostra delle decorazioni risalenti al tempo del duca di Ripalda, 1861-63. Questi due ambienti sono sempre stati utilizzati come uffici o come studi privati dei vari padroni di casa, fino a giungere agli anni Trenta con Guglielmo Marconi, presidente dell’Accademia d’Italia, che decide di usare la Sala del Fregio come studio, e fa trasformare l’ambiente più piccolo in un bagno privato con anticamera. La Sala, nel primo Cinquecento, era un semplice pianerottolo della scala che scendeva alle cucine di Agostino Chigi. Nell’Ottocento, grazie a una serie di interventi fatti eseguire dal Duca di Ripalta, Salvador Bermúdez de Castro, viene invece trasformata in una splendida camera ornata con decorazioni ispirate allo stile pompeiano, da qui il nome “Saletta pompeiana”.  In quegli anni infatti, gli scavi di Ercolano e Pompei, la riscoperta di Paestum, le sepolture con ricchi corredi messi in luce nell’antica Magna Grecia, appassionavano la nobiltà e la borghesia del XIX secolo. Da qui l'ispirazione per la realizzazione delle decorazioni ottocentesche della Villa, affascinanti riletture dei modelli antichi in chiave neoclassica e romantica.

Fig. 6 - Saletta Pompeiana.

Conclusione

In tutta la villa è forte il gusto rinascimentale di ritorno alla classicità rivisitato con i canoni del tempo, di cui Agostino Chigi si fa interprete, grazie soprattutto alla scelta di circondarsi di intellettuali e artisti di notevoli capacità. Peruzzi, per l’intera decorazione del fregio, si era ispirato a rilievi antichi, a sarcofagi e prototipi dell’età classica che Agostino Chigi, oltre ad amare profondamente, ha favorito grazie al suo mecenatismo che lo aveva addirittura portato a realizzare una tipografia nella sua Villa, trasformandola in un centro culturale di straordinario valore e di portata internazionale.

 

Bibliografia

Il fregio riscoperto di Palazzo Leopardi a Roma, Alessandro Zuccari.

Gli interventi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, Francesca Romana Liserre.

Sitografia

http://www.romainteractive.com/ita/trastevere/villa-della-farnesina/sala-del-fregio.html

artemagazine.it

www.villafarnesina.it

https://www.youtube.com/watch?v=amw0UB7iif4


IL DUOMO DI AVELLINO

A cura di Stefania Melito

Introduzione

La Cattedrale dedicata all'Assunta e ai Santi Modestino, Fiorentino e Flaviano è altresì nota come Duomo di Avellino. E' uno degli edifici religiosi più importanti di Avellino e della sua provincia, e sorge nel punto più alto della città; la sua costruzione risale al 1132, anche se i lavori furono completati nel 1166. La committenza del Duomo di Avellino ha una storia particolare. Innanzi tutto si tratta di un edificio che ha subito numerosi rimaneggiamenti nel corso dei secoli, che ne hanno profondamente stravolto l'impianto originario, a cominciare dall'orientamento della chiesa, la cui facciata un tempo, come di consuetudine, era rivolta ad est mentre ora è rivolta ad ovest. Prima della sua costruzione, infatti, c'era un'altra chiesa, la chiesa madre di Santa Maria, sede vescovile, voluta come avamposto cattolico dall'imperatore germanico Ottone e dal papa Giovanni XIII per contrastare la crescita del clero bizantino, che in città aveva una sua chiesa, quella di San Nicola dei Greci. La chiesa madre di Santa Maria fu usata come chiesa matrice fino al XII secolo, quando fu abbattuta a causa delle sue modeste dimensioni e sulle sue macerie fu edificato il Duomo. Dell'antica struttura resta soltanto la parte al di sotto della navata centrale, l'attuale cripta.

I vescovi che si successero prima di quella data promossero alcuni lavori di consolidamento della struttura, che si rese protagonista in occasione del famoso incontro di Avellino del 27 settembre 1130 fra Ruggero II d'Altavilla e l'antipapa Anacleto II, che sancì un'alleanza fra i due e l'incoronazione per Ruggero II a signore dell'Italia Meridionale con queste parole: <<Concedimus coronam regni Siciliae, et Calabriae et Apuliae et Siciliam caput regni constituimus>>. Cinque anni dopo la chiesa risulta dagli atti non più esistente, anzi distrutta, e fu quindi riedificata. La nuova chiesa fu dedicata a San Modestino, patrono di Avellino, e si racconta che le spese della costruzione del Duomo furono addebitate ai cittadini, che fecero venire le più grandi maestranze dell’epoca. Si utilizzarono alcuni pezzi della cattedrale che era stata abbattuta, e ancora oggi, alla base del campanile, è possibile ammirare qualche blocco di pietra della costruzione precedente. Nel 1166 furono, secondo la tradizione, ritrovati i resti dei santi Modestino, Fiorentino e Flaviano, poi traslati nella Cattedrale.

L’esterno del Duomo di Avellino: la facciata

Di Daniel Jünger - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=755386.

Fino al Seicento la Cattedrale mantenne sostanzialmente un impianto romanico, con facciata in muratura ricoperta da intonaco.Successivamente fu arricchita con decorazioni in stile barocco tra '600 e '700, mentre la Cattedrale odierna è il frutto dei rifacimenti successivi del XIX secolo, ed è opera dell'architetto Pasquale Cardola. Costruita fra il 1850 e il 1868, presenta un aspetto in stile neoclassico, ha una facciata a salienti ed è in marmo bianco e grigio, con una fascia marcapiano robusta ed aggettante che divide in due il prospetto. Ai lati del portale centrale, sormontato da un arco a tutto sesto, vi sono due nicchie contenenti San Modestino e San Guglielmo, patrono dell’Irpinia. Le tre porte di accesso sono in bronzo cesellato, opera dello scultore avellinese Giovanni Sica, e sulla porta centrale sono rappresentati episodi della città di Avellino e dei suoi vescovi. L'ordine inferiore presenta agli angoli due paraste con capitelli corinzi e  quattro colonne a tutto tondo con capitelli in egual stile, impostazione ripresa anche nel registro superiore con le quattro colonne che reggono la trabeazione. Alla sommità della facciata, nel timpano, è presente un triangolo in cui è inscritto un cerchio raggiante, simbolo dell'occhio di Dio, o della Divina Provvidenza, che tutto guarda e tutto sa. Accanto alla chiesa è posto il campanile, che è la risultante di lavori eseguiti in epoche e materiali diversi. Sono infatti presenti marmi e pietre provenienti da edifici romani del I secolo.

https://mapio.net/pic/p-46047474/

L’interno del Duomo di Avellino: l’impianto

L’interno del Duomo è prettamente barocco: la chiesa, a croce latina, si divide in tre navate, e quelle laterali contengono in totale dieci cappelle.

http://avellino.ypeople.it/wp-content/uploads/sites/2/2019/04/Duomo-Avellino.jpg. Interno

Nella contro-facciata è posto l’organo, mentre particolarmente degno di nota è il meraviglioso soffitto ligneo cassettonato, settecentesco, opera di Michele Ricciardi, che raffigura l’Assunzione in Cielo della Beata Vergine Maria circondata da simboli prettamente mariani. Inquadra scenograficamente e accompagna l'occhio alla ricerca della profondità prospettica lungo tutta la navata centrale.

https://www.ilgazzettinovesuviano.com/2016/03/17/avellino-i-concerti-della-quaresima-di-musica-nei-luoghi-sacri/

Le navate laterali sono separate tra di loro da archi a tutto sesto, e contengono cappelle di varia fattura e committenza. La decorazione pittorica racconta scene della vita di Cristo e della Vergine, opera di Achille Iovine, che ha inoltre affrescato tutte le cupolette che ricoprono le cappelle laterali e che forniscono luce agli spazi, con episodi della vita della Vergine, gli archi fra una cappella e l’altra, e ha inoltre dipinto gli apostoli Pietro e Paolo nell'arco che dà sul transetto.

http://www.irpinianews.it/wp-content/uploads/navata_centrale_cattedrale_di_santa_maria_assunta_avellino.jpg. Navata centrale

Navata di destra

Nella navata di destra è presente la lapide che ricorda i lavori di riparazione dei danni causati dal terremoto del 23 novembre 1980, voluti dal Vescovo Pasquale Venezia, che recita pressappoco così: "[questo] antico tempio squassato nel corso dei secoli da terribili terremoti e da atroci fatti di guerra, colpito ma non abbattuto [venne] riconsegnato alla pietà del popolo di Dio il 6 ottobre 1985 e restituito all'antico splendore per miracolo di fede e volontà tenace di uomini". Ogni navata presente cinque cappelle: in questa vi sono la raffigurazione della posa della prima pietra, opera di Achille Iovine rifatta da Ovidio De Martino a causa dell'umidità e gli altari dedicati a san Gerardo Maiella, all'Adorazione dei Magi, a sant'Antonio di Padova e alla Crocifissione. Quest’ultima cappella, forse la più preziosa, contiene un reliquiario con una della Sacre Spine della corona di Gesù, dono di Carlo I d’Angiò.

Navata di sinistra, transetto e abside

Nella navata di sinistra, invece, vi sono le cappelle dedicate alla Vergine dei Sette Dolori, abbigliata secondo la moda spagnola, all'Annunciazione, ove un tempo era collocato il battistero, e alla Madonna dell'Assunta, che contiene la statua lignea dell’Immacolata, opera di Niccolò Fumo. Tale statua esce dalla chiesa solo il 15 agosto, durante la processione per la festa dell'Assunzione. Le altre due cappelle contengono la Madonna del Rosario ed infine un altare, che un tempo era dedicato a sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in quanto si riteneva che lì il santo avesse celebrato la Messa. Ora l’altare è dedicato invece al Sacro Cuore di Gesù.

http://www.irpinianews.it/wp-content/uploads/sacra-spina-1.jpg. Reliquiario della Sacra Spina.

Al centro del transetto, piuttosto profondo e sopraelevato di due scalini, vi è un altare in marmo bianco, che conserva le reliquie di San Modestino e dei suoi compagni di tortura (San Fiorentino e San Flaviano), mentre a sinistra dell’altare vi è la cappella del tesoro di San Modestino, che ospita il busto in argento del santo. A destra dell'altare vi è la cappella della SS. Trinità, con l’antico altare del ‘500.

Di Principe88 - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15337316. Cappella di San Modestino

Alla fine dell’abside sono situati, invece, il coro cinquecentesco, opera di Clemente Tortelli, e lo splendido altare in marmo policromo di Cosimo Fanzago. L'altare è sormontato da un tabernacolo proveniente dall'eremo dei Camaldoli a Summonte.

https://www.sguardisullirpinia.it/guide-turistiche-360/avellino/visita-avellino/duomo-dell-assunta.html

Infine, in corrispondenza del transetto, in basso, vi è la cripta romanica. Essa è ciò che resta dell’antica chiesa Madre di S. Maria, detta anche S. Maria dei Sette Dolori, ossia la chiesa che fu abbattuta per fare posto al Duomo. E' a tre navate, con colonne di pietra sormontate da capitelli ottenuti da materiale di altri edifici paleocristiani, ed è affrescata con opere settecentesche del Ricciardi. Qui prima del 1980 aveva sede la Confraternita dell'Addolorata. Sul fondo, un bell'altare in marmo bianco; la cripta contiene le reliquie del vescovo Pasquale Venezia, che fu il primo ad ordinare un restauro completo del Duomo.

Di Principe88 - Opera propria, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15337330. Cripta.

 

BIBLIOGRAFIA

Avellino illustrato da santi e santuari”, P. Francesco de Franchi, Napoli 1709

"Italia del Sud", Touring Club Italiano, 2004

SITOGRAFIA

www.ecampania.it

www.sguardisullirpinia.it

www.grandecampania.it/duomodiavellino

www.viaggi.fidelityhouse.eu

www.irpinia.info

 


IL BATTISTERO NELL'EPISCOPIO DI OSIMO

A cura di Giulia Pacini

INTRODUZIONE: IL BATTISTERO DI OSIMO

In relazione alle trattazioni sul complesso dell'Episcopio, oggi si andrà ad affrontare il tema relativo al Battistero di Osimo, altresì noto come chiesa di San giovanni Battista. In questa prima parte si illustreranno le fasi relative alla committenza, all'apparato iconografico e alla realizzazione pittorica dello stesso.

COMMITTENZE ED ARTISTI ATTIVI NELLA PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE DEL FONTE BATTESIMALE

Non si hanno notizie certe sulle origini del Battistero di Osimo, o Chiesa di San Giovanni Battista, che sorge accanto alla Chiesa Cattedrale. Si può ipotizzare che si tratti di un edificio indipendente, costruito proprio come chiesa battesimale fin da epoca tardo-antica. Ha una dimensione di m. 15,70 per m. 7,25. I restauri hanno rivelato nella parete nord l'antica porta, due grandi finestre e alcune tracce di antichi affreschi, mentre nella parete sud una grande porta e quattro finestre disuguali per misure. Di certo la chiesa fu destinata a tale funzione dagli inizi del sec. XVII, quando il vescovo di Osimo, Agostino Galamini (1620-1639), commissionò la decorazione del soffitto della chiesa, la realizzazione di un fonte battesimale in bronzo e un affresco sulla parete dell'altare come parti di un unitario programma iconografico, volto a rimarcare le proprietà salvifiche dell'acqua battesimale. La realizzazione del sontuoso soffitto, che rappresenta uno dei gioielli del nostro patrimonio culturale, fu commissionata nel 1629 al pittore Antonino Sarti di Jesi, che ne fu anche progettista e coordinatore dell'intero progetto decorativo. L'opera del soffitto fu portata a termine, con eccezionale rapidità, appena cinque mesi dopo l'inizio dei lavori, e cioè il 4 marzo 1630. La superficie lignea è suddivisa in tre scomparti incorniciati. Negli scomparti laterali, i pannelli esagonali recano episodi biblici: la guarigione di Naaman di Siria e Mosè salvato dalle acque del Nilo. Negli interspazi sono rappresentati Angeli con i simboli battesimali e con altri accessori per il Battesimo. Lo scomparto centrale, di forma quadrata, ha nel mezzo un medaglione ovale in cui è rappresentato il Miracolo della piscina Probatica, circondato da quattro pannelli con gli Evangelisti e i rispettivi simboli: l'angelo per Matteo, il leone per Marco, il bue per Luca e l'aquila per Giovanni. L'elegante impaginazione compositiva delle scene rivela nel Sarti un pittore di insospettata perizia, vicino, soprattutto nelle aperture paesistiche, alla scuola veneta di Claudio Ridolfi, presente nel territorio marchigiano e legato all'artista jesino. II soffitto presenta nel suo perimetro esterno un cornicione con rosoni dorati su fondo azzurro, alternati a mensoloni aggettanti con fogliame dipinto in ocra, decorato insieme alle cornici da collaboratori del Sarti, Giovan Battista Gallotti di Arcevia e Teodosio Pellegrini di Castel d'Emilio. Sotto il soffitto corre un ampio fregio in affresco di stile tardomanieristico, che rappresenta sette santi asceti: da sinistra dell'altare San Benedetto da Norcia, San Caritone, San Simone, San Giacomo, Sant’Arsenio, Sant’Egidio, San Francesco di Assisi, tutti riquadrati tra schiere di putti con fogliame ed arabeschi recanti al centro, alternativamente, teste di tori e pigne. La parete dell'altare si presenta con un'articolata trama decorativa a più mani, che possiamo distinguere in tre parti. La prima è dominata da un grande affresco della crocifissione, mostrata da due angeli che trattengono un grande sipario da teatro, in una specie di sacra rappresentazione.  In particolare dal costato di Gesù esce sangue ed acqua, con riferimento ai sacramenti dell'Eucarestia e del Battesimo. L'affresco è stato attribuito ad Arcangelo Aquilini di Jesi o agli stessi decoratori del fregio, Pellegrini e Galeotti. Pur nella sua semplicità e a volte rozzezza, pur nella sua mancanza di pathos, l'affresco è, tuttavia, una splendida espressione di un’interessante cultura tipica della pietà popolare. La seconda parte presenta gli apostoli Pietro e Paolo con i simboli che li caratterizzano, le chiavi e la spada, e quattro Virtù (Fede, Speranza, Carità e Fortezza), in bianco e nero, di raffinata esecuzione, che rivelano spiccata sensibilità artistica. La terza parte è costituita dalla pala d'altare con il Battesimo di Gesù, fulcro ottico e ideale dell'intero complesso decorativo. E’ databile alla seconda metà dei sec. XVII ed è stata attribuita erroneamente a Carlo Maratta. La tela è incastonata in un bell'altare ligneo di successiva fattura.

IL FONTE BATTESIMALE: LE VICENDE DELL'OPERA

Per quanto riguarda la scelta dell’artista che doveva eseguire il fonte battesimale nel Battistero di Osimo, si tenga presente che il Galamini era stato vescovo di Loreto dove aveva avuto modo di apprezzare la scuola di scultura di Antonio Lombardi e dei suoi figli, dalla quale uscirono i fratelli scultori Tarquinio e Pietro Paolo Jacometti, nipoti di Antonio. Ben sette rogiti del notaio Prospero Tomassetti, che vanno dal 16 luglio 1622 al 18 dicembre 1629, documentano la storia della commissione del Battistero che fu fatta inizialmente dal Galamini attraverso un suo rappresentante, Bernardino Mariani, al figlio di Antonio Lombardi, Paolo, che perciò deve essere considerato l’ideatore del disegno, ispirato probabilmente allo stesso committente. Non è chiaro altresì perché il lavoro fu eseguito dai fratelli Jacometti. L’impegno preso dal Lombardi prevedeva che l’opera sarebbe stata pagata 1550 scudi e sarebbe terminata a messa in opera a due anni di distanza dal contratto. Invece il lavoro andò per le lunghe. Fu stipulato un secondo contratto, in cui venivano modificate le condizioni del primo, riducendo le proporzioni del monumento e fissando un pagamento differente: 700 scudi più 5000 libbre di bronzo. Tale contratto fu stipulato tra Pietro Paolo Jacometti ed il garante, un tale Fabrizio Lepretti di Recanati, che era apparso anche nel primo contratto. La nuova stipula venne tenuta nascosta al cardinale, che ne venne a conoscenza solo all'atto della consegna: dapprima si trovò contrario a tale gesto, ma poi accettò l’opera e, inoltre, versò allo Jacometti cento scudi in più rispetto alla somma pattuita. L’opera, di evidente impronta manieristica, è posteriore di una ventina d’anni al fonte battesimale del Vergelli nella Basilica di Loreto, al quale aveva lavorato anche Tarquinio Jacometti. Entrambe le opere sono “spettacolari per mole e per virtuosismo”, ma rispetto a quella di Loreto, questa di Osimo appare più contenuta ed essenziale nella struttura, meno affastellata con elementi decorativi e certamente più matura nella facilità del modellato, nello sfruttamento delle convessità dove la luce gioca effetti dinamici e nervosi, di notevole effetto pittorico: una tecnica, quella del fonte di Osimo, che nelle statue si distanzia da quella del maestro Antonio Lombardi per una certa semplificazione delle forme ed una più ampia scansione delle superfici. Tradizionalmente l’opera è attribuita ai due fratelli Tarquinio e Pietro Paolo, ma nei contratti appare sempre Pietro Paolo e non Tarquinio. Tuttavia statue e pannelli non sembrano usciti dalla stessa mano, perché tra le une e gli altri non c’è solo una sostanziale differenza di tecnica, ma anche una visione notevolmente differente: alla ricerca esasperata di pittoricismo e dinamismo evidente nei riquadri, dove è facile sentire il riflesso della tecnica del maestro Antonio Lombardi, sono dissonanti le statue, con la loro forma plastica, compatta e levigata, dall'intonazione manieristica che raggiunge il suo culmine nella figura del Redentore sulla sommità del monumento, trasposizione tipica di tante realizzazioni pittoriche trionfali di Ascensioni e di Assunzioni del ‘500 e del ‘600. Si consideri inoltre che Pietro Paolo è autore della targa sulla torre di Recanati, con la Traslazione della Santa Casa di Loreto (1634), abbastanza vicina stilisticamente a questi pannelli del Battistero di Osimo.

IL FONTE BATTESIMALE E LA SUA ICONOGRAFIA

Tutto il complesso del fonte battesimale bronzeo del Battistero di Osimo poggia su una base a forma di quadrifoglio: una evidente rivisitazione e semplificazione della fontana nel piazzale della Madonna di Loreto, di Carlo Maderno e Giovanni Fontana alla quale hanno lavorato, per la parte decorativa, anche i fratelli Jacometti; ma anche un altrettanto evidente riferimento al plurimo valore simbolico del numero quattro, allusione ai quattro fiumi del paradiso, alle quattro virtù cardinali, ai quattro evangelisti. Su ogni lobo del quadrifoglio si innalza un torello con il muso rivolto verso l’esterno (fig 1). La presenza del toro non è soltanto legata alla simbologia delle Sacre Scritture (libro dei Re), ma è anche un richiamo allo stemma del committente.  Sui dorsi e sulle teste dei quattro animali, ognuno dei quali guarda verso uno dei quattro punti cardinali, poggia un carino guarnito di ghirlande unite tra di loro da testine di putti alati sorridenti, alternati a nodi di nastri, fermati al centro da un fiore. Sul catino si innalza il fonte vero e proprio, a pianta circolare e corredato di cupolini, alle estremità dei diametri del cerchio di base del tempietto compaiono quattro statue: tre sedute, di donna, raffiguranti le virtù teologali, Fede (fig 9), Speranza (fig 10) e Carità (fig 11) e la quarta, in piedi, raffigurante San Giovanni Battista (fig 8), rivolta verso l’ingresso della chiesa. Quattro riquadri incrostati a bassorilievo sulla superficie circolare del tempietto sono divisi tra loro da lesene, decorate in altro con teste di putti e bucrani, alle quali si addossano le quattro statue. Com'è nella tradizione decorativa dei battisteri, anche nel Battistero di Osimo in tre dei quattro riquadri si svolgono scene legate alla presenza dell’acqua e le stesse scene, dipinte, figurano anche negli scomparti del soffitto: La guarigione di Naaman di Siria nel Giordano (fig 4); La piscina probatica (fig 5); il battesimo di Cristo (fig 3). Questo ultimo riquadro decora uno sportello che protegge una delle due parti di cui è formato un bacino interno, e precisamente quella nella quale è contenuta l’acqua lustrale. La quarta scena è La predicazione di San Giovanni (vedi figura). Qui lo sportello custodisce la parte del bacino entro la quale si amministra il battesimo. Il cupolino è diviso in settori: quattro spicchi in corrispondenza dei riquadri sottostanti, e quattro fasce longitudinali in corrispondenza delle statue, anch'esse sottostanti. I settori che contengono vari motivi decorativi a bassorilievo, nelle fasce torelli rampanti attestati ad un pino, fiori, fogliame e teste di putti negli spicchi, si raccordano in alto in un piccolo tamburo terminale che è adornato da quattro testine di putti alati e sul quale si erge la statua del Redentore a braccia levate (fig 7). Tutta la costruzione è poggiata su una base di 3 metri di diametro ed è sopraelevata dal pavimento della chiesa con una serie di tre scalini alti complessivamente circa 40 centimetri da terra. Anche qui si noti il valore simbolico del numero tre. L’acqua lustrale contenuta nel bacino, una volta usata, scende da uno scolo e corre internamente lungo una delle zampe di un torello, per poi finire sotto il pavimento. A considerare il monumento nel suo insieme, l’elemento che lo caratterizza è la forte simmetria, un elemento ancora decisamente rinascimentale. È possibile ritrovare in esso il riflesso di quella visione propria dell’arte rinascimentale nella quale il manufatto artistico è l’espressione di un’armonia scenografica di motivi architettonici, plastici, pittorici. Le forti membrature che suddividono lo spazio della piccola volta e le lesene aggettanti della superficie tamburata; le figure a tutto tondo che si addossano a queste ultime esaltando la scansione della superficie stessa; i riquadri che rinserrano scene a bassorilievo dalla valenza fortemente pittorica; tutto rientra in una visione nella quale forme architettoniche e forme plastiche si associano a forme pittoriche: in questo caso, a quello che può essere inteso come il surrogato della rappresentazione pittorica, il bassorilievo.

Qui si conclude la prima parte relativa alle trattazioni sugli arredi ecclesiastico del Battistero di Osimo. Nel prossimo articolo si affronterà invece il tema degli apparati decorativi e del soffitto ligneo.

 

-G. Catino Wataghin, M.Cecchelli, L. Pani Ermini, L'edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi, Bordighera, 2001

-G. Marchini, Marche, Milano 1965.

-A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata 1834.

I TRULLI DI ALBEROBELLO

A cura di Rossana Vitale

Il grande poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini rimase talmente colpito dal bianco folgorante di trulli da descriverne la struttura come solo lui sapeva fare, facendosi guidare dal sentimento che provava ammirandoli:

di un bianco rigido, ovattato e freddo, con qualche striscia azzurrina e il nerofumo. Ma ogni tanto nell'infrangibile ordito di questa architettura degna di una fantasia, maniaca e rigorosa – un Paolo Uccello, un Kafka – si apre una frattura dove furoreggia tranquillo il verde smeraldo e l’arancione di un orto”.

Inseriti dall’UNESCO nel 1996 nella World Heritage List come “esempio notevole di architettura spontanea in un contesto urbano e paesaggistico di grande valore storico”, i trulli (dal greco antico τροῦλλος, trûllos, cupola), sono testimonianze davvero eccellenti di un’edilizia antichissima, risalente all'epoca preistorica e ancora presente in Puglia: la tecnica in pietra a secco a lastre.

Venivano di solito costruiti e utilizzati come ricoveri temporanei nelle campagne oppure come abitazioni permanenti per gli agricoltori, anche se, secondo alcuni documenti, i trulli sono stati concepiti e costruiti inizialmente per non dover pagare il tributo che il re di Napoli, nel XIV secolo, aveva posto per ogni nuovo villaggio che venisse edificato. Quindi nella zona di Alberobello, unica al mondo con i suoi 1500 trulli, il Conte di Acquaviva, signore del feudo dopo i duchi Caracciolo di Martina Franca, alla fine del Quattrocento trovò un accordo con i suoi coloni affinché non utilizzassero nulla, nemmeno la malta, per assemblare i blocchi delle abitazioni, che in questo modo avrebbero avuto l’aspetto di costruzioni precarie, di facile demolizione e quindi non sottoponibili al tributo del Re. Con questo stratagemma il duca riuscì ad eludere la cosiddetta Pragmatica de Baronibus, che per l’appunto imponeva autorizzazioni e tasse per i nuovi insediamenti, rimasta in vigore fino al 1700.

La tecnica costruttiva dei trulli

Una tecnica di costruzione, fatta di sola pietra calcarea, che in realtà si è dimostrata nel tempo tutt'altro che fragile, anzi straordinariamente stabile e robusta, pur non avendo alcun tipo di collegamento o sostegno.

Nonostante nella zona della Valle d’Itria si rinvengano reperti archeologici di epoca preistorica o capanne risalenti all'Età del bronzo, non esistono trulli particolarmente antichi, ma al massimo risalenti al XVII secolo, edificati dai contadini e dai pastori con le pietre trovate nel terreno stesso o in scavi e levigate grossolanamente.

L’unità costruttiva di un trullo tipico presenta una pianta di forma circolare, sul cui perimetro si imposta la muratura a secco con uno spessore importante: questo, unito al ridotto numero e dimensione delle aperture (solo un finestrino quadrato che fa da sfiato ai piccoli gabinetti, ricavati all'interno per esigenze igieniche nel secondo dopoguerra e la porta di ingresso), ne assicura un’elevatissima inerzia termica, conferendo calore durante l’inverno e fresco durante i mesi più caldi, per effetto dell’inversione termica, in quanto le pietre pian piano in estate rilasciano il fresco accumulato in inverno, e viceversa, in inverno rilasciano il calore accumulato in estate.

Tutte le costruzioni vengono completate da un tetto conico, una pseudo cupola che ne costituisce ovviamente la copertura. Struttura autoportante, senza centinatura, costituita da una serie concentrica di lastre orizzontali disposte a gradini sempre più rientranti, man mano che si sale verso l’alto, in cui ogni giro è in equilibrio con quelli inferiori. Presenta un doppio rivestimento, uno interno con pietre di forma conica di maggiore spessore e un cono esterno impermeabile costituito dalle cosiddette chiancarelle, ovvero pietre più sottili. Queste sono bloccate dal pinnacolo decorativo sporgente, un elemento composto a sua volta da quattro elementi:

1- ultime file di pietre sigillate con malta e imbiancate con la calce;

2- detto cannarile, di forma cilindrica o a tronco di cono;

3- detto carrozzola, di pietra a forma di scodella;

4- chiamato cocla, costituita molto spesso da una sfera di pietra dalla forme più svariate.

Questo pinnacolo è il marchio del trullo ed ha principalmente lo scopo di contraddistinguere una costruzione dall'altra, anche se la sua origine è da ricondurre alla simbologia primitiva magica, con la finalità di allontanare influenze maligne e la sfortuna. Motivi cruciformi o stellari come emblemi della cristianità e dell’interpretazione religiosa hanno man mano sostituito il valore magico. Recentemente anche questi simboli sono stati sostituiti da sculture antropomorfe e decorative.

Anche la parte frontale della cupola reca simboli in cenere bianca, che ad una prima occhiata possono sembrare insignificanti ma che in realtà portano con se miti, emblemi e simboli di natura religiosa. Cristiana o pagana, propiziatoria o magica, sono identificabili e suddivisibili seguendo una classificazione ufficiale del 1940: primitivi, magici, pagani, cristiani, ornamentali e grotteschi.

I simboli PRIMITIVI sono disegni non strettamente riconducibili a modelli reali, con linee curve e dritte, di solito tre, cinque o sette. A questa prima classe appartengono anche i triangoli simboli di invocazione della Trinità, i cerchi simboli di Dio e i punti isolati segni della miseria umana.

I simboli MAGICI sono invece ricollegabili ai segni zodiacali e astrologico-planetari: ad esempio il segno del Toro, Gemelli, Cancro, Leone e Bilancia sono augurio di fortuna per - rispettivamente - abitanti della casa, fratelli, genitori, bambini e sposi. Il sole e la luna sono i simboli con maggiore importanza in quanto raffigurazioni del principio della vita del trullo e dei suoi abitanti l’uno e custodia del trullo addormentato l’altro (con l’attenzione alla gobba rivolta a levante affinché non sia confusa con la mezzaluna turca, simbolo di dannazione). Il tridente invece simboleggia le preghiere dell’uomo rivolte alla Trinità.

I simboli PAGANI sono da ricondurre al culto degli animali da parte degli antichi Romani: l’aquila è il simbolo dell’anima che aspira al cielo, la testa di cavallo, del bue, del cane e del gallo, simboleggiano rispettivamente il lavoro, la scongiura delle sfortune, la famiglia e la vigilanza. Il serpente è segno di prudenza.

I simboli CRISTIANI sono quelli più frequenti e numerosi: il monogramma di Cristo, i simboli della passione, del cuore trafitto di Maria, il Calice Eucaristico o le iniziali dei Santi Patroni. Ma comunque il simbolo più comune è la Croce nelle sue molteplici varianti: semplice, radiante o punteggiata, rappresenta il segno della cristianità e delle preghiere elevate al cielo.

Infine i simboli ORNAMENTALI e GROTTESCHI non sono legati alla tradizione ma sono frutto della fantasia del proprietario del trullo: le proprie iniziali, una raffigurazione del proprio mestiere (zappa, martello) o della produzione agricola in cui il proprietario è specializzato (una spiga, un ramo di ulivo o di vite).

Essendo la copertura esterna della cupola impermeabile, in ogni trullo l’acqua scivola e viene raccolta con delle gronde sporgenti dalla base del tetto, per poi confluire attraverso un canaletto nella cisterna posta sotto l’abitazione.

L’interno

Ogni trullo inizialmente veniva predisposto con un unico vano, al quale poi si potevano aggiungere altri moduli abitativi, in base alle esigenze del proprietario. Se questo non si dimostrava possibile l’intera struttura veniva abbattuta e se ne costruiva un’altra più grande e più funzionale.

All'interno il pavimento è di pietra calcarea e l’area della cupola viene di solito isolata rispetto alla base con delle travi, ricavando così un ulteriore spazio per conservare le riserve di cibo o per ricavare una stanza più piccola, a cui si ha accesso tramite una scala. Mentre la zona principale risponde a due funzioni: di alcova e di focolare/angolo cottura.

Gli ambienti utilizzati come stalle, depositi e ovili, sono separati dal nucleo abitativo principale, ma presentano la stessa tipologia costruttiva.

Con i loro simboli e la loro architettura, queste case di fiaba, come le chiamava D’Annunzio, sono da sempre il simbolo della Valle d’Itria e della Puglia nel mondo, riuscendo a creare un panorama da sogno che incanta ogni singolo visitatore:

all’improvviso nella Valle d’Itria ecco spuntare case di fiaba…attendamenti di pietra nel terreno ondulato…innumerevoli coni bruni contrassegnati dall’emblema fenicio. Vorrei stendermi per terra in un trullo dalla volta d’oro e lì sognar”.

 

Bibliografia

Esposito “Architettura e storia dei trulli: Alberobello, un paese da conservare”, 1983

Galiani, tratto da "La Guida Storico-Turistica di Alberobello"

Berrino “I trulli di Alberobello: un secolo di tutela e turismo”, 2012

Leone “Impressioni pugliesi di Gabriele D’Annunzio. Cronache di viaggio 1917”

 

Sitografia

http://www.italia.it/it/scopri-litalia/puglia/poi/la-storia-dei-trulli-di-alberobello.html

http://www.italia.it/en/travel-ideas/unesco-world-heritage-sites.html

www.pescaranews.net

Museo del Territorio di Alberobello