LE BOTTEGHE STORICHE DI GENOVA

A cura di Irene Scovero

Introduzione

Le botteghe storiche di Genova sono antichissimi negozi e attività artigianali di interesse culturale che sono attive da almeno 50-70 anni. Genova e i paesi della Liguria sono ricchi di questo patrimonio storico-artistico che recentemente è stato valorizzato grazie ad iniziative culturali e percorsi di visita specifici.

La città, con la sua bellezza celata, si è sempre contraddistinta per il commercio e ha sempre conservato un patrimonio artistico-architettonico tra le vie del centro storico. Le antiche arti, così come le antiche tradizioni, sono state custodite gelosamente nel corso degli anni e attraverso le botteghe è possibile riscoprire non solo il passato di antichi mestieri ma l’anima stessa della città.

Per preservare questo immenso patrimonio locale è  stato creato un albo nei quali sono stati inseriti tutti quegli esercizi che hanno requisiti specifici definiti dal Ministero per i Beni e le Attività culturali. Elencate e valorizzate sul sito www.botteghestorichegenova.it  le botteghe inserite in elenco comprendono diversi generi commerciali come negozi di calzature, tessuti, sartorie, farmacie, drogherie, macellerie, alcune anche preservate dal FAI. Alcune di esse mantengono semplicemente intatto l’arredo originale con cui sono sorte, attrezzature o strumentazioni storiche originali e ancora funzionanti, oltre a custodire documenti e immagini che testimoniano la storia delle attività e del contesto storico ambientale.

La città ha iniziato il percorso di sensibilizzazione e destinazione turistica dopo il 1992, anno delle Celebrazioni Colombiane e dell’inaugurazione dell’Acquario e soprattutto dopo il 2004, anno di Genova Capitale Europea della Cultura. La città negli ultimi anni è riuscita a puntare su un turismo culturale non solo in Italia ma anche in Europa attraverso la valorizzazione dei suoi punti di forza come i Palazzi dei Rolli, riconosciuti nel 2006 come Patrimonio dell’Umanità, le strade ottocentesche, le realizzazioni architettoniche del Novecento e i percorsi di visita del centro storico con il suo tessuto medievale e le botteghe di antica tradizione.

Percorso tra le botteghe storiche del centro storico di Genova

Ad oggi si contano 43 botteghe riconosciute come ‘storiche’ dalla Soprintendenza, il Comune e la Camera di Commercio che si sono fatti promotori della valorizzazione di questi beni.

Si passano in rassegna alcune botteghe, scelte per categoria, a testimoniare la storia, la bellezza e le antichi tradizioni che ci fanno tornare indietro nel tempo.

GIOVANNI RIVARA FU LUIGI – 1802

In piazza San Lorenzo, sulla sinistra della Cattedrale medievale, all'angolo con via di Scurreria, è situata una delle Botteghe Storiche di Genova, ossia il negozio di tessuti Giovanni Rivara fu Luigi 1802; è un locale storico, punto di riferimento per la vendita al dettaglio di biancheria e tessuti per la casa da più di duecento anni. La famiglia, originaria di un piccolo paesino di Chiavari, inizia a dedicarsi al commercio di tessuti agli inizi dell’Ottocento negli anni in cui si diffonde la meccanizzazione nell'industria tessile.

Il locale conserva ancora gran parte dell’arredamento originale ottocentesco: scaffalature in legno, un bancone in noce massiccio formato da un unico pezzo di legno lungo più di cinque metri, lenzuola di puro lino ricamate, macramè di fiandra con nodi, antichi libri contabili originali del XIX secolo e i metri utilizzati nell’Ottocento.

Elemento storico della ditta Rivara è un giornale di cassa datato 1847-48 che oltre a raccontare la quotidianità del negozio, ci tramanda i nomi dei clienti dell’aristocrazia genovese nel XIX secolo. Compaiono il banchiere Celesia, il marchese Gropallo di Carignano, la marchesa Serra e Agostino Adorno. Anche l’attigua cattedrale di San Lorenzo veniva rifornita di biancheria dalla ditta Rivara e tra i clienti di spicco compare anche il nome della regina Maria Cristina di Savoia, consorte di Carlo Alberto.

Sotto l’attuale gestione di Luigi Rivara, subentrato al padre nel 1986, le proposte della ditta riconfermano la fedeltà della tradizione che ne ha sancito a suo tempo il successo. Tessuti pregiati vengono utilizzati per i capi di abbigliamento, come il lino irlandese per le camicie, tessuti in lino per lenzuola, coperte di lana e cachemire, la piuma d’oca per piumini e trapunte. La bottega rifornisce alberghi e ristoranti oltre che le spose per i corredi ricamati in puro lino e tra gli oggetti d’arredo della tradizione ligure si possono acquistare i mezzari genovesi. Quest’ultimi sono in vendita sia con la tradizionale iconografia dell’Albero della Vita, sia con motivi di ispirazione più contemporanea. In occasione di speciali avvenimenti vengono prodotti mezzari ad edizione limitata. Nel 2004, anno in cui Genova fu Capitale Europea della Cultura, sono stati realizzati mezzari con panorami della città firmati dagli artisti Luzzati, Verardo e Costantini.

I mezzari genovesi

La parola mezzaro è di origine araba, deriva dal verbo mi-zar che significa coprire ed è stata assorbita dal dialetto genovese per identificare tessuti, scialli e fazzoletti di diverso materiale. Già l’etimologia del nome sottolinea come la cultura ligure, grazie ai commerci marittimi, abbia assorbito l’utilizzo di parole non locali nel proprio vocabolario.

Genova, fin dal pieno Medioevo al centro delle rotte commerciali con l’Oriente, è forse tra le prime città italiane a conoscere questo tipo di tessuti. L’enorme espansione economica della città e la fondazione di una Compagnia delle Indie Orientali, nel XVII secolo, rendono più agevole l’approvvigionamento di questi quadrati di arte tessile, non a caso i primi atelier di mezzari sorgono a Genova alla fine del Seicento, successivamente i tessuti saranno importanti anche dalla Lombardia e via mare dall'Inghilterra, Irlanda, Olanda e Belgio.

Con questo grande quadrato di stoffa di cotone le donne liguri si ammantavano già nel Duecento in modo non dissimile a quello in cui le spagnole si avvolgono nelle loro mantillas. Tale utilizzo è caduto in disuso verso la metà del XIX secolo ed attualmente è utilizzato come tendaggio o come copri letto-divano. Il mezzaro presenta sempre un motivo centrale molto decorato, solitamente l’Albero della Vita, delimitato da un bordo decorato che corre lungo i quattro lati della stoffa.

BOTTEGHE STORICHE DI GENOVA: LA BARBERIA GIACALONE DEL 1882

Questa piccola bottega, che non supera i dieci metri di superficie, si trova nel cuore del centro storico, in vico dei Caprettari incastonato in un palazzo del XVII secolo. Aperto agli inizi del Novecento da Italo Giacalone, è un piccolo gioiello in stile liberty realizzato nel 1922 dalla vetreria Bottaro, la stessa che quasi un secolo dopo ne curerà il restauro, e conserva oltre agli arredi anche le suppellettili originali dell’epoca. Il piccolo gioiello di eleganza e raffinatezza viene gestito dal figlio di Italo e dopo la sua scomparsa, e dopo un breve periodo di chiusura, viene restaurato e riaperto nel 1992 dal FAI. L’ambiente è quasi abbagliante: la luce rimbalza in un gioco di specchi tra le pareti e il soffitto colorandosi di verde smeraldo, blu cobalto e giallo oro, i colori che dominano i pannelli in cristallo che fasciano il locale. In stile d’epoca gli specchi ovali sopra i lavabo, le appliques, i lampadari centrali, i porta shampoo, le bottiglie d’acqua di colonia, alcuni rasoi e il telefono ancora funzionante del 1930.

La barberia testimonia quel particolare momento di passaggio tra il gusto liberty e l’art déco.

Il gestore, Francesco Caiffa, orgogliosissimo della sua attività, racconta a chiunque sia interessato la storia del locale, mostrando articoli di giornale e foto che lo ritraggono al lavoro. Conserva una copia del Times, con l’articolo dedicato alla celebre bottega, e foto di novelli sposi che vengono, spessissimo, a farsi ritrarre in questo piccolo negozio. Nella bottega è conservato anche il rasoio personale del duce che non mancava di passare di qua quando si trovava a Genova. Molti film e pubblicità attuali contengono scene girate nella bottega, come nel film "Le mura di Malapaga" con Jean Gabin del 1949.

TRIPPERIA CASANA - 1890

Nel cuore del centro storico, la tripperia di vico Casana vende trippa dal 1890. La bottega, una delle più caratteristiche e affascinanti fra le Botteghe Storiche di Genova, rimane della famiglia Cavagnaro per quasi cento anni, quando nel 1984 ne diventa proprietaria Gabriella Colombo che, con il marito Franco, è oggi l’anima di questa ultracentenaria bottega dove si respirano aromi e atmosfere di altri tempi. Un negozio in cui si fondono armonia, bellezza e semplicità grazie agli elementi architettonici, agli arredi e agli utensili originali di inizio Novecento. Fino ad un paio di anni fa i genovesi erano soliti sedersi sugli sgabelli e fare uno spuntino sui bei tavoli in legno col piano di marmo, originali dei primi del Novecento, ma erano soprattutto operai e portuali che, andando al lavoro, si scaldavano e nutrivano con una tazza fumante di brodo di trippa. La bottega conserva ancora gli arredi e gli utensili originali di inizio Novecento. Tra i tavoli in legno con base in marmo alla genovese e i pentoloni in rame originali degli inizi del XX secolo, è appeso al soffitto un diploma del 1903 in stile Liberty con eleganti e sinuose figure femminili che incorniciamo l’encomio. Oltre alle suppellettili si è tramandata anche la maestria della lavorazione della trippa che al cliente viene venduta insieme ai preziosi suggerimenti per assaporarla al meglio. Tra i piatti e le ricette consigliate: trippa ai ferri, fritta, al cognac, alla parmigiana, risotti e l’immancabile trippa in umido alla genovese.

FARMACIA SAN’ANNA - 1650

Sulla collina della città l’antica farmacia si trova nell'omonima piazzetta, nel quartiere di Castelletto, presso il convento della Chiesa di Sant’Anna, fondata nel 1584 da Nicolò Doria, il primo ad essere edificato dai Carmelitani Scalzi fuori dai confini della Spagna. Del meraviglioso complesso formato da giardini, chiesa, refettori e l’antica biblioteca spicca la farmacia, la cui origine si fa risalire alla metà del Seicento quando già, pochi decenni dopo la fondazione, con fra Martino di S.Antonio (1638-1721) si parla di una spezieria dei Carmelitani Scalzi. Nel corso dei secoli i registri della farmacia riportano i nomi dei clienti che si servivano dai frati e i prodotti più richiesti come la manna, sali d’Inghilterra, unguenti per la rogna, estratto di china e rosa. Tra i documenti dell’Ottocento compare il nome del medico parigino Louis Le Roy, autore de La medicina curativa, opera pubblicata a Napoli nel 1825.

Oggi l’attività dei Frati carmelitani mantiene intatta la tradizione galenica e fitoterapica coniugando le conoscenze moderne con quelle di antica tradizione. I laboratori seppur moderni elaborano ricette antiche con ingredienti esclusivamente naturali in pura tradizione monastica in un ambiente accogliente, incastonato in una boiserie in noce.

Frate Ezio, l’erborista depositario dell’antica tradizione, accoglie chi ha bisogno di cure e propone antichi rimedi naturali ottenuti dai fiori e piante coltivate con cura e passione, molte delle quali ricavate dal  giardino della farmacia che ospita un ricco roseto e un agrumeto. Un sabato mattina al mese la Farmacia propone visite guidate per un offrire un’esperienza unica tra storia, medicina e natura in un luogo ricco di storia, tradizione farmaceutica e spiritualità.

MACELLERIA NICO -1790

Nel centro storico di Genova, nel quartiere di Soziglia, è inserita questa antichissima macelleria. La corporazione dei macellai in città è una delle più antiche e risale al XII secolo, quando le attività che vendevano carni di ogni genere furono collocate in questa zona, che prese il nome di via dei Macelli. L’antica bottega è delimitata da un portale in marmo, con la vetrina incorniciata da lesene, il pavimento alla genovese e il soffitto a botte con capitelli. Il bancone del locale è in marmo bianco di Carrara decorato con sculture in altorilievo e raffigurazioni di bovini, buoi, tori, mucche. La bottega, già esistente prima dell’unità d’Italia, è testimone di questo momento storico. In questo periodo furono aggiunti al balcone in marmo bassorilievi con le teste dei protagonisti del Risorgimento italiano: Garibaldi, Mazzini, Cavour e Nino Bixio. In bassorilievo, sulla base del bancone è rappresentato Mercurio, dio dei commerci, degli scambi e del profitto. All'interno si trovano ancora attrezzi originali come rotaie e le guidovie con i ganci per appendere il bestiame.

BAR PASTICCERIA KLAINGUTI - 1828

Nel 1826 i fratelli Klainguti giungono a Genova da Pontresina, paese vicino a Saint Moritz. Specializzati nell'arte dolciaria, decidono di rilevare un negozio in Piazza Soziglia che da quel momento diventerà punto di ritrovo di personaggi famosi come Giuseppe Verdi, dove un suo biglietto autografo, con apprezzamenti rivolti alle brioches di Klainguti, è ancora visibile all'interno del locale. Restaurata nel 2000, la bottega conserva ancora il bancone, le bacheche e le vetrine originali dell’anno di inaugurazione. Il bancone della pasticceria è realizzato in legno di noce con ripiano in marmo, mentre quello del bar è in legno intarsiato risalente al 1950. La saletta interna presenta inalterata il mobilio degli anni ’20.

Il bancone gelato in una delle vetrine esterne presenta un pannello in legno intarsiato con i principali monumenti di Genova risalente alla seconda metà del Novecento. Inseriti nella boiserie avorio, verde e oro delle pareti, pannelli realizzati da Attilio Mangini nel 1988  propongono vedute fantasiose di Genova e decorano il bar pasticceria insieme agli specchi, stucchi e lampadari ricordando le atmosfere della Belle Epoque. Tra le varie delizie offerte dalla pasticceria: la torta Engadina, la torta Zena, la sacripantina e altre tante specialità.

Una piccola panoramica sulle botteghe storiche del centro di Genova, tantissime delle quali non ancora inserite nell'albo del Comune, ma che vantano tradizioni centenarie. Antiche drogherie come la Torielli  o Armanino e figli, pasticcerie, farmacie, locali inusuali dove è possibile trovare spezie e farine da tutto il mondo. Tanti i piccoli laboratori artigianali come la minuscola bottega dei presepi in via della Maddalena, Bütteghetta magica,  inaugurata nel 1830, che vende articoli per la casa, ma soprattutto statuine per il presepe.

Continua incessante il lavoro di catalogazione di questi locali storici e nel febbraio 2020 è stato creato il logo per le  ‘’Botteghe storiche, Locali di tradizione e Locali di interesse culturale’’ da affiggere fuori dai locali storici per valorizzarne il valore culturale e potenziare il tessuto commerciale storico genovese.

Logo Botteghe storiche di Genova di Roberto Carlini.

 

Bibliografia

https://smart.comune.genova.it

www.botteghestorichegenova.it

www.erboristeriadeifrati.it

www.fondoambiente.it

www.rivara1802.it

www.treccani.it


IL CASTELLO DI VEZIO A VARENNA

A cura di Silvia Piffaretti

Questo lago sublime è l’espressione che Stendhal, ne «La certosa di Parma», utilizza per definire il Lago di Como e le sue terre da lui decantate come «luoghi incantevoli senzuguali al mondo» caratterizzate da «paesaggi sublimi e deliziosi» dove «tutto è nobile e tenero, tutto parla damore, niente richiama le brutture della civiltà». Ed è proprio in questo clima idilliaco e senza tempo che, lungo la riva destra del Lario, sorge la città di Varenna (1). Quest’ultima, uno dei fiori all'occhiello del lago, s’adagia in parte sulle alluvioni dell'Esino e in parte s’arrampica sui contrafforti delle Grigne che incombono a precipizio sul lago. Il suo paesaggio è caratterizzato dalle vecchie case colorate che si riflettono nelle acque cristalline, dalle ville sontuose e da parchi verdeggianti dove è possibile compiere piacevoli passeggiate. Varenna, nominata come villaggio di pescatori nel 769 e successivamente alleata di Milano in epoca comunale, fu distrutta dai comaschi nel 1126 come punizione per il tradimento degli abitanti dell’Isola Comacina che, esuli dalla loro isola, migrarono sulle sponde opposte dove sorse il paese. Ogni anno l'esodo dei comacini è celebrato il sabato e la domenica della settimana del 24 giugno, in occasione della festa di San Giovanni, con migliaia di lumini galleggianti abbandonati sulle acque per ricordare le anime derelitte che navigarono da una sponda all’altra.

Fig. 1 - Varenna.

E proprio su un promontorio sopra Varenna si erge nella sua maestosità il Castello di Vezio (2), restaurato nella metà del XX secolo, ubicato sul fondo della Val d’Esino a metà tra il comune di Varenna e Perledo. Dalla cima della torre principale e dal giardino del castello si può godere di un'ampia vista del triplice lago, definizione coniata da Pietro Turati e Antonio Gentile nella loro “Illustrazione storica geografica e poetica del Lario e circostanti paesi” del 1858. In questa guida romanzata si descrivono i luoghi esplorati da una piccola comitiva in visita al lago, tra questi il promontorio di Bellagio dove poterono ammirare la biforcazione del Lario in due rami, quello di Lecco a destra e quello di Como a sinistra. La biforcazione del Lario è visibile anche dal castello, sulla sinistra vi è il ramo di Lecco mentre frontalmente quello di Como (3).

Sull’origine del termine “Vezio” si hanno diverse tesi: la prima sostiene che derivi dal latino “pagus Vetus”, che significa “villaggio, o gruppo di case, antico, preesistente”, oppure potrebbe fare riferimento alla denominazione dialettale “Vesc” che significa “vecchio”, la seconda invece sostiene che discenda da “Vescia”, piccolo centro del Lazio attuale Sant’Agata dei Goti, paese d’origine del legionario romano Vescinus che detenne la direzione dei lavori per la costruzione del “castrum” di Vezio. Molti studiosi attribuirono al castello una prima fase in età Tardo Antica, riconducibile ad una funzione di centro militare strategico tardo romano, a guardia della strada che da Bellano conduceva ad Esino Lario, e di punto d’avvistamento dominante il lago.

Della successiva fase Bizantina e Longobarda si ricorda il legame con la regina longobarda Teodolinda, la cui leggenda voleva che avesse fatto costruire la chiesa di San Martino, l’oratorio di Sant'Antonio ed il castello di Vezio per lasciare testimonianza della sua fede nel Cristianesimo. Questo legame è testimoniato da Cesare Cantù nel racconto “Isotta” risalente al 1833, in cui l’autore ripercorre gli anni della sua gioventù in cui, per diletto e per necessità, attraversava il Lario da Lecco a Colico su una barca comune affrontando un viaggio che durava dalla sera al mattino. La compagnia di quei viaggi era varia ma una notte, mentre fantasticava sulle sue speranze giovanili, si ritrovò di fianco un sacerdote di mezza età e di forte presenza, anch'egli preso in una contemplazione metafisica. Quest’ultimo gli narrava [] le ricerche de sapienti e de curiosi intorno a quel lago e additava sullopposta riva le rocche in rovina, [] parlava de monasteri, di non so che regina Teodolinda, la quale, egli diceva, fabbricò quella torre alta sopra Varenna e il sentiero che costeggia il lago.

Quella fortificazione di cui parlava non è che una delle tante abitate da un fantasma, in questo caso quello della regina Teodolinda, che vagherebbe tra i corridoi del palazzo nelle notti senza luna oppure nei giardini. I gestori ne rievocano ancora oggi la storia con sculture realizzate grazie al contributo dei visitatori che si mettono in posa per poi essere ricoperti di garza e gesso, dopo una ventina di minuti la scultura viene sfilata ed è pronta ad abitare l’edificio (4).

Proseguendo nella cronologia sappiamo che l’edificio fu luogo di grande interesse per gli esuli comacini che, in seguito alla guerra con Como del 1169, utilizzarono il castello come luogo di rifugio per la popolazione dagli attacchi subiti durante il basso Medioevo, infatti il castello era collegato alla città di Varenna da due braccia di mura che la cingevano fino al lago. Il coinvolgimento degli esuli è riportato da Paolo Giovio, che nel 1559 dichiarò che: Gli isolani edificarono nella nuova habitatione due roche, una dalla parte destra del Lario, laltra nello elevato forte et giogo del monte sopracta con gli edifici, et da il sguardo di tutto il lago.

Nei secoli successivi, più precisamente nel XVII, la torre risultava di proprietà della parrocchia di San Giorgio di Varenna poi passò in successione ai Conti della Riviera, agli Sfrondati, ai Serbelloni ed infine alla famiglia Greppi Di Robilant che ne ha tuttora la proprietà.

L’edificio che ci è giunto presenta caratteristiche costruttive tipiche dell’epoca medievale, a quel tempo infatti ogni comune era solito dotarsi di mura, castelli e torri a scopo di avvistamento o punto di riscossione dei pedaggi. In particolare il Castello di Vezio, perfetto esempio di castello-recinto, è un’architettura fortificata in pietre locali costituita da una torre quadrata centrale, a cui si accede attraverso un piccolo ponte levatoio. La torre è poi circondata da una cinta di mura pentagonale su cui si innalzano torri d'angolo minori che, insieme alla cinta, sono coronate da merli (5).

Suggestiva è l’immersione del castello in una rigogliosa vegetazione continentale e alpina a nord, caratterizzata da castagni, noccioli, pini e larici mentre verso il lago vi è una flora mediterranea di olivi, agavi, rosmarini e piante grasse. Nel giardino degli olivi (6) durante il giorno vengono tenuti i rapaci, infatti il castello ospita un centro di cura e addestramento di tali animali che i visitatori possono ammirare nella loro bellezza. Da questo giardino inoltre, per mezzo di un portone ligneo, si accede all'interno delle mura che circondano la torre dove vi è un’esposizione permanente sul lariosauro, un estinto rettile acquatico di medie dimensioni che viveva in ambienti di laguna salmastra. Sotto i giardini invece si trovano dei sotterranei (7) parzialmente visitabili che costituivano un appostamento difensivo italiano della frontiera nord verso la Svizzera durante la Prima guerra mondiale, per passare nel neutrale territorio elvetico nel caso di un tentativo d’invasione tedesca.

Fig. 7 - I sotterranei.

Ed è così che si conclude il viaggio tra le mura del Castello di Vezio che, grazie al suo notevole passato storico-artistico, ha permesso un'immersione in un’eterna atmosfera idilliaca tra le azzurre acque del Lario e le spigolose montagne, per farci sentire per un istante padroni di tanta bellezza. Che sia questo il motivo per cui, secondo la leggenda, Teodolinda vi si rifugiò per trascorrere gli ultimi anni della sua vita? A voi la risposta.

 

Sitografia

valsassinacultura.it

castellodivezio.it

eccolecco.it

varennaturismo.com

 

Immagini

Copyright Google immagini e Lorenzo Taccioli

https://www.lorenzotaccioli.it/castello-di-vezio-come-visitarlo/


LA BASILICA DI SANT’ANTIOCO DI BISARCIO

A cura di Alice Oggiano

Cenni storici

La basilica di Sant’Antioco di Bisarcio si erge al di sopra della Piana di Chilivani, in territorio comunale di Ozieri, distante pochi chilometri dal paese. Qui sorgeva in epoca medievale il fiorente borgo di Bisarchium. Il complesso basilicale si pone come uno degli edifici romanici più grandi e maestosi in Sardegna, ed è documentato sin dalla seconda metà dell’XI secolo: un prezioso documento dell’ultimo decennio di tale secolo esprime per l’appunto la volontà del giudice turritano Costantino de Lacon e della sua consorte, Maria de Serra, nel rinnovare una donazione già precedentemente registrata alla Camera vescovile, andata perduta in seguito all'incendio della chiesa di Bisarcio. Questo fu talmente di grande portata, che la sede vescovile venne momentaneamente trasferita nella chiesa di Santa Maria di Ardara. Da tali affermazioni si può dedurre non solo la presenza e seguente distruzione di un archivio, ma anche e soprattutto la memoria di una prima cattedrale precedente a quella attuale. Raffaello Delogu, noto storico dell’arte e dell’architettura, vi riconobbe delle murature arcaiche in posizione inferiore nei lati nord e sud, confermandone la tesi sopravanzata. La fabbrica attuale, costruita attorno al 1160 secondo una fonte archivistica e consacrata il 1 Settembre 1174, presenta muri di eguale larghezza e ne riprende forme e proporzioni, poiché venne realizzata sfruttandone la muratura precedente, compresi un portale architravato e una monofora centinata a sud. La tecnica edilizia adottata appartiene al proto-romanico, del quale riprende anche l’icnografia tradizionale. L’edificio venne eretto inizialmente mediante cantonetti in scura trachite, con sfumature tonali dal marrone cuoio al rosso purpureo, messi in opera approssimativamente. Nella ricostruzione del 1160, è individuabile la tecnica stereotomica indice della presenza di maestranze cistercensi nella fabbrica.

La basilica di Sant’Antioco di Bisarcio

Sant’Antioco di Bisarcio presenta una pianta longitudinale a tre navate, con abside semicircolare. La navata centrale, dalla copertura lignea, è scandita da arcate a tutto sesto su colonne eseguite ad hoc (manca quel gusto d’antiquario e recupero del classico presente invece nella basilica di Santa Giusta, anch'essa come Sant’Antioco ad opera di maestranze pisane); le navatelle son voltate a crociera, con un rapporto con la navata centrale di 1:1.

Addossato alla facciata vi è un ampio portico costituito da due piani, ascrivibile, in seguito ad un’attenta rilettura del monumento ed in particolare alla sua decorazione scultorea, agli inizi del XIII secolo.

Scandito da sei volte a crociera divise da archi trasversi, è sorretto da pilastri terminanti in stretti capitelli decorati con carnosi motivi fitomorfi dal gusto ormai squisitamente gotico.

Una scala nel muro sud permette l’accesso al piano superiore del portico, diviso in tre spazi da arcate su pilastri con volte a botte. Nel vano in prossimità della scala è presente uno straordinario camino a forma di mitria bordata. Nel vano intermedio, un altare è volto verso la cattedrale. La presenza dell’epigrafe, scolpita in lettere gotiche sul muro a sinistra, ne rende nota la data di consacrazione.

L’intervento edilizio del XIII secolo coinvolse, oltre al portico, le due colonne cruciformi poste nella zona presbiteriale ed il capitello sinistro scolpito con un episodio di Teofania (iconografia alquanto rara in Sardegna).

Addossato al lato sud, il campanile mozzo dall’irregolare cromia, ornato da lesene e archetti pensili, che scandiscono anche i fianchi ed il prospetto absidale della facciata.

Il prospetto esterno del portico pare incompleto, a causa del crollo della parte superiore sinistra: verrà dotata di muratura liscia durante la dominazione aragonese. Vi rimane una porzione integrale del portico nel lato destro, in cui è possibile cogliere la presenza di un semitimpano a falso loggiato ed un’archeggiatura ogivale nell'ordine superiore. Le vele tra le arcate d’accesso sono sontuosamente ricche di decorazioni scultoree: spiccano i bacini ceramici con triangoli in bicromia, le paraste d’angolo e pilastri mediani adornati da foglie d’acanto, l’arcata sinistra con una teoria di angeli e santi in posizione radiale.

Indice di interesse e studio, le due mensole con testa antropomorfa alla sommità dei pilastri mediani. Questo elemento rimanderebbe ai gargouille gotici d’oltralpe.

Ciò avrebbe indotto il Delogu a supporre lo stato di attività di maestranze francesi (borgognone nello specifico) nella fabbrica.

Del parere contrario il Sanpaolesi, che individuò nel portico maestranze provenienti dall'Italia meridionale e non francesi. Lo storico pose inoltre particolare enfasi sull'influenza esercitata dall'area toscana, ed in particolar modo pisana, negli stilemi e forme della cattedrale.

La facciata di Sant'Antioco di Bisarcio, coperta dal maestoso portico, presenta un’evidente asimmetria poco funzionale e coerente nel suo insieme: nel corso della costruzione, infatti, venne chiusa la porta laterale destra. Nelle testate delle navatelle doveva elevarsi su un ordine di tre arcate il frontone a semitimpano, mentre l’arcata centrale fu probabilmente occupata da una bifora su colonnina; le laterali ospitavano rombi gradonati. L’influenza pisana è evidente in particolar modo nel portale mediano. Questo possiede stipiti monolitici innalzati da modanature culminanti in uno stretto capitello, sul quale sovrasta un architrave liscio con arco di scarico a sesto rialzato e lunetta rincassata. L’abside è suddiviso in specchi da semi-colonne realizzate in tufo verdastro e trachite rosso-bruno. La copertura del catino absidale è posta più in alto rispetto agli spioventi delle navatelle, ragion per cui l’equilibrio viene garantito dall'elevato frontone con spioventi dalla maggior pendenza.

La basilica offre attualmente dei laboratori didattico-educativi e visite guidate previa pagamento e prenotazione tramite “Istituzione San Michele”. La seconda domenica di Maggio si svolge una processione con la presenza di varie bandiere delle chiese del paese di Ozieri, ed al termine della messa viene tradizionalmente offerta una cena comunitaria da parte del vescovo.

 

Bibliografia e sitografia essenziale

 Sardegna preromanica e romanica, Roberto Coroneo-Renata Serra

Sardegna Turismo

Dizionario Treccani di Arte medievale


VIAGGIO NELL'ANTICA POMPEI

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il viaggio nell'antica Pompei comincia con una breve descrizione della sua posizione geografica, per poi continuare passando ad esaminare gli edifici presenti all'interno dell'area.

Storia e geografia dell'antica Pompei

La città sorge su un’altura nei pressi del fiume Sarno che sfocia verso il Mar Tirreno, costituendo un punto d’approdo per i navigatori greci e fenici. La strategica posizione geografica della città fa sì che già intorno al VIII secolo a.C. troviamo un primo insediamento nella zona, che si formò molto probabilmente da un piccolo nucleo di genti dedite all'agricoltura. Nel VI secolo a.C. invece si costituisce un primo nucleo fortificato di città appartenente alla popolazione degli Osci (fig.1) che primeggiavano nella Campania antica.

Fig. 1: sviluppo della città di Pompei

Successivamente la città di Pompei fu contesa dapprima tra i greci di Cuma e gli Etruschi per poi cadere sotto il potere sannita ed essere governata secondo le leggi, gli usi e costumi sanniti, assorbendone inoltre anche la lingua e la religione. Nel 310 a.C. i pompeiani dovettero difendersi dalle flotte romane che depredavano la foce del Sarno: col passare del tempo la città fu costretta a fronteggiare la crescente potenza di Roma, che sconfisse i Sanniti durante le “guerre sannitiche” in cui Pompei, pur essendo colonia sannita, riuscì comunque a conservare una certa indipendenza dall’Urbe. Tale stato di cose durò fino al termine delle “guerre sociali” (80 a.C.), dopodiché la città divenne a tutti gli effetti una colonia romana e fu riorganizzata sotto il profilo urbanistico, religioso e politico della cultura latina. Nel 62 d.C. l’intera Campania subì violente scosse di terremoto che danneggiarono violentemente Pompei e molte altre città della zona, così si avviarono fin da subito opere di ricostruzione degli edifici e dei templi, ma diciassette anni dopo, precisamente il 24 agosto del 79 d.C., il Vesuvio con una violentissima eruzione seppellì l’intera città e la sua popolazione ponendo fine all'esistenza della città. Dopo questa violenta eruzione, durante il periodo medioevale, grazie a dei documenti bizantini sono state ritrovate tracce di un piccolo insediamento più a nord e più sopraelevato dell’antica città . Da qui in poi la zona rimase disabitata, anche a causa del suolo divenuto paludoso e portatore di malattie fino agli inizi dell’Ottocento.

Viaggio nell'antica Pompei: Porta Marina

La Porta Marina (fig.2) era l’antica porta di accesso per la città di Pompei: una ripida rampa conduce a due fornici (grande apertura che si trova in antichi edifici o monumenti, dedicata al pubblico transito) della porta, quello a sinistra era riservato ai pedoni, mentre quello di destra era riservato agli animali e ai carichi leggeri che solitamente trasportavano dal mare il sale e il pesce. Vicino alla porta troviamo probabilmente quelli che sembrano resti di magazzini, mentre nella parte inferiore della porta troviamo antiche mura sannitiche risalenti al IV-II secolo a.C.

Fig. 2: porta Marina
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/00/Porta_Marina_1.JPG/1024px-Porta_Marina_1.JPG

Viaggio nell'antica Pompei: il tempio di Apollo

Fin dalle origini a Pompei veniva praticato il culto di Apollo, infatti abbiamo la presenza di un primo tempio (di cui poco ci è noto) costruito intorno al VI secolo a.C. che fu successivamente smantellato e sostituito da uno più grande intorno al II secolo a.C. (fig.3)

Il nuovo tempio era circondato da un portico a doppia altezza, con colonne di stile ionico nella parte inferiore e di stile corinzio nella parte superiore. Durante il sisma del 62 d.C. il secondo ordine di colonne crollò e fu rimosso dal recinto, mentre il primo ordine di colonne fu restaurato e stuccato, mentre i capitelli furono trasformati da ionici a corinzi e decorati con colori vivaci: rosso, giallo e azzurro. Il tempio fu dissotterrato solo nel 1817 svelando un'incredibile decorazione pittorica lungo i muri; diverse scene, sia tragiche sia comiche, erano dedicate alla guerra di Troia, inoltre in una stanza segreta del tempio fu ritrovata una decorazione raffigurante il giovane Bacco che riposa mentre Sileno suona la lira. Inizialmente questo tempio era stato erroneamente attribuito a Venere a causa di un’errata interpretazione in lingua osca scritta su una lamina in bronzo posta sull'architrave (elemento architettonico orizzontale che ha lo scopo di collegare pilastri o colonne sottostanti e a scaricare il peso sulle strutture verticali sottostanti dette piedritti) all'ingresso del tempio. Lo scavo del tempio portò alla luce anche numerosi materiali scultorei, infatti davanti ad ognuna delle colonne del portico sono state ritrovate statue di divinità tra cui Venere, Mercurio, Diana cacciatrice e dello stesso Apollo. Della statua di culto collocata nella cella (parte interna del tempio che ospitava la statua della divinità a cui era dedicato) all'interno del tempio non si ha traccia, ma si rinvenne il simbolo delfico di Apollo, un blocco di tufo vulcanico a forma ovale che rappresentava la pietra sacra che Zeus aveva posto per indicare il centro del mondo.

Il Foro

Il viaggio nell'antica Pompei continua parlando del foro. Quando infatti nel secondo decennio del XIX secolo fu portato alla luce il foro di Pompei (fig.4), trovarono una piazza nel bel mezzo del restauro.

Fig. 4: il foro di Pompei

Quando l’eruzione del 79 d.C. ricoprì la città di Pompei, il foro e molti edifici pubblici e privati erano in stato di ricostruzione a causa di un violento sisma che aveva colpito l’intera Campania nel 62 d.C. Ma quel restauro non era stato il primo ad interessare il foro, infatti il foro primitivo presentava un mercato di dimensioni ridotte a cui si poteva accedere da tre strade principali; una a ovest che arrivava dal mare (oggi Via Marina), un’altra proveniente da nord (Via Consolare) e l’ultima proveniente da nord-est (Via di Nola-Fortuna). Accanto al mercato dal VI secolo a.C. furono costruite alcune botteghe e sul lato opposto fu eretto il tempio dedicato ad Apollo. Agli inizi del II secolo a.C., seguendo i modelli ellenici, la piazza del mercato fu ampliata e pavimentata con il tufo di Nocera, furono eretti il Capitolium e la basilica e qualche anno dopo fu circondata da un doppio portico con colonne doriche e ioniche. Durante gli ultimi anni di vita di Pompei, seguendo i costumi romani, alcune donne pompeiane di alto rango decisero di finanziare la costruzione di edifici sontuosi simili a quelli della capitale. Nella zona del foro oltre al mercato (macellum), al Capitolim e alla basilica avevano sede altri importanti edifici; un santuario dedicato ai lari pubblici, il santuario di Genius Augusti, l’edificio di Eumachia, il Comitium, gli edifici municipali e la mensa ponderaria (piano marmoreo che serviva alla verifica della precisione delle misure in uso nelle attività commerciali).

L'edificio di Eumachia

L’edificio fu costruito dalla sacerdotessa Eumachia per la corporazione dei tessitori, tintori e lavandai (fullones) che costituivano la più grande industria all'epoca a Pompei. Il complesso (fig.5) è molto ampio ed è costituito da una grande corte (spazio scoperto entro il perimetro dell’edificio che serviva a dare luce e spazio agli ambienti che vi si affacciavano) limitata da un porticato a due piani, dietro il porticato vi erano posti i magazzini per il deposito e l’esposizione delle merci prodotte.

Fig. 5: Di Lure - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16930481

La vendita veniva effettuata sotto i portici e nel piazzale scoperto, sul fondo del porticato, rimangono i resti di tre absidi, la più grande delle quali conteneva la statua di Livia moglie dell’imperatore Augusto, ai lati c’erano le statue di Tiberio e suo fratello Druso. Alle spalle dell’abside più grande i fullones avevano eretto la statua di Eumachia. Della ricca facciata verso il foro, oggi rimane solo una straordinaria decorazione in foglie d’acanto che ci mostra la maestria artistica che aveva raggiunto Pompei; ai lati del portale sorgevano due tribune molto probabilmente adibite per le vendite all'asta.

Il macellum

Il foro era chiuso nell'estremità settentrionale dal macellum (fig.6), un edificio monumentale adibito alla vendita di cibo, una sorta di odierno mercato.

Fig. 6: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19311769

Scavato tra il 1821 e il 1822, inizialmente fu scambiato per un pantheon a causa del ritrovamento di dodici basamenti di pietra nel cortile centrale e di resti di magnifiche decorazioni pittoriche del recinto. Successivamente, durante gli scavi furono ritrovati anfore e vasi di bronzo contenenti lische di pesce, e da questo particolare si comprese come quello spazio fosse adibito ai pescatori che vendevano la loro merce e che di conseguenza fosse un macellum. La struttura aveva al centro un vasto cortile con un porticato e si elevava in una specie di chiostro con tetto sorretto da dodici colonne e dai loro basamenti. La parte meridionale del cortile era composta da una serie di botteghe che vendevano vari prodotti, mentre sul lato occidentale si trovava l’ingresso principale al recinto, ai lati del quale si trovavano i negozi dei banchieri. Sul lato orientale c’erano tre spazi ampi; in quello centrale si trovava il sacellum (piccola area recintata e senza copertura con al centro un’ara), e nello spazio di destra c’era una macelleria decorata con pitture che raffigurano pezzi carne, pernici, una testa di maiale, un coltello e dei prosciutti. Lo spazio a sinistra era riservato molto probabilmente alla celebrazione dei banchetti sacri, dotato di un altare per offrire le libagioni. Il lato settentrionale del mercato era delimitato da un muro in cui erano presenti decorazioni pittoriche del quarto stile pompeiano, vi sono affreschi che raffigurano elementi architettonici in prospettiva e natura morta. Inoltre venne alla luce un piccolo scrigno contenete 1036 monete di bronzo e 41 d’argento, a cui si sommano altre 93 monete di bronzo trovate vicino alla porta di ingresso del mercato, con molta probabilità doveva essere l’incasso delle ultime settimane o dell’ultimo mese.

Il capitolium

Portato alla luce dagli archeologi nel 1816, il Capitolium (fig.7) era un tempio dedicato alla triade capitolina, ossia le tre divinità di Giove, Giunone e Minerva.

Fig. 7: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19312318

Durante gli scavi si notò che il tempio era sprovvisto di timpano (superficie triangolare racchiusa nella cornice del frontone) e tetto, probabilmente crollati a causa del sisma del 62 d.C.: proprio in questo luogo si ebbero molte vittime, cioè i soldati che erano di guardia al tempio e che furono schiacciati dall'improvviso crollo delle colonne del vestibolo (ambiente d’ingresso intermediario tra l’esterno e l’interno). Al tempio si accedeva attraverso una scalinata posta su due livelli; il primo era formato da due file di scalini che affiancavano una piattaforma su cui era posto l’altare. Alle estremità laterali troviamo due grandi plinti (qualsiasi struttura architettonica che abbia la funzione di basamento o di fondazione) che avevano la funzione di basamento per le due statue equestri, le quali non sono state ritrovate ma sappiamo per certo che fossero collocate in quel preciso punto grazie ad un rilievo marmoreo che Lucio Cecilio Giocondo aveva nella sua casa pompeiana. Dietro l’altare c’era un’ampia scalinata che conduceva al vestibolo e all'interno della cella in cui erano poste le tre statue di culto. Le offerte che venivano fatte dalla popolazione pompeiana erano custodite all'interno del podio sotto la cella, inoltre l’edificio del Capitolium era fiancheggiato da due archi di trionfo, uno per lato.

Il tempio della Fortuna Augusta

Il tempio della Fortuna Augusta (fig.8), non di grandi dimensioni come altri edifici presenti a Pompei, sorge all'estremità nord della via del Foro: l’edificio fu totalmente finanziato da Marco Tullio duumviro e nel 3 d.C. fu dedicato al culto dell’imperatore.

Fig. 8: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/08/Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG/1024px-Tempio_della_Fortuna_Augusta_%28Pompei%29_WLM_001.JPG

Sulla parte inferiore della scalinata che conduceva al tempio si trovava un altare all’aperto, mentre la parte superiore della scalinata era protetta da un’inferriata. Dal basamento partivano quattro eleganti colonne di stile corinzio, un pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti) poco profondo conduceva alla cella, in cui ancora oggi si è conservata parte dell’edicola centrale (piccola costruzione a forma di tempietto che veniva eretta per ornamento e per la protezione delle statue) e quattro nicchie laterali, in una di esse si trovava la statua di Augusto, venerato come padre della Patria, mentre il sacrario (ambiente vicino al tempio destinato alla custodia della suppellettile sacra) era completamente rivestito di marmo. A destra del tempio trovavano spazio i negozi e il portico del Foro; i pilastri del portico erano caratterizzati da semi-colonne addossate, mentre nella parte sinistra del tempio c'è l’inizio della Via degli Augustali, piena di negozi e case a due piani. Infine vi era un arco all'incrocio delle due strade costruito con molta probabilità per sorreggere la statua dell’imperatore Caligola.

La Casa del Fauno

Il viaggio nell'antica Pompei continua con la descrizione delle domus più famose e sfarzose. Agli inizi del II secolo a.C. infatti Pompei raggiunse il massimo splendore dal punto di vista economico, infatti grazie all'espansione del commercio verso il Mediterraneo orientale la città si arricchì molto in breve tempo e si costruirono numerosi edifici lussuosi. La casa più grande e lussuosa costruita in quel periodo è quella che noi oggi chiamiamo “la Casa del Fauno” (fig.9).

Fig. 9: https://www.pompeionline.net/edifici/regione-vi/pompei-casa-del-fauno-vi-12-2

La novità principale che portò l’edilizia dell’epoca fu l’impluvium, ovvero un atrio aperto con una piccola vasca centrale collegata con delle cisterne sottostanti che raccoglievano l’acqua piovana. Alla tipica casa sannitica con cortile centrale chiuso, il tablinum (sala principale), diverse camere da letto intorno al patio e dietro un orto con stalle, vennero aggiunti altri ambienti tipicamente greci; il giardino porticato o peristilio, triclini o sale per banchetti, zone per accogliere gli ospiti, ambienti in cui riposare o esedre, biblioteche e bagni riscaldati da un braciere, il tutto riccamente decorato con pitture e mosaici. Quando nel 1832 la casa fu scoperta durante gli scavi, di tutte queste caratteristiche la casa del Fauno ne rivelò solo alcuni, e successivamente fu ulteriormente danneggiata a causa dei bombardamenti inglesi e canadesi tra agosto e settembre del 1943. La ricostruzione della casa iniziò nel 1945 rimettendo al loro posto i frammenti pittorici recuperati e, grazie alle accurate descrizioni del XIX secolo, si poté ricostruire l’immagine di quella che era la casa più ricca di Pompei. Il palazzo occupava un'area di tremila metri quadrati, l’ingresso principale dava accesso al vestibolo decorato con padiglioni a rilievo mentre il pavimento era decorato con un mosaico. La fontana centrale dell’atrio era a forma di un piccolo fauno danzante, i pavimenti della stanze erano decorati con mosaici prodotti da un laboratorio ad Alessandria d’Egitto e raffiguravano scene amorose e i cibi che venivano offerti nella casa. Dal tablinum si passava in due giardini, in uno dei quali fu ritrovato il famoso mosaico dell’ultima battaglia tra Alessandro Magno e Dario III di Persia.

La Villa dei Misteri

La villa dei Misteri (fig.10) non poteva mancare in questo viaggio nell'antica Pompei. Essa sorge sopra una collina e fu scoperta nel 1909: inizialmente fu concepita come una dimora signorile ma dopo la crisi dovuta al terremoto del 62 d.C. fu parzialmente trasformata in una villa rustica destinata alla produzione del vino.

Fig. 10: https://www.sorrentopost.com/riapre-villa-dei-misteri-pompei/

La villa infatti mantenne parte delle stanze lussuose ad uso del proprietario mentre altri ambienti furono adibiti per i servi e per un vilicus, ovvero il gestore dell’attività agricola. Il vilicus della villa era Lucio Istacidio Zosimo, un liberto che fu incaricato anche del restauro della villa dopo il terremoto. La struttura della villa dei Misteri, essendo una villa extraurbana, aveva caratteristiche differenti rispetto a quelle urbane, infatti superato il vestibolo non si trovava l’atrio bensì un grande peristilio. Dal peristilio si aveva accesso nella stanza dove erano riposti gli attrezzi da lavoro e alla zona delle cucine. Vi erano spazi adibiti anche alla produzione di vino e olio. Dal lato meridionale del peristilio si accedeva all'atrio tuscanico intorno al quale era disposte le dipendenze padronali: il tablinum, l’oecus (ossia un'ampia stanza da soggiorno o da ricevimento decorata con affreschi) con accesso ad un atrio secondario che serviva da anticamera di alcuni bagni provvisti di sauna. La sala più famosa e importante è sicuramente era il triclino in cui erano presenti i dipinti dei Misteri in cui si esaltava il dio del vino Dioniso.

Viaggio nell'antica Pompei. Le terme stabiane

Costruite nel IV secolo a.C., le terme stabiane (fig.11) sono il più antico e più grande complesso termale presente a Pompei.

Fig. 11: https://www.romanoimpero.com/2018/09/terme-stabiane-pompei.html

Nel II secolo a.C., con i cambiamenti apportati nel tessuto urbano, anche le terme stabiane furono modernizzate assumendo il loro aspetto definitivo. Dopo l’80 a.C. furono istituite cariche politiche intente a sistemare la palestra, alla costruzione di alcuni porticati, alla creazione di una sauna riscaldata con i bracieri e di un destrictarium (il luogo in cui si eliminava l’olio dal corpo). Dopo il sisma del 62 d.C. i muri della palestra furono decorati con stucco policromo a rilievo con scene di atleti, lottatori e scene tipiche termali. In quel periodo inoltre fu costruita anche una piscina di acqua fredda e si unì il destrictarium alla sala dell’acqua calda. Le zone maschili e femminili erano separate in zone non comunicanti, gli spazi femminili non davano accesso alla palestra e, inoltre, gli ambienti erano decorati in maniera molto semplice a differenza di quello maschili che avevano ricchi e pregiati affreschi.

Il Lupanare

Nel viaggio nell'antica Pompei non poteva mancare la descrizione di uno dei luoghi più frequentati a Pompei, il lupanare (o bordello). L’edificio era composto da dieci stanze collocate su due piani, i letti erano attaccati alla parete ed erano fatti di pietra e i materassi erano imbottiti di paglia. Nella parte superiore delle porte erano presenti dipinti di scene erotiche che fungevano da catalogo per i clienti, mentre al piano superiore c’erano dei balconi da dove le prostitute richiamavano l’attenzione di potenziali clienti. La prostituzione era diffusa, sia quella maschile sia quella femminile, e non veniva praticata solo all'interno dei bordelli bensì anche nelle strade o in camere in affitto di taverne. In molte case di Pompei possiamo trovare rappresentazioni di falli o l’immagine di Priapo, dio del corteo di Dioniso, che pesa il suo membro sulla bilancia; questo tipo di raffigurazioni era un simbolo di abbondanza, prosperità e fertilità non solo per gli uomini ma anche per i campi.

Il tempio di Iside

Ritrovato tra il 1764 e il 1766, il tempio di Iside fu l’unico ad essere totalmente restaurato dopo il sisma del 62 d.C. e prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (fig. 12)

Fig. 12: Di Mentnafunangann - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18184986

Le decorazioni erano particolarmente sfarzose, vi erano cinque grandi pannelli di cui tre rappresentavano scene egizie mentre gli altri due riproducevano storie del mito di Io. All'ingresso dell’ecclesiasterium (luogo di incontro per l’assemblea popolare) furono ritrovati resti di un acrolito (un tipo di statua in cui parte era fatta in pietra o marmo (soprattutto testa, braccia, mani o piedi) e la restante parte era realizzata con materiali deperibili -legno) femminile della dea Iside seduta in trono. Nell'angolo sud orientale del recinto si trovava il sacellum dedicato a cerimonie di purificazione e un purgatorium (locale destinato alla purificazione con una vasca contenente l’acqua del Nilo). All'interno della cella del tempio furono ritrovati due bauli in legno che contenevano una coppa in oro, un vasetto di vetro, una statuetta, due candelabri di bronzo e due teschi umani.

Viaggio nell'antica Pompei. Il teatro grande

Il teatro principale di Pompei (fig.13), di ispirazione greca, fu costruito intorno al III secolo a. C. su un pendio naturale accanto ad una delle aree più sacre e antiche della città, e venne ampliato durante il periodo augusteo così che il teatro potesse contenere più di 5000 persone.

Fig. 13: Di Sylvhem - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15107307

La particolarità della struttura era che, nonostante fosse di stampo ellenico, presentava l’orchestra a forma circolare, ovvero tipica del modello romano. Dopo il rinnovamento della struttura, le opere drammatiche classiche vennero raramente riprodotte, si offriva al pubblico invece opere di argomento più leggero come mimi, pantomime e atellane, opere in cui si cercava l’intrattenimento della platea con scene grottesche e cruenti accompagnate da effetti scenici. L’edificio, oltre ad essere utilizzato come un teatro, veniva usato anche per radunare la popolazione al fine di mostrare i valori della famiglia imperiale e incentivare la partecipazione alla vita politica.

Porta Ercolano

Il viaggio nell'antica Pompei termina con una delle più importanti e trafficate porte a Pompei, la Porta Ercolano, che conduceva da Pompei ad Ercolano ma anche alle vicine saline di Pompei. Fu totalmente ricostruita durante il periodo augusteo, infatti accanto alla porta possiamo ancora oggi vedere i resti dell’antica cinta muraria della città. Il fornice centrale era riservato per il passaggio dei carri mentre i due laterali erano riservati ai pedoni. Nei pressi della porta si trovavano numerosi punti di ristoro, dove i viaggiatori potevano riposarsi prima di raggiungere il foro. Da queste strutture possiamo certamente dedurre come lungo la via dovesse esserci un traffico molto intenso di carri e animali da soma. (fig. 14)

Fig. 14: https://www.planetpompeii.com/it/map/porta-ercolano.html

In questo viaggio nell'antica Pompei si è cercato di dare un'immagine della città, ma tanto ancora c'è da raccontare.

SITOGRAFIA:

  • www.capitolium.it
  • www.ecampania.it
  • www.hippostcard.com
  • ilmattino.it
  • madeinpompei.it
  • pompeiinpictures.it
  • planetpompei.net
  • prolocopompei.net
  • romanoimpero.com
  • scavidipompei.net
  • viaggi.globalpix.net

BIBLIOGRAFIA:

  • VV, LE GRANDI AVVENTURE DELL’ARCHEOLOGIA, Volume 11, Roma, 1980
  • VV, NATIONAL GEOGRAPHIC Archeologia, POMPEI, Segrate (MI), 2018
  • ANGELA, VIAGGIO NELLA STORIA, Pompei lo scrigno del tempo, Pioltello (MI), 2015
  • CARPICECI, POMPEI oggi e com’era 2000 anni fa, Sesto Fiorentino (FI), 2009

VILLA FARNESE A CAPRAROLA: SFARZO E POTERE

A cura di Maria Anna Chiatti

Una considerazione sociale

Palazzo Farnese (o Villa Farnese) sorge a Caprarola, paese della Tuscia Viterbese sulle pendici dei Monti Cimini. Con la sua mole di matrice militare e con il distendersi dei suoi giardini, la villa rappresenta uno dei più significativi exempla di residenza concepita nel e per il territorio; ubicata lontana da Roma e predisposta ad interpretare il processo di rifeudalizzazione verso cui si avviarono i territori del centro Italia nel XVII secolo, quest’opera si dà come la più impegnativa avventura architettonica portata a termine nella maturità di Jacopo Barozzi, detto il Vignola (1507 - 1573).

Cenni storici su villa Farnese a Caprarola

L’acquisizione del feudo di Caprarola avvenne nel 1504 per volere del cardinale Alessandro Farnese senior (1468 - 1549) dalla famiglia Riario, e fu seguita nel 1521 da una bolla di papa Leone X Medici (1475-1521) che dichiarava Pier Luigi Farnese (1503-1547), Ranuccio (1509-1529) e tutti i loro eredi vicari generali con pieni poteri su quella terra e i suoi abitanti. La necessità di fortificare il possedimento indusse i Farnese ad affidare il progetto a Baldassarre Peruzzi (1481-1536) e Antonio da Sangallo il Giovane (1455-1534) [1]. Dai loro disegni, ritrovati nel Gabinetto Stampe e Disegni degli Uffizi, si evince che il palazzo sarebbe dovuto essere di forma pentagonale, recintato e con una corte interna circolare: una vera e propria fortezza.

L’elezione al soglio pontificio di Alessandro Farnese senior come Paolo III, nel 1534 comportò una lunga interruzione dei lavori.

Solo nel giugno 1556, in seguito al compimento dei lavori del grandioso palazzo a Roma, il cardinale Alessandro junior, uomo di grande cultura, raffinato ed elegante principe della Chiesa, diede impulso al proseguimento della fabbrica di Caprarola, chiamando a dirigere i lavori il Vignola, che succedette ad Antonio da Sangallo il Giovane, mentre gli affreschi delle varie sale furono affidati a Taddeo Zuccari (1529 - 1566) e a suo fratello Federico (1539-1609), licenziato nel 1569 a seguito di contrasti sorti con il committente. Altri artisti che vi lavorarono furono Jacopo Zanguidi detto il Bertoja (1544-1574), Giovanni De Vecchi (1536 - 1614), Raffaellino da Reggio (1550-1578) e Antonio Tempesta (1555 - 1630). I soggetti adottati per la realizzazione dei cicli pittorici furono ideati da Annibal Caro (1507-1566), letterato di fama, nonché segretario del Farnese.

L’impresa dei lavori fu tale che nel 1575 fu coniata una medaglia commemorativa per il completamento del palazzo.

Struttura di villa Farnese a Caprarola

Con la sua mole, collocata alla sommità del colle, con la corte circolare e la caratteristica scala a lumaca, la villa - fortezza domina il paesaggio circostante e si arrocca nel territorio come elemento prevalente, simbolo del potere e della magnificenza della famiglia ducale. Queste caratteristiche vengono ben rappresentate sia dall'apparato architettonico, sia da quello paesistico - urbano, trovando nell'asse viario e nella decorazione interna l’enfatizzazione degli ideali dell’epoca, con una visione tuttavia intimamente legata alle indicazioni della committenza e alle scelte architettoniche del Vignola. Questi, infatti, progettò di tralasciare l’aspetto militare della costruzione in favore di un vero e proprio palazzo, variandone il programma architettonico secondo le mutate esigenze del tempo e le accresciute fortune di casa Farnese (fig. 1). Al Barozzi si deve la fusione unitaria degli elementi concepiti in precedenza in un unico complesso monumentale, gli ambienti articolati e riccamente decorati, ma anche la progettazione dei giardini e dell’unificazione tra il paese e il palazzo tramite la strada d’accesso e numerosi edifici del borgo, ottenuti dallo sventramento del centro storico [2] (fig. 2).

L’architettura del palazzo non può quindi essere scissa dal contesto urbano e territoriale che si connota in maniera univoca, frutto di studiate scelte urbanistiche e di un impianto viario, compiuti contemporaneamente all'edificazione della residenza.

Di particolare interesse urbanistico è il raccordo tra il paese e villa Farnese mediante le rampe ovali e la loggia rustica (costruita tra il 1566 e il 1569), secondo un percorso prospettico - scenografico che conferma l’intervento di ristrutturazione dell’intero paese ad opera dello stesso Vignola. A lui vanno riconosciuti poi il Casino del “Barco” (detto anche Palazzina del Piacere), che conclude il giardino superiore, e la Palazzina da caccia, posta a valle del paese - oggi in stato di semi abbandono. All'interno del ciclopico progetto gioca (ovviamente) un ruolo fondamentale nel territorio la macchina rappresentativa voluta dai Farnese.

I giardini superiori e la Palazzina del Piacere, commissionati dal cardinale Alessandro e portati a termine sotto la guida del nipote Odoardo (1573 - 1626), mostrano uno stile diverso e autonomo rispetto al progetto del Vignola; Giovanni Baglione nelle sue Vite [3] afferma già nel 1642 che siano opera dell’architetto e scultore siciliano Giacomo del Duca (1520 - 1604), così come pure la Catena dei Delfini. A Gerolamo Rainaldi (1570 - 1655) sono attribuiti il ripiano delle Cariatidi (a cui collaborò Bernini per la parte scultorea) e la scala di accesso nella configurazione attuale, aggiungendo i padiglioni rustici all'inizio della Catena dei Delfini (fig. 3).

Fig. 3 - credits: http://www.caprarola.com/

Gli spazi di villa Farnese a Caprarola sono distribuiti su vari livelli: il piano interrato, al quale si accede dalla grande piazza antistante, accoglieva le carrozze. Su questo livello erano disposte anche le cucine, i magazzini e i servizi necessari alla servitù. Immediatamente sopra il piano rialzato, detto dei Prelati (a cui si accede dalla scala interna o da quella esterna, sopra l'ingresso dell’interrato), ospita già alcune delle stanze affrescate da Taddeo e Federico Zuccari, come le Stanze delle Quattro Stagioni e la Stanza delle Guardie. Attraverso questi ambienti si raggiunge il cortile circolare, composto da due caratteristici porticati sovrapposti, le cui volte conservano ancora gli affreschi di Antonio Tempesta. Il livello superiore, o piano nobile, è diviso in due appartamenti: quello dell'estate (esposto a nord) affrescato dai fratelli Zuccari, e quello dell'inverno (esposto a ovest), decorato dal Bertoja, da Raffaellino da Reggio e da Giovanni De Vecchi. Proprio su questo piano si trova la camera da letto del cardinale Alessandro, detta anche Camera dell'Aurora, e la Stanza dei Fasti Farnesiani, che narra negli affreschi la storia della famiglia fin dai suoi antenati. Sullo stesso livello si trova l'Anticamera del Concilio, dove la decorazione celebra le gesta di papa Paolo III e la convocazione del Concilio di Trento. Perfetta e funzionale è la disposizione degli ambienti, sia privati che di rappresentanza: le sale maggiori sono disposte nel lato della facciata (fig. 4) e nei due lati adiacenti, mentre le stanze private si trovano nei lati opposti alla facciata. Inoltre, pur essendo tutti comunicanti, gli ambienti sono resi indipendenti da porte che affacciano sul porticato o sul loggiato del cortile.

Fig. 4

Un prezioso elemento che caratterizza l’interno del pentagono è la Scala Regia (fig. 5), o scala elicoidale, che dal pianterreno conduce al piano nobile: una spirale di squisita armonia, scandita dalla sequenza ritmica delle colonne doriche binate alle quali corrispondono due lesene sulle pareti opposte. Sopra le colonne corre il fregio con le metope recanti il giglio Farnese. La salita al piano nobile si conclude con una cupola decorata ad affresco. La particolarità della Scala Regia non è tanto la forma, ispirata a quella della scala del Bramante in Vaticano, quanto la sua collocazione interna alle mura, anziché all'aperto.

Fig. 5 - credits: http://www.caprarola.com/

Organizzazione degli spazi di villa Farnese a Caprarola

Di grande interesse è l’organizzazione degli spazi interni al palazzo, disposti secondo suddivisioni di classe tra funzioni di rappresentanza e tutto ciò che era a disposizione delle persone comuni, in ambienti nascosti alla vista (cantine, cucine, tinelli, forni), occultati nel sottosuolo, scavati nel tufo e riservati al personale subalterno, diversamente alloggiato in luoghi tipo caserme, distribuiti sui cinque lati del pentagono e disimpegnati da lunghi corridoi, oppure sulla terrazza sovrastante il cortile circolare; altrove erano poi collocate le stalle, i magazzini e gli alloggi degli stallieri.

Ambienti nei quali conduceva la propria esistenza un popolo di dipendenti, la cui vita si svolgeva al di fuori di quella dei padroni e relativi ospiti, senza possibilità di incontri, mediante strette scale di servizio a chiocciola, ricavate nello spessore delle murature, che conducono a tutti i livelli del palazzo; in un clima rigorosamente classista e discriminatorio che ricorda un poco le deviazioni sociali del tempo dell’imperatore Adriano e della sua villa.

Contrastano con questa mancanza di luce gli spazi padronali, dilatati nelle parti riservate alla rappresentanza che trovano ubicazione sul lato della facciata, ma anche negli ambienti ad uso privato, nei due grandi appartamenti simmetrici dell’Estate e dell’Inverno. In questa stessa chiave celebrativa, i percorsi di rappresentanza erano rigorosamente calcolati in modo da sottolineare i fasti della reggia farnesiana e l’alto rango degli ospiti, con tutta una serie di implicazioni psicologiche che avevano inizio dall'arrivo a palazzo. Le carrozze infatti depositavano gli ospiti al livello interrato, alla scala elicoidale; da qui iniziava un percorso in salita volto a innalzare il visitatore fino alla loggia, che annunciava il piano nobile con tutti i suoi meravigliosi affreschi.

Rivedendo il palazzo in questo tipo di ottica, tutte le rampe, le scale, i piazzali che separano la villa dal paese segnano il divario che intercorreva tra il signore del feudo e tutti gli altri. La stessa strada rettilinea costruita dal Vignola, per la realizzazione della quale il borgo fu sventrato, costituisce un lungo asse di sorveglianza della proprietà terriera, espressione della potenza di casa Farnese.

Il percorso del palazzo ci offre così un’idea visiva della reggia farnesiana (perché di dimora sovrana si tratta), oltre a darci l’opportunità di conoscere il gusto del manierismo maturo di fine secolo, nel quale confluiscono, insieme alla eredità classica e umanistica, fermenti nuovi, segnali post michelangioleschi, premonitori del vento barocco.

Tuttavia, una considerazione di tipo sociale si rende a questo punto necessaria. Accanto alla innegabile bellezza di villa Farnese a Caprarola, dei suoi affreschi, dei suoi giardini all'italiana e delle sue sculture, riusciamo a vedere la bellezza di quella schiera di persone nascoste? Cuochi, camerieri, giardinieri, attendenti, cocchieri, lavandaie, stallieri, riescono a far parte della nostra immaginazione visiva come il cardinale e i suoi ospiti?

Sarebbe molto bello se la ricostruzione storico - artistica del patrimonio culturale desse finalmente visibilità anche a coloro che, nell'ombra, hanno permesso con la loro invisibilità il potere altrui.

 

 

Note

[1] Antonio Cordini o Cordiani, nacque a Firenze da Bartolomeo di Antonio di Meo e Smeralda Giamberti, sorella degli architetti Giuliano e Antonio (il Vecchio), detti da Sangallo dalla contrada fiorentina in cui abitavano.

[2] Per approfondimenti si rimanda a Faldi I. (a cura di), Il Palazzo Farnese di Caprarola, Seat, Torino 1981.

[3] Baglione G., Le Vite de’ pittori, scultori, architetti dal 1572 al 1624, Roma 1642, p. 55.

 

Bibliografia

Baglione G., Le Vite de’ pittori, scultori, architetti dal 1572 al 1624, Roma 1642

Faldi I. (a cura di), Il Palazzo Farnese di Caprarola, Seat, Torino 1981

Hoffman P., Le Ville di Roma e dei dintorni, Newton Compton Editori, Roma 2017

Rosini P., Il palazzo Farnese di Caprarola. Il luogo ameno del Gran Cardinale Alessandro Farnese, Banca Dati “Nuovo Rinascimento” 2015

 

Crediti Fotografici

Le figg. 2, 3 e 5 sono state reperite sul sito http://www.caprarola.com/ (ultima consultazione 01/07/2020)


LA BIBLIOTECA MALATESTIANA DI CESENA

A cura di Jacopo Zamagni
1. Facciata esterna della Biblioteca Malatestiana.

La Biblioteca Malatestiana di Cesena è situata nel centro storico della città e rappresenta l’unico esempio al mondo di Biblioteca monastica rinascimentale perfettamente conservata, ricca di codici pregiati e di un numero rilevante di manoscritti di sommo valore storico e letterario. In Italia la Biblioteca Malatestiana è stata la prima ad essere inserita dall’Unesco nel registro della Memoire du Monde.

Personaggio fondamentale nella storia della Biblioteca Malatestiana è Malatesta Domenico detto Novello (1418-1465), signore di Cesena e mecenate d’arte. Oltre a Malatesta Novello, ebbero un ruolo fondamentale anche i Frati Minori osservanti di S. Francesco, i quali chiesero al Papa di poter detrarre da un lascito di beneficenza la somma necessaria per costruire un’ampia libreria.

La costruzione della libreria ebbe inizio presumibilmente nel 1450 e la sua ultimazione avvenne nel 1454 ad opera dell’architetto marchigiano Matteo Nuti, già attivo nelle fabbriche malatestiane di Cesena dal 1448. Malatesta Novello andò ben oltre il ruolo di mecenate d’arte, poiché affidò la gestione della Biblioteca al Comune, che ne garantì l’utilizzazione e la conservazione. A proposito di ciò è interessante ricordare che una bolla papale del 1466 minacciava di scomunica chiunque avesse sottratto volumi alla biblioteca, cosa che servì a mantenere integra la Biblioteca. Il 20 novembre 1465 Malatesta Novello morì e redasse un testamento in cui lasciò 100 scudi annui ai Frati Minori “affinché essi provvedano al suo ampliamento, e trenta scudi per un lettore”. Nel 1474 Giovanni di Marco, medico di Novello, donò alla biblioteca 119 codici in gran parte sulla medicina e di altre discipline.

L’edificio della Biblioteca Malatestiana è suddiviso in due piani; al piano terra si trova la sezione moderna della biblioteca comunale che è stata inaugurata nel 1983. Ulteriori lavori di ampliamento e sistemazione sono tuttora in corso. Dal piano terra si sale al corridoio superiore del primo piano passando per lo scalone dove sono collocati vari reperti lapidei (stemmi, epigrafi) di varia provenienza.

6. Stemmi vari di famiglie gentilizie cesenati.

Attraversando il corridoio superiore si giunge davanti alla porta d’ingresso della Biblioteca che reca incisa nella cornice superiore la data “15 agosto 1454”, che presumibilmente costituisce la data di apertura della Biblioteca e il nome dell’artigiano che intagliò l’iscrizione, Cristoforo da San Giovanni in Persiceto.

La porta è suddivisa in 48 riquadri che contengono, nella fila superiore, gli stemmi malatestiani dello steccato, delle tre teste e della scacchiera, mentre nel resto dei riquadri sono raffigurate decorazioni a motivi geometrici e rose a quattro petali, simbolo dei Malatesta.

9. Riquadri intagliati del portale d’ingresso alla Malatestiana.

Sopra la porta è collocato un elefante indiano, che occupa quasi interamente il timpano, con un’iscrizione in latino: «Elephas indus culices non timet», (L’elefante indiano non teme le zanzare).

10. Timpano con elefante indiano.

Sopra la porta si trova un’altra iscrizione che recita: «Malatesta Novellus Pandulphi filiu Malatestae nepos dedit».

11. Iscrizione sopra la porta.

Insieme all'iscrizione è presente un’altra scultura raffigurante l’elefante, la quale si reputa che sia stata scolpita da Agostino di Duccio che all'epoca lavorava nel Tempio Malatestiano a Rimini. Infine a destra è posta l’epigrafe a lode e testimonianza dell’opera dell’architetto Matteo Nuti: «Matheus Nutius Fanensi ex Urbe creatus Dedalus alter opus tantum deduxit ad unguen».

Aula della Biblioteca Malatestiana

Varcata la porta si accede all'aula della Biblioteca Malatestiana, a pianta rettangolare e divisa in tre navate da venti colonne in pietra di Montecodruzzo, dieci per parte, mentre il pavimento si presenta completamente sgombro.

14. Sala della Biblioteca Malatestiana.

La lunga navate centrale presenta una volta a botte, mentre le undici campate delle navate laterali hanno volte a crociera impostate su semicolonne in laterizio.

I capitelli recano i diversi simboli malatestiani, la rosa a quattro petali che è l’arma scelta dai Malatesta a metà del Trecento per potersi attribuire la discendenza dalla famiglia romana degli Scipioni, le tre teste che suggeriscono il significato di male teste, le tre bande a scacchi e lo steccato militare con aste di tre colori, bianco, rosso e verde su un campo bianco, simbolo della forza di Malatesta Novello.

19. Capitello del colonnato della Biblioteca.

La luce entra attraverso ventidue finestrelle, in stile veneziano, collocate alle pareti laterali dipinte di intonaco verde e attraverso il rosone posto sulla parete in fondo, sotto cui è murata la lapide funeraria di Novello Malatesta, le cui ceneri furono qui spostate nel 1812. All'interno di ogni campata è inserita sul pavimento una targa marmorea che testimonia il dono di Malatesta Novello alla sua città.

All'interno dell’aula si trovano 58 banchi o “plutei”, in legno di pino, disposti nelle due navate laterali. Ogni banco fu costruito sia per contenere volumi, sia come sedile per i lettori che ci poggiavano i libri come fosse un leggio. Sui fianchi di ogni banco, rivolti verso il corridoio centrale, si trova lo stemma malatestiano delle tre teste, invece nell'ultimo banco della fila di destra è incisa la firma di un certo Francesco Fatioli di Ancona, un antico visitatore che visitò la Biblioteca Malatestiana nel 1467 pochi anni dopo l’apertura al pubblico.

I volumi posti all'interno dei banchi furono legati con delle catenelle in ferro battuto per evitare che venissero rubati oppure ritirati per essere letti e mai più restituiti. La maggioranza delle catenelle risale al XV secolo e formata da piccole “ghiande”, mentre le catenelle più recenti sono ad anelli intrecciati. I volumi della Biblioteca Malatestiana sono 343, scritti a mano e in maggioranza vergati su pergamena, cioè su pelle di pecora, capra o agnello, trattata in modo da poter accogliere la scrittura ad inchiostro. La maggior parte di questi volumi è scritta in latino, mentre 14 codici sono scritti in lingua greca, 7 in ebraico e un solo volume in italiano. Dal punto di vista della datazione, il manoscritto più antico risale all'inizio del IX secolo, numerosi libri risalgono al Due-Trecento ed infine un gruppo di 126 codici fu scritto a metà Quattrocento da copisti italiani e stranieri al servizio di Malatesta Novello. All'inizio e alla fine di ogni volume venivano poste, durante la rilegatura, alcune carte bianche per proteggere il primo e l’ultimo foglio scritto; in queste pagine bianche si trovano tutt'oggi annotazioni, disegni, preghiere o versi di poesie scritte da chi comprava il libro oppure da chi lo leggeva.

All'interno dell’aula della Biblioteca si trovano testimonianze di altri visitatori che hanno lasciato la loro firma intagliata sull'intonaco verde delle pareti.

28. Firme sull'intonaco di alcuni visitatori della Biblioteca.

Biblioteca Piana

Di fronte all'aula della Biblioteca Malatestiana si trova la Biblioteca Piana, il cui nome deriva da Papa Pio VII, al secolo Gregorio Barnaba Chiaramonti (Cesena 1742 – Roma 1823). Al suo interno sono conservati 5500 volumi a stampa dei secoli XV-XIX, una sessantina di codici e vari manoscritti che testimoniano gli interessi del pontefice per le belle arti, l’antiquaria e la numismatica che gli valsero l’appellativo di “papa archeologo”.

29. Sala della Biblioteca Piana.

Nel 1821 il papa lasciò la sua biblioteca in uso ai benedettini di Cesena e la raccolta libraria fu custodita dai monaci nell'abbazia di Santa Maria del Monte fino al 1866 quando lo Stato italiano, in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose, la trasferì nelle mani del Comune. Dal 1941 la Biblioteca Piana è in deposito a tempo indeterminato al Comune di Cesena e oggi si conserva nel salone di fronte alla Biblioteca Malatestiana.

Nella Biblioteca Piana sono esposte due serie di corali, una commissionata dal cardinale Bessarione a metà del Quattrocento e composta da otto corali, l’altra commissionata dal vescovo di Cesena Giovanni Venturelli alla fine del XV secolo e composta da 8 corali.

30. Libri della Biblioteca Piana.

In una vetrina della sala sono esposti cinque libri di piccolo formato, tra cui il “libro più piccolo del mondo leggibile senza lente”. Il libro misura 15 x 9 mm, stampato nel 1897 dalla casa editrice dei fratelli Salmin e contiene al suo interno una lettera di Galileo Galilei all'indirizzo della Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, nella quale lo scienziato dà conto delle sue scoperte scientifiche.

31. Cinque libri di piccolo formato, al centro il libro più piccolo del mondo.

La Biblioteca Piana contiene una sessantina di manoscritti medievali che vanno dall’XI al XV secolo, esposti nelle vetrine in ordine cronologico in modo tale da costruire una specie di “storia della scrittura”; si può infatti osservare l’evoluzione della scrittura dalle forme in uso dopo il Mille fino alla scrittura inventata e diffusa dagli umanisti nel Quattrocento.

Oltre ai manoscritti, nella Biblioteca Piana si trova la Mazza, uno stemma in argento donato a Cesena da Pio VI (Giannangelo Braschi) nel 1790 per sostituire la mancata elezione di Cesena a capo del Dipartimento del Rubicone.

36. Mazza papale.

 

Bibliografia

ANGELA FABBRI, Cesena e i suoi dintorni, guida turistica – storica – artistica, Cassa Rurale ed Artigiana – Cesena, Imola, 1981, pp. 52-81.

A cura di PIERO LUCCHI, Corali Miniati del Quattrocento nella Biblioteca Malatestiana, Fabbri Editore, Sonzogno, 1989.

RICCARDO DOMENICHINI, ANTONELLA MENGHI, ALBERTO SEVERI, Cesena, Maggioli Editore, Rimini, 1991, pp. 53-60.

A cura di FABRIZIO LOLLINI e PIERO LUCCHI, Libraria Domini, I manoscritti della Biblioteca Malatestiana: testi e decorazioni, Grafis Edizioni, Bologna, 1995.

PAOLA ERRANI, MORENA VANZOLINI, La biblioteca Malatestiana di Cesena, Collana delle perle volume 1, Tipo-lito Wafra, Cesena, 2009.

 

Sitografia

http://www.comune.cesena.fc.it/malatestiana


STORIA DEGLI STUDI SU POMPEI

A cura di Marco Roversi

Le principali tappe della storia degli studi di uno dei parchi archeologici più affascinanti d’Italia

“Come potranno i posteri credere, quando le messi rispunteranno e questi deserti di nuovo rinverdiranno, che sotto i loro piedi sono sepolte città e popoli, e che i loro antenati sono scomparsi sotto un mare di fuoco?”

Correva l’anno 94 d.C. e così scriveva Publio Plinio Stazio, poeta di Età Flavia, a soli tre lustri dalla terribile eruzione del Vesuvio che nel 79 sconvolse la Piana Campana e sottrasse alla vista dei pochi sopravvissuti le due ricche città di Pompei ed Ercolano. Ove prima si estendevano campi verdi e rigogliosi, lussureggianti e ricchi vigneti e le città pullulavano e riecheggiavano di vita, dopo quella catastrofe ci si sarebbe trovati innanzi ad un paesaggio spettrale, vuoto, quasi lunare, privo di vita e avvolto da un importuno silenzio. E ciò che accadde in quel triste giorno di agosto non venne mai dimenticato, al punto che il ricordo delle due città vesuviane non scomparve mai, tramandato nel lento scorrere dei secoli sino all'Età Moderna, allorquando, con i primi scavi archeologici nell'area, la città di Pompei e le sue antiche vestigia tornarono a rivivere e a risorgere dalle loro ceneri innanzi agli occhi dei primi moderni esploratori e amanti delle passate antichità.

Fig. 1 - Mappa degli scavi del 1832.

La ferita causata dalla totale scomparsa della città e dalla morte di migliaia di persone rimase fresca a lungo già in antico, fatto che portò ad alcuni primissimi tentativi di riportare in luce i centri sepolti dalle ceneri chiroplastiche del Vesuvio. Il più antico intervento di scavo che interessò l’area dell’antica Pompei risale, infatti, al regno di Alessandro Severo, imperatore appartenente alla Dinastia dei Severi e in carica tra il 222 e il 235 d.C. Tuttavia, tale intervento di recupero non ebbe buon esito a causa dell’elevato e profondo spessore delle coltri di cenere e dei lapilli e dalla vegetazione sempre più fitta e rigogliosa. Nonostante ciò quella di Pompei fu, già per gli antichi, una tragedia da non dimenticare, destinata a riecheggiare nei secoli una volta affidata ai versi e alle nobili parole di oratori, scrittori e poeti. Ed il suo mito mai si fermò, pur affievolendosi nel corso della millenaria Età Medievale.

Le prime fortuite scoperte: Domenico Fontana

Fu così che all'alba del ‘500 il nome di Pompei tornò nuovamente ad affascinare le menti di letterati ed artisti, primo tra i quali il poeta napoletano Jacopo Sannazzaro (1458-1530), il quale ridestò la curiosità di molti suoi contemporanei immaginando nella sua Arcadia la riscoperta dell’antica città vesuviana, della quale si era oramai persa del tutto l’esatta locazione topografica. Il Sannazzaro la collocava idealmente nei pressi della località di Civita, nell'area di Torre Annunziata. Da quel momento in poi molti furono i tentativi di riportare in superficie ciò che rimaneva di quel lontano passato, ma furono tutti tentativi inutili e vanificati da erronee, grossolane e frettolose conclusioni. Le prime autentiche scoperte si verificarono, invece, per paradosso, in modo del tutto casuale. Nel 1592 l’architetto svizzero Domenico Fontana (1543-1607), in occasione di alcuni lavori di canalizzazione delle acque del fiume Sarno, presso Torre Annunziata, si imbattè, dopo aver divelto e tagliato le mura di alcuni edifici in situ, in un’iscrizione latina recante una dedica alla Venus Phisica Pompeiana. Dai terreni cinerei di Pompei cominciarono ad affiorare anche altri tesori, quali monete d’oro, lapidi ed altre iscrizioni su muri tinteggiati di un vivido color rosso accesso, a loro volta accompagnati dalle ricche pavimentazioni in lastre marmoree e a mosaico. Informato di queste sensazionali scoperte, fu lo stesso Fontana, per primo, a calarsi in un pozzo e a passeggiare, primo uomo dopo quasi un millennio e mezzo, tra le strade morte di un quartiere di Pompei, con visioni straordinarie che solo lui potè godere. Quasi un secolo più tardi, nel 1689, un contadino del posto, intento nello scavo di un pozzo alle falde del Vesuvio, fu anch'egli scopritore di altre antichità pompeiane, specie di numerose epigrafi, tra le quali una menzionava esplicitamente il nome di “Pompeii”, seppure erroneamente ascritto ad una del tutto immaginifica villa di un tal “Pompeus” di cui si era architettonicamente persa ogni traccia.

Fig. 2 - Veduta dell’Anfiteatro in una stampa del 1823-1824.

Gli scavi di Alcubierre e Francisco De La Vega

La storia degli studi su Pompei prese una svolta fondamentale nemmeno 50 anni dopo quando, nel 1748, l’ingegnere Gioacchino Alcubierre (1702-1780), già scopritore nel 1735 della vicina Ercolano, ottenne da re Carlo III di Borbone l’autorizzazione allo scavo nell'area nei pressi di Civita, dopo che gli scavi di Ercolano erano giunti ad una temporanea fase di stasi. L’Alcubierre si interessò subito all'area di scavo, fermamente convinto che si trattasse del sito dell’antica Stabiae, ma ben presto venne smentito dai suoi stessi rinvenimenti, il più sensazionale dei quali lo portò ad ammirare i resti di un antico edificio di spettacolo, da lui subito ribattezzato “Teatro Stabiano”, pur ignorando che quello che aveva scoperto e portato alla luce dopo migliaia di anni era in realtà il monumentale Anfiteatro di Pompei. Al di là della grande eco generatasi dopo queste prime grandi scoperte, quelli dell’Alcubierre furono scavi tutt'altro che sistematici, in quanto il vero intento delle ricerche era quello di trovare antichità ed oggetti preziosi che potessero arricchire e affollare le vetrine del Museo di Portici. Successivamente gli scavi vennero sospesi, in seguito alla scoperta ad Ercolano della ben nota Villa dei Papiri. Ripresero nel 1754, e nemmeno un anno dopo fu scoperta la Villa di Giulia Felice, un treppiede sorretto da satiri in bronzo, e nel 1763 fu portata in luce la Porta Ercolano ed una nuova epigrafe.

Fig. 3 - La scoperta di Via dell’Abbondanza.

Nel 1780 l’ingegnere Francisco de la Vega sostituì l’Alcubierre nell'esplorazione di Pompei, e per primo ne migliorò la pianificazione dei lavori e delle fasi di scavo, nonché le tecniche di conservazione di ciò che era già stato precedentemente portato alla luce. Con l’arrivo delle truppe francesi e l’insediarsi di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, le operazioni di scavo non si fermarono, ma continuarono con eccezionali risultati, specie nell'area del Foro Civile, portato alla luce tra il 1806 e il 1815 attraverso il prolungamento degli scavi aperti in precedenza: vennero, infatti, alla luce la “Basilica”, l’area del Foro, il tratto di strada tra la Villa di Diomede e la Casa di Sallustio e le case dette del Poeta e del Fauno.

La storia degli studi su Pompei e il Grand Tour

Con il ritorno del dominio borbonico i nuovi scavi portarono in superficie ciò che rimaneva del monumentale Tempio della Fortuna e delle Terme del Foro e fu in quegli anni che Pompei diventò una sorta di “museo a cielo aperto”, attirando a sé moltissimi visitatori. Sino alla metà del XIX secolo, infatti, il viaggio sino a Ercolano, Stabia e Pompei era quasi un’avventura epica, sentita con grande entusiasmo da curiosi e visitatori provenienti da tutta Europa. Il viaggio a Pompei offriva diverse attrattive ai numerosi viaggiatori europei che percorrevano l’Italia intera, da nord a sud, nel loro Grand Tour, un percorso turistico educativo che li portava a visitare siti e città di assoluta e straordinaria importanza storica, culturale, ma anche naturale e paesaggistica. E Pompei rispondeva alla perfezione a tali esigenze: da un lato mostrava le rovine di un’antichissima città romana sospesa nel tempo a causa di una catastrofe naturale, emozionante per l’animo romantico dei visitatori, che meditavano sulla fragilità della vita e sui capricci del fato; dall'altro, la vicinanza dell’imponente Vesuvio, allora fumante, permetteva di addentrarsi nei misteri della vulcanologia. Ma a recarsi a Pompei non erano solo i rampolli delle ricche famiglie aristocratiche di tutta Europa, ma anche le personalità del mondo accademico o politico del tempo, visite preparate con cura affinché risultassero particolarmente spettacolari e sorprendenti. A tal scopo si preparavano persino delle scoperte archeologiche, che dovevano sembrare fortuite agli occhi di chi le ammirava estasiato, e si disseppellivano, così, come per caso, scheletri di vittime dell’eruzione per sorprendere, ma anche commuovere, gli astanti. Il fascino che Pompei emanava era talmente unico e straordinario che frequenti furono le richieste per visitare le rovine al chiaro di luna o addirittura per fare dei pic-nic tra le sue immortali vestigia. Tra i moltissimi visitatori che rimasero profondamente colpiti da Pompei e dalla sua bellezza ci fu anche il poeta tedesco J.W.Goethe (1749-1832), che la visitò già nel 1816, e che con molto cinismo nel suo Viaggio in Italia così scrisse: “Di tutte la catastrofi che si sono abbattute sul mondo, nessuna ha provocato tanta gioia alle generazioni future. Credo che sia difficile vedere qualcosa di più interessante”.

Fig. 4 - Vecchia fotografia ritraente la Via Stabiana.

Dal Regno d'Italia ad Amedeo Maiuri

Con la nascita del giovane Regno d’Italia la direzione degli scavi venne affidata, nel 1863, all'archeologo napoletano Giuseppe Fiorilli (1823-1896), il quale per primo introdusse delle innovazioni fondamentali nelle operazioni di scavo e nell'organizzazione del sito, stabilendo, infatti, un sistema di numerazione delle strade e delle case. Fu così il primo a dividere la città in regiones, ossia in quartieri, e in insulae, ossia in agglomerati di abitazioni. Inoltre introdusse un’altra eccezionale innovazione: facendo colare del gesso nei vuoti del terreno lasciati dai corpi consunti delle vittime, ottenne dei calchi in modo tale che le impronte dei corpi potessero così essere conservate nel tempo. I lavori del Fiorilli terminarono nel 1875, e a lui seguirono Michele Ruggiero e poi Giulio de Petrai, scavatori di alcuni sepolcreti nelle vicinanze della Casa dei Vettii, e ancora Antonio Sogliano e Vittorio Spinazzola, i quali perfezionarono le tecniche di recupero e di conservazione degli edifici portati in luce.

Nel 1924 la guida agli scavi del sito passò nelle mani di Amedeo Maiuri (1908-1955), il quale venne nominato direttore durante il governo fascista. Fu lui ad inaugurare lo scavo stratigrafico a Pompei, puntando ad individuare soprattutto le fasi più antiche dell’abitato, arrivando anche a restituire nella sua completezza il circuito murario della città e rinvenendo sul versante meridionale di Porta Nocera la più estesa area di necropoli oggi nota a Pompei. Sotto la sua direzione fu avviata una nuova, assai fitta e costante attività di scavo, volta a meglio esplorare i confini del sito e dell’area di scavo sino ad allora nota, connettendola così agli scavi già effettuati, a sgomberare la terra di riporto accumulata in molti punti e che ostruiva la visione del sito, ma anche a creare attrezzature per la fruibilità dell’area, come l’Antiquarium, le biglietterie, i giardini e gli impianti di illuminazione. Grande attenzione fu da lui riposta anche alla conservazione e al restauro delle strutture, prefissandosi, assieme all'allora soprintendente Alfonso de Franciscis, di conservare pressoché intatte quante più strutture possibili, sia nelle loro composizioni architettoniche, sia nelle loro ricche decorazioni parietali, ritenendo più urgente l’arresto del degrado (causato anche dai molti bombardamenti alleati che negli ultimi momenti della Seconda Guerra Mondiale  portarono alla distruzione di molte case e altre strutture). Alla fine dei suoi lavori, nel 1945, solo un terzo della città rimaneva non scavato.

Fig. 5 - L’archeologo e Direttore degli scavi Amedeo Maiuri.

Gli scavi scientificamente condotti continuarono sino ai giorni nostri, e continuano ancora oggi sotto la direzione di Massimo Osanna, professore ordinario di Archeologia Classica presso l’Università Federico II di Napoli. Negli ultimi 40 anni le novità in sito sono state molte, soprattutto in materia istituzionale, a partire dalla nascita della Soprintendenza Archeologica di Pompei decretata nel 1981 operando il distacco territoriale dei comuni vesuviani dal resto della provincia di Napoli e dal Museo Archeologico Nazionale, il quale, per volontà dei Borbone, era stato destinato ad accogliere, oltre alla collezione Farnese, anche le antichità provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Solo 16 anni più tardi un altro passo ulteriore: per preservarne l’integrità, nel 1997, le rovine, gestite dalla Soprintendenza di Pompei, insieme ai siti di Ercolano ed Oplonti, sono entrate a far parte della lista mondiale dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Recentemente, nel 2016, la Soprintendenza prende la nuova denominazione di Soprintendenza di Pompei, mentre l’anno successivo il DM 12 gennaio 2017 attribuisce alla Soprintendenza la nuova denominazione di Parco Archeologico di Pompei, a seguito dell’adeguamento agli standard internazionali in materia di istituiti e luoghi della cultura. Contestualmente anche il vicino sito di Ercolano fuoriesce dalla competenza di Pompei e diviene Parco Archeologico di Ercolano.

 

Bibliografia

- “Pompei” in Collana ARCHEOLOGIA National Geographic, testi a cura di Elena Castillo, traduzioni di Enrica Zaira Merlo, pubblicazione periodica quattordicinale, Editore RBA Italia s.r.l., Milano 7 marzo 2017.

- “Prima del Fuoco, Pompei storie di ogni giorno”, Mary Beard, traduzione di Tommaso Casini, Editore Laterza nelle “Economica Laterza”, Bari, luglio 2012.

 

Sitografia

- www.Pompei.it

- www.Pompeiisites.it

- www.Vesuviolive.it

- www.Treccani.it

- www.Pompeiitaly.org


VILLA DELLA REGINA A TORINO

A cura di Francesco Surfaro
Veduta dall'alto di Villa della Regina. Copyright fotografico: Stefano Geraci - Torino Storia.

Arroccata sulla collina torinese, alle spalle della Gran Madre di Dio, Villa della Regina è il degno fondale scenografico della città subalpina. Questa incantevole maison de plaisance fa parte della "Corona di delizie", un sistema di dimore extraurbane preposte al loisir della corte, fatte erigere dai Savoia attorno alla capitale secondo una peculiare disposizione "a raggiera". Dal 1997, assieme a tutte le altre Residenze Reali Sabaude, è Patrimonio dell'Umanità tutelato dall'UNESCO. Villa della Regina sarà oggetto di un doppio elaborato: nel seguente articolo, il primo dei due, si porrà l'attenzione sul contesto storico che ha visto l'edificazione della dimora e le trasformazioni che essa ha subito nel corso del tempo.

Il contesto storico: "principisti" e "madamisti"

Philibert Torret detto "Narciso", Ritratto di Maria Cristina di Borbone-Francia in abiti vedovili (particolare), 1638-1640, olio su tela. Collezione Intesa Sanpaolo.

In piena Guerra dei Trent'anni, mentre stava conducendo al fianco dei francesi una campagna militare contro la Lombardia spagnola, il duca Vittorio Amedeo I di Savoia morì inaspettatamente nell'ottobre del 1637, dopo soli sette anni di governo, stroncato forse da febbri malariche. Dietro di sé lasciava due eredi maschi ancora infanti, Francesco Giacinto di cinque anni e Carlo Emanuele di tre. A Torino, nei giorni immediatamente successivi al tragico evento, il Senato di Piemonte dichiarò la vedova Maria Cristina di Borbone-Francia tutrice legittima di Francesco Giacinto (prematuramente scomparso l'anno successivo) e reggente. L'assunzione della reggenza da parte della Madama Reale fu subito contestata dai due fratelli del duca estinto, il cardinale Maurizio e il Principe di Carignano Tommaso, ambedue filo-spagnoli e ostili alla cognata che, in quanto sorella del re Luigi XIII, era ovviamente filo.francese. Già messo a dura prova dalla Guerra di Monferrato e dalla violenta epidemia di peste del 1630-31, il Ducato di Savoia veniva ora travolto da una guerra civile dove si fronteggiavano da una parte i "principisti", avversi alla Francia e sostenitori dei due principi, e dall'altra i "madamisti", animati da un sentimento anti-spagnolo e leali nei confronti della duchessa madre. Alle lotte intestine si sommavano i sotterfugi del cardinale Richelieu che, approfittando del momento di grave instabilità politica, era intenzionato a ridurre le autonomie del Piemonte e della Savoia e a trasformarne i territori in province francesi. Appoggiati dal popolo e dall'élite piemontese, Maurizio e Tommaso registrarono un iniziale vantaggio grazie anche all'appoggio militare della Spagna. Se il primo sottomise Nizza e diverse località del Piemonte meridionale senza troppi sforzi, il secondo assediò la capitale il 27 agosto del 1639, costringendo alla fuga la Madama Reale e il piccolo Carlo Emanuele, portato in salvo presso il forte di Montmélian. Cristina si ritirò in Savoia, mentre Richelieu, dopo varie negoziazioni, riuscì a strappare al generale spagnolo don Diego Mexía Felipez de Guzmán, Governatore del Ducato di Milano, una tregua d'armi stipulata il 14 agosto 1639, rivelatasi in seguito fatale per i principi. A tregua finita l'esercito francese, mirabilmente guidato dal conte d'Harcourt, liberò Casale e Torino mettendo alle strette Tommaso, il quale si vide obbligato a ritirarsi ad Ivrea. Maurizio si barricò a Cuneo ma, dopo aver resistito strenuamente, fu costretto anch'egli alla resa. Ormai abbandonati al proprio destino dagli alleati spagnoli, i principi bon gré mal gré  (volenti o nolenti ) dovettero prendere parte alle trattative di pace col cardinale Mazzarino. Finalmente, il 14 giugno del 1642 venne siglato l'accordo definitivo, in base al quale Madama Cristina sarebbe stata riconfermata tutrice e reggente, a Tommaso sarebbe stata accordata la luogotenenza generale di Ivrea e Biella, mentre il quarantanovenne Maurizio, lasciata la porpora cardinalizia e ricevuto l'imprimatur da Urbano VIII per le nozze consanguinee, avrebbe sposato la nipote di tredici anni Ludovica, nonché ottenuto la luogotenenza di Nizza. Entrambi i fratelli avrebbero fatto parte del consiglio di reggenza.

Anonimo pittore di ambito piemontese, Ritratto del Principe-Cardinale Maurizio di Savoia, 1642-60, olio su tela. Torino, Villa della Regina. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il matrimonio tra Maurizio e Ludovica fu celebrato per procura nell'agosto del 1642. Con esso potevano dirsi nullificata ogni pretesa sulla corona ducale, in quanto i diritti di successione si univano nei coniugi. Abbandonata definitivamente la politica, l'ormai ex cardinale si ritirò a vita privata presso la sontuosa villa che, in precedenza, si era fatto costruire sulla collina torinese. Lì trascorse i restanti anni della sua esistenza dedito all'otium letterario.

Da Vigna del Cardinale a Villa della Regina

Nel 1615 Maurizio di Savoia commissionò all'architetto orvietano Ascanio Vitozzi la trasformazione di una preesistente vigna, sita sulla bassa collina poco oltre il Po, in una dimora signorile dotata di un giardino all'italiana, un teatro d'acque, peschiere, orti, vigneti e persino di un bosco. A seguito dell'improvvisa morte del Vitozzi, avvenuta nello stesso anno della commissione, furono posti a capo del cantiere Carlo e Amedeo Cognengo di Castellamonte, padre e figlio, già impegnati in altre importanti fabbriche per la corte ducale. Lo stretto legame della committenza con gli ambienti romani e la corte pontificia influenzò notevolmente le scelte per l'assetto architettonico e quello paesaggistico, dove si possono ravvisare diverse analogie con le ville suburbane laziali, specie con Villa d'Este a Tivoli e Villa Aldobrandini a Frascati. Il cuore pulsante della struttura era un grande loggiato centrale che divideva due appartamenti con sale affacciate verso la città e verso la collina. Il palazzo, immerso nel verde lussureggiante degli attigui giardini a parterre ed "en forme de théâtre", venne scelto dal porporato come degna sede dell'Accademia dei Solinghi o dei Desiosi, da lui fondata. In questa istituzione culturale confluivano vari artisti e intellettuali che, nel corso dei loro raduni, alternavano alla recita di drammi teatrali, sonetti e madrigali, discussioni di natura scientifica, filosofica, politica e persino esercitazioni militari o battute di caccia. Il fatto che i membri di tale consesso di dotti amassero radunarsi in questo locus amoenus appartato valse loro il soprannome di "solinghi", ovvero "solitari". Fra queste menti eccelse rifulgeva più di tutte quella di Emanuele Tesauro, letterato, retore, storico e drammaturgo, che godette di grande prestigio non soltanto presso la corte sabauda, dove fu attivo per oltre quattro decenni, ma anche a livello europeo.

Charles Dauphin, Ritratto di Emanuele Tesauro, 1670, olio su tela. Torino, Galleria Sabauda. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Alla morte di Maurizio, avvenuta nel 1657, la villa - nota ai più come "Vigna del Cardinale"- venne ereditata, assieme ad una ricchissima collezione di opere d'arte, dalla sua giovane vedova, la principessa Ludovica. Sotto la nuova proprietaria l'edificio, ormai rinominato Villa Ludovica, fu ampliato con l'edificazione di quattro padiglioni angolari, e ridecorato nelle sale del piano nobile e del secondo piano con l'aggiunta di soffitti cassettonati e grandi fregi con soggetti storici, mitologici e venatori. Morta senza eredi nel 1692, la principessa lasciò per disposizione testamentaria la sua dimora di delizie alla moglie dell'allora duca Vittorio Amedeo II, Anna Maria di Borbone-Orléans.

Louis-Ferdinand Elle, Ritratto di Anna Maria di Borbone-Orléans, 1684, olio su tela. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Con la firma dei Trattati di Utrecht nel 1713, Vittorio Amedeo II otteneva il tanto ambito titolo regio e il Ducato di Savoia si trasformava in Regno di Sicilia (permutato col Regno di Sardegna nel 1718). Fu proprio in onore di Anna d'Orléans, prima regina della dinastia sabauda, che la splendida delitia collinare venne ribattezzata "Villa della Regina".

La sovrana, tra 1694 e 1698, affidò alla direzione di Carlo Emanuele Lanfranchi alcuni cospicui interventi di manutenzione e rimaneggiamento sia degli interni del fabbricato, dove vennero ribassati gli alti soffitti seicenteschi, sia dei giardini. I contratti di pagamento riportano che, nel 1695, l'appartamento dell'ala meridionale, scelto per sé da Anna, fu decorato con partiti in stucco a tema perlopiù floreale dall'éntourage del luganese Pietro Somasso e con dipinti su tela del pittore viennese Daniel Seiter. All'esterno, dove - già all'epoca - risulta attestata  la presenza di un belvedere superiore e due "piate forme" laterali quali fulcri di un emiciclo terrazzato; vennero sostituite le balaustre in cotto dipinte di bianco poste lungo tutti i percorsi terrazzati e le scalinate con delle altre marmoree. Furono inoltre oggetto di reintegrazione gli ornamenti musivi costituiti da ciottoli di fiume, conchiglie e mursi, i quali ricoprivano interamente le superfici dello scalone centrale, dell'emiciclo e della gradinata che conduceva alla fontana di Apollo (l'attuale Grotta del Re Selvaggio), all'epoca decorata con statue di animali, festoni floreali e delle non meglio specificate "altre fatture".

Con l'arrivo del Settecento la regina maturò la decisione di aggiornare la propria "Vigna" secondo le nuove tendenze e di adeguare gli ambienti aulici alle varie esigenze del consorte e dei figli, creando ambienti intimi preposti a momenti di svago e convivialità. Documentata era pure l'intenzione di attuare una radicale trasformazione dei giardini su disegno del Primo Architetto di Luigi XIV, Jules Hardouin-Mansart, progetto non andato mai oltre la carta e la china.

Juvarra e Baroni di Tavigliano

Filippo Juvarra: Pensiero per il Salone d'Onore di Villa della Regina, 1733 circa. Montréal, Centre Canadienne d'Architecture. Fonte: cultorweb.com.

Arrivato a Torino nel 1714, fu il messinese Filippo Juvarra, affiancato dal suo allievo Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, a porre in essere una serie di importanti lavori alla Villa della Regina su richiesta prima di Anna Maria e poi di sua nuora Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, seconda moglie di Carlo Emanuele III, durante i quali furono ripensati, secondo la moda settecentesca, gli spazi e i rapporti col paesaggio esterno nonché i preziosi arredi e le decorazioni di gusto esotico degli interni.

Maria Giovanna Clementi, Ritratto di Polissena d'Assia-Rheinfels-Rotenburg, 1728-30, olio su tela. Stupinigi, Palazzina di Caccia di Stupinigi. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Il Primo Architetto di Sua Maestà chiuse i loggiati disposti nei cantieri seicenteschi riconvertendoli in vestiboli illuminati da finestroni, e ricavò lo spazio utile per la creazione del grande Salone d'Onore a doppia altezza, il quale funge da punto di raccordo tra l'Appartamento del Re nell'ala settentrionale e l'Appartamento della Regina nell'ala meridionale. Inoltre collegò il secondo piano del palazzo al giardino superiore edificando due terrazze. Per la realizzazione dell'aggiornato apparato ornamentale delle sale l'architetto coordinò alcuni dei migliori pittori (Claudio Francesco Beaumont, Giovanni Battista Crosato, Corrado Giaquinto, Giuseppe Dallamano, Giuseppe Valeriani, Filippo Minei e Michele Antonio Milocco), scultori, stuccatori e artigiani (Pietro Massa, Pietro Piffetti e Giuseppe Maria Bonzanigo) attivi nei cantieri regi e le loro rispettive botteghe. All'esterno Juvarra e Baroni di Tavigliano scelsero di non travisare l'essenza dell'impianto originario dei giardini, quanto piuttosto di sostituire le arzigogolature di matrice tipicamente barocca con scomparti geometrici regolari e bicromi in murso. Il Belvedere superiore fu riplasmato e alle preesistenti architetture decorative vennero aggiunti il Padiglione dei Solinghi e la Rotonda, mai portata a compimento. Quando il messinese, chiamato dal re di Spagna Filippo V, dovette recarsi alla volta di Madrid nel 1735 per progettare il Palazzo Reale, i cantieri di Villa della Regina furono affidati a Baroni di Tavigliano il quale, a partire dal 1750, fu a servizio della duchessa (regina dal 1773) Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, consorte del principe ereditario Vittorio Amedeo III.

Jacopo Amigoni, Ritratto di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone-Spagna, 1750 circa, olio su tela. Madrid, Museo Nacional del Prado. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Tra gli anni 1760-80 furono innalzati il Corpo di Guardia, le Scuderie e il Palazzo Chiablese, quest'ultimo edificato per ospitare il Duca del Chiablese.

La Villa della Regina nell'Ottocento

Durante l'occupazione napoleonica di Torino (1798) e con l'insediamento del Governo Provvisorio nominato dal generale Grouchy, Villa della Regina fu iscritta nel Patrimonio Imperiale, e, nel 1805, Napoleone in persona vi soggiornò per un breve periodo. Tornata in mani sabaude dopo la Restaurazione e persa l'originaria funzione a causa del trasferimento della corte dei Savoia a Palazzo Pitti (la capitale del Regno d'Italia era stata spostata da Torino a Firenze nel 1865 e la situazione rimase tale fino al 1871), per volere di Vittorio Emanuele II fu destinata, nel 1868, come sede dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari, ente che si prodigava per fornire assistenza ed educazione alle fanciulle orfane dei caduti delle Guerre d'Indipendenza. Tra 1876 e 1888 la residenza venne spogliata di alcuni mobili, preziosi complementi d'arredo fisso (tra i quali la sfarzosissima Biblioteca del Piffetti e le boiseries del Gabinetto della libreria verso Mezzanotte) come pure di un cospicuo numero di sovrapporte, soprafinestre e tele da plafond. Il tutto, dopo una breve permanenza nei depositi di Palazzo Reale e del Castello di Moncalieri, fu inviato a Roma per ornare gli ambienti del Palazzo del Quirinale, sede del Re nella nuova e definitiva capitale italiana.

Grand Rondeau con le allieve dell'Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari Italiani. Fotografia di J. David, 1895-1896. © Archivio di Stato di Torino. Fonte: MuseoTorino.

Dal Novecento ai giorni nostri

Il XX secolo fu, in assoluto, il periodo di maggiore decadenza di tutta la storia della villa. Nel corso del Secondo Conflitto Mondiale i bombardamenti aerei degli anni 1942 e 1943 causarono danni ingentissimi all'ala destra dell'edificio e rasero al suolo Palazzo Chiablese. Dopo impropri e maldestri interventi postbellici di ricostruzione, con la soppressione dell'Istituto Nazionale delle Figlie dei Militari l'ex residenza sabauda fu abbandonata al degrado più totale, facile preda di furti e razzie. Nel 1994, quando la provincia di Torino la cedette alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, le condizioni in cui versavano la struttura e i giardini erano drammatiche a tal segno da far temere imminenti collassi. Lunghe e complesse operazioni di restauro, finanziate con fondi stanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, dalla Regione Piemonte, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT e dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, hanno restituito - per quanto possibile - all'ex dimora preferita di principesse, duchesse e regine l'originario splendore, consentendo la sua prima riapertura al pubblico nel 2006. Mentre si procedeva col ripristino architettonico di interni ed esterni del complesso, il vigneto storico è stato ripiantato per circa metà della propria originaria estensione. Preso in affido dall'Azienda Balbiano, è tornato produttivo nel 2008. In Italia si tratta dell'unica vigna localizzata all'interno di una grande città, in Europa è invece accompagnata da altri due esemplari: il Vigneto di Montmartre a Parigi e a quello di Grinzing a Vienna. Dal 2011, la Vigna della Regina rientra all’interno dell’area DOC del vino Freisa di Chieri. Nel 2016 i giardini della villa si sono posizionati nella top ten dei parchi e giardini più belli d'Italia.

Il Giardino verso la città e la facciata

Il Grand Rondeau. Copyright fotografico: sguardisutorino.blogspot.com.

Risalendo un viale costeggiato da filari di olmi e platani si accede, attraverso una cancellata, al Grand Rondeau (o, secondo la forma italianizzata, Gran Rondò), un grande piazzale di forma circolare con una vasca centrale di 20 metri di diametro, scandita lungo tutta la bordatura da dodici sculture in gran parte acefale raffiguranti divinità fluviali. Al centro della fontana si erge la statua del dio Nettuno che, seduto su uno scoglio, sembra sfidare frontalmente a colpi di gettiti d'acqua un putto sul dorso di un delfino. Per mezzo di uno scalone semicircolare a duplice rampa si sale su una terrazza rettangolare, attraversando la quale ci si ritrova difronte alla Fontana della Sirena. Di minori dimensioni rispetto alla precedente, deve il suo nome alla statua marmorea di una sirena posizionata all'interno di una vasca ellittica a ridosso della facciata. Trattandosi di una peschiera, era un tempo popolata da un piccolo allevamento di trote e carpe. Grazie ad essa sulla tavola della corte regale - soprattutto nei mesi di magra - veniva sempre garantito del pesce fresco.

Fontana della Sirena. Copyright fotografico: Associazione Amici di Villa della Regina.

Il fronte settecentesco, attribuito a Giovanni Pietro Baroni di Tavigliano, è costituito da un corpo centrale avanzato verso Torino segnato da ampio ordine di finestre e coronato da una balaustra sormontata da quattro sculture allegoriche in marmo bianco. Da questo si diramano simmetricamente due maniche laterali, ciascuna delle quali è affiancata da un torrione. Speculare alla facciata verso la città, quella rivolta verso la collina si differenzia dalla prima per il tetto a falde ribassate.

Facciata verso la collina. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Gli interni - il Salone d'Onore

Il Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

Fulcro del piano nobile di Villa della Regina, il Salone d'Onore a doppia altezza raccorda l'appartamento del re a settentrione con quello della regina a meridione. Questo ampio spazio viene illuminato diffusamente da un gran numero di finestroni. La luce che filtra da queste aperture esalta, al pari di un riflettore, le strepitose tonalità impiegate dal pittore modenese Giuseppe Dallamano nelle quadrature dipinte a fresco sulla quasi totalità della superficie muraria, databili al 1733. Architettura dipinta e architettura reale si confondono in un insieme armonico contrastando, attraverso la dinamica alternanza di sporgenze e rientranze che le caratterizza, il rigido disegno geometrico delle piastrelle bianche e nere del pavimento. Sono scampati ai bombardamenti del 1942 i due riquadri della parete nord e sud, opera di Corrado Giaquinto, raffiguranti rispettivamente "Apollo e Dafne" e "Venere che scopre il corpo senza vita di Adone", ambedue datati 1733. Purtroppo non si può dire lo stesso per "Il Carro di Aurora", l'affresco di Giuseppe Valeriani che decorava la parte centrale della volta il quale, invece, è andato completamente distrutto. Ai lati, i vestiboli verso la città e verso la collina sono ornati con le Allegorie delle Quattro Stagioni dipinte da Giovanni Battista Crosato, in cui dei vivaci puttini sono colti in atteggiamenti goliardici e dispettosi. In un piccolo spazio adiacente, oggi adibito a tribuna, si trovava la cappella di corte, successivamente abbandonata in favore di un'altra più grande nel vicino Palazzo Chiablese. Sulla volta di questo ambiente si conserva un affresco di Michele Antonio Milocco, "la Trinità con angeli" (verso il 1730).

Soffitto del Salone d'Onore. Copyright fotografico: Renzo Bussio - Torino Storia.

FINE PRIMA PARTE

 

Bibliografia 

Paolo Conaglia, Andrea Merlotti, Costanza Roggero: Filippo Juvarra 1678-36, architetto dei Savoia, architetto in Europa. vol.1, Roma, Campisano Editore, 2014.

Cristina Mossetti: La Villa della Regina, Torino, Allemandi, 2007.

 

Sitografia: 

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https://webthesis.biblio.polito.it/1932/

http://www.residenzereali.it/index.php/it/residenze-reali-del-piemonte/villa-della-regina

http://polomusealepiemonte.beniculturali.it/index.php/musei-e-luoghi-della-cultura/villa-della-regina/

http://www.amicidivilladellaregina.com/la-villa/


LE 25 ORE DI POMPEI: STORIE DI UN’ERUZIONE

A cura di Dennis Zammarchi

Introduzione

Sulla città romana di Pompei e sull’eruzione del Vesuvio (avvenuta durante il regno di Tito nel 79 d.C.) che ne ha causato la distruzione prima e il seppellimento poi sono stati versati nel corso dei secoli fiumi d’inchiostro.

Si può ormai consciamente dire che le vicende riguardanti la celeberrima città romana siano entrate a far parte della cultura mondiale grazie ai risultati di decenni di studi storici e archeologici e alla conseguente divulgazione al pubblico.

Fig. 1 - Pompei, Parco Archeologico (da napolidavivere.it).

Si è arrivati persino ad avvolgere gli avvenimenti con un alone di mistero e leggenda utili a renderli gradevoli e accattivanti per delle trasposizioni realizzate attraverso media come la tv ed il cinema, non sempre rispettando la veridicità storica dei fatti, in nome della spendibilità del prodotto.

Nel corso degli anni ne sono state tratte decine di trasposizioni bibliografiche, da romanzi storici fedeli alla realtà, per esempio “I tre giorni di Pompei” di Alberto Angela, a fumetti per grandi e piccini, sia di stampo occidentale che dal più tipico stile orientale (i manga giapponesi, che frequentemente prendono come spunto eventi storici avvenuti nel Bel Paese).

Come detto in precedenza, sono state realizzate anche moltissime trasposizioni cinematografiche e televisive: considerando solo le opere del XXI secolo, si possono citare la recente pellicola “Pompei” diretta nel 2014 da Paul W.S. Anderson, con protagonista Kit Harington (il Jon Snow del Trono di Spade) e la miniserie tutta italiana del 2007 chiamata “Pompei”.

Tuttavia, se il nostro scopo fosse quello di far luce sui motivi che attraggono ogni anno più di due milioni di visitatori da tutto il mondo a Pompei dovremmo partire dal principio.

La particolarità di questo sito archeologico, uno tra i più grandi del mondo e tra i meglio conservati, è quella di restituire un momento di una vita passata svoltasi durante l’Impero Romano sorretto dalla famiglia Flavia. Mutuando dall'antropologia culturale il termine potremmo parlare di “cristallizzazione”.

Questo è dovuto al fatto che oltre all'architettura della città, con i suoi monumenti e le sue numerose e splendide ville arredate, piene di splendidi affreschi (da cui prende il nome la celebre pittura pompeiana) e mosaici, ciò che differenzia Pompei dagli altri siti archeologici è la possibilità (parziale e influenzata dallo stato di conservazione del sito e dall'avanzamento degli scavi nei secoli) di rivedere lo stile di vita dei suoi abitanti, ma soprattutto è possibile “osservare” i cittadini pompeiani nei loro ultimi attimi di vita, talvolta distinguendone persino l’espressione.

Fig. 3 - Pianta degli scavi archeologici di Pompei, con indicati i principali punti di riferimento e la suddivisione della città nelle Regio (Pin di Silvia de Anna, da Pinterest).

Nella città i turisti possono vedere ancora le loro attività in corso per mezzo dei pochi arnesi e utensili sopravvissuti, i luoghi frequentati per piacere e per diletto come l’anfiteatro e il lupanare, ma ciò che affascina di più sono gli stessi abitanti.

Cittadini e forestieri che non sono riusciti ad evitare di essere coinvolti in questo disastro di proporzioni immani avvenuto il 79 d.C. che ha causato migliaia di vittime nell'area vesuviana.

Oggi chiamati comunemente fuggiaschi, queste bianche sagome, quasi eteree, non sono altro che i calchi delle vittime, realizzati nel corso dei decenni per mezzo di tecniche sempre più avanzate. Semplificando, si può dire che essi sono ottenuti riempiendo con il gesso i vuoti lasciati dai corpi nel deposito vulcanico.

Nel corso dei decenni e degli studi è stato sfatato “il mito” in cui Pompei viene descritta come la fotografia fedele di un momento di quotidianità sconvolta da un disastro naturale.

Questo è stato visto grazie agli scavi, ma anche per mezzo delle importantissime lettere, scritte a scopo letterario (Epist. VI,16) e dirette all'imperatore Traiano, che Plinio il Giovane (governatore in Bitinia, un’antica provincia romana situata in Asia Minore) avrebbe scritto come testimone oculare dell’eruzione del Vesuvio. All'interno di questa corrispondenza è riportata anche la morte dello zio di Plinio il Giovane, Plinio il Vecchio, che come comandante della flotta imperiale di Miseno, tentò di portare soccorso ai pompeiani e che forse proprio a causa della sua passione per la scienza e la natura (di Plinio il Vecchio è celebre la De Naturalis Historia, una sorta di enciclopedia del sapere) si attardò nell'osservazione dell’evento e perciò perse la vita.

Dalle lettere sappiamo che il vulcano lanciò delle avvisaglie prima di eruttare per più giorni, che permisero a molte persone di raccogliere i propri beni personali e di fuggire dalla città.

Inoltre, già prima dell’eruzione di Pompei molte strutture erano pericolanti; numerose case ed edifici pubblici erano infatti in attesa di opere di ristrutturazione, resesi necessarie per sanare i danni causati da terremoti precedenti, il principale dei quali, sembra essere secondo le fonti quello del 62 d.C.

Ciò fece sì che molte delle abitazioni al tempo dell’eruzione non potevano essere abitate, almeno come non lo erano usualmente in quella regione della penisola.

Fig. 4 - Una delle numerosissime reinterpretazioni del momento dell’eruzione del Vesuvio (da madeinpompei.it).

Le numerose tracce di attività di cantiere e materiale da lavoro rinvenute negli scavi, oltre che la presenza di contenitori per provviste e suppellettili di uso domestico, rinvenuti in alcuni spazi che solitamente avevano una funzione abitativa o da sala di ricevimento chiariscono in che modo si cercò di trovare una soluzione ai problemi.

Inoltre Pompei, con i grandi edifici al tempo riconoscibili anche sotto gli strati di cenere, venne depredata, nel corso del tempo, da saccheggiatori pratici del posto, che andarono alla ricerca di oggetti di valore soprattutto all'interno delle case dei più abbienti.

Fig. 5 - La battaglia di Isso, a sinistra è visibile Alessandro Magno, mentre a destra si vede Dario III di Persia. Il mosaico ora esposto al Museo Archeologico di Napoli è stato trovato nel 1813 all'interno della Casa del Fauno.

In aggiunta, ulteriore elemento inficiante la quantità e qualità delle informazioni provenienti dagli scavi è il fatto che al momento dello sterro ottocentesco il materiale scavato è stato distribuito in aree adiacenti esplorate solo in un momento successivo.

Al tempo in più non si annotava né l’esatta posizione, né la quota del ritrovamento, ma l’obbiettivo era solo il mero recupero dell’oggetto intatto, soprattutto se di valore.

Una breve storia della città

Dal percorso irregolare delle mura cittadine ora visibili è evidenziata la volontà di adattarsi alle condizioni geografiche del luogo. Il passaggio da un terreno leggermente in salita verso nord in direzione del Vesuvio ad uno che dolcemente degrada verso est, avviene senza particolari interruzioni. Il percorso spigoloso del muro ad ovest segue invece il brusco declivio di un plateau di lava su cui la città era stata fondata verso la fine del VII secolo a.C.

Anche se è difficoltoso ricostruire l’andamento della costa antica e si rilevano certe differenze nelle ipotesi degli studiosi, attualmente è quasi certo che in epoca romana la città si trovasse molto più vicina al mare rispetto ad oggi.

La foce del Sarno, navigabile, sembra trovare nelle lagune prospicienti una difesa naturale e per questo un ottimo punto di attracco per le navi. Questa caratteristica fa di Pompei un luogo molto interessante per lo scambio di merci, tra cui il sale che proveniva dalle non lontane saline.

Scavi molto recenti evidenziano come gli insediamenti sorti agli inizi del I millennio a.C. siano stati spostati, verso la fine del VII secolo a.C., nelle vicinanze della foce del fiume.

Fig. 7 - La città di Pompei vista dall’alto in una cartolina (da romanoimpero.com).

Stando a quanto emerso dagli scavi archeologici il settore nord della città sembrerebbe essere stato tracciato e in parte edificato già nel VI secolo a.C., mentre l’ampliamento verso est sembra essere avvenuto solo durante il IV secolo a.C.

Nell'arco di alcune generazioni il primo insediamento sembra essere quindi cresciuto molto rapidamente e questo portò alla realizzazione di un primo muro di difesa, seppure di moderate dimensioni.

Ben presto però, forse già nel V secolo a.C. al modesto muro si sostituirà una prima fortificazione di dimensioni maggiori. Non è ancora noto se questa decisione fu presa per difendersi da un’effettiva minaccia da parte degli abitati vicini o delle tribù dell’entroterra.

Il V e il IV secolo a.C. restituiscono grazie alle evidenze archeologiche l’immagine di un periodo buio per la città; questi secoli corrispondono, infatti, con la fase del dominio sannitico, durante il quale non vennero create nuove opere urbanistiche, ma corrispose ad una fase di stagnazione.

Questa situazione cambiò solo con l’arrivo dei romani che nel corso delle guerre latine dal 343 a.C. espansero la loro sfera di influenza verso sud, oltre i confini del Lazio.

Grazie all'opera dello storico romano Livio (59 a.C.-17 d.C.) sappiamo che un distaccamento romano approdò alle foci del Sannio attorno al 310 a.C.

Solo nel III secolo la città assunse l’assetto urbanistico che determinò l’approvvigionamento e il traffico della successiva età imperiale, contraddistinta dalle sue 7 porte e dalla suddivisione nelle Regio.

L’eruzione

L’eruzione che coinvolse le città vesuviane è storicamente datata al 24 agosto del 79 d.C., ma oggigiorno questa datazione è messa in dubbio sia dalla documentazione letteraria che dai ritrovamenti archeologici.

Plinio il Giovane scrisse che suo zio, Plinio il Vecchio, morì nei pressi di Stabia (una delle coinvolte dal disastro, vicina a Pompei) durante l’eruzione arrivando dal porto di Miseno (essendo ammiraglio di una delle maggiori flotte dell’Impero) per andare in soccorso alla popolazione ed a un amico.

Dalle lettere si evince che l’eruzione fu “Nonum Kal. Sept.”, ossia nove giorni prima delle calende di settembre, il primo giorno del mese per il calendario romano.

Oltre a questo, sono stati trovati numerosi dolii, dei grandi vasi per contenere le derrate, pieni di mosto, quindi in un periodo in cui la vendemmia era quasi finita.

Inoltre, fondamentale testimonianza fu il rinvenimento di una moneta, coniata successivamente al 24 agosto per gli studiosi: un aureo con al diritto il volto di Tito e come legenda riporta la XV acclamazione imperatoria.

Fig. 8 - Aureo di Tito, che supporta l’ipotesi dell’eruzione in autunno.

Tra le altre testimonianze che mettono in dubbio l’eruzione in agosto vi è la presenza di alcuni bracieri utilizzati al momento del disastro, il loro uso agli studiosi appare quantomeno inusuale durante un mese estivo.

Fig. 9 - La zona colpita dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (da vanillamagazine.it).

La città di Pompei, si trova nelle vicinanze di Napoli, a sud-est del cono del Vesuvio, non direttamente sul mare al tempo dell’eruzione, a differenza di Ercolano a soli 7 km dal cono del Vesuvio.

L’eruzione dura circa 25 ore, ma ad un certo punto si interrompe permettendo ai fuggitivi di ritornare in città. Pompei, Stabia, Ercolano e Oplonti sono le più colpite dall'eruzione; dal Vesuvio sono eruttati circa 1000000 di metri cubi di materiale.

Solitamente alle eruzioni vulcaniche, così come vediamo spesso nelle trasposizioni cinematografiche di questi disastri, sono associate le colate laviche, l’evento più semplice, ma soprattutto scenografico; ma sia nel caso di Pompei che Ercolano non si ha a che fare con della lava.

Fig. 10 - Schema di un’eruzione vulcanica (da lidentitadiclio.com).

In realtà ciò che ha colpito la famosissima città romana sono dei tephra, ossia dei depositi di caduta lanciati in aria assieme alla colonna eruttiva anche a velocità supersonica fino a raggiungere quote elevatissime (come 30 km nei casi dell’eruzione del Vesuvio) per poi ricadere sotto forma di detriti di caduta, giungendo anche a distanze notevoli dalla colonna eruttiva per mezzo dei venti prevalenti.

Altri fenomeni, ben più distruttivi, che coinvolsero l’area vesuviana dopo l’eruzione sono stati i flussi piroclastici, dei flussi di materiale eruttato dal vulcano che ad un certo punto dopo essere stato lanciato in aria dalla colonna eruttiva ricade (poiché la spinta dei gas diminuisce) fino a formare delle enormi nubi di materiale incandescente comprendenti ceneri e materiali con dimensioni maggiore, come i lapilli, che durante la loro corsa distruggeranno tutto ciò che incontrano. Questi flussi possono spostarsi a velocità notevoli, tra i 20 m/s e i 100 m/s.

Il fenomeno peggiore però, ed il più pericoloso, sono sicuramente i “base surge” legati all’attività esplosiva e non al collasso della colonna; essi sono letali perché si tratti di gas ad altissima temperatura (tra 200 e 700 gradi Celsius) e rocce che possono provocare la combustione di moltissimi materiali, tra cui il legno, la vegetazione e i vestiti delle persone.

Questi gas incandescenti sono composti da materiali di dimensioni minime, che creano depositi spessi solamente qualche cm per ogni loro ondata.

Tutto si è svolse in due giornate, tenendo per buona la datazione classica, tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C.

Le fasi iniziali furono caratterizzate dalla formazione della colonna eruttiva alta fino a 30 km, con la caduta del materiale che colpì direttamente la città di Pompei risparmiando però Ercolano che si trovava sottovento durante l’eruzione.

Successivamente l’energia della colonna diminuì portando a creare i primi flussi piroclastici che iniziarono la loro corsa distruttiva.

Poi, dopo aver eruttato molti metri cubi di materiale la pressione nella camera magmatica diminuì facendo entrare in questo modo l’acqua all'interno, questo evento portò all'inizio dell’attività esplosiva e alla conseguente formazione dei base surge che uccideranno la maggior parte delle persone coinvolte nel disastro.

Queste tre tipologie di fenomeni (materiali di caduta dalla nube, flussi piroclastici e base surge) sono distinguibili tra loro nei depositi archeologici per mezzo della differente granulometria dei materiali che li compongono. Questa caratteristica è fondamentale perché permette di ricostruire le diverse fasi dell’eruzione e di evidenziare come le città siano state colpite in modo differente.

Ad esempio, a Pompei sono caduti circa 2,5 m di lapilli, mentre Ercolano trovandosi sottovento non ne è quasi stata colpita.

Differentemente, al momento del collasso della nube con la conseguente partenza prima dei gas e poi dei flussi piroclastici è stata Ercolano la prima ad essere colpita e di conseguenza gli abitanti della città sono stati i primi a morire.

I fuggiaschi

I defunti di Pompei, come abbiamo detto in precedenza vengono chiamati, dalla letteratura di settore e dagli specialisti, fuggiaschi; essi sono allo stesso tempo probabilmente “l’attrazione” più famosa e sconvolgente del sito archeologico, un aspetto tanto inquietante quanto surreale che riporta ad un momento immutabile del passato e che, forse, permette di riuscire a comprendere, almeno in parte, cos’hanno provato i cittadini di Pompei al momento del disastro.

In questo aspetto così triste e affascinante allo stesso tempo ci viene incontro la ricerca scientifica che ha visto come a Pompei vi risiedessero all'incirca dodicimila abitanti; data la dimensione del sito, alcune zone non sono ancora state scavate e sono state fatte quindi delle ipotesi statistiche grazie ai dati finora ottenuti.

Sono stati trovati i resti di circa 1047 persone, e per 103 di esse stati ottenuti i calchi (dati aggiornati al 2018).

Fig. 11 - I fuggiaschi, alcune immagini di calchi e scheletri rinvenute a Pompei e Oplontis (da Plos One, G. Mastrolorenzo et al., p. 7).

L’ottenimento dei famosi calchi dei fuggiaschi è stato possibile grazie ai depositi dei base surge (quelli derivati dai gas incandescenti ad altissima velocità) e dei flussi piroclastici che si sono induriti e cementati dopo aver colpito la città e gli abitanti; successivamente a ciò, le parti molli dei corpi (come tessuti e muscoli) si sono decomposte e dei defunti non è sopravvissuto altro che lo scheletro.

A causa di questo evento è rimasta un’intercapedine che si riferisce ai tessuti molli, dovuta al fatto che la cenere ha aderito al volume del corpo prima che esso si decomponesse. Queste intercapedini preannunciano quindi la presenza dei corpi per mezzo di una cavità visibile nei depositi vulcanici.

I primi esperimenti per l’ottenimento dei calchi sono stati fatti nell’800, fase in cui veniva colato del gesso liquido per ottenere il riempimento della cavità per poi scavare attorno; ora, invece, si utilizzano delle resine plastiche più avanzate tecnologicamente che hanno un grado di restituzione e di precisione dei dettagli anatomici molto più elevato.

In definitiva, se non è presente l’intercapedine non vi è alcuna possibilità di ottenere il calco del corpo.

Siccome il materiale depositato a Pompei era soprattutto a grana fine (cenere fino a 2 mm di diametro e lapilli fino a 64 mm), in molti casi sono rimaste impresse anche la fisionomia del volto e le espressioni dei cittadini, oltre che i dettagli dei vestiti e delle calzature.

Inoltre, come detto in precedenza, le ossa si sono conservate nel vuoto lasciato dai corpi e rimanendo così all'interno dei calchi, per questo motivo nella maggior parte di essi si evidenziano le ossa del cranio e i denti.

La maggior parte di questi corpi si trovava a 2,5 m di altezza, all'interno del deposito formato dai gas incandescenti e dalla cenere, poiché al momento del loro arrivo (la vera causa dello sterminio) erano caduti sulla città già più di 2 metri di materiali eruttato dal Vesuvio che hanno iniziato a far crollare le prime strutture (le pomici, il materiale eruttivo preso singolarmente è piuttosto leggero in realtà).

Uno dei ritrovamenti più spettacolari per la ricerca scientifica è un gruppo di persone ritrovate nei pressi della casa del Criptoportico: essi visibilmente disorientati e in fuga, camminavano sopra lo strato di lapilli fino all'arrivo delle prime nubi incandescenti che li hanno tragicamente uccisi e così sepolti. I corpi sono stati trovati all'interno delle pomici, il materiale dalla granulometria maggiore, per cui non è stato possibile ricavarne il calco.

A differenza di Pompei, a Ercolano durante gli anni ’80 è stata scavata una zona che si affacciava alla spiaggia dove sono stati trovati una grande quantità di scheletri e un rinvenimento eccezionale: un grande pezzo di imbarcazione capovolto.

A Ercolano è impossibile ottenere dei calchi perché i depositi di cenere sono a contatto diretto con le ossa e non vi sono le intercapedini.

La particolarità di tutto questo, e la sua drammaticità, è legata intrinsecamente alle posture dei fuggiaschi, esse evidenziano una morte immediata legata al calore, le persone sono come sospese durante un’azione (circa il 70% dei calchi di Pompei) oppure sembra che dormano (più del 25%).

Fig. 12 - “La signora degli anelli” da Ercolano (da vanillamagazine.it).

Altre persone, invece, hanno subito l’impatto dei flussi piroclastici, morendo quindi per cause “meccaniche” come il crollo degli edifici, ma queste ultime sono veramente in numero esiguo (circa il 2%).

La postura più rilevante per la ricerca (il 64% di quelli che presentano una posizione simile ad un’azione di vita cristallizzata, a cui è stato assegnato un nome, è quella del pugile poiché ne ricorda le movenze sul ring, in cui le braccia e i gomiti sono piegati verso l’alto.

Fig. 13 - I fuggiaschi, alcune immagini di calchi nelle tipiche posture ritrovate a Pompei, tra cui la famosa posizione del pugile (immagine a-2), (da Plos One, G. Mastrolorenzo et al., p. 6).

In precedenza, si riteneva che questa posa fosse assunta per difesa, mentre ora, grazie alle ricerche bio-archeologiche si è visto che questa posizione è dovuta al fatto che nel caso il nostro corpo subisca l’esposizione a temperature di 200-300 gradi centigradi (o superiori) i tendini si contraggono violentemente e le braccia assumono una postura simile alla guardia dei pugili.

Con temperature al di sopra dei 200 gradi il rilassamento dei tendini e muscoli non avviene, per cui è impossibile spostare le persone da quella posizione, per far ciò bisognerebbe tagliarne i tendini, è per questo motivo che ancora dopo 2000 anni le ritroviamo in quella postura.

Anche le ossa evidenziano dei segni di termo-alterazione dovuti all'esposizione a temperature elevate, esse infatti mostrano delle differenze di colorazione a causa dell’esposizione a temperature elevatissime, passando dalla classica cromia delle ossa ad una colorazione tendente al giallo.

Grazie a questi studi in cui la biologia e la fisiologia sono state applicate alle analisi più prettamente archeologiche si è potuto far luce alle cause che hanno portato alla distruzione della città di Pompei e al suo seppellimento riuscendo finalmente a districarsi tra le innumerevoli versioni della vicenda che circolano sin dall'antichità, sia tra i documenti di chi ha assistito dal vivo all'eruzione e ne è sopravvissuto, che tra i testi e le note redatte dagli storiografi e dai biografi antichi.

Bibliografia

A. Dickmann, Pompei, 2007, il Mulino, Bologna, pp. 127.

Mastrolorenzo, P. Petrone, L. Pappalardo, F.M. Guarino, Lethal Thermal Impact at periphery of Pyroclastic Surges: Evidences at Pompeii, Plos One, 5, 2010, pp. 1-12.

Savio, Monete romane, 2014, Jouvence, Milano, pp. 337.

Cremaschi, Manuale di Geoarcheologia, 2000, Laterza, Bari, pp. 386.

Sitografia

Pompei, enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/pompei/

http://pompeiisites.org

https://www.pompei.it


CONCATTEDRALE DI RUVO DI PUGLIA

A cura di Michele Leuce

Oggi, come nel mio precedente articolo andrò a parlare di una cattedrale pugliese dedicata a Santa Maria Assunta. Come da titolo, parlo della Concattedrale collocata nella località Ruvo di Puglia.

Storia

L’edificio fu costruito tra il XII e il XIII secolo ed è uno dei più importanti esempi di romanico pugliese per via delle sue caratteristiche.

La chiesa è il fulcro del centro storico di Ruvo, inoltre, essendo stata sede della diocesi di Ruvo fino all’anno 1986, è connessa al palazzo vescovile.

Sulla costruzione della concattedrale ci sono diverse ipotesi, ma molto probabilmente la più veritiera è quella che vede Roberto II di Bassavilla, signore di Ruvo, insieme al Vescovo Daniele, a decidere di costruire una cattedrale a seguito delle invasioni Barbariche e degli eventi bellici del XII secolo che rasero al suolo la città. La chiesa ha una storia di continue modifiche e cambiamenti, già nel 1589 poteva contare dodici altari laterali (poi diventati quattordici). Nonostante l’alto numero di questi la prima cappella costruita si aggira intorno all’anno 1640 ed era dedicata al culto del Santissimo Sacramento, dove l’omonima confraternita si riuniva in preghiera ed a oggi non è più esistente. A questa cappella se ne aggiunse un’altra consacrata al culto di San Biagio e delle sue reliquie, infatti all’interno si venera un frammento del braccio di questo santo, racchiuso in un reliquiario a forma di braccio benedicente.

Nel XVII secolo la chiesa subì ulteriori contrasti a causa degli scontri avuti con il potere laico: sotto il dominio di Ettore Carafa, Duca di Andria e Conte della città di Ruvo fu abbattuto l’altare maggiore per sostituirlo con il trono dello stesso Conte. Fortunatamente nel 1697 fu costruito un nuovo altare e inoltre un ventennio dopo venne riedificato e ampliato il palazzo vescovile.

La cattedrale fu, nella prima metà del settecento, soggetta ad ulteriori cambiamenti: nel 1744 la facciata fu allungata di 2,40 metri per lato e pochi anno dopo (1749) si dotò del controsoffitto ligneo decorato dall’artista Luca Alvese. Inoltre presentava varie cappelle su entrambe le navate: sulla navata sinistra erano disposte le cappelle del coro di notte, del Crocifisso, del Santissimo Sacramento, di San Biagio e di San Lorenzo, mentre sulla destra furono costruite le cappelle dell'Addolorata, della Madonna di Costantinopoli, dei Santi Medici, di San Michele Arcangelo e della Madonna di Pompei.

Si ebbero ancora modifiche nel Novecento: Tra il 1901 e il 1925 fu costruito un nuovo ciborio sul modello di quello della Basilica di San Nicola a Bari e fu messa una vetrata policroma raffigurante l’Immacolata. Sempre nel 1925 fu riedificato l’Episcopio.

Furono eliminate tutte le cappelle, di cui l'ultima (quella del Santissimo Sacramento) solo nel 1935. La distruzione delle cappelle fu attuata (oltre che per motivi pratici) soprattutto per motivi ideologici: per preservare l’originaria veste romanica della cattedrale bisognava eliminare tutte le sovrapposizioni barocche (nel 1918 fu rimosso anche il controsoffitto decorato per gli stessi motivi).

Descrizione Esterno

La facciata, tipicamente romana, è a salienti dotata di tre portali: Il più grande è quello centrale ed è stato arricchito da bassorilievi.

Nell’arco esterno sono raffigurati Cristo affiancato da pellegrini, dalla Madonna e da San Giovanni Battista; questi ultimi sono affiancati da figure angeliche e dai dodici apostoli.

Nel secondo arco è centrale la figura dell’Agnus Dei (Agnello di Dio, simbolo dell’innocenza di Cristo), affiancato dai simboli dei quattro evangelisti; mentre nell’arco interno sono scolpiti due pavoni intenti a beccare un grappolo d’uva (simbolo dell’Eucarestia).

Il portale centrale è dotato di due colonnine sormontate da grifi che poggiano su leoni stilofori a loro volta sostenute da dei telamoni.

I due portali laterali sono invece più piccoli, con al di sopra un arco a sesto acuto.

Sulla facciata sono inoltre presenti archetti prensili con figure umane, zoomorfe e fitomorfe ed al centro si può vedere il grande rosone, cui al di sopra è possibile notare una figura, il “Sedente”, da taluni identificata in Roberto II di Bassavilla. Al culmine della facciata è invece posta la figura del Cristo Redentore che impugna una bandierina segnavento.

Il campanile fu costruito intorno all'anno 1000, prima della concattedrale, con funzione di torre difensiva e di vedetta tanto che da questa struttura era possibile tenere sotto controllo la pianura fino all'Adriatico. Inizialmente la torre era composta di soli tre piani, poi nel XVIII secolo furono aggiunti altri due piani copiando lo stile dei vani originari. La torre faceva quindi anticamente parte del sistema difensivo di Ruvo, per poi diventare campanile con l’edificazione della concattedrale.

Descrizione Interno

L’interno è suddiviso in tre navate che sfociano in tre absidi e in un transetto trasversale alle navate che segue la forma di una pianta a croce latina. La navata più grande è quella centrale ed è circondata in alto da un falso ballatoio che si poggia su due file di colonne, ognuna diversa dall’altra sia per caratteristiche che per provenienza. Le colonne di destra hanno un valore artistico aggiunto rispetto a quelle di sinistra, sono cruciformi e sopra vi sono rappresentate scene della vita di uomini e animali mitologici, su quelle di sinistra invece vi sono rappresentati motivi floreali.

La navata centrale culmina un fantastico ciborio realizzato nel XIX secolo su disegno dell’architetto Ettore Bernich (già famoso per aver realizzato l’eclettico Acquario Romano) e che si ispira a quello della basilica di San Nicola a Bari.

La navata centrale e il transetto sono coperti da una copertura a capriate, mentre le navate laterali da una volta a crociera.

Tesori e Opere d’arte

All’interno della Concattedrale vi sono numerose opere d’arte custodite, tra cui: la statua in legno policromo e intagliato di San Biagio, patrono della città; il reliquario dello stesso santo in argento; un affresco raffigurante la Vergine col Bambino e San Sebastiano risalente al XV secolo, la tavola firmata ZT (il Maestro ZT divenne uno dei protagonisti del revival neobizantino pugliese, che ne condizionò pesantemente lo stile e le iconografie) della Vergine di Costantinopoli; lo splendido crocifisso ligneo del XVI secolo; la statua in pietra del XVI secolo di San Lorenzo; l'affresco del XV secolo la Madonna in trono con il Bambino e il Martirio di S. Sebastiano; una tela della bottega di Marco Pino da Siena raffigurante l'Adorazione dei pastori; tracce di affreschi raffiguranti alcuni santi e la Madonna della misericordia.

Menzione importantissima è la statua argentea di San Rocco realizzata dal maestro napoletano Giuseppe Sammartino.

Sono parte della “collezione” anche numerosi pezzi d’argenteria e di manifattura tessile.

Ipogeo

Il patrimonio sotterraneo della cattedrale di Ruvo è rimasto nascosto per secoli fino al 1925, quando durante i lavori di ristrutturazione emersero alla luce alcune monofore. Tuttavia nel 1935 con l'abbattimento della cappella del Santissimo Sacramento occorse abbassare la quota di calpestio del transetto e delle navate. La nuova pavimentazione però si rivelava in continuazione umida e bagnata, così le indagini condotte tra il 1974 e il 1975 portarono alla scoperta del ricco sottosuolo. Nell’ipogeo furono trovate tombe riconducibili alla civiltà dei peuceti (e romani) che fa pensare che lo zona fosse adibita a necropoli.

 

Fotografie trovate in rete: tutti i diritti sono riservati agli autori.

 

Fonti:

“Storia della Cattedrale” , su cattedraleruvo.it , 2009.

“Sistema difensivo di Ruvo di Puglia”, su ruvosistemamuseale.it , 2009

Ferdinando Ughelli, Italia sacra, Venezia, Sebastiano Coleti, 1721.