L'ESTRO PARMENSE DI GIOVANNI LANFRANCO

A cura di Mirco Guarnieri

Giovanni Lanfranco nacque a Parma nel Gennaio del 1582. Divenne paggio del conte Orazio Scotti di Montalbo a Piacenza, ma con la scoperta del talento artistico del giovane Lanfranco il conte lo mise sotto gli insegnamenti di Agostino Carracci, che in quel momento si trovava a Parma al servizio di Ranuccio Farnese per la decorazione del Palazzo del Giardino. Assieme a Sisto Badalocchio rimase al servizio del Carracci fino al 1602, anno della sua morte, per poi dirigersi su indicazione di Ranuccio Farnese a Roma presso la bottega di Annibale Carracci, che stava realizzando gli affreschi del Palazzo di proprietà del fratello Odoardo Farnese. Tra l’arrivo a Roma e il 1610 il Lanfranco realizzò assieme agli altri pittori della bottega i riquadri di scene mitologiche sulle pareti della galleria quali “Arione sul Delfino1, “Dedalo e Icaro2, “Ercole e Prometeo3 tra il 1604-05 e contemporaneamente nella cappella Herrera in San Giorgio degli Spagnoli dove secondo lo studioso Eric Shleiler, il pittore avrebbe messo mano alla lunetta raffigurante “l’Apparizione di San Diego sulla sua tomba4. Negli ultimi due anni del primo decennio il Lanfranco lavora alla cappella di Sant’Andrea sono le direttive di Guido Reni nel 1608, nell’Oratorio di Sant’Andrea in San Gregorio al Celio nel 1609 dove realizzò le figure di San Gregorio e Santa Silvia, mentre insieme a Sisto Badalocchio produsse un volume di incisioni delle Logge di Raffaello nel 1610.

Fig. 4

Il 1609 è l’anno della morte del maestro Annibale. Questo portò al ritorno del pittore nella città natale soggiornando presso il conte Orazio Scotti che gli portò numerose commissioni tra Piacenza e dintorni come il “l’Arcangelo Raffaele che sconfigge il demone5 per la cappella in San Nazaro e San Celso (Museo Capodimonte, Napoli), la pala d’altare della “Crocifissione con i Santi Pietro e Paolo, la Maddalena e la Vergine” per la chiesa parrocchiale di San Pietro a Porcigatone presso Borgo Val di Taro del 1610, mentre nel 1611 fece la decorazione, andata perduta, della cappella di San Luca per il Collegio dei Notai in Santa Maria delle Grazie di cui è ci giunta solo “la pala dedicata al Santo6. L’anno seguente è quello che vide il ritorno del pittore a Roma dove vi rimase fino al 1631. Durante questo secondo soggiorno romano realizzò la pala d’altare della “Salvazione di un’anima7 per una cappella in San Lorenzo a Piacenza (Museo Capodimonte, Napoli) in cui sono visibili elementi chiaroscurali che rimandano alla pittura di Caravaggio. Ancora più visibili sono nel dipinto “Sant’Agata visitata e curata da San Pietro8 del 1613-14 (Galleria Nazionale, Parma).

Nel 1615 il pittore firmò un contratto con Asdrubale Mattei per dipingere le volte di tre camere dell’ala settentrionale del proprio palazzo: “Giuseppe e la moglie di Putifarre9,“Giuseppe nella prigione spiega i sogni dei prigionieri10 e “l’Elia sul carro di fuoco”, andato distrutto. Sempre quell'anno il Lanfranco ricevette due importantissime commissioni: la prima arrivò dal vice-cancelliere di Santa Romana Chiesa, Alessandro Peretti Montalto, dove gli veniva chiesto di partecipare assieme a quasi tutti i pittori della bottega di Annibale Carracci alla realizzazione di un ciclo di undici quadri raffiguranti gli episodi della vita di Alessandro Magno, per ornare le pareti della villa del vice-cancelliere sull’Esquilino. Il Lanfranco realizzò “Alessandro malato mostra la lettera calunniosa al suo medico Filippo11 e “Alessandro rifiuta l’acqua offertagli da un soldato12 (Fondazione Cassa di risparmio Pietro Mondadori).

La successiva commissione portata a termine l’anno seguente fu anche la prima opera pubblica del Lanfranco a Roma, la decorazione della “cappella Bongiovanni in Sant’Agostino13ab : nella cupola il pittore elaborò l’illusionismo caratteristico del Correggio in chiave annibalesca, riprese nuovamente l’elemento chiaroscurale del Merisi nelle due opere laterali cd, mentre la pala d’altare inizialmente non prevedendo la figura del Dio Padre13e (Louvre, Parigi) venne sostituita in quella attuale 13f. Sulla stessa scia stilistica in quegli anni abbiamo la “Madonna con Bambino e i Santi Carlo Borromeo e Bartolomeo14 (Museo Capodimonte, Napoli) sempre nel 1616 e la pala raffigurante la “Vergine col Bambino in gloria tra i Santi Agostino, Borromeo e Caterina d'Alessandria15 (San Pietro di Leonessa, Rieti) del 1630.

Giovanni Lanfranco si dedicò anche ai dipinti di piccolo formato adatti agli studioli, realizzando opere come “Davide che trascina la testa di Golia16 (Fondazione Longhi, Firenze) per un membro della famiglia Gavotti, “l’Annunciazione della Vergine17 per il cardinal Montalto (Hermitage, San Pietroburgo) e “l’Assunzione della Maddalena18 (Puskin Museum, Mosca) tutte e tre realizzate tra il 1616-17 e legate dalla componente neoannibalesca.

Fig. 16

L’enorme successo ottenuto dalla decorazione della cappella in Sant’Agostino attirò l’attenzione di personaggi importantissimi come ad esempio il cardinal Scipione Borghese, papa Paolo V e il cardinal Odoardo Farnese, per cui lavorò nel primo soggiorno romano.

Nel biennio 16-17 del Seicento troviamo il pittore parmense a realizzare il Fregio di una parete della sala Regia della cappella Paolina assieme a Carlo Saraceni e Agostino Tassi, facendogli guadagnare la decorazione pittorica della volta della loggia delle Benedizioni in San Pietro. La sfortuna volle che nel 1621 con la morte del papa, il progetto non proseguì e la loggia non fu dipinta.

Con l’arrivo di Gregorio XV, al Lanfranco vengono preferiti il Guercino e Domenichino, ma nonostante ciò negli anni 20 del Seicento realizzò gli affreschi per la “cappella Sacchetti19abc in San Giovanni Battista dei Fiorentini (1622-23), per la “volta della loggia del primo piano20 a Villa Borghese (1623-24) e per la “cupola21 di Sant’Andrea della Valle (1625-27). In queste ultime due decorazioni si può notare come il Lanfranco rivolga il suo sguardo allo stile barocco.

Fig. 19
Fig. 20
Fig. 21

A Gregorio XV succedette Urbano VIII e nel 1625 il pittore gli fece richiesta di ottenere l’incarico di dipingere la “Navicella” in San Pietro per sostituire la pala rovinata di Bernardo Castello e dopo la visione della cupola da parte del pontefice gli venne ufficializzato l’incarico. Nel 1628 l’affresco venne completato portandogli la nomina di Cavaliere all’ordine di Cristo da parte del papa. In questo affresco purtroppo frammentato, viene rappresentato il momento più alto dello stile pienamente barocco del pittore.

Prima di lasciare Roma nel 1634 alla volta di Napoli, Giovanni Lanfranco venne eletto principe dell’Accademia di San Luca nel 1631 e realizzò alcune pale d’altare come quella di Spoleto22 (1632-34), Perugia (1632), Augusta (1632) e Lucerna (1633).

Fig. 22

Giunto a Napoli realizzò in poco più di un decennio gli affreschi per la cupola del Gesù Nuovo tra il 1634-36 (successivamente perduta), la “volta della navata maggiore23 della Certosa di San Martino dal 1637-38, per gli “interni24 abcdefg della chiesa dei Santi Apostoli tra il 1638-1641, per la “cupola25 barocca della Reale cappella del Tesoro di San Gennaro tra il 1641-43 e il coro della Basilica della Santissima Annunziata Maggiore anch’esso andato perduto.

Fig. 23
Fig. 25

Tornato a Roma nel 1646, Giovanni Lanfranco realizzò le ultime due opere, l’affresco del catino absidale26, e dell’arco antistante26 nella chiesa dei barnabiti dei Santi Carlo e Biagio ai Catinati.

Secondo il Bellori l’affresco sarebbe stato inaugurato tra il 4 e 5 Novembre del 1647, poco tempo prima della morte del Lanfranco.

Fig. 26

 

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-lanfranco_%28Dizionario-Biografico%29/

http://www.bollettinodarte.beniculturali.it/opencms/multimedia/BollettinoArteIt/documents/1482246588114_08_-_Toesca_337.pdf

https://core.ac.uk/download/pdf/14703481.pdf


LA GROTTA ARTIFICIALE NELLA FIRENZE MEDICEA

A cura di Luisa Generali

Introduzione: mitici antri

Tra le meraviglie e i tesori che la dinastia dei Medici potette vantare nelle proprie raccolte di opere d’arte ci fu anche il genere della grotta artificiale da giardino. Questi antri rocciosi che volevano imitare gli ambienti ipogei naturali furono concepiti come vere e proprie architetture rustiche, orchestrate in modo da suscitare delizia e stupore negli astanti. Nate sugli esempi delle grotte e dei ninfei romani, tali costruzioni divennero dal Cinquecento in avanti una moda diffusa fra le nobili famiglie che in tali artifici trovavano il piacere di esprimere le proprie ricchezze. Il primo ruolo assunto da queste “fabbriche bucoliche” era senz'altro il fine concreto di realizzare uno spazio di sosta per assicurare fra i percorsi del giardino un riparo dalle calure estive: per di più all'interno i questi anfratti venivano spesso allestiti impianti idrici che consentivano la messa in opera di fontane e giochi d’acqua, rafforzando l’effetto d’insieme dell’ambiente fresco e gradevole. La presenza delle grotte nei parchi costituiva anche l’immagine di un luogo ameno che richiamasse l’antichità e i suoi miti, a cui frequentemente erano consacrate le decorazioni interne alla camera, finalizzate ad un’allegoria encomiastica-celebrativa del proprietario.

La Grotticina di Madama nel Giardino di Boboli: la prima grotta artificiale

La Grotticina di Madama nel giardino di Boboli (così chiamata probabilmente in omaggio alle granduchesse medicee cui spettava il titolo di “Madama”) rappresenta il primo esempio di grotta artificiale compiuto a Firenze fra il 1553 e il 1555 sotto il ducato di Cosimo I de Medici (fig. 1). Il progetto già teorizzato da Tribolo e portato avanti dopo la sua morte dal genero Davide Fortini, in seguito affiancato da Giorgio Vasari, prevedeva la realizzazione di un piccolo edificio vicino al muraglione occidentale che definiva il confine del parco, in una zona riservata alle frequentazioni private della famiglia. Questo vero gioiello architettonico presenta il corpo di fabbrica esterno rivestito da una parete rocciosa e inquadrato da una cornice in pietra: l’estremità è conclusa da un timpano, mentre al centro si apre una porticina in marmo posta di sbieco e leggermente incavata nella facciata. All'interno si apre una stanza voltata a botte, coperta dalle medesime escrescenze naturali, quali tartari e stalattiti, in dialogo con un concerto di arti (pittura, architettura, scultura) che decorano l’ambiente attribuendogli un molteplice significato allegorico (fig. 2-3-4). Il soffitto, spartito da lacunari in spugne e cornici in stucco, contiene specchiature dipinte a grottesche ed episodi mitologici, realizzati da Francesco di Ubertino, detto Bacchiacca (1494-1557), già attivo per altri incarichi promossi dal duca: la decorazione a grottesche era evocativa delle celebri pitture rinvenute nei sotterranei della Domus aurea di Nerone, le cosiddette "grotte" da cui deriva il termine grottesche. Alle modulazioni del soffitto corrispondono gli ornamenti geometrici-classicheggianti del pavimento in cotto bianco e rosso, opera del 1556 di Santi Buglioni (1494- 1576). Le mura laterali, coperte dalla medesima roccia spugnosa che caratterizza l’intero complesso, sono interrotte da due pannelli in stucco bianco, probabilmente compiuti in epoca lorenese per collocarvi arredi da giardino e sculture minori. La parete di fondo che si apre di fronte all'entrata costituisce l’essenza della grotta, creando una sorta di quadro plastico dove sono protagoniste delle sculture animali con la funzione non meno importante di fontana. La parete centinata rappresenta un monte roccioso in cui la zona superiore è dominata da una Testa di ariete, mentre al di sotto, rivolte verso questa in atteggiamento quasi contemplativo, due capre sono abbarbicate in precario equilibrio su protuberanze rocciose scolpite nella pietra serena (fig. 5). Nella sezione inferiore un’altra capra dalle dimensioni maggiori e le mammelle gonfie rivolge lo sguardo agli astanti, affiancata da due Puttini con delfino, aggiunti alla composizione d’insieme in un secondo momento. Conclude la composizione una vasca ovale con volute su zampe di leone, oggi sostituita da una copia (l’originale si trova lungo il fronte di palazzo Pitti), che aveva lo scopo di raccogliere l’acqua zampillante dalla parete. Le sculture-fontana furono eseguite da Giovanni Paolo Fancelli (inizio XVI secolo-1586), allievo di Baccio Bandinelli (a eccezione della capra centrale assegnata dalla critica proprio al suo maestro), come testimonia Vasari nella Vita di quest’ultimo, in cui il biografo riferisce anche il merito dell’intera commissione alla duchessa Eleonora dei Toledo “Servivasi ancora la Duchessa assai di Baccio nel giardino de’ Pitti, dove ella aveva fatto fare una grotta piena di tartari e di spugne congelate dall’acqua, dentrovi una fontana, dove Baccio aveva fatto condurre di marmo a Giovanni Fancelli suo creato un pilo grande et alcune capre quanto il vivo, che gettano acqua […]".

Fig. 1 - Facciata della Grotticina di Madama, Firenze, Giardino di Boboli.

Il tema pastorale che prende a modello la capra come immagine di resistenza e forza capace di sopravvivere alle avversità non basta tuttavia a giustificare l’insistenza in questa grotta artificiale sul significato dell’animale, che si collega infatti, secondo sottilissimi riferimenti mitologici, alla celebrazione di Cosimo I come Giove (o Zeus per i greci), signore degli dei. Tale parallelismo trae origine dalla scelta da parte del duca di adottare come ascendente astrale il segno del capricorno, collegandosi idealmente con i potenti nati sotto tale costellazione, come Cesare Augusto e Carlo V, protettore dello stesso ducato fiorentino. L’iconografia del capricorno, considerato di buon auspicio, vessillo di forza e potere imperiale trova qui, in assonanza con l’amenità del luogo, un diretto collegamento con il mito idilliaco della capra Amaltea, legato all'infanzia di Giove, quando la madre Rea (o Opi) lo sottrasse alla voracità del padre Crono, per nasconderlo a Creta nella caverna del monte Ida e affidarlo alle cure delle ninfe Adrastea e Melissa che lo nutrirono con del miele e il latte della capra. Il richiamo a questo episodio mitico si univa al concetto di grotta madre, dispensatrice della nuova vita inaugurata dal governo cosimiano, oltre a voler mantenere un filo diretto con l’antichità classica dei templi pagani ed in particolare riferendosi all’Amalheion, l’edificio sacro alle ninfe intitolato ad Amaltea, che spesso trovava collocazione nei boschi in prossimità di sorgenti o corsi d’acqua.

Altri riferimenti simbolici narrati dal mito arricchirono l’iconografia intorno ad Amaltea, come la cornucopia, derivata da un suo corno spezzato, che assunse il significato di fertilità e abbondanza; inoltre alla sua morte, in segno sempiterno di riconoscenza, Giove scelse di tramutarla in una stella, identificata con Capella (termine latino che significa capra) nella costellazione dell’Auriga insieme ai suoi due capretti. Secondo alcune varianti del mito Giove trasse dalla sua pelle perfino il suo infallibile e potente scudo, l'Egida.

Un equivalente pittorico del mito di Amaltea si trova anche a Palazzo Vecchio, nel cuore del potere politico fiorentino, in quello che viene chiamato il Quartiere degli Elementi, un ambiente di più stanze destinato agli uffici di corte e agli ospiti, decorato fra il 1551 e il 1566 durante i lavori di ampliamento del Palazzo voluti dallo stesso duca. Nella Sala di Giove eseguita da Giorgio Vasari e i suoi collaboratori (Marco da Faenza, Cristofano Gherardi e Giovanni Stradano), in un corrispettivo di rimandi con la sala di Cosimo I al primo piano, si celebravano le glorie e le virtù del duca assimilandolo a Giove, proprio come nella Grotticina di Madama. Tra le opere pittoriche su tavola che addobbano il soffitto si trova l’episodio in cui Giove è allattato dalla capra Amaltea (fig. 6), aiutato dalle ninfe Adrastea, mentre tiene ferma la capra nel momento dell’allattamento, e Melissa (come suggerisce il suo nome che significa “ape”) raffigurata mentre tiene in mano un alveare.

Fig. 6 - Vasari e collaboratori, Giove è allattato dalla capra Amaltea, 1551-1556 c., Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Giove.

La Grotta degli Animali o del Diluvio nella villa dei Medici a Castello: l'iconografia

Il ruolo metaforico assegnato alle sculture raffiguranti animali, di rimando alla celebrazione della casata Medici, venne eseguito su larga scala nella Grotta degli Animali detta anche del Diluvio, situata nel giardino della villa medicea di Castello, alle porte di Firenze: questo enigmatico ambiente, concepito da Tribolo intorno 1540 e portato avanti dal genero Fortini in un periodo di tempo che va dagli anni ‘60 fino al 1595 circa (quando già al potere di Firenze era succeduto il figlio di Cosimo, Francesco I), rappresenta una lode al regno animale pacificato grazie alla condotta esemplare del duca di Firenze. Al suo interno, in tre grandi nicchie si trovano gruppi scultorei di animali nostrani ed esotici riuniti in modo apparentemente casuale con le relative vasche marmoree per il raccoglimento dell’acqua (fig. 7); proprio questo elemento doveva rivestire un ruolo cardine se pensiamo all'altro nome con cui è indicata la grotta, anche detta del Diluvio, forse in analogia con l’episodio biblico dell’Arca di Noè che portò in salvo dal diluvio universale ogni specie animale vivente sulla terra.

Fig. 7 - Veduta d’insieme della Grotta degli Animali, Firenze, Giardino di Castello.

Ma l’allusione al diluvio poteva anche riferirsi più letteralmente alla vera e propria “inondazione” di acque provenienti dal pavimento che investivano il visitatore nella grotta artificiale: questi giochi d’acqua concepiti come un sistema di spruzzi e zampilli di fine pioggerellina sono considerati un capolavoro dell’ingegneria idraulica, recuperati grazie al restauro concluso nel 2019 che ha permesso il ripristino dei sistemi idrici e la loro scenografica riattivazione (fig. 8).

Fig. 8 - Giochi d’acqua nella Grotta degli Animali, Firenze, Giardino di Castello.

Come per la Grotticina di Madama, anche a Castello si cela un fine programma iconografico rivolto all'esaltazione della famiglia Medici, ad oggi ancora di difficile comprensione considerata la moltitudine di riferimenti figurativi che popolano questa grotta artificiale e le trasformazioni che hanno alterato nel corso del tempo il progetto originale. Secondo recenti studi la conformazione della grotta artificiale sarebbe stata concepita sul modello del tempio di Egeria a Roma sulla via Appia, di cui oggi rimangono i ruderi risalenti al II secolo d.C., già scoperti nel Cinquecento e in cui per l’occasione del passaggio di Carlo V a Roma nel 1536 vi venne preparato un banchetto. A supportare le analogie fra le due costruzioni interviene il significato iconologico inerente alla storia mitica della ninfa Egeria, moglie e consigliera di Numa Pompilio, secondo re di Roma, che per stilare le nuove leggi del suo regno si affidò ai suggerimenti dell’amata, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Grazie probabilmente al supporto intellettuale di Benedetto Varchi, che Vasari ricorda essere “amicissimo di Tribolo”, la leggenda di Numa Pompilio ed Egeria si poté traslitterare modernamente nelle figure di Cosimo e la moglie Eleonora, come regnanti leali ed equi, consacrati implicitamente dalle radici storiche romane. Testimoniano tale corrispondenza ideologica diversi componimenti letterari con finalità elogiative che indicano la centralità di questo mito a partire dai primi anni Quaranta del Cinquecento, e che in particolar modo celebrano la figura Eleonora quale alter ego della ninfa, moglie fedele e consigliera saggia.

Secondo alcuni disegni, il primo progetto di Tribolo immaginava l’inserimento nella grotta artificiale di due sculture raffiguranti Pan e Nettuno, poste ai lati della camera, mentre la terza testata sarebbe stata dunque riservata a Eleonora come nuova Egeria, e a Cosimo, suo consorte, come Numa Pompilio. Le successive modifiche condussero invece su tutt'altro piano, con la messa in opera delle tre nicchie animali e il probabile inserimento centrale di una statua (oggi andata persa) raffigurante un Orfeo citaredo (suonatore di cetra). La presenza del cantore, famoso per la sua incantevole musica capace di domare gli animali, e l’epilogo triste delle sue vicende amorose con la moglie Euridice, aveva dato luogo a Firenze ad una serie di assimilazioni concettuali con il potere mediceo. In primo luogo, ricordiamo la commissione di Papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de' Medici) che nel 1519 assegnò a Baccio Bandinelli (1493-1560) la statua di Orfeo e Cerbero per il cortile del palazzo Medici in Via Larga a Firenze (fig. 9): in questo caso l’episodio si riferisce al viaggio che Orfeo dovette affrontare per raggiungere la moglie nell'oltretomba, riuscendo a placare il terribile cane a tre teste, Cerbero, di guardia alla porta degli inferi. Il significato metaforico della scultura voleva qui presumibilmente alludere alle straordinarie capacità di saper conciliare e ammansire sotto il potere mediceo qualsiasi temibile nemico. A tal proposito anche Vasari nella vita di Bandinelli ricorda quest’opera, plasmata sul celebre modello dell’Apollo del Belvedere: “Tornato Baccio a Roma, impetrò dal Papa per favore del cardinal Giulio de’ Medici, solito a favorire le virtù et i virtuosi, che gli fusse dato a fare per lo cortile del palazzo de’ Medici in Firenze alcuna statua, onde venuto in Firenze fece un Orfeo di marmo, il quale col suono e canto placa Cerbero e muove l’Inferno a pietà. Immitò in questa opera l’Appollo di Belvedere di Roma, e fu lodatissima meritamente perché, con tutto che l’Orfeo di Baccio non faccia l’attitudine d’Appollo di Belvedere, egli nondimeno immita molto propriamente la maniera del torso e di tutte le membra di quello. Finita la statua, fu fatta porre dal cardinale Giulio nel sopraddetto cortile, mentre che egli governava Firenze, sopra una basa intagliata, fatta da Benedetto da Rovezzano scultore”.

Fig. 9 - Baccio Bandinelli, Orfeo e Cerbero, 1519, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi.

Lo stesso episodio ricompare più avanti nel Ritratto di Cosimo I de 'Medici come Orfeo di Agnolo Bronzino (1537-1539) conservato al Philadelphia Museum of Art (fig. 10). Al celebre personaggio vengono qui conferite le fattezze del duca, mentre l’incantesimo della musica su Cerbero sembra già in atto. La posa sensuale del corpo nudo di Cosimo, memore degli avvitamenti michelangioleschi, è coniugata al tipico pittoricismo cristallino ed impeccabile che distingue lo stile di Bronzino. L’intento encomiastico dell’opera rivela anche in questo caso le virtù di Cosimo come Orfeo, pacificatore e cultore delle arti, oltre che marito fedele e integerrimo: la fedeltà coniugale come chiave di lettura del dipinto si unisce alla possibilità che questo fosse stato commissionato proprio con l’occasione del matrimonio della coppia ducale avvenuto nel 1539.

Fig. 10 - Agnolo Bronzino, Ritratto di Cosimo I de 'Medici come Orfeo, 1539 c., Philadelphia, Museum of Art.

A Castello il mito si sarebbe invece riferito al ruolo di Orfeo nelle vesti di conciliatore del mondo animale, in un’iconografia che trovava molti riscontri nell'antichità romana come documenta il mosaico pavimentale conservato al museo archeologico Antonio Salinas di Palermo raffigurante Orfeo tra gli animali datato al III secolo d. C. (fig. 11). Oltre alla composizione d’insieme che vede il cantore attorniato da una cornice di animali, come doveva verificarsi nel vano della grotta artificiale di Castello, anche i valori allegorici assunti dalla figura di Orfeo nell'antichità vennero adottati e traslitterati modernamente dalla propaganda medicea. La fortuna di questo tema venne già sviluppata dai greci e ampiamente diffusa dai romani, in epoca imperiale e successivamente nella tarda antichità, assumendo una molteplicità di significati fra cui la celebrazione propagandistica dell’impero grazie all'assimilazione del princeps con Orfeo. Secondo una lettura politico-ideologica, l’azione pacificatrice e civilizzatrice della società romana era dunque espressa dal poeta-cantore come emblema di concordia, capace con la sua musica di riunire intorno a sé gli animali docili e quelli feroci. Secondo un’altra interpretazione, che spiega l’exploit di tale soggetto fra il II e il III secolo, c’era il desiderio crescente di una nuova speranza che ponesse fine al clima conflittuale e di incertezza che attanagliava l’impero, auspicando una rinata età dell’oro con soluzioni figurative che richiamassero tematiche pastorali e idilliache. Un altro significato è la figura di Orfeo come simbolo di armonia ed equilibrio del cosmo, per cui anche il nome del duca Cosimo (dal significato greco di ordine-armonia) poteva sottilmente alludere nel processo identificativo col personaggio. Infine, anche l’arte paleocristiana impiegò la figura pagana di Orfeo come incarnazione di Cristo, allusivo al ruolo di conciliatore di anime, vicino all'immagine del buon pastore, ed instaurando un parallelismo con l’ambientazione bucolica della scena, come prefigurazione del paradiso.

Fig. 11 - Arte romana, Orfeo tra gli animali, III secolo d. C, Palermo, Museo archeologico Antonio Salinas.

La Grotta degli Animali nella villa dei Medici a Castello: descrizione

Entrando nel merito di quello che oggi rimane a Castello, vediamo come le pareti di questa grotta artificiale siano coperte da un manto roccioso nell'imitazione puntuale di una vera concavità ipogea, mentre la volta propone una decorazione con maschere e motivi all'antica composta da mosaici di conchiglie e ciottoli colorati (fig. 12). Ai lati e di fronte all'ingresso sono scavate tre edicole contenenti le sculture degli animali: la messa in scena teatrale di tali serragli lapidei evoca un effetto trionfalistico finalizzato all'apoteosi del regno animale. Le singole sculture sono realizzate in pietre eterogenee scelte rispetto alle caratteristiche del vello di ogni esemplare, in modo da restituirne un’impressione pittorica e verosimile: difatti le screziature e le venature di alcuni marmi utilizzati favoriscono l’effetto di mimesi, incrementando quella percezione d’insieme al confine fra natura e artificio. In un primo momento la realizzazione degli animali doveva combinare anche l’unione di materiali lapidei e spugne, per favorire maggiormente l’assimilazione delle sculture con l’ambiente selvaggio e primigenio della grotta, un’ipotesi scartata a favore dell’uso integrale della pietra a cui si accompagnò, probabilmente in epoca successiva, l’introduzione di autentiche corna e zanne animali (fig. 13). L’intento originario (oggi in parte perduto) era quello di illustrare in un unico ambiente l’unione armonica di tutte le specie animali, come rappresentanti dell’acqua, della terra e del cielo: dalle vasche decorate con rilievi iperrealistici raffiguranti specie marine, ai mammiferi grandi e piccoli che popolano la superficie del globo, ai volatili in bronzo, oggi non più presenti nell'arredo della grotta. All'interno delle nicchie le sculture degli animali si trovano inerpicate le une con le altre, in modo da formare un gruppo ascensionale, in cui certi esemplari sono messi in posa, mentre altri si presentano in azione, interagendo fra loro (fig. 14-15-16): le specie più minute appaiono soggiogate in una sorta di piramide gerarchica in cui domina la fiera più forte, pur mantenendosi nell'insieme un equilibrio armonico di fondo basato sul rispetto dell’ordine naturale (fig. 17). Per quanto concerne la realizzazione delle sculture, Bartolomeo Ammannati (1511-1592) e Giambologna (1529-1608) certamente ebbero un ruolo primario nella realizzazione degli uccelli in bronzo, come già accennato non più presenti a Castello, ma attualmente conservati in buona parte al Museo Nazionale del Bargello, nella loggia esterna al primo piano (fig. 18). Anche i volatili vennero riprodotti secondo specie distinte, dai più comuni come il gallo, il fagiano, il pavone, agli uccelli rapaci quali il gufo e l’aquila reale. L’immaginazione di Giambologna si riconosce nel Tacchino (fig.19), una tra le prime raffigurazioni di questo animale proveniente dall'America, in cui stupisce la resa naturalistica del piumaggio che sfrutta gli effetti peculiari della fusione del bronzo. I volatili realizzati a grandezza naturale, rilucenti grazie allo stillicidio dell’acqua che scivolava sulle loro superfici bronzee, si dovevano trovare secondo il progetto originale arroccati fra le rocce della grotta di Castello, forse su appositi sopporti che imitavano sporgenze arboree. Rimangono invece ancora incerti gli autori degli animali in pietra, per cui oltre all'ipotetico apporto di Giambologna e Ammannati, dai documenti emerge anche la presenza di altri nomi quali Antonio Lorenzi, e la famiglia del Tadda con a capo Francesco Ferrucci Del Tadda (1497- 1585) e i figli Giovan Battista e Romolo, scalpellini e scultori originari di Fiesole. Il genere animalier, così bene espresso nella grotta di Castello grazie ad un’accorta e peculiare attenzione al dettaglio naturalistico per cui si ha l’impressione di trovarsi immersi in un bestiario tridimensionale, trovò a Firenze il giusto clima culturale per potersi affermare. Innanzitutto l’interesse per la fauna selvatica era già notoriamente diffuso a Firenze, in relazione alla passione per la caccia che coinvolse fin dagli albori la famiglia Medici, tanto che verso la metà del secolo fu lo stesso Cosimo I a commissionare al fiammingo Giovanni Stradano (1523-1605), la realizzazione dei cartoni per la serie di arazzi dedicati alle Scene di Caccia, destinati alla villa di Poggio a Caiano. Le numerose incisioni circolanti dello Stradano, famoso per le sue variazioni sul tema, di cui si riporta un esempio di Caccia allo struzzo (fig. 20), contribuirono all'idealizzazione del mondo animale come meraviglioso e bizzarro, enfatizzato dallo stile nordico dell’artista che predisponeva scene affollate e vivaci, cariche di meticolosi dettagli. Fra gli episodi realizzati dallo Stradano i soggetti si distinguevano proprio rispetto dell’ecosistema di appartenenza, come cacce terrestri, d'aria e d'acqua, sempre accompagnati dalla presenza costante dell’uomo, capace di conformare la natura alle sue necessità.

Fig. 20 - Giovanni Stradano, Philip Galle, Caccia allo struzzo, seconda metà XVI secolo.

Oltre la grotta artificiale: capodogli, "camelopardi" e giraffe

Oltre alla passione per la caccia, nacque a Firenze una crescente attrazione per il mondo naturale nelle forme di sapere enciclopedico, così come nelle grandi corti europee, sulla scia delle nuove scoperte geografiche, che incrementarono la curiosità e il desiderio di conoscenza sui misteri della natura ancora da svelare. Anche Cosimo comprovò il suo interesse per lo studio di reperti naturali e botanici, conciliando il sapere proveniente dall'antichità greco-romana con il pensiero moderno, che guardava alle stranezze naturali come un vanto propagandistico di corte. Nel 1549 il duca dette prova apertamente della sua passione per le rarità animali, ordinando la sistemazione di una grande carcassa di capodoglio proveniente da Livorno sotto la Loggia dei Lanzi. La dimostrazione pubblica dell’enorme esemplare aveva lo scopo di destare stupore nel popolo e al contempo sottintendere alla raffinatezza intellettuale del regnante. Questo tipo di auto-celebrazione rimandava agli usi e ai costumi dell’antichità narrati dalle fonti classiche che testimoniavano come già i romani impiegassero i resti animali per la celebrazione degli imperatori ed anche Augusto, guida ispiratrice di Cosimo, fosse solito adornare le sue ville con meraviglie di questo tipo.

Faceva inoltre parte del fasto della corte medicea il serraglio, quale emblema di sontuosità principesca, presente anche a Firenze in prossimità di Palazzo Vecchio, poi trasferito nella zona di San Marco, e di cui facevano parte animali selvaggi nostrani quali lupi e orsi, ma anche tigri e leoni.

Alcune specie esotiche provenienti da zone lontane del mondo, agli occhi degli europei considerate straordinarie per la loro bizzarria e particolarità, furono talvolta catturate e sottratte ai loro habitat per diventare oggetto di scambio o dono. Un evento singolare che rimase a lungo nella memoria storica di Firenze riguarda proprio la famosa “Giraffa Medici”, il cui arrivo in città destò lo stupore della folla e degli artisti che riprodussero questa creatura come “citazione” dell’illustre episodio. Secondo le cronache la giraffa arrivò dall'Egitto nel 1487 e fu presentata a Lorenzo de’ Medici dagli ambasciatori egiziani del sultano, insieme ad altri omaggi. Nello specifico questi doni facevano parte di un’azione diplomatica svolta dal Magnifico, a cui gli ambasciatori richiesero la sua mediazione nel rilascio del fratello del sultano che era prigioniero in Francia. Anche in questo caso fu determinante ai fini encomiastici l’associazione di tale avvenimento con un episodio analogo della romanità che nel 46 a.C vide Giulio Cesare celebrare il suo trionfo in Egitto portando a Roma anche una giraffa, denominata dagli antichi "camelopardo".

Celebri sono le raffigurazioni della “Giraffa Medici” che suscitò tanto clamore e curiosità: in pittura soprattutto l’animale iniziò a figurare a fianco di Lorenzo il Magnifico, in ricordo dell’evento, ma anche indipendentemente in contesti diversi come nel caso dell’Adorazione dei Magi di Domenico Ghirlandaio per il ciclo di affreschi nella Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella (1485 al 1490): nel paesaggio retrostante sullo sfondo della scena alla scena principale nel corteo orientale compare anche una giraffa, dall'aspetto realistico in cui viene conferito particolare risalto all'aggraziato portamento (fig. 21-22).

Un altro riferimento visivo che ricorda tale vicenda è presente nell'opera canadese raffigurante Vulcano ed Eolo maestri dell'umanità (fig. 23) da datare fra il 1500-1505, appartenente al ciclo smembrato delle Storie dell'umanità primitiva, dipinto da Piero di Cosimo (1461-1522): questo artista famoso per la sua eccentricità viene descritto da Vasari come “molto astratto e vario di fantasia”, a cui piaceva “investigare certe sottigliezze della natura” e recarsi spesso “a veder o animali o erbe o qualche cosa, che la natura fa per istranezza et ccaso di molte volte”. Il vivo interesse di Piero di Cosimo per il mondo naturale venne apprezzato anche da Cosimo I, come ricordato ancora una volta da Vasari, che tra le collezioni del duca cita “pur di mano di Piero un libro d’animali della medesima sorte, bellissimi e bizzarri, tratteggiati di penna diligentissimamente e con una pazienza inestimabile condotti”. Molte delle opere oggi attribuite a Piero di Cosimo dimostrano l’effettiva sensibilità del pittore verso il regno animale, come comprova l’Incendio nella foresta (fig. 24), dello stesso ciclo sopraindicato (forse in origine appartenuto secondo la testimonianza vasariana al palazzo di Francesco Del Pugliese), in cui sono presentate in primo piano diverse specie animali locali ed esotiche, accostate a creature bizzarre.

Anche il già citato Bacchiacca, lo stesso autore della decorazione del soffitto della Grotticina di Madama a Boboli, ricordato per essere un eccellente pittore di animali, rende omaggio alla famosa Giraffa Medici citandola nella Caduta della Manna (1540/1555), esposta alla National Gallery of Art di New York (fig. 25). Intorno al 1545 Bacchiacca fu all'opera nello scrittoio di Cosimo al piano mezzanino di Palazzo Vecchio, in una decorazione di stampo enciclopedico-scientifico assai moderna. L’ornamento realizzato con la tecnica dell’olio a muro, e per questo oggi molto deteriorato, rappresentava piante e specie vegetali, la cui veridicità è stata accostata ad un erbario o un tratto di botanica, per cui fu necessaria probabilmente da parte dell’artista un’imitazione reale dei campioni. L’ambiente, oggi purtroppo non inserito nel percorso di visita del palazzo per motivi conservativi, si presenta come un piccolo vano ribassato e voltato, decorato inoltre con specie volatili e grottesche in un richiamo onnipresente all'antichità.

Fig. 25 - Francesco di Ubertino, detto Bacchiacca, Caduta della Manna, 1540-1555, New York , National Gallery of Art.

Sempre in relazione con i lavori di restauro a Palazzo Vecchio, il duca volle ricordare nella stanza dedicata al Magnifico anche il memorabile episodio della giraffa, commissionando a Vasari e i suoi collaboratori l’episodio del Tributo degli ambasciatori a Lorenzo (1556 e il 1557): la scena esalta il ruolo di Lorenzo al centro della devota folla di delegati che gli offre tesori ed animali esotici, tra cui al di sopra di tutti svetta il lungo e flessuoso collo dell’animale (fig. 26).

Fig. 26 - Vasari e collaboratori, Tributo degli ambasciatori a Lorenzo, 1556-1557, Firenze, Stanza del Magnifico, Palazzo Vecchio.

La stessa citazione reiterata nelle testimonianze figurative del secolo si trova scolpita anche a Castello, nell'edicola sinistra (fig. 27). La scultura ha un aspetto realistico, conferito anche grazie all'uso della pietra maculata che ricorda verosimilmente il manto della giraffa. A fianco delle sculture di animali desunti da modelli reali, nella grotta figurano anche altri esemplari celebri, tratti da riferimenti iconografici ormai affermati: fra questi, il più noto è senz'altro il rinoceronte, ricalcato sul disegno celeberrimo di Albrecht Dürer (1471-1528) che nel 1515 aveva diffuso tramite incisione l’immagine del primo esemplare indiano portato a Lisbona come dono al re portoghese Manuele I (fig. 28). L’artista che non vide l’animale dal vivo ma a cui pervennero testimonianze disegnate e scritte, modificò l’aspetto reale del rinoceronte, forse volutamente con elementi di fantasia o per equivoco, contribuendo a divulgarne un’immagine ancor più mitica. La fortuna della xilografia di Dürer divenne un modello iconografico diffusissimo tanto che perfino a Castello la scultura del rinoceronte (adiacente alla parete nel vano sinistro) ne conserva i medesimi dettagli immaginativi, come l’epidermide simile ad un’armatura e il dettaglio, piccolo ma significativo, del secondo corno sulla schiena (fig. 29).

Fig. 27 - Grotta degli Animali, dettaglio, Firenze, Giardino di Castello.

Il cinghiale presente nella nicchia destra venne invece realizzato su imitazione di un pezzo antico rinvenuto alle pendici dell’Esquilino nel 1556 ed in seguito offerto in dono da Papa Pio IV a Cosimo I de’ Medici che lo espose a Palazzo Vecchio (oggi agli Uffizi, fig. 30-31). L’opera risalente al II-I secolo a.C. e ispirata a un modello ellenistico dovette interessare particolarmente il duca per gli straordinari esiti naturalistici, offrendo ai suoi artisti un modello antico da studiare e riprodurre: la statua del cinghiale venne infatti ricalcata a Castello e più tardi (1633) sul medesimo modello antico fu forgiato il famosissimo Porcellino di Pietro Tacca per la Loggia del Mercato Nuovo (l’originale al Museo Bardini, fig. 32).

Tra gli esemplari esotici scolpiti a Castello compaiono anche il cammello, l’elefante e due scimmie, entrati a far parte del comune repertorio figurativo (fig. 33): anche i cani, più volte riprodotti fra i serragli della grotta, trovano una corrispondenza iconografica nelle scene pittoriche cinegetiche in cui venivano spesso ritratti in azione durante i frenetici inseguimenti della caccia (fig. 34). Tra l’innumerevole serie di animali orientali e nostrani, di cui solo l’unicorno esula dalla realtà, l'iconografia delle fiere è probabilmente da leggersi su più fronti, simbolici e celebrativi, come il leone nella nicchia centrale (fig. 35), personificazione ed immagine araldica di Firenze, che fu già restituita magnificamente nel Marzocco di Donatello nei primi decenni del Quattrocento (fig. 36): un medesimo rimando diretto al centro del potere fiorentino è assegnato al cavallo scalpitante nell'edicola orientale (fig. 37), attribuito alla mano di Bartolomeo Ammannati per la somiglianza con i cavalli marini della Fontana del Nettuno, capolavoro dello stesso artista realizzata tra gli anni ‘60 e ‘70 del XVI secolo in piazza della Signoria.

 

Bibliografia

Vasari, Vita di Piero di Cosimo in Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Ed. Einaudi, 2015, pp. 565-571.

Vasari, Vita di Baccio Bandinelli scultore fiorentino in Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568 Ed. Newton Compton Editori, 1997. Testo integrale presente su https://it.wikisource.org/

Vossilla, “Cosimo I, lo scrittoio del Bachiacca, una carcassa di capodoglio e la filosofia naturale”, in Annunci del Kunsthistorisches Institut di Florenz, 37.1993,2 / 3, pp. 381-395.

Medri, La grotta di Madama, in Il Giardino di Boboli, a cura di Litta Maria Medri, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, p. 98.

Medri, Le grotte, in Il Giardino di Boboli, a cura di Litta Maria Medri, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, pp. 68-103.

Medri, Il Cinquecento: le sculture e le fontane; allegoria mitologiche e "Villani" nel giardino, in Il Giardino di Boboli, a cura di Litta Maria Medri, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, pp. 108-125.

Masseti, “Sculptures of mammals in the Grotta degli Animali of the Villa Medici di Castello, Florence, Italy: a stone menagerie”, in Archives of natural history, 35 (1) 2008, pp. 100-104.

Cascianelli, Orfeo citaredo incantatore di animali: il mito, l'iconografia, i significati, la fortuna, in Le catacombe di San Callisto, storia, contesti, scavi, restauri, scoperte; a proposito del cubicolo di Orfeo e del Museo della Torretta, a cura di Fabrizio Bisconti e Matteo Braconi, Todi 2015, pp. 141-155.

Ferretti, S. Lo re, “Il ninfeo di Egeria sulla Via Appia e la grotta degli Animali di Castello: mito e architettura tra Roma e Firenze”, in Opvs incertvm, anno 4 (2018), pp. 14-23.

Giannotti, “La grotta genitrice: dal mito classico allo zoo di pietra”, in Opvs incertvm, anno 4 (2018), pp. 24-35.

 

Sitografia

Restauro grotta degli Animali a Castello: www.lanazione.it/firenze/cronaca/restaurata-grotta-villa-medicea-castello-1.4454363

Mostra Stradano: www.fermataspettacolo.it/flowcost/curiosita-e-bizzarrie-nelle-cacce-dello-stradano-a-cerreto-guidi


GLI EX LIBRIS DEL FONDO LEBORONI A MACERATA

A cura di Matilde Lanciani

Introduzione: gli ex libris nella storia

Se parliamo di ex libris facciamo riferimento ad una tipologia di arte contrassegnata storicamente come “minore” ma che presenta nel suo piccolo universo una varietà di elementi culturali ed artistici che ne fanno un piccolo scrigno culturale. Con questo termine (con le varianti ex biblioteca, ex catalogo, simbulum bibliothechae, ex libris musicis, ex libris medicinae, ex libris eroticis..) indichiamo infatti un’incisione, solitamente di piccolo formato, eseguita in pochi esemplari numerati, secondo la richiesta di un committente mediante una serie di tecniche incisorie come la stampa a rilievo o alta, la stampa in cavo e la stampa in piano. L’ex libris, posto sul piatto interno alla copertina di un libro, indica infatti, come suggerisce la locuzione latina “ex” ossia “da”, che quel libro appartiene alla determinata collezione di un qualsivoglia bibliofilo, collezionista o studioso.

Nell’ex libris compaiono solitamente motti o stemmi che fanno riferimento alle caratteristiche di chi li commissiona per affermare la propria dotazione libraria e ribadirne la proprietà. Andrea Galante ne “Gli ex libris tedeschi”, articolo del 1987 sulla rivista “Emporium”, riporta un simpatico motto di un gentiluomo inglese che fece incidere sui suoi ex libris queste parole:

“My book is a thing

my fist ist an other

if you steal one

you will feal the other”.

(“Il mio libro è una cosa, il mio pugno un’altra. Chi ruba il primo proverà l’altro”).

Questa attestazione di possesso porta con sé moltissimi significati artistici e storici che è possibile ravvisare in una tipologia artistica così rara e preziosa: in primo luogo dà notevoli indizi sul periodo al quale appartiene l’ex libris, sull'individualità e le peculiarità di chi lo commissiona e anche sui connotati degli artisti che lo realizzano e dei modelli ai quali si ispirano.

I primi ex libris sono da ricercare addirittura nell'Antico Egitto, sappiamo che i rotoli di papiro del Faraone Amenophis (XV sec. a.C) venivano contrassegnati da una piastrina che recava il nome della coppia regnante. Allo stesso modo, in Cina, dopo l’invenzione della carta, l’ex libris assumeva quello stesso significato allegorico che gli è attualmente attribuito.

“Con questi precedenti – scrive E. Bragaglia – l’invenzione della stampa trovava nell’ex libris l’elemento perfetto in tutte le sue componenti; veniva stampato con gli stessi torchi utilizzati per il libro, le figurazioni simboliche erano incise su legno, analogamente alle illustrazioni che ornavano i libri più fastosi”.

Il primo esemplare riferibile a quest’arte è stato rinvenuto in Germania nel 1470, appartenente al religioso bavarese Hans Knabensberg. Successivamente nella personalità di Albrecht Dürer troviamo un grande punto di riferimento con la prima attribuzione di un ex libris del 1516 destinato a Hieronymus Hebner, giudice di Norimberga.

Michael W., X bn.

In ambito italiano il Bertarelli indica come documento principale a testimonianza di questa pratica artistica un ex libris eseguito per Mons. Cesare dei Conti Gambara, consacrato Vescovo di Tortona nel 1548 e poi un altro ancora per il giureconsulto pistoiese Niccolò Pilli, entrambi incisi su legno. Jacopo Contarini commissionò un altro esemplare nel 1560, posto a circoscrivere la raccolta da lui donata alla biblioteca di San Marco a Venezia, ne troviamo altri esempi in quelli di Bernardo Clesio e Gerolamo Veratti fra Trento e Ferrara. Nell'Italia rinascimentale sicuramente la tecnica incisoria ebbe una particolare fioritura grazie anche al Pollaiolo e al Mantegna, figure di spicco per quanto riguarda la divulgazione di questa pratica da cui deriva anche la tematica exlibristica. Nel ‘600 il disegno diventa più ricco e adorno con nastri, tralci di vite, rami fioriti ecc., tendenza che andrà sostituita poi nel ‘700 con la semplice etichetta tipografica che reca il solo nome e cognome del titolare della biblioteca.

In Germania, dove senz'altro il genere nasce e trova terreno fertile, viene introdotta la tecnica dell’acquaforte, che trova in Rembrandt le sue radici con una serie di sperimentazioni dell’artista anche a bulino e puntasecca. Verso la fine dell’800 la xilografia è sostenuta da artisti del calibro di Gauguin, Münch, Kirchner e gli espressionisti della “Die Brüke” mentre agli inizi del ‘900 si fa risalire la linoleografia (in sostituzione del legno) per merito di Matisse e Picasso.

Nel 1902 in Italia viene pubblicato l’ancora ad oggi insuperato volume sugli exlibristi “Gli ex libris italiani” di Bertarelli e Prior e nel 1919, quando nasce la prima associazione di collezionisti a Torino, questo tema avrà ancora più ampio respiro supportato anche da iniziative artistiche come la rassegna “EROICA” fondata da Ettore Cozzani e Franco Oliva nel 1911 a La Spezia in cui Adolfo De Carolis emerge come figura rilevante del gruppo.

La prima fase dell’exlibrismo italiano parte quindi da Torino e precisamente nel 1910 ad opera del conte Rati Opizzoni che fondò l’”Associazione italiana tra amatori di ex libris”, prosegue poi con l’ “AIACE” a Bologna di Gino Sabbatini e la “B.N.E.L Bianco e Nero ex Libris” fondata e gestita dall'ingegnere Gianni Mantero di Como, il quale collezionò più di 2.000 esemplari individualmente.

Il fondo Leboroni della biblioteca statale di Macerata e l’opera di catalogazione di Goffredo Giachini

La collezione del fondo Leboroni di Macerata è stata donata da Maria Elisa Leboroni, xilografa di successo internazionale, che ha raccolto oltre 12.000 ex libris i quali costituiscono il nucleo di questo tema in ambito marchigiano. Nel 2002 infatti, Angiola Maria Napolioni, già direttrice della biblioteca statale di Macerata, mise le premesse per la costituzione del Fondo Leboroni appoggiando il progetto di Goffredo Giachini, noto curatore di esposizioni dedicate all'incisione e altro, mirante alla definizione della donazione a favore alla Biblioteca stessa.

Leboroni, allieva di Gerardo Dottori, Pietro Parigi e padre Diego Donati, realizza ex libris caratterizzati da un linguaggio personale, molto raffinato e fortemente coloristico. “La bellezza è la forma che l’amore dona alle cose” è infatti il credo di questa artista che trae le sue radici dal grande xilografo Mimmo Guelfi.

Il fondo è stato interamente catalogato da Giachini che con competenza, costanza e dedizione ha suddiviso tutti gli ex libris in ordine alfabetico, cronologico, a seconda della tecnica, delle dimensioni, del committente e della tematica trattata. L’importante collezione è stata interamente digitalizzata e resa fruibile a studiosi, letterati ed artisti. Ma cosa più singolare è che Giachini ha riportato una serie di riproduzioni nel libro “Gli ex libris del Fondo Lebroni della Biblioteca Statale di Macerata” del 2015 commentato dal critico Gian Carlo Torre, le quali presentano gli exlibristi con autografi originali e l’elenco dei loghi e delle firme di tutti gli autori facenti parte del fondo.

In ambito marchigiano, Giachini si era in precedenza dedicato, come ci racconta, ad una serie di studi legati a questo tema prendendo in considerazione molti artisti come Bruno da Osimo, Renato Bruscaglia, Leonardo Castellani, Walter Piacesi, Giuseppe Mainini, Luigi Bartolini, Vito Giovannelli, Maria Adriana Gai e molti altri. A proposito del Bartolini, è bene precisare che questo illustre atrista del bulino, ha inciso non più di 8 ex libris, uno dei quali, dedicato al Mantero, fa parte del fondo Leboroni.

Goffredo Giachini, componente per molti anni del direttivo dell’Accademia dei Catenati di Macerata e collezionista, spiega: “La prima mostra fu fatta nella Galleria Galeotti in Piazza Vittorio Veneto, gestita dalla Fondazione Carima, poco dopo la Leboroni pensò di donare la sua preziosa collezione a Macerata. Mi sono fatto carico di classificare tutto questo materiale per renderlo disponibile a chi volesse godere di questo patrimonio”.

A introduzione del volume curato da Giachini troviamo una citazione esemplificativa da Bruno Marsili da Osimo: “La gemma che incastona l’aurea bellezza del libro è il suo ex libris. Al pari del cammeo e del niello, esso concentra in minime proporzioni la potenza dei grandi quadri”.

Dal Fondo Leboroni

Sul frontespizio di un Codice Giudiziario delle cause civili del principato di Trento del 1788 si leggeva questo motto:

“Hic liber est meus quem mihi dedit Deus, nomen non pono, quia laudari nolo; si tamen vis scire, in ultima pagina experire”.

All’ultima pagina lo sberleffo: “Si curiosus fuisti, nasu longo eccepisti”.

(Le dimensioni delle immagini presenti all'interno dell'articolo non rispettano quelle dei reali ex libris ma sono state ampliate per permettere una migliore fruizione)

Bibliografia

Beccaletto C. (1999), Le tematiche grafiche dell’ex libris, Roccalbegna, Grosseto.

Bragaglia E. (1988), Bibliografia Italiana degli ex libris, ed. TEMI.

Conforti A. (2019), Quelle piu modeste imprese. Gli ex libris: storia, linguaggio, stili, fortuna.

Giachini G. (2015), Gli Ex libris del fondo Leboroni della Biblioteca Statale di Macerata, Biblohaus.

Palmirani, R. (1999), Manuale dell'amatore di ex libris: guida illustrata alla storia, alla cultura ed al collezionismo degli ex libris dal XVI secolo ai giorni nostri. Essegi.

Raimondo L. (1952), Ex libris e marchi editoriali di L.Servolini, ed. Fiammenghi, 1952.

Torre G.C. (2009), Da segno di possesso a stumento di conoscenza. L’Ex libris una storia in breve, La Berio, anno XLIX- n.1 gennaio/giugno, pag. 8-17.


LA CASINA CINESE: UNA DIMORA PER GLI SVAGHI

A cura di Antonina Quartararo

La storia della Casina cinese: un amore a prima vista

Ferdinando IV di Borbone e la moglie Maria Carolina arrivarono a Palermo nel 1798, in fuga dalla città di Napoli, dopo 40 anni di regno, per i tumulti provocati delle truppe francesi e per trovare protezione sotto il protettorato inglese in Sicilia. Esule e lontano dalla sua residenza napoletana, per il re le battute di caccia e le sperimentazioni agricole rimanevano sempre una grande passione. Per far fronte a questo suo interesse per l’arte venatoria, il re diede l’incarico al viceré Giuseppe Riggio, principe di Aci, di acquistare i terreni situati nella cosiddetta “Piana dei Colli” sotto le pendici di Monte Pellegrino (Fig.1). All'interno di questi terreni (che corrispondono all’attuale Parco della Favorita) sorgeva un edificio ligneo dallo stile “stravagante” di proprietà dell’avvocato Benedetto Lombardo, che piacque molto al re Ferdinando IV che decise di ristrutturarlo per adibirlo a seconda residenza dopo il Palazzo reale. Per comprendere l’aspetto della preesistente casina lignea, ci rimane un importante acquerello realizzato da Pietro Martorana nel 1797, oggi conservato presso il Palazzo Reale del capoluogo siciliano (Fig.2). Da questo disegno si denota come l’originaria costruzione lignea, dagli evidenti caratteri orientali, aveva una pianta quadrata con tre elevazioni sormontati da tetti a pagoda e da ringhiere che ne ornavano il perimetro.

L’edificio attuale

Gli interventi ottocenteschi di trasformazione in residenza regale furono affidati all'architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia che si occupò anche di sistemare i giardini. L’architetto organizzò la casina a più livelli aggiungendo due terrazzi simmetrici cinti da colonnati e da un seminterrato (Fig.3). Dal 1802 la direzione dei lavori fu affidata al figlio di Marvuglia, Alessandro Emanuele, che concluderà i lavori. Partendo dall'ultimo livello dell’edificio si trova una grande terrazza coperta da un tetto a pagoda e una loggia ottagonale denominata “Sala della Specola” o “Stanza dei Venti” decorata all'interno dall'artista Rosario Silvestri. Al primo e al secondo piano vi sono delle balconate continue da cui si accede anche da due torri esterne con scale elicoidali realizzate da Giuseppe Patricolo nel 1806 (Fig.4).

Il seminterrato presenta dei portici ad archi acuti che ricordano lo stile gotico. I pronai dei prospetti nord e sud, a sei colonne di marmo, sono coronati da cornice a pagoda da cui si ricavano due piccoli terrazzi (Fig.5). Elementi tratti dallo stile Neoclassico sono le cornici di colore rosso, verde e ocra che delineano le porte e le finestre della facciata esterna. Le cancellate sono decorate con campanellini e i lampioni sono di gusto orientale (Fig.6).

Gli interni della Casina cinese

Per quanto concerne la decorazione degli interni, essa spazia tra lo stile cinese, quello turco e il gusto neoclassico (per lo stile pompeiano e le raffigurazioni di rovine). Il secondo piano adibito ad uso della regina Maria Carolina è composto da un “Salottino alla turca” (Fig.7 a-b) e dal “Salottino all’Ercolana”, di chiaro gusto neoclassico e ispirato alle scoperte archeologiche, decorato dal Silvestri (Fig.8). Un piccolo ambiente soprannominato “gabinetto delle pietre dure” aveva la funzione di studiolo ed è ornato da motivi ad intarsio (Fig.9 a-b). Sullo stesso piano è collocata la camera da letto con spogliatoio in stile neoclassico, decorata da piccoli medaglioni dove sono raffigurati i ritratti monocromi dei membri della famiglia reale ornati da didascalie dai toni amorevoli e affettuosi attribuiti al pittore napoletano Cotardi (Fig.10).

Fig. 8 - Salottino all’Ercolana.
Fig. 10 - Medaglione con autoritratto della regina Maria Carolina con scritto “Me stesso”.

Nel piano intermedio troviamo le stanze della servitù, delle dame e dei cavalieri decorate in stile neoclassico e da figure mitologiche. Al primo piano, da cui si accede tramite le due scalinate esterne del prospetto sud, troviamo la zona di rappresentanza con il “Salone delle Udienze” (Fig.11 a, b, c, d, e) impreziosito da pannelli in seta decorati con motivi cinesi e delle scritte in varie lingue: arabo, cinese ed ebraico (le scritte non possiedono alcun significato) e il “Salottino da gioco” decorato da Velasco con scene tratte dal mondo cinese e uccelli intrecciati a motivi ornamentali. A destra dell’entrata si trova la sala da pranzo con la “tavola matematica” progettata dal Marvuglia, dotata di un dispositivo a corde con il quale faceva salire e scendere le portate dalla cucina per evitare l’intervento fisico della servitù (Fig.12 a,b,c,d). Un tavolo simile si trova nel Petit Trianon situato all'interno dei giardini della Reggia di Versailles fatto installare da Luigi XV. Le pareti della sala da pranzo sono decorate con scene di vita quotidiana cinese in un’ambientazione campestre. A sinistra dell’entrata, invece, è disposta la stanza da letto del re Ferdinando IV delimitata da un’alcova con otto colonne in marmo bianco. Il soffitto fu dipinto da Velasco e Cotardi con figure di pavoni simbolo della fertilità e con personaggi cinesi abbigliati con vesti multicolori in atto di rendere omaggio ai dignitari seduti sotto grandi pagode (Fig.13).

Fig. 11e - Dettagli.

Nel seminterrato si trovano la camera da bagno in marmo con una grande vasca ovale incassata nel pavimento e la “Sala delle Rovine” con un tromp-l’oeil che raffigura nella volta una finta rovina avvolta dalla natura selvaggia e dall'umidità (Fig.14) attribuito a Raimondo Gioia, e la “Sala da Ballo” con due vani orchestra e ornata in stile Luigi XVI da Velasco (Fig.15). Dopo aver subito un accurato restauro la Casina cinese è stata riaperta al pubblico nel 2009.

Il gusto per le cineserie

La costruzione mostra con disinvoltura l’accostamento e la fusione di elementi esotici e orientali all'arte neoclassica, dando vita a quello stile che prende il nome di “eclettismo ottocentesco”.  All'epoca la Cina non era una terra molto conosciuta, ma la sua cultura raggiunse l’Europa, in particolare la Francia e poi Napoli soprattutto attraverso l’Inghilterra, mediante l’importazione di testi, stampe, porcellane e tessuti. Di questa cultura “cinese” se ne fece un’interpretazione artistica propria ed in Sicilia questo stile ebbe molto slancio, soprattutto nella città di Palermo, dato l’avvicinamento con l’Inghilterra durante la guerra napoleonica. Ulteriori testimonianze sono: la “Sala Cinese” dipinta dai fratelli Giovanni e Salvatore Patricolo all'interno degli appartamenti del Palazzo Reale di Palermo che veniva utilizzata spesso dai regnanti come sala da tè e il “Salottino alla cinese” decorato dal pittore Giovanni Lentini con sete e dipinti con temi d’ispirazione orientale realizzato presso il Palazzo Filangeri di Mirto a metà del XIX secolo (Fig.16).

Fig. 16 - Salottino alla cinese di Palazzo Filangeri Mirto (particolare).

 

Bibliografia

Bajamonte C. et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2016.


LA CAPPELLA DELLA SACRA SINDONE

A cura di Francesco Surfaro
Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Sublime parto dell'estro anticonvenzionale di Guarino Guarini, la Cappella della Sacra Sindone è un unicum all'interno del panorama architettonico europeo. Dopo il disastroso incendio che, nel 1997, ha rischiato di distruggerla per sempre, è rinata dalle proprie ceneri grazie ad una lunga e complessa opera di restauro.

La storia

Tra 1576 e 1577 una violenta epidemia di peste imperversava a Milano e in diversi altri centri dell'Italia settentrionale e della Sicilia. Al fine di impetrare la liberazione della città dal terribile morbo, il cardinale-arcivescovo metropolita del capoluogo lombardo, Carlo Borromeo, pronunziò solennemente il voto di compiere un pellegrinaggio penitenziale a piedi fino alla Sainte-Chapelle di Chambéry, per venerare la Sacra Sindone ivi custodita. Secondo la tradizione cattolica, tale reliquia - un lenzuolo di lino intriso del sangue di un uomo flagellato e crocifisso - sarebbe il sudario entro il quale, dopo la morte e la deposizione dalla croce, venne avvolto il corpo di Cristo prima di essere sepolto. Il sacro cimelio era di proprietà dei Savoia sin dal 1453, data in cui la nobile francese Marguerite de Charny lo cedette a Ludovico di Savoia. Venuto a conoscenza del voto di Borromeo, Emanuele Filiberto di Savoia detto il "Testa di Ferro", abile diplomatico e scaltro stratega, incaricò il canonico Neyton di traslare definitivamente il Santissimo Sudario dall'ex capitale transalpina del ducato sabaudo alla nuova capitale, Torino. In questo modo il duca intendeva ingraziarsi l'illustre porporato milanese (uno dei principali fautori della Controriforma), che così facendo si sarebbe risparmiato diversi chilometri, e portare più vicino a sé quello che era considerato come una sorta di palladio dinastico. Nel 1578, al termine della pestilenza, la Sindone venne trasferita ed accolta in pompa magna alle porte di Torino con un solenne corteo processionale, che la scortò fino al Palazzo Ducale. Il viaggio verso la capitale fu tutt'altro che facile: era infatti divenuto indispensabile percorrere sentieri meno diretti che fossero fuori dal raggio d'azione degli ugonotti, i quali, appresa la notizia della traslazione, avevano manifestato la volontà di impadronirsi della Sindone per distruggerla. L'undici ottobre dello stesso anno, nella cornice del coro della Cattedrale di San Giovanni Battista, si tenne l'evento epocale dell'ostensione della sacra reliquia alla presenza del cardinale Borromeo che, il giorno precedente, appena arrivato in città, aveva sciolto in forma privata il proprio voto presso la chiesa romanica di Sancta Maria ad Praesepe (la futura Real Chiesa di San Lorenzo).

Giovanni Francesco Testa - Prima solenne ostensione della Sacra Sindone a Torino alla presenza di Carlo Borromeo (al centro), 1578, acquaforte e bulino su carta. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: Vatican News.

 

Interni della Sainte- Chapelle a Chambéry. Copyright fotografico: Christian Pourre - www.hautesavoiephotos.com.

Morto nel 1580, Emanuele Filiberto ordinò per disposizione testamentaria che fosse edificato un luogo di culto in cui il sacro lino potesse "con degna pompa venerarsi" e lì voleva che fosse preparata la propria sepoltura. Lasciò inoltre scritto che la costruzione dell'edificio doveva essere finanziata interamente con le elemosine raccolte nel corso dei suoi funerali. In attesa dell'inizio dei lavori, la Sindone rimase all'interno del duomo presso la cappella dei santi Stefano e Caterina, nella navata sinistra. Due a questo punto erano le soluzioni possibili che si prospettavano per la custodia del sacro vestigio: innalzare un grande spazio liturgico indipendente dalla cattedrale e con un convento annesso per la cura dei sacri uffizi, che fosse collocato in una posizione eminente all'interno della città, oppure erigere un altare sotto la crociera della cattedrale, la cui imponenza doveva essere direttamente proporzionale all'importanza della reliquia. Per ovviare alla questione venne interpellato l'architetto e pittore Pellegrino Tibaldi detto Pellegrino de' Pellegrini, personaggio chiave per l'arte lombarda post-tridentina molto vicino a Carlo Borromeo. Tibaldi, incaricato dall'Eccellenza milanese di fare pressioni sul nuovo duca Carlo Emanuele I, affinché non custodisse il sacro telo all'interno di una cappella palatina accessibile a pochi, ma in un luogo dove potesse essere oggetto di venerazione da parte di tutti i fedeli, progettò un altare provvisorio da collocarsi nel presbiterio del duomo, in attesa dell'avvio del cantiere per la costruzione di una grande chiesa in Piazza Castello. Tuttavia, nel 1584, con la dipartita di Borromeo, il Pellegrini, sentendosi sollevato dai propri oneri nei confronti del duca, non diede più notizie di sé a Torino. Fu così che il Santissimo Sudario venne posto all'apice di un apparato effimero collocato un poco innanzi all'altare maestro della cattedrale, descritto dalle fonti come un'edicola sorretta da quattro colonne in legno tinte d'azzurro ed ornata con angeli dorati che sostenevano un baldacchino. Quella che doveva costituire una soluzione provvisoria, a ragione delle continue lotte intestine scatenate dal forte accentramento dei poteri voluto da Emanuele Filiberto prima, e proseguito dal figlio poi, divenne stabile per i successivi ottantatré anni. Si rese perciò necessario sostituire la scenografia lignea con un imponente altare aulico caratterizzato da un basamento lapideo, quattro mastodontiche colonne in marmo nero di Frabosa (poi riutilizzate per ornare uno dei due portali d'accesso all'attuale cappella) ed un'elaborata struttura lignea apicale.

La Cappella della Sacra Sindone: l'Ellissoide di Vitozzi e Castellamonte padre

Ascanio Vitozzi e Carlo di Castellamonte - Pianta del progetto per la Cappella della Sacra Sindone, 1611 circa. Dall'Album Valperga.

Risoluto a rispettare le ultime volontà paterne, Carlo Emanuele I si rivolse all'ingegnere ducale Ascanio Vitozzi (o Vittozzi) e al suo collaboratore, Carlo Cognengo di Castellamonte, i quali, accantonati i progetti del loro predecessore, tra il 1610 e il 1611 iniziarono a valutare la realizzazione di una cappella a pianta ellittica incastonata tra il Palazzo Ducale e il duomo, accessibile tramite un vano di collegamento ricavato nel coro. Con chiare implicazioni simboliche, l'ambiente fu pensato perfettamente in asse con la dimora di rappresentanza del reggente e rialzato rispetto a San Giovanni. Questo espediente architettonico rimarcava anzitutto la dicotomia tra le due sedi del potere spirituale e temporale, ribadiva il fatto che si era difronte ad una committenza squisitamente ducale e non religiosa e, non in ultimo, costituiva una forte dichiarazione propagandistica atta a dimostrare che la casata aveva la piena approvazione divina in quanto custode della (presunta) prova tangibile della risurrezione di Cristo. Il progetto doveva essere grandioso, non soltanto nell'apparato ornamentale interno, previsto in pregiatissimo marmo nero e bronzo dorato, ma anche nella struttura, che doveva sconfinare di molto nello spazio destinato al cortile palatino. La facciata dell'oratorio sarebbe stata ricavata nell'abside tramite l'abbattimento dell'esedra semicircolare. Nel 1624 erano state soltanto gettate le fondamenta quando i lavori subirono un arresto e non progredirono né nel corso della breve amministrazione di Vittorio Amedeo I, né durante i turbolenti anni di reggenza della sua vedova, la Madama Reale Maria Cristina di Borbone-Francia.

Un nuovo progetto: Quadri e Castellamonte figlio

Si dovette attendere la piena assunzione del potere da parte del loro erede, Carlo Emanuele II, per lo sblocco del cantiere, avvenuto nel 1657 dopo le varie pressioni dello zio, il cardinale Maurizio, il quale, memore del terribile incendio scoppiato il 4 dicembre del 1532 all'interno della Sainte-Chapelle di Chambéry, che causò danni irreparabili alla reliquia, aveva espresso il proprio legittimo timore di continuare a custodirla sopra un altare incessantemente illuminato da lanterne che, nella sua parte apicale - dove era collocato lo scrigno del sacro lino - era interamente in legno. La direzione della fabbrica venne affidata al ticinese Bernardino Quadri, più abile come scultore e stuccatore che come architetto, e perciò sottoposto alla supervisione dell'ingegnere ducale Amedeo Cognengo di Castellamonte, figlio del già citato Carlo di Castellamonte. Ritenendo ormai superata la pianta ellissoidale, i due optarono per un'aula liturgica a pianta circolare rialzata di parecchi metri (è bene ricordare che nel precedente progetto si parlava di una sopraelevazione di 1 o 2 metri, qui si trattava invece di ben 6-7 metri) rispetto al piano di calpestio di San Giovanni, che fosse contenuta all'interno di uno spazio quadrato nella manica ovest del Palazzo Ducale. Il notevole innalzamento della cappella rispetto al duomo avrebbe permesso una vista privilegiata sull'altare-reliquiario anche dall'interno della basilica al piano inferiore, grazie ad un monumentale finestrone ricavato nel coro con l'abbattimento dell'abside. I fedeli potevano avere accesso all'oratorio tramite due scaloni introdotti da enormi portali in marmo nero posti in fondo alle navate minori, uno per salire e l'altro per scendere, perfetti per evitare resse e assembramenti in caso di grandi afflussi di pellegrini; i Savoia, invece, potevano accedere all'ambiente sacro per mezzo di un portale posizionato al primo piano del loro palazzo. In ossequio alle richieste di Carlo Emanuele II, i progettisti pensarono ad una cupola che per altezza, imponenza e bellezza doveva superare quella più spartana della cattedrale rinascimentale. Dopo la demolizione delle fondamenta dell'ellissoide, i lavori di edificazione procedettero spediti nei nove anni successivi fin quando, arrivati alla trabeazione del primo livello, ci si rese conto che la struttura aveva delle forti criticità statiche. Non essendo in grado di porre rimedio a queste, Quadri fu sollevato dall'incarico nel 1666. Proprio in quest'anno le ricevute di pagamento documentano l'ultima retribuzione dovuta all'autore del progetto fallimentare. A lui subentrò, nel 1668, il padre teatino modenese Guarino Guarini, giunto a Torino due anni prima, su invito del suo ordine, per portare a termine la Real Chiesa di San Lorenzo.

All'improvviso, il genio

In foto: Ritratto di Guarino Guarini dal frontespizio dell'Architettura Civile, pubblicazione postuma del 1737. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Visto lo stato estremamente avanzato in cui versavano i lavori, Guarini non poté fare altro che mantenere l'assetto planimetrico del fabbricato, di cui però stravolse completamente il linguaggio. Prima di tutto si occupò di rafforzare e reintegrare la fragile struttura ideata dal predecessore, e riplasmò radicalmente lo scalone di destra, che risultava già ultimato. Per le lesene di ispirazione corinzia, questi pensò ad una nuova interpretazione simbolico figurativa legata alla Passione di Cristo del tradizionale capitello ornato con foglie d'acanto e volute, inserendo al loro posto elementi dalla forte carica allusiva, quali i rami d'ulivo (che rimandano all'agonia di Cristo nell'Orto del Getsemani), una corona di spine e un fiore di passiflora da cui emergono tre chiodi e il Titulus Crucis (il cartiglio con la motivazione della condanna di Cristo, appeso all'altezza del suo capo durante la crocifissione). Riprendendo i pennacchi della croce greca prevista dal progetto di Quadri, li ridusse da quattro a tre, inscrivendo all'interno della pianta circolare un triangolo, nei vertici del quale collocò dei vestiboli circolari, uno in corrispondenza dell'ingresso da Palazzo Ducale e gli altri due a conclusione degli scaloni monumentali. In luogo dei piedritti che avrebbero dovuto sostenere la basica cupola emisferica voluta da Castellamonte, andò a posizionare dei grandi fastigi ornamentali, sui quali svettano delle valve di conchiglia. Oltre il primo ordine, l'architetto dimostrò immediatamente di volersi distaccare, nella maniera più netta possibile, dai progetti a lui antecedenti, impostando una vertiginosa struttura a torre che andasse ad evocare nell'osservatore l'idea di un'ascesa vorticosa verso l'Infinito. Nel bacino tronco, al fine di snellire il più possibile il peso del costruito, aggiunse tre poderosi arconi, mentre nei pennacchi e nelle lunette aprì sei finestroni circolari, dai quali i raggi solari filtrano attenuati da apposite camere di luce, create per assolvere al duplice compito di direzionare i fasci luminosi in modo indiretto e soffuso sulle superfici lapidee interne, e di celare alla vista i contrafforti e i tiranti di rinfianco. L'adozione di questa serie di accorgimenti gli permise di ridurre di 1/4 l'ampiezza del diametro di imposta del tamburo, e gli consentì di dare piena soddisfazione alla richiesta ducale dell'edificazione di una cupola che fosse maggiore in altezza di quella del duomo. Abbondanti sono gli elementi simbolici, frutto di una mente erudita e raffinata: nelle ghiere dei tre grandi archi, i chiodi alternati a foglie d'ulivo stilizzate alludono alle sofferenze fisiche e spirituali di Gesù Cristo; nei tre pennacchi le croci greche e ierosolimitane rimandano al mistero dell'Umana Redenzione e allo stemma di Casa Savoia; nei lunettoni, infine, gli esagoni e le stelle a sei punte simboleggiano la Creazione e l'Empireo, il più alto dei nove cieli. Salendo nel tamburo, al livello successivo, Guarini alleggerì ulteriormente la struttura introducendo un camminamento anulare interno e sei enormi finestroni ad arco, dai quali la luce penetra in quantità evocando suggestivi effetti teatrali. Lo spazio tra un finestrone e l'altro venne ricolmato dal posizionamento di sei nicchie a tabernacolo. Nei pennacchi della cupola, la presenza della figura geometrica del pentagono assume ancora una volta una valenza simbolica: rievoca infatti le cinque piaghe, ovvero le ferite delle mani, dei piedi e del costato inferte al Nazareno durante il supplizio della crocifissione.

Una cupola per la  Cappella della Sacra Sindone

Cappella della Sacra Sindone. L'intradosso della cupola guariniana.

Perfetto connubio tra razionalismo e misticismo matematico, la cupola, o meglio, la pseudocupola della Cappella della Sacra Sindone si configura come una delle architetture più ardite e complesse dell'intera stagione barocca europea. Grazie allo studio sulle tecniche costruttive del gotico francese e delle strabilianti architetture stereotomiche del mondo islamico, Guarini pose in essere una struttura a scheletro, portante e ornamentale al tempo stesso, formata da una fitta rete di "cellule spaziali indipendenti" (Gianfranco Gritella - "Il Contributo italiano alla storia del Pensiero" - Tecnica, 2013) che si intersecano e ruotano attorno ad un unico fulcro che ha per base un poligono regolare, l'esagono, simbolo biblico della Creazione (svoltasi, secondo la Genesi, in sei giorni). In questo progetto trova la sua piena esemplificazione la concezione guariniana - mutuata in parte dal Borromini - di architettura, vista come un organismo vivo e pulsante, in perenne movimento, generato dall'incontro di spazi indipendenti e di forme pure che, concatenandosi, si influenzano reciprocamente dando vita alla struttura. Quella dimensione unificata ed armoniosa dei vari elementi architettonici autonomi che caratterizza le creazioni di Borromini è totalmente assente in Guarini, che anzi, provava gusto nel proporre soluzioni eterogenee e bruschi mutamenti di forma privi di qualsiasi elemento di transizione.

Cappella della Sacra Sindone, il cestello della pseudocupola. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Per realizzare il cestello della pseudocupola diafana, l'architetto giustappose sei livelli di sei piccoli archi a sesto ribassato digradanti verso l'alto, che in pianta corrispondono ad altrettanti sei ordini di esagoni che via via si restringono posando gli angoli degli uni sui lati degli altri. Questo moto continuo trova il suo apice nella stella-sole a dodici punte minori e dodici raggi maggiori, posta a conclusione del climax ascendente dei multipli di tre che si snoda lungo tutto l'impianto della cappella. Al centro del cupolino-lanterna, che appare inondato di luce grazie a dodici finestrelle ovoidali molto ravvicinate fra loro, si libra in volo la colomba dello Spirito Santo pendente da una complessa raggiera a base cilindrica, costituita da 240 bacchette in legno d'abete dorato a foglia di diverse dimensioni, poste in gruppi da 7 o da 12 su tre piani sovrapposti e con inclinazioni differenti. Fa da sfondo a questa geniale macchina scenografica un cielo tempestoso, grigio, quasi monocromatico, popolato da sei coppie di cherubini, che fu affrescato nel 1680 da Carlo Giuseppe Cortella.

Cappella della Sacra Sindone, pseudocupola. Fonte: torino.repubblica.it

Benché dall'esterno la cupola non appaia particolarmente alta, dall'interno il visitatore avrà l'impressione che questa sia molto più estesa di quello che effettivamente è. Questo avviene perché Guarini studiò accuratamente un gioco prospettico al fine di donare un'altezza fallace alla propria creatura, e per fare ciò tenne conto di tre importanti fattori:

  • la geometria: diminuendo l'ampiezza degli archetti depressi al crescere dell'altezza l'architetto mise a punto una struttura "a cannocchiale";
  • la luce: più la fonte luminosa è intensa meno l'occhio umano avrà la capacità di distinguere i contorni dell'oggetto illuminato, il quale verrà percepito più lontano. Proprio per questo Guarini fece in modo che la luce filtrasse abbondantemente dalle svariate aperture del tamburo e della cupola e che divenisse sempre più rarefatta scendendo verso il basso. Con lo scopo di catturare più luce possibile, i marmi dell'intradosso non vennero rifiniti con la lucidatura ma soltanto levigati;
  • il colore: in piena adesione ai canoni della prospettiva aerea di leonardesca memoria, secondo cui un colore appare più scuro quando è vicino mentre diviene più chiaro man mano che ci si allontana, nelle due scalinate e alla base dell'aula cultuale fu impiegato largamente il marmo nero di Frabosa, dal bacino tronco in poi si adoperò il marmo bigio.

In assenza della calotta emisferica, tradizionale simbolo della dimensione celeste dove la divinità ha la propria sede, sono gli stessi raggi del sole che trafiggono in ogni dove la cupola a simboleggiare la manifestazione del divino. Questo era molto più evidente in origine, quando il fedele veniva invitato a percorrere una delle due scalinate ripide e anguste, incupite dal marmo nero e formate da trentatré gradini ciascuna (uno per ogni anno della vita terrena di Gesù Cristo), al termine delle quali era ubicato un vestibolo circolare, aggiunto allo scopo di incutere un senso di inquietudine e vago mistero. Più avanti, la penombra, accentuata ulteriormente dal materiale lapideo scurissimo che riveste tutto il primo ordine della cappella, risultava gradualmente attenuata da una luce sempre meno fioca, fino a che lo sguardo non veniva inaspettatamente rapito dalla sbalorditiva visione estatica della cupola. Questo percorso ascensionale era densissimo di significato: tutti coloro che intendevano accostarsi a venerare la Sacra Sindone, difatti, dovevano prima ripercorrere il cammino tortuoso della Via Dolorosa per mezzo della gradinata scoscesa, attraversare le tenebre della morte e del peccato simboleggiate dal nero dei marmi, ed infine rigenerarsi nella teatralissima visione della luce filtrante dal cestello guariniano. In breve, entrare nella Cappella della Sacra Sindone significava rivivere spiritualmente i misteri pasquali della Passione, morte e resurrezione del Redentore attraverso un articolato sistema di simbologie.

Il bizzarro estradosso della cupola si palesa con una foggia piuttosto orientaleggiante, tanto da assomigliare più ad una pagoda che alla copertura di una chiesa. Le sei serliane del tamburo in laterizio donano alla struttura un caratteristico profilo sinusoidale. I candidi capitelli delle lesene di ispirazione corinzia presentano un motivo ornamentale formato da petali di iris. Nel livello successivo i dodici costoloni sono coronati da urne. In alto, il pinnacolo, ispirato alla lanterna del Sant'Ivo alla Sapienza borrominiano, è puntellato da numerose finestrelle ovoidali vere alla base e fittizie sopra, che si diradano in numero e in ampiezza man mano che si avvicinano all'apice. Sulla sommità svetta un globo dorato sovrastato da una croce, tre chiodi, una corona di spine e uno stendardo con lo stemma sabaudo, forgiato nel 1683 dal serragliere Pietro Tarino.

L'altare-reliquiario

Il 15 maggio del 1680 i lavori non erano del tutto terminati quando, con una Messa solenne officiata su un altare ligneo provvisorio, Guarini stesso (divenuto nel frattempo predicatore e teologo del Principe di Carignano) consacrava al culto divino la Cappella della Sacra Sindone, e da questo si evince che all'epoca fosse già agibile. Tre anni dopo, un 6 di marzo, il padre teatino si spegneva, lasciando incompiuti i pavimenti, una scalinata e, soprattutto, l'altare-reliquiario che avrebbe dovuto custodire il Santo Sudario. Come suo successore alla direzione dei cantieri fu nominato, nel 1685, il grande matematico livornese Donato Rossetti (che in passato si era platealmente scontrato con un fraterno amico di Guarini, Montanari, riservando critiche asperrime anche nei confronti dei progetti dell'architetto) giunto a Torino nel 1674 e prescelto, appena un anno dopo, come professore di Scienze Matematiche presso l'Accademia di Piemonte, nonché come precettore del futuro re di Sicilia Vittorio Amedeo II. L'esperienza di Rossetti all'interno del cantiere fu brevissima, passò infatti a miglior vita nel 1686. Lo sostituì un suo allievo degli anni piemontesi, il muzzanese Antonio Bertola (illustre predecessore di Filippo Juvarra e primo in assoluto ad essere fregiato con il titolo di "Primo Architetto di S. A. S."), che si occupò di portare a compimento le parti lacunose e di realizzare il disegno della scintillante custodia della Sindone.

La Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Tenendo conto della forma circolare dell'aula, Bertola realizzò al centro geometrico della stessa un altare bifronte a due mense - una rivolta verso la Cattedrale di San Giovanni Battista l'altra verso Palazzo Ducale - che risultava rialzato dal piano di calpestio per mezzo di sei scalini. La sua centralità era sottolineata dal complesso disegno del pavimento realizzato ad intarsio, composto da cerchi concentrici tempestati da una miriade di stelle in ottone dorato posizionate a loro volta entro croci greche in marmo bigio, che convergendo verso il centro, si restringevano sempre di più. Il corpo dell'altare fu realizzato in marmo nero ed arricchito da inserti, ornamenti e sculture in legno o metallo dorato, affinché questo, illuminato dalle quattro lanterne pendenti dal fastigio, risplendesse nella penombra del primo livello della cappella. Nella parte centrale, in una teca di cristallo, oltre una grata in ferro dorato, era custodito il prezioso scrigno cinquecentesco in argento e pietre dure contenente la Sindone. Sopra la balaustra erano posizionati otto putti lignei in atteggiamento orante o con espressione affranta, alcuni dei quali recanti i chiodi della crocifissione; ai lati della teca, invece, si trovavano quattro angeli con i simboli della Passione, tutti scolpiti tra 1692 e 1694 dai mastri intagliatori Cesare Neurone e Francesco Borello, cui vanno ascritti anche i simmetrici puttini reggi- lanterna e la splendida raggiera con cherubini e angeli adoranti sul fastigio. Nel 1694, finalmente, si poté mettere la parola fine sull'ormai centenario cantiere della Cappella della Sacra Sindone con la collocazione della reliquia all'interno del suo fulgido altare.

Altri interventi

Nel 1825 il re Carlo Felice, ultimo esponente del ramo principale dei Savoia, diede l'incarico al Regio Primo Architetto Carlo Randoni di realizzare in corrispondenza della monumentale balconata ad arco sghembo di affaccio sul duomo il Grande Chiassilone, un finestrone vetrato in legno di noce e ferro d'Aosta alto circa 12 metri, avente la funzione di isolare la cappella dal freddo, dalle correnti d'aria e dai rumori provenienti dalla Cattedrale al piano inferiore. Il successore di Carlo Felice, Carlo Alberto, primo re appartenente al ramo collaterale dei Savoia-Carignano, volle trasformare la Cappella della sacra Sindone in una sorta di mausoleo della propria dinastia, commissionando quattro monumenti funebri marmorei in stile neoclassico dedicati ad alcuni dei più illustri esponenti della casata, i cui resti furono riesumati per essere tumulati all'interno delle nuove sepolture.

Il carrarese Benedetto Cacciatori eseguì il sepolcro di Amedeo VIII, primo duca di Savoia, promulgatore degli Statuta Sabaudiae (1430) e papa scismatico sotto il nome di Felice V; Innocenzo Fraccaroli scolpì invece il monumento a Carlo Emanuele II, colui che aveva riaperto i cantieri della cappella affidando l'incarico della direzione di questi prima a Bernardino Quadri e poi a Guarino Guarini; il genovese Giuseppe Gaggini si occupò del gruppo dedicato al Principe Tommaso, capostipite del ramo cadetto dei Savoia-Carignano; ed infine, il lombardo Pompeo Marchesi lavorò al monumento sepolcrale di Emanuele Filiberto il "Testa di Ferro", valoroso e caparbio condottiero che spostò la capitale del ducato sabaudo da Chambéry a Torino (1563), fece traslare la Sindone nella nuova capitale (1578) e fu il primo a volere l'edificazione di un luogo di culto adatto a custodire in maniera più che decorosa la sacra reliquia.

Sempre nel corso degli interventi ottocenteschi, alle estremità della balaustra dell'altare furono aggiunti a quelli barocchi altri due angeli oranti in marmo bianco.

L'incendio e il restauro

Cappella della Sacra Sindone, fotogramma del drammatico incendio del 1997. Fonte: mole24.it

Il 4 maggio del 1990, proprio nel giorno che il calendario liturgico dedica alla festa del Santissimo Sudario, delle infiltrazioni d'acqua portarono al distacco di un frammento marmoreo dal cornicione della cupola, che cadde rovinosamente sulla pavimentazione danneggiandola. Fortunatamente non ci furono vittime o feriti. L'accesso ai fedeli venne interdetto tempestivamente e tre anni dopo partirono i lavori di restauro. Proprio quando quegli interventi di conservazione si stavano avviando verso la conclusione, nella notte fra l'11 e il 12 aprile del 1997, a causa di un cortocircuito presero fuoco le tavole di legno dei ponteggi in fase di smontaggio e, in poco tempo, all'interno della struttura divampò un terribile incendio che creò cedimenti strutturali e crolli. Gli ingenti danni generati dalla furia devastatrice delle fiamme furono paradossalmente corroborati dalle operazioni di spegnimento: i potenti getti d'acqua gelida, riversandosi sui marmi incandescenti, diedero origine ad uno shock termico che fu cagione di alcune gravi alterazioni dei materiali lapidei. Si registrarono difatti fratturazioni, rigonfiamenti, esfoliazioni e distacchi. Alla sola leggera pressione della mano i marmi si disgregavano. Per scongiurare il collasso, l'edificio venne immediatamente messo in sicurezza con il posizionamento di cerchiature e catene metalliche provvisorie. Si aprì un lungo e complesso "cantiere della conoscenza" per approfondire le tecniche costruttive impiegate da Guarini (mai indagate prima di allora), indispensabile vista l'assenza dei disegni originali dell'architetto e la lacunosità dei documenti d'archivio.

Al termine dei dovuti studi preliminari, nei primi anni 2000, dopo la rimozione dei detriti, la constatazione dei danni (l'80% delle superfici in pietra era da ripristinare) e il monitoraggio della stabilità, si entrava nel vivo del ripristino architettonico, atto a restituire al monumento la stabilità e la propria immagine. Si è scelto di perseguire una linea di approccio al restauro rigidamente conservatrice, pertanto, al fine di mantenere quanta più materia lapidea originaria possibile, gli elementi marmorei sono stati sostituiti solo se irreversibilmente compromessi. Per reperire il marmo funzionale alle reintegrazioni, nel 2007 sono state riaperte le cave - quasi del tutto esaurite già nel Seicento - di marmo nero e bigio di Frabosa Soprana, nel cuneese. Le quantità materiche (27 blocchi in tutto) ricavate da queste si sono rivelate insufficienti per coprire l'intero fabbisogno del cantiere, perciò è stato necessario optare per l'utilizzo anche di altre varietà esteticamente simili a quelle impiegate in antico: un marmo nero proveniente dalle Alpi Orobie e uno grigio dalle Alpi Apuane. Dove non è stato possibile ricomporre ed assemblare i frammenti originali, con l'ausilio della modellazione 3D sono state ricostruite le porzioni mancanti. Per consolidarla strutturalmente e ridonare alla pietra di cui è costituita valore portante, la cupola è stata sottoposta ad una delicata operazione di smontaggio e rimontaggio integrale, sospendendo la struttura temporaneamente al di sopra di impalcati per sostituire gli elementi danneggiati. Sono stati inoltre rifatti i tetti e le coperture in piombo, cambiate le catene e le cerchiature metalliche, posizionati nuovi serramenti. Si è poi provveduto al risanamento della lesione formatasi all'altezza del tamburo. Gli interventi di pulitura del cupolino hanno restituito nuova luce alle pitture del Cortella, la cui lettura risultava negata da una scialbatura postuma color ocra. Infine, il Chiassilone e la raggiera con la colomba dello Spirito Santo, andati distrutti durante l'incendio, sono stati ricostruiti in maniera filologica.

Dopo 28 anni di chiusura al pubblico e a 21 anni dall'incendio, la Cappella della Sacra Sindone è stata restituita alla città di Torino e alla collettività il 28 settembre 2018. Persa la propria originaria funzione di custodire il Santissimo Sudario (ora conservato in condizioni particolari all'interno di una teca collocata sotto la Tribuna Reale del duomo, presso il transetto sinistro) è stata inserita all'interno del percorso dei Musei Reali. Con la musealizzazione l'accesso dalla cattedrale è stato interdetto.

Il restauro, uno dei più complicati che siano mai stati realizzati, è risultato tra i vincitori degli European Heritage Awards 2019 per la categoria Conservazione. Il suo costo, ammontato a circa 30 milioni di euro, è stato finanziato grazie al contributo di diversi enti:

- Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo: 28 milioni;

- Compagnia di San Paolo: 2,7 milioni;

- Fondazione Specchio dei Tempi di "La Stampa": 645.000 euro;

- Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali: 150.000 euro;

- Iren – Performance in Lighiting: 125.000 euro.

 

Bibliografia

Maurizio Momo, Il Duomo di Torino, trasformazioni e restauri, Ed. Celid, Torino 1997;

Giuseppe Dardanello, Guarino Guarini, Allemandi, Torino 2006;

Carlotta Venegoni, Il Duomo di Torino: Fede, arte e storia. La Santa Sindone, Effatà Editrice, Torino 2015;

Luca Caneparo, Fabbricazione digitale dell'architettura. Il divenire della cultura tecnologica

del progettare e del costruire, Francoangeli s.r.l., Milano 2012;

Gian Maria Zacconi, La Sindone, una storia nella storia, Effatà Editrice, Torino 2015;

 

Sitografia

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https://www.museireali.beniculturali.it/cantierireali-il-restauro-dellaltare-della-sindone/

https://www.studioarchitetturamomo.com/copia-di-pra-d-mill-monastero

https://www.coobec.it/casi-studio/torino-cappella-della-sindone-monumenti-funebri-ai-redanneggiati-da-incendio/

https://www.museireali.beniculturali.it/cappella-della-sindone-le-fasi-finali-del-restauro/

https://www.consultaditorino.it/realizzazioni/restauro-cupolino/

https://www.artwave.it/architettura/buildings/cappella-della-sindone-di-torino-28-annidopo/

https://ilgiornaledellarchitettura.com/web/2018/10/04/la-cappella-della-sindone-comenon-lavete-mai-vista/

https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sitoMiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_408994977.html

https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html_1009566566.html

https://www.finestresullarte.info/flash-news/5095n_premiazione-parigi-restauro-cappellasindone.php


LE STELE IN ABRUZZO: ENIGMI E GUERRIERI

A cura di Simone Lelli

Dopo aver analizzato i siti archeologici più importanti d’Abruzzo, in questo terzo articolo si approfondirà il significato e l’uso delle stele in Abruzzo, soffermandosi particolarmente sulle enigmatiche stele di Penne Sant’Andrea e sull'emblematico simbolo dell’Abruzzo archeologico ovvero il guerriero di Capestrano.

Origine del termine

Il termine stele (dal greco στήλη, in latino stela o stele) indica generalmente una lastra di marmo o pietra, ornata con decorazioni in bassorilievo o incisioni, posta su un basamento o conficcata nel terreno. Solitamente la stele aveva una funzione di tipo funerario ovvero ricordare il defunto, ma poteva essere utilizzata anche in altre circostanza come lo scioglimento di un voto (stele votiva), raccontare un fatto memorabile accaduto in quel luogo o indicare una zona di confine. Qualsiasi sia stato il loro utilizzo, le stele comparvero per la prima volta già nel neolitico ed ebbero il massimo splendore durante il periodo classico, prima con i greci e successivamente con l’impero romano. Così come in tutta la penisola anche nel territorio abruzzese si sviluppò la cultura dell’utilizzo della stele.

La Stele di Guardiagrele

Nel 1965 fu ritrovata una stele in Abruzzo, nei pressi di Guardiagrele (CH) (fig.1), databile alla seconda metà del VII secolo a.C., considerata la più antica stele dell’area abruzzese. Raffigurante probabilmente un guerriero italico, la stele in calcare è di forma rettangolare appiattita e presenta delle decorazioni in basso rilievo di una corazza e degli armamenti; infatti sul petto troviamo una disco-corazza con due cinghie, inoltre è incisa una lancia con un grande puntale e una collana con dei pendagli. Attualmente la stele è conservata presso il Museo archeologico “Filippo Ferrari” a Guardiagrele (CH).

Fig. 1 - Stele di Guardiagrele (CH).

Il Guerriero di Capestrano

Una delle stele in Abruzzo, e in generale italiche, più famosa è sicuramente quella del “Guerriero di Capestrano” (fig.2) divenuto oramai uno dei simboli dell’Abruzzo: venne alla luce nella piana di Capestrano nel settembre del 1934, quando un contadino di nome Michele Castagna, intento a piantare la vigna, colpì inavvertitamente una statua funeraria di un principe guerriero risalente al IV secolo a.C. Il reperto fu portato immediatamente al Museo Nazionale di Roma; successivamente nel luogo del ritrovamento furono avviate campagne di scavo guidate dall'archeologo Roberto Moretti, il quale portò alla luce una necropoli con alcune tombe e corredi funerari datati al VII-VI secolo a.C. Il Guerriero assume importanza in considerazione del fatto che le testimonianze di scultura etrusco-italica sono abbastanza rare per la qualità modesta della pietra allora disponibile, prima della scoperta del marmo, e per l’utilizzo della terracotta, materiale facilmente deperibile. Il reperto, una statua funeraria alta due metri e mezzo e ampia (nella spalle ampiezza massima) centotrentacinque centimetri, fu ricavata da un blocco unico di pietra calcare locale e raffigura una figura maschile con le braccia piegate sul corpo, la destra posta sul torace e la sinistra sul ventre. L’anatomia risulta semplificata e geometrica, inoltre i fianchi sono molto sviluppati e il torace triangolare. La statua originariamente doveva essere posta sopra un tumulo di terra, posto sulla la tomba del defunto, poggia su un plinto[1] di pietra ed è sostenuta da due colonnine, inoltre presenta tracce di policromia. La testa è coperta da copricapo discoidale completato da una calotta semisferica con una cresta innestata che genera una sorta di coda: il copricapo fu realizzato in un blocco di fango carbonato e inserito sul capo del guerriero con un sistema ad incastro, mentre i lineamenti del volto sono stilizzati a tal punto di far ipotizzare che in realtà sia una maschera o un elmo. Molto curato è l’armamentario della stele (fig.3); una lunga spada con impugnatura decorata da figure umane disposte in duplice ordine, con l’elsa a crociera[2] e una guaina con la figura di una coppia di quadrupedi; un pugnale sovrapposto alla spada; due lunghe lance e un’ascia, ben tenuta dalla mano destra, l’oggetto più importante, che, a causa del suo manico assai lungo, fa pensare ad uno scettro, simbolo del comando. La corazza, presenta all'altezza del cuore, dei kardiophylakes, (dischi proteggicuore); l’addome è difeso da una lastra sagomata retta da cinque fasce e cinghie incrociate; le tibie coperte da schinieri[3] e i piedi da calzari e corregge[4] poste al di sotto dei malleoli. Su entrambi gli avambracci il guerriero presenta due armille[5]; ben visibile intorno al collo un collare con pendagli nella parte anteriore. La ricca panoplia[6] e i raffinati ornamenti a corredo del guerriero hanno fatto da subito pensare ad un personaggio importante e di rango elevato, sicuramente un principe o un re italico. La statua come detto precedentemente è sorretta da due piccoli pilastri che recano delle iscrizioni in lingua italica arcaica probabilmente in osca sud-picena: MA KUPRI KORAM OPSUT ANI..S  RAKI  NEVI  PO...M. II” la cui traduzione diventa “ME BELLA IMMAGINE FECE/ FECE FARE ANINIS PER IL RE NEVIO POMPULEDIO”, con questa iscrizione possiamo risalire all'autore o committente dell’opera e all'identità del defunto, un caso rarissimo per l’arte in questo periodo cronologico. Sempre secondo l’iscrizione ci troviamo davanti ad un re italico e ciò potrebbe spiegare la qualità e la cura della realizzazione della stele. Attualmente “Il guerriero di Capestrano” è situato all'interno del Museo Archeologico di Chieti.

Stele in Abruzzo: stele di Penna Sant’Andrea

Nel 1974 durante gli scavi della necropoli italica di Monte Giove, presso Penna Sant’Andrea (TE) vennero alla luce tre stele in pietra con iscrizioni in lingua arcaica, detta sud-picena. Le lettere sono incise seguendo un particolare ordine lineare detto bustrofedico, nel quale le righe di testo vengono scritte alternativamente da destra verso sinistra e viceversa, seguendo lo stesso percorso dell’aratro impiegato nei campi. Queste stele risalgono al VI/V secolo a.C. ed erano utilizzate come monumenti funerari ed erano poste sopra le tombe di personaggi illustri. Le tre stele sono di forma stretta e allungata con la faccia coperta da iscrizioni, due di esse hanno conservato la sommità del capo ed entrambe nella parte terminale in alto formano un dente ad angolo retto, probabilmente utilizzato per sorreggere un elemento separato, magari un copricapo come nel caso del Guerriero di Capestrano. La serie fonetica che compare nelle tre stele è un'evoluzione rispetto a quella che troviamo sul Guerriero di Capestrano. Nella prima stele (fig.4), su quattro righe a partire dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra con un andamento continuo su tutta la stele, troviamo questa iscrizione:

Fig. 4 - Stele di Penna Sant'Andrea I.

hidom safinùs estùf ehelsi't tiom po/vaisis pidaitùpas fitiasom mùfqlùm men/tistrùi nemù-
nef praistaft panivù meitims saf/inas tùtas trebelies titùi praistaklasa posmùi
”.

La seconda stele (fig.5) aveva un testo più corto lungo il bordo della parete frontale di cui si è conservata la parte centrale:

...]nis safinùm nerf persukant p[...”.

Fig. 5 - Stele di Penna Sant'Andrea II.

Nella terza stele (fig.6) invece si è conservata la parte incisa sulla porzione inferiore, qui il testo è inciso su sei righe continue che iniziavano dall'angolo superiore destro della pietra; anche qui più della metà del testo è andato perduto, questo è ciò che ci rimane:

rtùr brimeqlùi alfntiom okrei safina[... enips toùta tefei posmùi praistaint a[... psùq qoras qdufeniùi brimeidinais epe[...”.

Fig. 6 - Stele di Penna Sant'Andrea III.

Anche se tuttora non ci è totalmente chiaro il significato di queste scritture, possiamo comunque dedurre che sono documenti di pertinenza etnica, inoltre possiamo comprendere sempre da queste iscrizioni importanti informazioni sull'ordinamento sociale di quelle genti, ad esempio nelle incisioni troviamo la parola touta usata con il significato di “cosa pubblica”, quindi ciò testimonia il passaggio dal governo del re-guerriero ad una società di tipo repubblicano. Queste tre stele attualmente sono conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Chieti.

 

Concludendo questo articolo, vorrei fare una breve riflessione su come questi reperti da noi analizzati ci facciano comprendere come già in quel periodo, nel territorio abruzzese, esistesse una fonetica ben sviluppata e di come queste genti fossero in realtà delle comunità sociali e politiche ben più complesse di come si credeva, quasi alla pari con i loro vicini Etruschi. Grazie a questi ritrovamenti, possiamo oggi avere un’idea più chiara e lineare del processo di sviluppo culturale e linguistico che è avvenuto nel corso dei secoli in questi popoli, considerati in origine come semplici gruppi di pastori nomadi.

 

Note

[1] Plinto: Nella architettura classica il plinto era una struttura con funzione di basamento a forma di basso parallelepipedo su cui veniva fatta poggiare una colonna o una lastra.

[2] Elsa a crociera: E’ un tipo di impugnatura di arma bianca, solitamente era la parte più decorata.

[3] Schiniere: In antichità era un elemento dell’armatura che proteggeva la parte anteriore della gamba.

[4] Correggia: Una striscia solitamente in cuoio che serviva a mantenere accostati due pezzi di uno stesso oggetto.

[5] Armilla: Braccialetto d’oro o di altro materiale utilizzato come ornamento.

[6] Panoplia: Complesso delle varie parti di un armatura o un insieme di armi assortite.

 

Sitografia

abruzzocamping.it

abruzzovacanze.altervista.org

archeologiaabruzzo.jimdofree.com

capestranodascoprire.it

culturaitalia.it

mnamon.sns.it

museidiguardiagrele.it

portalecultura.egov.regione.abruzzo.it

treccani.it

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000


LA CAPPELLA SANSEVERO DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

BAROCCO, ESOTERISMO, ALCHIMIA, ESALTAZIONE DINASTICA

La cappella è glaciale.

Pavimento di marmo, marmo alle pareti,

tombe di marmo, statue di marmo”.

E ancora:

 “Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori,

 tutto vi è gelido, tranquillo, sepolcrale“ - Matilde Serao

Napoli - Decumano Inferiore -  Via Francesco de Sanctis 19/21:una segnalazione stradale turistica indica che si è giunti alla “Cappella Sansevero di Raimondo di Sangro”.

Il committente e l'origine della cappella Sansevero

Raimondo di Sangro, ottavo duca di Torremaggiore, settimo principe dei Sansevero, committente, mecenate generoso ma estremamente esigente, intellettuale, alchimista, esoterico, Gran Maestro massone, uomo carismatico per eccellenza, inventore, progettista,  gentiluomo di camera al servizio di Sua Maestà il Re Carlo di Borbone, Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro.

La Cappella oggi è un museo privato tra i più noti e visitati della città di Napoli  (nel 2019 le presenze sono state ben 750.000), ma soprattutto è un tempio carico di simbologia. Eppure l’origine stessa della Cappella ha la dolcezza della chiesetta gentilizia che fu edificata  per voto e  successivamente per accogliere le tombe di famiglia. I lavori edili per la costruzione della chiesa  iniziarono nel 1593: si narra  che un uomo innocente, incatenato e trascinato lungo San Domenico Maggiore, vide crollare una parte del muro di cinta del giardino dei Di Sangro e lì vi vide apparire un’immagine della Madonna, alla quale fece voto di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione qualora fosse stato scarcerato e dimostrata la sua innocenza e così fu: l’uomo tenne fede al voto fatto.

Molte altre grazie furono elargite dall'immagine sacra e ne fu testimone anche il Duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro che, gravemente ammalato, fu miracolato dalla Madonna, dalla quale ottenne la totale guarigione: per gratitudine fece innalzare  la cappella  proprio dove era apparsa la Vergine e fu denominata “Santa Maria della Pietà” o “Pietatella”, ma successivamente, suo figlio Alessandro di Sansevero, Patriarca di Alessandria e Arcivescovo di Benevento, decise di ampliare la preesistente e piccola costruzione, per renderla degna di accogliere le spoglie di tutti componenti della famiglia di Sangro, come testimoniato dalla lapide marmorea datata 1613 posta sopra l'ingresso principale dell'edificio:

“ALEXANDER DE SANGRO PATRIARCHA ALEXANDIAE TEMPLVM HOC A FUNDAMENTIS EXTRVCTVM BEATAE VIRGINI SIBI AC SVIS SEPOLCRUM ANNO DOMINI MDCXIII “

Ovvero:

“ALESSANDRO DI SANGRO PATRIARCA DI ALESSANDRIA DESTINO’ QUESTO TEMPIO, INNALZATO DALLE FONDAMENTA ALLA BEATA VERGINE, A SEPOLCRO PER SE E PER I SUOI NELL'ANNO DEL SIGNORE 1613”.

Della fase Seicentesca della Cappella non resta quasi nulla, poiché il suo assetto attuale e le opere presenti sono il frutto dei lavori che volle realizzare Raimondo di Sangro.

Raimondo di Sangro nacque il 30 Gennaio 1710 a Torremaggiore in Puglia da Cecilia Gaetani dell’Aquila di Aragona e da Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore. A causa della prematura scomparsa della madre e degli impegni del padre, fu ben presto trasferito dalla Puglia a Napoli nel palazzo di famiglia in largo San Domenico Maggiore, dove poi si stabilirà definitivamente nel 1737 a seguito della morte del padre.

La cappella Sansevero: descrizione interna

Il principe diede ben presto prova del suo intelletto e delle sue invenzioni, per le quali suscitò anche l’ammirazione degli ingegneri dello Zar di Russia Pietro il Grande, fu insignito delle cariche più elevate del regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone, ma soprattutto, ampliò e arricchì la “Cappella di famiglia” che, a grandi linee, mantenne la struttura seicentesca con un’unica navata a pianta longitudinale e quattro archi a tutto sesto, al di sopra dei quali corre un cornicione, costruito con un mastice di invenzione del Principe, ed una volta a botte interrotta da sei finestre che illuminano l’intera Cappella ed una finta cupoletta all'altezza dell’abside, opera di Francesco Maria Russo di cui è certa la paternità anche della volta.

Francesco M. Russo - dettaglio dell’affresco dell’abside - copyright museosansevero.it.

La volta della Cappella è stata infatti firmata da Francesco Maria Russo e datata dallo stesso al 1749 ed è un affresco noto come la “Gloria del Paradiso” o “Paradiso dei di Sangro” . E’ caratterizzato da squarci di angeli e figura varie che tendono a convergere verso il centro dove esplode la luce della colomba dello Spirito Santo.

Francesco M. Russo, 1749 - Affresco della Volta - Gloria del Paradiso - copyright museosansevero.it.

Lungo il perimetro si trovano le finestre che rischiarano l’affresco e sono intervallate dai medaglioni nei quali sono raffigurati i Santi del Casato.

La pavimentazione settecentesca della cappella è estremamente complessa: anch'essa inventata dal Principe, presentava un motivo labirintico (da qui la denominazione corrente di “pavimento labirintico”) che è andato quasi completamente perduto nella notte tra il 22 ed il 23 settembre 1889, quando un’infiltrazione d’acqua provocò il crollo del ponte che collegava la Cappella al Palazzo stesso dei Sansevero.

I restauratori chiamati al ripristino della pavimentazione originale non riuscirono a risolvere e, nel 1901, si videro costretti a sostituire il preesistente pavimento con uno in cotto napoletano, realizzando al centro lo Stemma dei di Sangro in smalto giallo ed oro, riprendendo i colori della casata.

Del pavimento labirintico originale è possibile vederne i resti  nel passetto antistante la tomba di Raimondo. Il pavimento labirintico, probabilmente, doveva rappresentare le  difficoltà che s’incontrano sul cammino della conoscenza e di certo era parte integrante del “percorso” che all'interno della Cappella si snoda attraverso le statue presenti, che seguono un progetto iconografico voluto proprio da Raimondo di Sangro, di cui elementi fondamentali sono le 10 Virtù, di cui 9 di esse sono dedicate alle mogli degli esponenti della famiglia di Sangro e addossate a 9 pilastri, mentre la decima, il Disinganno, è dedicata al padre.

I monumenti funebri del casato, alla cui accoglienza la Cappella era da sempre destinata,  si trovano invece all'interno delle cappelle laterali e tra le statue delle Virtù, nelle quali è anche possibile notare una serie di significati allegorici riferiti al mondo della massoneria, a cui il principe apparteneva in qualità di Gran Maestro.

Di tutte le sculture presenti, di certo  la “triade d’eccellenza “ è rappresentata dal “Cristo Velato” che troneggia al centro della navata della Cappella,  dalla “Pudicizia” alla sua  sinistra e il “Disinganno” alla sua destra, tutte e tre che precedono l’Altare maggiore con l'altorilievo marmoreo della “Deposizione” di Francesco Celebrano.

L'opera raffigura l'episodio della Deposizione di Cristo dalla croce e, tra le figure, spiccano Maria e la Maddalena che assistono alla scena mentre sotto di loro si trovano due putti che sorreggono il sudario sul quale risalta un'immagine metallica del volto di Cristo.

Al di sotto del piano dell'altare altri due putti scoperchiano una bara, ormai vuota. La composizione dell'altare è completata lateralmente da due angeli in stile barocco realizzati da Paolo Persico, autore anche della cornice di angeli in stucco che circonda il dipinto della Pietà.

La datazione e l'autore del dipinto sono ignoti: probabilmente fu realizzata da un manierista napoletano prima del 1590 poiché a quella data risale infatti la prima testimonianza della sua esistenza, con il miracolo della sua apparizione all'uomo erroneamente arrestato ed alla cui storia è legata poi l’origine della cappella, sicché si tratta di un quadro a cui si è legati soprattutto per il significato intrinseco che esso stesso ha, piuttosto che per la qualità artistica.

Il Cristo velato: il capolavoro centrale della cappella Sansevero

Il Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, datato 1753, è tra le opere più studiate, più controverse della storia dell’arte.

Il corpo esanime del Cristo è disteso su di un materasso marmoreo che diventa il giaciglio non  solo  del corpo senza vita del Redentore ma anche delle sofferenze patite nelle ore della Passione, e soprattutto di tutte le sofferenze dell’umanità intera, che  Cristo ha salvato, nel momento in cui ha esalato l’ultimo respiro; il peso del corpo morto è delicatamente ricoperto dal velo.

Il velo, appunto, discusso e controverso. La diceria più famosa afferma che il velo fosse in origine in vero tessuto  che sia stato trasformato il marmo attraverso un misterioso processo alchemico, con speciali prodotti, la cui formula sarebbe tutt'oggi segreta, un velo che conferisce leggerezza, una leggerezza che, in concreto, non ha.

E’ poggiato su un basamento su cui poggia un primo velo marmoreo su sui risalta il merletto lungo tutto il perimetro e sul quale, ai piedi del Cristo, sono poggiati la corona di spine e le tenaglie con le quali erano stati tolti i chiodi. Il capolavoro del Sammartino ha alimentato anche diverse dicerie, non solo legate al modo di realizzazione, ma si racconta che il Principe, dopo la realizzazione dell’opera, accecò il Sammartino per evitare che potesse realizzare opere di valore pari o addirittura superiori.

La sua imponente maestosità è tutta nelle parole di Antonio Canova quando, dopo averla vista, dichiarò che “…avrebbe rinunciato a ben 10 anni di vita, per averla tutta per sé…”.

In un primo momento pare che la statua fosse destinata ad essere collocata nella cavea sotterranea  e sarebbe dovuto essere illuminato da una lampada di luce perpetua, ma l’imponente peso ne rese impossibile lo spostamento, sta di fatto che non sempre è stata al centro della navata, poiché, come dimostra uno scatto ottocentesco del fotografo tedesco Giorgio Sommer, era posta ai piedi della statua della Pudicizia.

G. Sommer – interno della Cappella Sansevero - copyright Wikipedia.

Le statue laterali

Alla sinistra del Cristo Velato, maestosa, s’innalza la statua della Pudicizia, dedicata alla madre del Principe Raimondo di Sangro, una delle dieci Virtù rappresentate.

La Pudicizia – copyright Wikipedia.

E’ considerata il capolavoro di Antonio Corradini e raffigura un nudo di donna ricoperto da un velo trasparente, il cui straordinario virtuosismo tecnico inaugura il genere delle “statue velate”; è datata 1752. La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose che le scende lungo il fianco destro, sfiorato dalla mano e, nella parte alta, il velo avvolge il capo lasciando intravedere le forme e i tratti del viso.

La Pudicizia – dettaglio – copyright museosansevero on Twitter.

La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, come  - stando a diverse letture fatte da più critici – se fosse avvenuta una scossa di terremoto, magistralmente realizzata dallo scultore, lo sguardo come perso nel vuoto e l'albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia.

Di fronte ad essa, invece, si eleva la statua del Disinganno, realizzata da Francesco Queirolo.

Il Disinganno – copyright Wikipedia.

E’ un corpo di uomo avvolto in una rete. Ma è semplicemente così? O forse è molto di più?

Il Disinganno – dettaglio - copyright museosansevero on Twitter.

La scultura è opera del Queirolo è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo e raffigura sì un uomo che si libera da una rete, ma nella lettura più accettata vuole simboleggiare il peccato da cui era oppresso: in seguito alla morte della giovane moglie, il duca iniziò a condurre una vita disordinata e dedita ai vizi e ai viaggi, mentre il giovane Raimondo era stato affidato al nonno.

Ormai anziano, Antonio di Sangro tornò però a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede e si dedicò a una vita sacerdotale.

L’opera è di una straordinarietà disarmante. I nodi della corda con cui è fatta la rete, gli stessi nodi che la reggono, le dita delle mani infilate all'interno dei vuoti tra un nodo e l’altro rendono il tutto di un realismo stupefacente. Si dice che nessun aiutante dello scultore avesse il coraggio di dare le ultime rifiniture ai nodi della rete per paura di romperli.

La cappella Sansevero, però, è soprattutto il luogo in cui  si trovano le tombe degli esponenti del casato e, ovviamente, tra di esse, si trova  anche la tomba di Raimondo di Sangro, eretta quando lo stesso committente era ancora in vita e realizzata da Francesco Maria Russo nel 1759.

Tomba di Raimondo di Sangro – copyright museosansevero.it.

L’aspetto è semplice e sobrio, è composta da una  grande lapide in marmo rosa sulla quale è scritto l’elogio funebre del Principe: le lettere bianche che lo compongono non sono incise, ma sarebbero state realizzate con un composto di solventi chimici di invenzione del Principe che, probabilmente, dovevano risaltare sul fondo rosa.

Sovrasta l’elogio un ritratto in età avanzata dello stesso di Sangro, raffigurato con indosso una corazza e all'interno di una cornice di marmo, mentre il tutto è sormontato da un grande arco decorato con armi, libri, strumenti scientifici, emblemi commemorativi e militari che celebrano le glorie del Principe.

Interessante è poi la presenza dell’Altare di Santa Rosalia, che sebbene la tradizione la voglia patrona della città di Palermo per aver  salvato la città dalla peste, è “presente” nella Cappella di famiglia, in quanto apparteneva proprio alla nobile famiglia dei di Sangro, poiché figlia di Sinibaldo, conte dei Marsi e di Sangro.

Sotto la cappella Sansevero si trova la Cavea sotterranea dove sono conservati, all'interno di due teche, la cosiddette “Macchine Anatomiche”, ovvero gli scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta con il sistema arteo-venoso perfettamente integro.

Macchine anatomiche - cavea sotterranea copyright Wikipedia.

Per quel che concerne tali strutture, molto si è detto e ancora si dirà e si scriverà, poiché leggende, studi ed oscurità ruotano intorno a questi due scheletri.

La storia ufficiale racconta che sono state realizzate dal medico palermitano Giuseppe Salerno e sarebbero state acquistate nel 1756 dal Principe a seguito di una esibizione pubblica dello scheletro maschile che l’anatomopatologo palermitano tenne e Napoli e, a seguito di questo acquisto, gli fu commissionato la realizzazione di quello femminile e lo scopo era legato a studi di anatomia e per questo era stato riprodotto un sistema arto venoso con diversi materiali, in particolare la cera d’api colorata.

Sta di fatto che leggende popolari giunte fino a noi raccontano – e lo stesso Benedetto Croce riferisce di tali credenze popolari – che non si tratti di “macchine anatomiche ” ma di veri e propri corpi di essere umani, in particolari di due servi del Principe che il di Sangro “fece uccidere e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie, le vene”; si racconta addirittura che i due poveri sventurati, ancora in vita abbiano subito un’iniezione contenente particolari antidoti che avrebbero indurito i vasi capillari, il ché avrebbe anche consentito lo studio anatomico su scheletri veri. A conferma di tale teoria, sarebbe il segno profondo di una corda su uno dei due scheletri, quasi a voler bloccare un uomo in fuga da morte certa.

La storia delle “macchine anatomiche” non fa altro che aggiungere altro mistero ad un luogo già di per sé particolare, che attira sempre più turisti e visitatori, tanto da raggiungerne la quota dei 750.000 , divenendo il museo più visitato di Napoli.

L’ultima parte della cappella Sansevero, posta alla fine dell’intero percorso espositivo, è la Sagrestia, oggi bookshop del museo.

Ad essa si accede attraverso un passaggio, posto accanto alla nicchia all'interno della quale è collocata la tomba dello stesso Raimondo.

Completamente  rinnovato nel 2017, con arredi ultramoderni e dal layout funzionale, ma ispirati all'originale pavimento labirintico di cui in essa sono conservate grandi lastre di marmo.

Sagrestia – copyright museosansevero.it.

Ospita non solo due monumenti funebri anch'essi dedicati a membri della famiglia, ma espone nelle vetrine strumenti di laboratorio probabilmente appartenuti allo stesso principe, oltre che conservare grandi lastre di marmo dell’originario pavimento labirintico.

Dal 2005 conserva la “Madonna col Bambino “ che fu commissionata dal di Sangro per farne dono a Re Carlo di Borbone.

Madonna col Bambino – copyright Wikipedia.

Nella Sagrestia è in fase di collocazione il Ritratto di Raimondo di Sangro principe di Sansevero del pittore napoletano Francesco De Mura, che recentemente è entrato a far parte della collezione permanente delle opere esposte nel museo e che è stato presentato al pubblico ed alla stampa il 28 Gennaio 2020, in concomitanza del compleanno del principe che ricorre il 30 Gennaio.

F. De Mura “Ritratto di Raimondo di Sansevero”
Copyright museosansevero on Instagram.

L'opera, acquisita nel settembre 2019 dall'istituzione museale, proviene dal mercato antiquario madrileno, è databile intorno all'anno 1750, è stato acquistato dal museo Sansevero dalla Galleria Porcini di Napoli.

La nostra “visita” alla Cappella Sansevero, che era nata ed era stata concepita anzitutto come “cappella di famiglia”, e che oggi è un polo museale noto all'intero mondo dell’arte per essere divenuta  lo scrigno di inestimabili capolavori, finisce qui.

Uscendo fuori dalla Cappella, volgendo lo sguardo al cielo – direbbe Dante – “per riveder le stelle” ci si sente arricchiti dentro, ma delle domande restano :

“Chi era realmente Raimondo di Sangro?”

“La mano dell’uomo, dell’artista che magistralmente muove e guida lo scalpellino, come ha potuto realizzare tutto ciò?”

“La mano dell’artista e quella dello scultore sono realmente guidate da Dio?”

Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Sitografia:

museosansevero.it

ilmattino.it

repubblica.it

repubblica.napoli.it

napolimagazine.com

napolike.it

wikipedia.it

10cose.it

Vesuviolive.it

 

Social Network di riferimento:

museosansevero on Twitter

museosansevero on Instagram

 

Bibliografia:

F. Negri Arnoldi “Storia dell’Arte Vol. III” Fabbri Editori – Milano 1997


I RESTAURI ALLA LOGGIA DI PSICHE

A cura di Federica Comito

Introduzione

Gli affreschi di Amore e Psiche che oggi vediamo sono il risultato di una serie di restauri avvenuti nel tempo, che hanno modificato l’originale causando delle perdite irreparabili. In un percorso a ritroso analizzeremo tutto il percorso dell’opera, dalla sua ideazione a oggi, individuando eventuali interventi e manomissioni grazie allo studio dei materiali. Nel 1990 l’Istituto Centrale per il Restauro coordinato da R. Varoli Piazza procede al controllo degli affreschi della Loggia. Dopo aver indagato le problematiche strutturali, si è posta particolare attenzione ai restauri alla loggia di Psiche di Giovan Pietro Bellori e Carlo Maratti del 1693-94, eccezionali per l’innovazione concettuale e per la tecnica di intervento. È in questo momento storico che ci si pose il problema di quanto fosse lecito intervenire su un’opera così notevole, anche se lo scopo era di ripararne i danni. A guidare tale intervento il criterio, straordinariamente moderno, di utilizzare materiali reversibili affinché, come affermò Maratti “se qualcuno più degno di me di associare il suo pennello a quello di Raffaello, verrà un giorno, possa cancellare la mia opera e sostituirvi la sua”. In questo senso Bellori e Maratti precorrono l’odierna filosofia del restauro, inteso come rispetto della materia dell’opera d’arte.

Come avviene un restauro?

Il restauro contemporaneo si caratterizza per l’utilizzo di tecniche analitiche applicate alla chimica, fisica e biologia che permettono di non alterare l’integrità dell’opera e sono utilissime per lo studio diagnostico permettendo un’accurata indagine preliminare e un successivo prelievo di materiale per analisi più specifiche e approfondite. Tra queste, la tecnica fotografica; la riflettografia infrarossa; l’indagine radiografica; le tecniche spettrofotometriche. Il campionamento deve essere il più rispettoso possibile dell’integrità fisica dell’opera, limitato nel numero e nelle dimensioni dei prelievi. Lo studio di un campione richiede sofisticate metodologie analitiche, basate sull'impiego di tecniche strumentali altamente sensibili e selettive (tecniche microscopiche: microscopia ottica, mineralogico-petrografica, elettronica a scansione; microanalisi a raggi X; spettroscopia infrarossa; tecniche cromatografiche). Le successive tipologie di intervento sull'opera sono molteplici: la pulitura, la disinfestazione, la stuccatura e l’incollaggio, la foderatura dei dipinti su tela, il consolidamento, le reintegrazioni di dipinti, la stesura di protettivi.

Fig. 1 - Loggia di Psiche nel 1972, prima del restauro di Rosalia Varoli Piazza.

I restauri alla loggia di Psiche del 1990

Le campagne di indagine nella loggia iniziano nel 1989-90 e sono state esclusivamente di osservazione diretta al fine di individuare la tecnica di esecuzione e di stabilire lo stato di conservazione dei dipinti, i problemi connessi con il restauro marattesco e quali fossero gli interventi successivi. La fase esecutiva si è svolta tra il 1990 e il ‘97. Di rilievo l’indagine di quei frammenti superstiti dell’azzurro di Raffaello e di quello usato da Maratti per rifare i cieli che si erano anneriti e la loro rimozione successiva ad opera di un restauro avvenuto nel 1930, che volendo eliminare per sempre quello che veniva considerato l’azzurro di Maratti, aveva asportato anche quello sottostante di Raffaello. Al termine delle operazioni di pulitura e assestamento, ci si è concentrati sull'aspetto estetico. La loggia appariva totalmente sbilanciata per l‘asportazione violenta dell’azzurro che lasciava in vista il celeste di preparazione o addirittura l’intonaco e per la presenza di grandi lesioni sul testo figurativo.

Fig. 2 - Volta e arco, particolare delle lesioni.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul percorso progettuale della decorazione: si iniziava dagli schizzi per la definizione della prima idea, seguiva lo studio di singole parti della composizione, con la definizione successiva di un primo disegno particolareggiato dell’insieme, si proseguiva poi con lo studio analitico e dettagliato di tutte le parti; infine si realizzava il modello definitivo in scala ridotta. A questa fase di studio seguiva la fase operativa del cantiere, cioè la realizzazione del cartone principale con dimensioni rapportabili alla superficie muraria da dipingere. Poi si ricavava un “cartone secondario” che, sezionato, permetteva il trasferimento del disegno sull'intonaco ancora umido, come previsto dalla tecnica dell’affresco (così chiamata perché si esegue su un intonaco appena steso e non ancora asciutto).

I moderni restauri alla loggia di Psiche hanno permesso di delineare una possibile organizzazione del cantiere dove operarono Raffaello e la sua bottega. Il ponteggio utilizzato, probabilmente posto alla stessa altezza di quello cinquecentesco, ha consentito di osservare la volta dalla stessa angolazione visiva dei pittori, apprezzandone così ogni dettaglio tecnico. In particolare si è posta l’attenzione sulle varie tipologie di tratteggio, distinti in tratteggi cosiddetti “liquidi”, ovvero quelli effettuati a pennello, e quelli a “secco” realizzati a sanguigna o grafite. Questi ultimi, riferibili ad un intervento di restauro, sono segni rapidi e poco precisi orientati a conferire maggiore incisività alle ombre. Su quelli a pennello, trovandosi principalmente su porzioni di volto, si è preferito non effettuare prelievi di campioni da analizzare, preferendo attendere tecnologie più avanzate. Il loro aspetto e colore, chiaramente estraneo e di sovrapposizione alla policromia degli incarnati, conferma che sono successivi alla stesura pittorica che presenta già una modulazione cromatica e tonale di chiari e di scuri. Invece, alcuni dei tratteggi dallo stile più libero potrebbero essere attribuiti ad uno o due artisti della bottega di Raffaello che avevano il compito di realizzare dei ritocchi in una sorta di revisione finale della decorazione. Sembrerebbe che questo compito, unito alla realizzazione di particolari decorativi, spettasse a Giovanni da Udine insieme alla stesura dell’azzurrite sui fondi.

Fig. 3 - pennacchio di Venere e Giove, particolare del volto di Venere. – Vela con Amore con bidente, particolare del volto del putto con bidente.

Il restauro di Maratti

Nel maggio 1693 hanno inizio i restauri alla loggia di Psiche a opera di Carlo Maratti, che si pone come il primo restauratore moderno in pieno rispetto della materia. Grazie alle indagini svolte negli anni ‘90 è possibile affermare che quello del Seicento fu un intervento scrupoloso e attento, in cui ogni fase pratica era preceduta da un’attenta valutazione. Gli affreschi di Raffaello coprono la parte centrale della volta, i dieci pennacchi e le quattordici vele, tutto il resto è posteriore. Bellori riferisce che i due o tre palmi inferiori dei pennacchi non erano dipinti, ponendo Maratti di fronte ad un problema di armonizzazione visiva. La sua integrazione delle parti mancanti è un’abile imitazione delle ghirlande e delle nubi dipinte da Giovanni da Udine; nonostante questo è evidente la discontinuità con l’originale che dimostra come Raffaello abbia realmente lasciato incompiuta la pittura, ma facendo intuire come intendesse completarla.

Fig. 4 - pennacchio con Amore e le tre Grazie, particolare della differenza pittorico sotto il piede della dea.

Il problema degli azzurri nei restauri alla loggia di Psiche

Il pesante intervento di rimozione degli azzurri operato durante il restauro del 1930, ha reso arduo lo studio dei cieli della Loggia di Psiche e di quelli sovrapposti nei secoli successivi. L’azzurro chiaro che costituisce lo sfondo su cui si stagliano le figure e i festoni vegetali è semplicemente la preparazione che Raffaello stese prima della finitura a secco in azzurrite, che doveva essere caratterizzata da una tonalità molto più intensa. Tale stesura preparatoria è stata eseguita a fresco a smalto (un pigmento a base di vetro colorato al cobalto), applicato su un sottile strato bianco ottenuto con calce e polvere di marmo posto a diretto contatto con l’intonaco con l’evidente funzionalità di costituire una base riflettente, che rendesse più luminosa la tonalità finale ottenuta attraverso le varie stesure di azzurro. Della finitura a secco in azzurrite, che ricopriva integralmente la preparazione a smalto, rimangono purtroppo solo i frammenti scampati alla violenta raschiatura degli anni ‘30. Si tratta di frammenti conservatisi al di sotto dello stucco che ricopriva le 850 grappe metalliche a forma di T o L lunghe dai 9 ai 13 cm applicate da Maratti e quindi in queste zone il pigmento è rimasto protetto dagli agenti esterni e si è conservato indenne da qualsiasi sostanza estranea.

Fig. 5 - Banchetto nuziale, particolare delle grappe metalliche inserite da Maratti nelle zone di maggiore distacco.

La finitura a secco in azzurrite è servita inoltre nel caso di alcuni ripensamenti, per correggere quei dettagli che l’artista voleva modificare, andando a coprire porzioni già realizzate.

Le analisi effettuate su prelievo e le selezioni stratigrafiche della finitura dei cieli della Loggia di Psiche hanno evidenziato che si trattava di un’azzurrite di origine naturale, di tono intenso, applicata a secco utilizzando la colla come legante. Il problema centrale relativo alle alterazioni degli azzurri della Loggia riguarda il fenomeno di annerimento dell’azzurrite. Tracce di azzurrite annerita sono presenti lungo i bordi dei festoni vegetali di Giovanni da Udine. È difficile identificare con certezza il fattore di degrado che ne ha causato l’annerimento: è possibile pensare a una pulitura aggressiva effettuata con sostanze chimiche, oppure a fonti di calore accese al di sotto della Loggia, come per esempio i grandi bracieri utilizzati per il riscaldamento dell’ambiente.

Fig. 8 - Pennacchio di Amore con le Tre Grazie, particolare della parte sovrastante l’ala destra di Amore dove è presente una consistente porzione di azzurrite originale interessata dal fenomeno dell’annerimento.

L’equivoco

Stando alle fonti storiche, Maratti effettuò una ridipintura dei fondi basandosi su quelle parti originali di azzurrite che non erano alterate. Il suo intervento fu soggetto a polemiche e giudizi negativi per secoli, relativi anche al cattivo stato di conservazione che mostravano gli affreschi. Tra il 1915 e il 1930 si giunse all'infausta decisione di liberare i fondi allo scopo di recuperare quello che si presumeva fosse l’azzurro di Raffaello coperto dall'operato di Maratti. L’intervento di rimozione, effettuato in maniera del tutto irrispettosa delle tecniche originali e dei precedenti interventi di restauro, si basò su un grosso equivoco: l’azzurro da rimuovere non era stato applicato da Maratti, ma risaliva all'Ottocento, come è risultato dall'esame chimico. Dalle tracce rinvenute nel corso dell’intervento diretto da Varoli Piazza è stato possibile evincere che Maratti effettuò la ripresa dei fondi originali utilizzando dello smalto, volendosi avvicinare il più possibile allo sfondo di Raffaello senza sconvolgerlo.

I problemi di stabilità e le indagini

Le indagini svolte dall’ICR dal 1994 sulla struttura architettonica della villa hanno confermato che le cause dei dissesti debbano essere imputate a fattori climatici e idrologici, ai difetti costruttivi e alla pericolosa vicinanza del Tevere. La novità, importantissima, che gli studi di stabilità hanno messo in luce è che sono ancora presenti movimenti strutturali nell'intera costruzione. È stato compiuto uno studio geognostico e geotecnico al fine di indagare le caratteristiche del suolo, e dai risultati è apparso evidente che potrebbe esserci nel tempo un peggioramento delle condizioni statiche della villa con la conseguente distruzione dei dipinti murali. Tra le probabili cause troviamo: la costruzione dei muraglioni del Tevere, la costruzione delle strade e le conseguenti vibrazioni provocate dal traffico incessante. Particolare attenzione è stata posta alla Loggia di Psiche che risultava particolarmente compromessa per la presenza di gravi lesioni trasversali alla volta, dalle quali derivano una serie di lesioni minori con andamento longitudinale alla volta. Grazie all'ultimo intervento di restauro sono state ristabilite la coesione e l’adesione del film pittorico, l’adesione delle dorature e degli strati preparatori, il distacco e la riadesione dei frammenti; la pulitura e i ritocchi (incarnati, festoni vegetali, bordi degli arazzi, sottarchi), la rimozione di stuccature e oggetti metallici non idonei, il trattamento delle grappe metalliche e, infine, è avvenuta la reintegrazione pittorica con acquerelli.

Conclusione

Tramite i restauri alla loggia di Psiche coordinati da Varoli-Piazza è stato dimostrato che Maratti, alla fine del Seicento, si preoccupò di proteggere gli affreschi eliminando le cause di deterioramento ambientale ed effettuando un restauro di tipo conservativo, una novità per il periodo. Inoltre è stato possibile smentire categoricamente tutte le accuse rivolte al rovinoso intervento marattesco, dimostrando che si trattasse di un restauro molto più tardo. È stato evidenziato invece un comportamento rispettoso dal punto di vista metodologico per l’organizzazione del lavoro, e dal punto di vista tecnico per la scelta dei materiali impiegati, molto più rispettoso di restauri più recenti.

 

BIBLIOGRAFIA

Shearman, Studi su Raffaello.

Varoli-Piazza, Raffaello, La Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina.

Bellori, descrizione delle immagini dipinte di Raffaello d’Urbino.

Enciclopedia Treccani.


FRANCESCO COLELLI PITTORE

A cura di Felicia Villella

Introduzione: la famiglia di Francesco Collelli

Le notizie relative alla famiglia Collelli e al suo arrivo nella città di Nicastro non sono del tutto chiare. Dai registri della Cattedrale di Nicastro è possibile risalire ai nomi di alcuni componenti della famiglia a partire dalla fine del 1500, ma con molta probabilità si tratta di una famiglia nobile proveniente dalla città di Rieti, trasferitasi in Calabria. Di sicuro si sa che Francesco Colelli nasce a Nicastro il 27 gennaio del 1734, figlio di Domenico e di Teodora De Napoli. Anche Domenico quasi certamente faceva il pittore, ma non ci sono giunti documenti che lo attestino, dunque è difficile attribuire delle opere alla sua mano.

La famiglia era fregiata del titolo di magister, già il nonno Antonio aveva questo appellativo, sicuramente perché aveva familiarità con pratiche artistiche o forse artigianali: è possibile ipotizzare una professione come architetto o capomastro.

La casa in cui abitava la famiglia di Francesco si trovava in Contrada San Francesco, in quella definita ruga di Blasco, di fianco al giardino di don Francesco Blasco, padrino, tra l’altro, dell'artista.

Francesco Collelli visse in questo quartiere fino al giorno del suo matrimonio, ed è proprio nella chiesa di San Francesco che troviamo l'opera più antica a lui attribuita, oltre che ad una serie di affreschi e tele più tarde che testimoniano la sua continua affezione nei confronti di questo luogo sacro.

In seguito ritroviamo una firma del Colelli nell'anno 1758 su documenti notarili che rimandano ad un gruppo di affreschi andati perduti realizzati nella chiesa di Santa Caterina a Nicastro.

Gli anni che succedettero a queste prime committenze segnarono profondamente il territorio; il 1764, ricordato come l’anno della fame a causa di una segnante carestia, portò la famiglia D’Ippolito a commissionare una Ultima Cena all'artista, perduta anch'essa, da presentare in Cattedrale al posto della consueta offerta in olio e noci.

Tra il ‘68 e il ‘70 morirono sia Domenico Colelli che la moglie Teodora, lasciando ai figli l’intera eredità; la famiglia possedeva all'interno della chiesa di San Francesco una sepoltura, in cui furono seppelliti oltre al nonno Antonio anche i genitori del nostro artista, fuorviando ogni dubbio sull'attaccamento per questo luogo.

Nel 1770 sposò Costanza Gigliotti, originaria di Falerna, che da anni viveva presso la sorella a Nicastro; dal matrimonio nacquero due figli, Domenico Antonio, nato 10 anni dopo il matrimonio, e Giovanna, nata nel 1792.

L'attività artistica

Iniziano gli anni di fervente attività artistica: Francesco Collelli realizza la Madonna del Carmine di Carlopoli con lo stesso stile pittorico riconducibile alle opere presenti a San Domenico a Nicastro; seguono la Madonna del Carmine di Castagna e gli affreschi presenti nella chiesa di San Giovanni Battista a Nocera Terinese ed un ciclo pittorico di Badolato.

A causa dell'alluvione del torrente Piazza che distruggerà parte del quartiere di Terravecchia, Francesco fa richiesta alla Cassa Sacra di un terreno nel Boschetto dei Riformati, ma con molta probabilità non usufruirà mai di tale donazione proprio perché in quegli anni il figlio Domenico Antonio sposa la catanzarese Mariangela Scalfaro; ne seguirà un definitivo trasferimento dell'artista nella città di Catanzaro.

Il suo trasferimento non dipende solo dal matrimonio del figlio, ma è dovuto soprattutto all'avvio delle opere di ricostruzioni del capoluogo che sono seguite al terremoto del 1783, che devastò diversi edifici ecclesiastici e civili, richiamando a sé numerose maestranze.

Non era la prima volta che Francesco si recava nel comprensorio catanzarese, anzi aveva in passato intrapreso diversi viaggi tra cui quello a Taverna, città del Cavaliere Calabrese, un incontro quello con le opere del Mattia Preti che lo segnerà sicuramente nella sua esecuzione stilistica.

Il problema è che in questo periodo di veloci restauri raramente i lavori eseguiti vengono riportati nei registri delle ristrutturazioni causate dal terremoto del 1783, di fatti, tranne che per il ciclo di affreschi di Marcellinara di cui l’attribuzione è sicura, per le altre opere si può ragionare solo per paragoni tecnico esecutivi e resa stilistica.

La fama del Colelli cresce e l'artista ormai anziano continua ad avere un elevato favore sia per commissioni di impronta religiosa che privata; a lui è attribuito un altro ciclo pittorico presente nella Matrice di Magisano del 1813; si tratta di un vasto affresco, forse il più grande da lui eseguito, in cui probabilmente si può riscontrare l'intervento non solo del figlio, che nel frattempo ha intrapreso la via paterna, ma anche di artisti minori.

È recente l’attribuzione di due dipinti che raffigurano Maria Carolina d’Asburgo e Ferdinando IV di Borbone, attribuzione concepita dal prof. Mario Panarello a cura della mostra "Riverberi pittorici" tenuta nella città di Lamezia Terme nell'autunno del 2019. Con molta probabilità la realizzazione delle opere dei due coniugi si rifà ad alcune stampe che proponevano il sovrano all'età di otto anni, quando ascese al trono, e la regina ripresa con molta probabilità dal frontespizio dell’opera enciclopedica del monaco Benedetto Tromby che tratta la storia dell’Ordine Certosino dei primi anni del 1770 [1].

Il 6 gennaio del 1820 muore nella sua casa di Gimigliano il figlio Domenico Antonio Colelli, ed esattamente 11 giorni dopo, il 17 gennaio 1820, morirà anche Francesco Colelli a Zagarise, dopo che la nuora si era ivi trasferita insieme alla figlia [2].

 

Note

[1] M. Panarello, Riverberi pittorici. Gli artisti del settecento calabrese e la figura di Francesco Colelli. Corigliano – Rossano 2019, pp.197 -199;

[2] M. Panarello, Francesco Colelli. Pittore 1734-1820. Documenti di cultura artistica su ‘700 calabrese, Soveria Mannelli (CZ) 1999, p.26.

Bibliografia

Panarello, Riverberi pittorici. Gli artisti del settecento calabrese e la figura di Francesco Colelli. Corigliano – Rossano 2019, pp.197 -199;

Panarello, Francesco Colelli. Pittore 1734-1820. Documenti di cultura artistica su ‘700 calabrese, Soveria Mannelli (CZ) 1999, p.26.


IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

A cura di Giulia Pacini

STORIA DELL'EPISCOPIO

BREVI CENNI STORICI SULL'EDIFICAZIONE DEL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO

Il complesso monumentale del duomo di Osimo, chiamato anche complesso dell’Episcopio, è stato creato nel corso del tempo dagli interventi dei vescovi osimani che ne hanno voluto la realizzazione, e che hanno dato vita alla attuale diocesi. Gli interventi che caratterizzano questo insieme sono vari, perché riflettono appunto le varie fasi storiche che ne hanno visto la graduale realizzazione. La documentazione che racchiude in sé la storia di questo edificio è stata raccolta e sistemata da Monsignor Carlo Grillantini, uomo di chiesa e storico, a cui si deve la più completa indagine storiografica riguardante la città di Osimo e la sua cattedrale. La residenza vescovile, edificata, si ipotizza, dal vescovo Leopardo e diventata poi dimora del vescovo Berardo (1283-1288), crollò, venne ricostruita e poi crollò nuovamente. Tra il 1295 ed il 1320, sotto Giovanni Ugoccione, vescovo al tempo di Bonifacio VIII, furono compiuti i lavori di rifacimento, in quanto alcune parti del palazzo vescovile erano andate distrutte in seguito a eventi naturali (si registrarono scosse di terremoto che distrussero tale area). Non abbiamo tuttavia alcuna notizia di restauri o di ampliamenti consistenti. I grandi lavori che invece portarono la struttura ad essere quella che oggi conosciamo sono dovuti a due vescovi della nota famiglia osimana Sinibaldi, ossia Antonio (1498-1515) e Giovan Battista (1515-1547): dopo la ribellione di Boccolino di Guzzone, nel 1484, e i danni all'Episcopio che ne seguirono, al loro servizio episcopale fu riservato il compito della ricostruzione della cattedrale in primo luogo, e successivamente dell’Episcopio. Tale impegno ed operosità fu riconosciuto affiggendo una lapide con lo stemma Sinibaldi all'esterno delle mura a nord, all'altezza del Presbiterio, dove tuttora si trova (fig. 1 e 2).

Giovan Battista Sinibaldi si occupò in special modo dei lavori dell’Episcopio, che consistettero nell'unione dei due corpi di fabbrica già costruiti da Berardo ed Ugoccione, e cioè quello caratterizzato dai grandi finestroni che anche oggi sono visibili da nord-est e quello che corrispondeva alla cucina ed al tinello dei vescovi finché vi ebbero la loro abitazione. Furono costruiti anche altri corpi di fabbrica facilmente individuabili per la presenza di scritte e di stemmi dei Sinibaldi: l’architrave di una finestra del cortile interno del duomo, altri architravi delle finestre rivolte verso il palazzo comunale e, all'interno del palazzo, stipiti in pietra del piano nobile. Il Cardinal Anton Maria Gallo (1591-1620) fece costruire la parte che unisce il fabbricato dei Sinibaldi alla cattedrale; costruì anche la sacrestia con balcone a nord. Il Cardinale Agostino Galamini (1620-1639) ingrandì a nord il palazzo vescovile, innalzò un torrione per venerare la Basilica della Santa Casa di Loreto, costruì la cancelleria: l’opera del Galamini riguarda il corpo di fabbrica addossato al battistero da ogni lato. Lo stemma del Cardinale, collocato nella lunetta di ferro battuto che sovrasta l’attuale portone di entrata dell’episcopio, testimonia che la sua opera ha riguardato, sia pur marginalmente, anche il corpo centrale del fabbricato. Opera del Vescovo Pompeo Compagnoni (1740-1774) è il portone in legno massiccio, come indicano i due stemmi in legno e l’anno (1770). Un documento di eccezionale importanza per comprendere meglio le fasi di costruzione e la storia del complesso Duomo-Episcopio-Battistero, è stato rintracciato a Jesi, presso la Biblioteca comunale. Si tratta di un disegno che mostra nel dettaglio la planimetria del Duomo, del Battistero e del Palazzo Episcopale di Osimo, così da farci notare le differenze e le modifiche che sono state apportate all'antico complesso al tempo del Cardinal Bichi (1656-1691). Sulla base degli studi effettuati da Claudia Barsanti, è possibile pensare che la planimetria della nuova ala fosse stata eseguita su richiesta dello stesso Cardinal Bichi e destinata forse a suo fratello, Vescovo di Todi, che, non a caso, ebbe come successore Mons. Giuseppe Painetti, di cui ampiamente trattano i documenti jesini. La datazione di questo intervento pertanto si propone intorno al 1680.

IL COMPLESSO DELL'EPISCOPIO A OSIMO: PRINCIPALI INTERVENTI ARCHITETTONICI

Da un confronto dei dati acquisiti attraverso l’attenta lettura del disegno e di quelli già noti, emergono significative novità, come ad esempio la collocazione dell’altare maggiore del Duomo in posizione sopraelevata di alcuni gradini all'interno dell’abside, una sistemazione questa tra l’altro inedita. Solo qualche decennio dopo il Cardinale Giacomo Lanfredini (1734-1740) lo farà spostare verso la fronte del Presbiterio sostituendo quello del Bichi con un sontuoso manufatto incrostato di marmi policromi. Si deve al Cardinal Bichi anche lo spostamento della cattedra-trono episcopale che nel disegno compare addossata all'angolo sud dell’abside. Va inoltre segnalata la presenza di sei altari addossati alle pareti delle navate laterali, rimossi alla fine del XIX secolo, e di una scala esterna, addossata al campanile ed in parte alla parete sud del Duomo, attribuibile con ogni probabilità agli interventi del Card. Galamini: si notino i due archetti “faccia a vista” della parete attuale della Curia verso il cortile dell’Episcopio che potrebbero denunciare una relazione con tali rifacimenti. Altre novità, ma non di natura architettonica, riguardano il disegno, fino ad oggi sconosciuto, del giardino, con la esatta ripartizione degli spazi, dall'altezza della costruzione sopra Porta S. Giacomo. Anche se in forma schematica, il disegno appare piuttosto accurato ed è accompagnato da legende esplicative, corrispondenti ai numeri arabi posti nella planimetria. Troviamo riscontro dei lavori, specie per quanto riguarda il Palazzo episcopale, grazie alle informazioni che ci lascia Flaminio Guarnieri (1604-1684), il quale descrive nel dettaglio i lavori fatti eseguire dal Cardinal Bichi, a completamento di quelli precedentemente realizzati dal Cardinal Galamini, al cui nome si deve infatti ricondurre l’erezione di tutto il corpo di fabbrica meridionale addossato al Battistero, destinato al Vicariato ed alla Cancelleria. Non è difficile, commenta Grillantini, individuare quel nuovo corpo di fabbrica: Bichi costruì infatti il piano superiore che sovrasta la vecchia sacrestia del Vescovo Gallo, dando nuovo assetto agli ambienti settentrionali dell’ Episcopio fatto costruire dal Sinibaldi, creando una serie di stanze sopra le mura castellane, corrispondenti agli ambienti a nord segnati nella pianta al n. 24. Per quanto riguarda i sotterranei Grillantini fa notare che in quei camminamenti vi era uno stemma dei Bichi su una colonna di tufo. Viene infine descritto tutto il corpo di fabbrica annesso all'Episcopio che guarda la piazza del Comune, cioè l’alto palazzo addossato a levante del giardino, dove ora hanno sede gli uffici e gli ambulatori dell’ Unità sanitaria locale e la Banca Popolare di Ancona. Sullo spigolo sud-orientale di quella sorta di sperone che fronteggia il lato occidentale del Palazzo Comunale, risalta un’iscrizione fatta porre proprio dal Bichi che così recita: PARTEM HANC ARCIS / IAM DIRUTAE NOVUM / REDEGIT IN OPUS / ANT(onius) BICHIUS / EP(iscop)US AUX(imanus) / 1668 (Antonio Bichi Vescovo di Osimo ha trasformato in una nuova costruzione questa parte della Rocca già demolita Anno 1668). Un’altra iscrizione, posta in passato verso l’interno del giardino ed ora nell'androne della Curia, recita: D(eo) O(ptimo) M(aximo) / AD SUCCESSORUM COMMODA / HORREA CRIPTAS EQUILIA CARCERES / NOVAE MOLIS ACCESSIONE CONSTRUXIT / / ANTONIUS CARD BICHIUS EP(iscop)US / ANNO MDCLXX (A Dio Ottimo Massimo. Il Vescovo Antonio Cardinal Bichi costruì, con l’aggiunta di nuovi grandi edifici, i magazzini, le cantine, le scuderie, le carceri, per utilità dei Successori Anno 1670). Dopo il Bichi non furono realizzate altre grandi costruzioni: l’intervento dei vari Vescovi riguardò solo lavori complementari, tra i quali ricordiamo alcuni interventi significativi: il Cardinal Guido Calcagnini (1776-1807) abbellì l’interno dell’ Episcopio e fece costruire la loggia che dal giardino guarda la Piazza del Comune; Michele Seri-Molini (1871-1888) destinò il piano superiore dell’Episcopio a sede di un piccolo seminario da lui direttamente curato; Egidio Mauri (1888-1893) trasformò il piano superiore dei magazzini del Bichi in teatro. Qualche intervento lo fece anche Monalduzio Leopardi (1926-1944); si devono al Vescovo Domenico Brizi (1954-1964) un completo restauro, la ristrutturazione interna della parte dell’edificio vicina all'ingresso e la nuova sistemazione del cortile interno del Duomo, abbassato con il ripristino della vera da pozzo.

Fig. 4 - Pianta del Duomo di Osimo ritrovata a Jesi, nella biblioteca comunale. Archivio Pianetti, Fondo piante e disegni, 3/2
1. scale e loggia del Domo; 2. Chiesa del Domo; 3. Choro;
4. Sedia trono episcopale; 5. Stallo sedie de canonici; 6. Sedie de benefitiati;
7. Sedie de Magistrati; 8. Loco da far Credenza 9. Per li coristi – Scala di mezzo per andar al presbiterio, scale laterali per andare al medesimo e per di sotto di una chiesa sotterranea devota;
10. Ingresso al palazzo; 11. Cortile dove gira la muta; 12. Sala de staffieri;
13. Anticamera; 14. Cappella; 15. Camera d’udienza;
16. Retrocamera; 17. Screteria; 18. Camerini d’estate e d’inverno;
19. Appartamento da levante bono in ogni tempo per dormire nell’ultima camera verso il giardino; 20. Studiolo secreto; 21. Camera per la guardia;
22. Camera per robba da vestir; 23. Libraria senza libri; 24. Anticamera forestaria;
25. Corritore vicino alla sacrestia dove si va in chiesa nei tempi cattivi, e di dove si cala segretamente di sotto alle officine 26. Sacrestia della chiesa; 27. Stanza del capitolo;
28. Cortile; 29. Cimiterio; 30. Cancelleria del piano;
31. Di sopra appartamento per il vicario; 32. Galleria sopra vi sono tre camerini da sole; 33. Chisa di San Giovanni con un battistero di bronzo singolare;
34. Campanile; 35. Salone da passeggio, e per comedie, e per granaro; 36. Porta della città di San Jacopo. Dalla detta porta e strada sarà alto il detto piano delli detti appartamenti , circa quattro picche per esser nel colle. Sopra il numero 12, 14, 19 sino al 24 verso il cortile vi è commodo per tutti li cortigiani, di sotto le officine. Il giardino al piano nobile, come si è detto è attorniato di pergole di ferro;
37. Cortile basso; 38. Archivio secreto; 39. Pollaro e gallinaro;
40. Granari e per le biade; 41, Stalle capaci, e sopra pagliare e fenile; 42. Cortile della stalla. Sotto il numero 35, 38, 39 vi è un magazzeno detto de pilastri e più sotto habitat ione per li sbirri e carcere civili, e più sotto altre carcere e secreti al pian del cortile della stalla, dal quale per una scaletta è commodo pubblico si va al cortile del n. 11;
43. Altre rimesse per le carrozze. Sotto il palazzo vi è una grotta riguardevole, è con la cantina vi era circa cento botti. Stanze solide appararsi sono del numero 15, 16, 19, 24.

LO STATO ATTUALE DELLA STRUTTURA: IL MUSEO DIOCESANO

Nel 1978-79 furono rinnovati tutti i tetti; qualche anno dopo, nel piano superiore furono ricavati alcuni piccoli appartamenti per il Clero, usati poi per finalità di solidarietà e di carità, mentre nei primi anni ’90 alcuni importanti interventi hanno trasformato i piani seminterrati in accogliente sede per l’esperienza scoutistica, giovanile ed adulta; negli anni 1995-98 il piano nobile fu totalmente restaurato e dotato degli impianti a norma di legge per ricavarne la sede del Museo Diocesano, inaugurato il 24 ottobre 1998: sono 15 sale più un atrio ed un salone per il Museo e per gli usi pastorali della Parrocchia. La finalità museale degli ambienti recuperati ha guidato fin dall'inizio la progettazione del restauro, l’inserimento degli impianti negli ambienti e la predisposizione dei percorsi e dei servizi nel modo più funzionale possibile alle problematiche espositive delle opere del Museo, evitando le relazioni di conflittualità tra contenuto e contenitore tipiche di questo genere di realizzazioni in edifici storici a forte caratterizzazione architettonica. L’intervento architettonico progettato per l’ex sede vescovile, luogo naturale per la storia della Chiesa osimana e dei suoi vescovi, è stato intrapreso quindi dopo uno studio attento della collezione, avendo già stabilito percorsi, organizzazione degli spazi, ed una sufficiente definizione di quello che sarebbe stato l’allestimento, permettendo una precisa e corretta realizzazione del restauro. La situazione delle sale prima di tale intervento era quella di ambienti disomogenei e fortemente compromessi da precedenti modifiche ed alterazioni negli anni settanta, soprattutto nei pavimenti, con materiali diversi ed incongrui su tutta la superficie. Nel progetto di recupero, quindi, oltre al restauro conservativo delle decorazioni, pittoriche dei soffitti delle sale è stato introdotto, con l’applicazione di un pavimento di legno posato a secco dalle coloriture neutre a calce delle pareti, quell'elemento ulteriore che potesse costruire un contesto di continuità il più possibile omogeneo per lo svolgersi dell’esposizione. Per l’allestimento, il lavoro di ricerca storica e di selezione dei materiali svolto dalla committenza osimana è stato la base per la prima fase del progetto, svolto insieme ai progettisti con la precisa volontà di rendere comunicativa la nuova organizzazione delle opere da esporre, con le caratteristiche dimensionali ed architettoniche degli spazi, con l’unico obiettivo di rendere armonica la presenza dei materiali storici ed artistici all'interno degli ambienti recuperati. Un certo principio di mimesi sembrava essere, in questo caso, l’unico modo per poter superare l’innaturalità della raccolta museale in stanze di palazzo, e chiave di accesso alla relazione simbolica tra i materiali della storia religiosa osimana e la sede vescovile che li ospita. L’esposizione è organizzata in modo da indurre il visitatore a muoversi, da opera in opera, lungo lo sviluppo del racconto storico e gli spazi che furono della sede vescovile. Lungo il percorso compaiono i ritratti dei principali vescovi osimani, esposti con un pannello – cornice per contraddistinguerli dalle altre opere, contestualizzando la fruizione estetica con un ulteriore spunto di analisi in relazione alle figure della committenza. Tutte le strutture espositive e le vetrine sono state eseguite su misura e disegnate in modo da costituire un fondo neutro per il maggior risalto delle opere e, al tempo stesso, per una loro armoniosa presenza all'interno del museo, così fortemente caratterizzati dal punto di vista architettonico. Il coordinamento in fase di progettazione e realizzazione delle strutture espositive ha permesso di ottenere una perfetta omogeneità degli elementi che vi sono contenuti al suo interno.

Bibliografia

M. Massa, E. Carnevali Opere d' Arte nella città di Osimo, Ancona, 1999.
C. Grillantini Storia di Osimo, Recanati, 1985.